di Alfonso Grasso
Probabilmente fu, nel bene e nel male, tra le più incisive
personalità che il Sud abbia mai prodotto in assoluta autonomia.
Si dedicò con abnegazione e con assoluta onestà morale ed
intellettuale allo sviluppo del Regno Meridionale. Il suo fu un totalitarismo antesignano e per molti versi
originale, in quanto non di matrice militaristica come quelli
che sarebbero sorti nel Novecento. Il Regno, la capitale, i
sudditi, la religione e la stessa monarchia, si fondevano, nella
concezione ferdinandea, in un unico totale, teso
all'autosufficienza e al miglioramento delle condizioni di vita,
pur nel sostanziale mantenimento della vecchio assetto della società civile.
La sua opera rappresentò il tentativo, unico nella storia del
Sud moderno, di dare un carattere unitario al Regno, della cui
autonomia e indipendenza restò fino alla fine un tenace e geloso
difensore.
Nacque in Sicilia, dove la famiglia si era trasferita a seguito
della seconda
invasione francese del 1806. Arrivò a Napoli nel
1815, all'età di 5 anni, dopo la definitiva sconfitta di
Napoleone.
Salì al trono appena ventenne l’8 novembre 1830. Iniziò il suo regno con un'austera
riforma finanziaria ed amministrativa [cfr.
Atto Sovrano
11 gennaio 1831].
Sostituì i
ministri, diminuì notevolmente le spese di Corte,
concesse una larga amnistia ai detenuti politici e agli esuli,
richiamò in servizio gli ufficiali murattiani sospesi dai
moti
del 1820. La politica adottata dal sovrano diede al
commercio la possibilità di espandersi e favori l'iniziativa
artigianale. Anche il numero dei piccoli proprietari terrieri
aumentò e tutta l'economia del paese si risollevò.
Correva l'anno
1831, che segnò la fine definitiva dei moti carbonari
. L’entusiasmo provocato dall’attivismo del giovane re
accese le speranze del movimento liberale italiano, tanto che
gli fu offerta la corona d'Italia: «in un congresso del
partito liberale riunito a Bologna, si offrì, per mezzo del
giovane esule calabrese Nicola del Preite, a Ferdinando di
Napoli, la corona d'Italia, ch'egli non accettava, per non
sapere che cosa fare del Papa, e tenne sempre fede al segreto al
De Preite, volle che nel regno ritornasse, e spesso il rivedeva
con speciale benevolenza. Certamente fino al 1833 nessun
principe italiano aveva dato ragione ai liberali come Ferdinando
II; se egli avesse voluto, la storia d'Italia mutava, ma egli
non sentì il palpito dell'italianità, volle rimanere re
assoluto, indipendente da tutti, anche dall'Austria»
.
Ma Ferdinando non era liberale, né tantomeno incline
all’espansionismo ed alla turbativa. Era anzi profondamente
convinto di essere re per grazia di Dio, e intendeva
rispettare i diritti degli altri principi italiani e del Papa:
perciò declinò l'invito.
Sposò a Genova il 21 novembre 1832 Maria Cristina di Savoia
,
quarta figlia del Re Vittorio Emanuele I, dalla quale avrà
l'erede Francesco. Il matrimonio era stato più volte rinviato
perchè, come molti altri della sua famiglia, Ferdinando era
affetto da una forma di epilessia, e la regina madre di
Sardegna, essendone venuta a conoscenza, aveva avuto delle
titubanze.
Rimasto vedovo sposò in seconde nozze a
Trento il
9 novembre 1837
Maria Teresa d’Austria
.
La famiglia Borbone non fu certo tutta all'altezza di
Ferdinando, o quanto meno a lui fedele: la prima defezione venne
dal fratello Carlo
,
principe di Capua e Comandante della Real Marina. Questi aveva
per amante Penelope Smith, nipote del primo ministro inglese
lord Palmerston, e nel giugno 1833 partecipò alla congiura dell’Angelotti
che si prefiggeva di uccidere il Re e di sostituirlo con lo
stesso Carlo. Il complotto fu sventato e Ferdinando, come unico
provvedimento, lo esonerò dalla carica. Anche altri due fratelli
del Re,
Leopoldo Conte di Siracusa, e
Luigi Conte d’Aquila
tradiranno il Regno dopo la morte di Ferdinando
.
Particolarmente grave fu la defezione di Luigi, che tra il 1859
ed il 1860 riuscì a trascinare nella sua setta quasi tutti i
comandanti delle navi da guerra, il cui comportamento rese
possibile l'invasione piemontese e la conseguente spoliazione
economica del Meridione seguita alla conquista militare del
1860-61.
La frattura con l'Inghilterra
|
In politica estera, cercò di sottrarre lo Stato alle mire delle
potenze imperialiste (l'Inghilterra coloniale e Francia "post-1848"
di Napoleone III) che cercavano - a turno - di conquistare con
ogni mezzo il controllo economico di tutto il Mediterraneo.
Utilizzò a tal fine gli strumenti del protezionismo e
dell’autarchia.
Nel settembre del 1838 il re si imbarcò per la Sicilia insieme
alla regina, dove dispose la costruzione di orfanotrofi, asili
ed ospedali, di un Monte di Pietà, di borse di valori, e di un
porto franco a Messina. Cercò inoltre di favorire il commercio e
l'industria locale agevolando la più valida ed esclusiva risorsa
mineraria della Sicilia, quella dello zolfo (all'epoca
indispensabile per la produzione degli esplosivi). Fu stipulata
una convenzione con ditte francesi più vantaggiosa di quella
precedentemente in vigore con gli inglesi. Le relazioni con
l'Inghilterra ne risultarono compromesse e Ferdinando, di fronte
alla minaccia, si preparò alla guerra inviando in Sicilia ben
12.000 soldati mentre denunciava alle corti europee la condotta
della Gran Bretagna. Poiché l'Austria non si dava da fare per un
compromesso, il re si rivolse alla Francia. Luigi Filippo
adoperò la sua diplomazia a vantaggio di re Ferdinando che nel
frattempo aveva energicamente deciso l'embargo a tutte le navi
britanniche. Questo provvedimento fu poi revocato, e la crisi
rientrò, ma il Regno dovette versare degli indennizzi alle ditte
francesi.
La vertenza per lo zolfo influì molto sulle relazioni tra regno
delle Due Sicilie ed Inghilterra, attenta a conservare il
monopolio dello strategico minerale siciliano. I britannici
avviarono una politica destabilizzante nei confronti del Regno
delle Due Sicilie, che culminerà con l'appoggio alla spedizione
dei Mille nel 1860 ed alla annessione de Regno al fidato
Piemonte. Nel 1849 venne inviato a Napoli William Gladstone,
deputato e già ministro delle Colonie del governo Peel,
ufficialmente per seguire il processo contro gli adepti alla
società segreta ”Unità d’Italia“, la cui attività culminò
in atti terroristici come quello del settembre 1849, quando un
ordigno esplose davanti al palazzo reale di Napoli. Tornato a
Londra nel 1851, d’intesa col primo ministro Palmerston,
Gladstone fece diffondere la lettera da lui inviate al ministro
degli esteri, lord Aberdeen, nelle quali si etichettava il regno
del Sud come la “negazione
di Dio”. Il Gladstone riferiva di una visita, in realtà
mai avvenuta, alle carceri napoletane. L’Inghilterra gridò così
al mondo intero il proprio sdegno per le asserite disumane
condizioni in cui erano tenuti i detenuti politici e queste
notizie trovarono ampie casse di risonanza sui giornali di
Torino e nella stessa Napoli negli esterofili ambienti degli
oppositori. A"giochi fatti", cioè dopo l'annessione piemontese,
sarà lo stesso deputato inglese ad ammettere candidamente la
menzogna: confessò che aveva scritto per incarico di lord
Palmerston, che egli non aveva mai visitato alcun carcere.
Per
inciso,
il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da tutti
gli studiosi come il più avanzato d’Italia preunitaria.
Ferdinando II aveva inoltre abolito, il 25 febbraio 1836, la
pena dei lavori forzati perpetui che invece decenni più tardi fu
comminata, in gran copia, dal governo “unitario“ piemontese ai
cosiddetti “briganti“ meridionali.
Ferdinando II si dedicò, a differenza dei suoi avi, direttamente
al governo del Regno, tanto da offuscare i suoi stessi
ministri. All’interno cercò di
privilegiare i ceti popolari, in antitesi
con gli interessi dei proprietari terrieri, eredi del
feudalesimo, e con le velleità di una borghesia (i disprezzati «paglietti»
e
«pennaruli»)
economicamente rapace quanto politicamente immatura e
velleitaria. Il Re teneva ad assicurare la maggiore prosperità
possibile al popolo
.
In tutte le istruzioni emanate agli intendenti delle Province,
ai commissari demaniali, agli agenti del fisco, si avverte
l’intenzione della monarchia di basarsi sull'amore della classi
popolari. Il Re raccomandava ai suoi funzionari di ascoltare
chiunque del popolo. Li ammoniva di non fidarsi delle persone
più potenti: li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni
delle popolazioni. Fra il 1848 ed il 1860, gli anni più
difficili a causa del crescente isolamento internazionale, cercò
di economizzare su tutto, pur di non mettere nuove imposte: si
evitarono principalmente le imposte sui consumi popolari. Il Re
diede il buon esempio, riducendo il suo appannaggio, fatto
questo non comune nella storia dei principi europei, in regime
assoluto o in regime costituzionale.
Nel 1837 scoppiò l'epidemia colera che era stata prevista e
contro cui ci si era premuniti: l'epidemia ebbe inizio ad Ancona
ed il re dispose subito che venissero sospesi tutti i traffici
con lo Stato Pontificio, e fissò delle pene molto severe per
tutti coloro che avessero trasgredito alle disposizioni
sanitarie e di igiene che erano state già emanate. Con l'energia
che lo distingueva, Ferdinando ebbe cura sia del popolo che
dell'esercito, e, quando in ottobre il colera invase Napoli e i
comuni vicini, incurante di ogni pericolo, fu in prima linea nei
rioni più popolari della città, interessandosi personalmente di
tutto: con il suo inesauribile dinamismo dai rioni popolari
passava agli ambulatori, poi ai lazzaretti e infine nelle
caserme, dove consumava il rancio tra i suoi soldati. Diede poi
disposizioni affinché venissero distribuiti gratuitamente il
maggior numero di medicinali atti a frenare la malattia, cosa
che certamente non doveva essere facile a quei tempi. Con
l'inverno il male terminò, dopo aver provocato circa 6.200
vittime. Napoli ebbe poi a subire una seconda epidemia di
colera. Questa volta il colera invase tutto il regno
raggiungendo anche Palermo e diverse città della Sicilia. Le
vittime di questo secondo colera furono a Napoli circa 14.000,
ma in Sicilia ve ne furono oltre 65.000.
Nel 1839 inaugurò la
Napoli - Portici, primo tronco ferroviario
costruito in Italia, cui seguirono numerose
altre opere. Il 29 gennaio 1848 concesse la
Costituzione e nel marzo
seguente per volontà dei liberali al governo, interrompendo un
lungo periodo di pace, fu inviato un contingente di truppe al
comando di Guglielmo Pepe a combattere contro l'Austria a fianco
dei Sardi.
La rivoluzione in Sicilia e gli avvenimenti napoletani del
15
maggio, con cruenti scontri tra le truppe e i liberali,
indussero Ferdinando a sciogliere la camera e richiamare
l'esercito dal nord. Nel maggio 1849 la sommossa della
Sicilia fu domata con le armi. La costituzione non venne abrogata ufficialmente: fu
semplicemente messa in disparte. Questi avvenimenti pesarono non
poco sul carattere e sull’entusiasmo del Re, che però continuò a
perseguire il suo personale disegno di sviluppo della Regno: i
popolani continuarono ad essere al centro della sua attenzione.
Perseguendo la politica dirigistica, realizzò
industrie,
strutture,
strade, porti, sviluppò commerci e
istituti sociali.
Morì prematuramente a nemmeno 50 anni, mentre le nubi
cominciavano ad ammassarsi sull'Antico Regno. I suoi resti
riposano a Napoli in Santa Chiara.
Già
precedentemente
osannato dai liberali con gli appellativi di “novello Tito”
o “pacifico Giove”, divenne “Re Bomba” perché consentì il bombardamento di Messina
del
5 settembre 1848.
La città, come l’intera isola, era insorta con l'appoggio
discreto dell'Inghilterra, interessata da una parte a "mettere
le mani" sulla Sicilia, isola strategica per il controllo del
Mediterraneo, dall'altra parte desiderosa di ostacolare la
politica di Ferdinando II, a cui non
aveva mai perdonato lo
“sgarro” tentato con la questione degli zolfi siciliani.
Ma torniamo al bombardamento: la squadra navale napoletana era
costituita da tre fregate a vela, 6 fregate a vapore, 5
piroscafi armati, 20 cannoniere, 24 scorridoie ed altri legni
sottili. Il 1° settembre 1848 ancorò al largo di Catona, presso
Reggio e nella notte si avvicinò alla costa dell’isola per
impadronirsi di una batteria degli insorti, detta delle “Moselle”,
situata a fior d’acqua nei pressi del villaggio di Contessa,
fuori Messina, forte di 12 cannoni. La flotta iniziò il
bombardamento alla mattina del 2 settembre e poco dopo dal
bastione Blasco della Cittadella di Messina, nelle mani
dell’esercito regolare, effettuarono una sortita 4 compagnie di
pionieri che, coperti dal fuoco navale, incendiarono gli affusti
dei cannoni. Nel pomeriggio del 4 settembre si imbarcarono a
Reggio, 250 ufficiali e 6400 uomini di truppa. Lo sbarco delle
truppe regie in terra siciliana iniziò alla mattina del 5
settembre a 3 miglia da Messina, protetto dal fuoco delle
pirofregate e delle cannoniere. I primi a scendere a terra
furono gli uomini del reggimento Real Marina, al comando del
colonnello Giustino Dusmet. Dopo 3 giorni di aspri
combattimenti, l’8 settembre le truppe regie entrarono in
Messina, nel cui porto furono catturate 16 cannoniere. Si trattò
di un combattimento tra due eserciti, eppure Ferdinando II è
ricordato come il re “bomba”. Vittorio Emanuele II, che fece
bombardare le case di Genova nel 1849, Gaeta, Capua ed Ancona
(dopo la resa) nel 1860, Palermo nel 1866, fu “galantuomo” e
"padre della patria"!
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30 ducati in oro del 1845, regnante
Ferdinando II di Borbone. Clicca sull'immagine per ingrandire |
I primati del Regno delle Due Sicilie
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Il giudizio complessivo sulla figura di Ferdinando II non può
prescindere dall’analisi dei suoi errori di valutazione e delle
occasioni che non seppe cogliere. Se infatti da un lato il suo
regno presentò molti risvolti positivi e di assoluta innovazione dall'altro lato è bene ricordare che
i tanti
primati del Regno (la prima ferrovia, il primo
ponte sospeso in ferro ecc) non trovarono uno sviluppo
programmato e continuità di investimenti. La grande macchina
industriale riguardava quasi esclusivamente il napoletano, e le
disparità con le Province restarono intatte. All'atto
dell'annessione al Piemonte, questo aveva una rete ferroviaria
di circa 900 km, contro i 124 km (tutti in Campania) del Sud che
pure aveva visto la realizzazione della prima linea d'Italia.
Al di qua e al di là del Faro
|
Ferdinando II non risolse la criticità
collegata alla Sicilia, che aveva ripetutamente dimostrato di
non voler essere sottoposta a Napoli. Il regno era infatti di
"Sicilia" ed era stato fondato da Ruggero II nel 1139, che aveva
scelto Palermo come capitale. Dopo la conquista angioina e la
rivolta del Vespro del 1282, sia Napoli che Palermo avevano
rivendicato, anche attraverso una guerra secolare, il predominio
su tutto il regno, che in realtà restò sempre diviso in
due
parti indipendenti fino
all'unificazione attuata con decreto nel
1816 da Ferdinando I.
L'atto era avvenuto sotto gli auspici dell'Austria e del
Congresso di Vienna, ma aveva risvegliato l'antico spirito del
Vespro, anche perchè la Sicilia nel 1812 era riuscita a ottenere
da Ferdinando I
la costituzione. Con la proclamazione del Regno
delle due Sicilie, le potenze europee, in primis l'Inghilterra,
iniziarono a fomentare lo scontento dei Siciliani, e
appoggiarono
le rivolte del 1820,
del 1848 e l'ultima, fatale per il regno, del 1860. Il risultato dell'antagonismo siculo-parteneopeo fu ben
sintetizzato da Francesco II
nel
proclama dell'8 dicembre 1860:
"Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l'antica
monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le due Sicilie sono
state dichiarate province d'un Regno lontano. Napoli e Palermo
son governati da prefetti venuti da Torino". Eppure, almeno
nel primo decennio del regno di Ferdinando, la Sicilia non
rivendicava l'indipendenza, né tantomeno l'unità politica con
l'Italia, ma rifiutava l'umiliante sottomissione a Napoli,
aspirando ad un assetto statale di tipo federativo.
Un altro punto dolente della politica ferdinandea fu la gestione
del rapporto con il ceto borghese. Il re cercò di corrispondere
anche alle attese di questo ceto, verso il quale per la verità non nutriva
grande stima, ed ad aprirsi a quelle libertà che altri stati incominciavano a
riconoscere, ma la frattura verificatasi tra corona e liberali a
seguito della rivolta di Napoli del 1848 non fu mai sanata: da
un lato, Ferdinando si rinchiuse nell'assolutismo; dall'altro, molti intellettuali si votarono definitivamente alla causa di
uno stato italiano unico. Il Regno delle Due Sicilie di allora,
che era lo Stato più florido d'Italia, avrebbe tratto vantaggio
dalla costituzione di
una ipotetica Confederazione Italiana, ma Ferdinando,
specie dopo gli accadimenti del 1848 e la controversa
partecipazione alla guerra contro l'Austria,
non fece nulla per promuoverla.
Il Regno
di Ferdinando manifestò
un
eccesso di stato confessionale,
che pesò sullo sviluppo e sulle possibilità di modernizzazione.
Il Re soleva dire che il Regno era difeso per tre lati
dall'acqua di mare e per il quarto dall'acqua santa.
Sotto la pressione determinata dalla grave rivolta siciliana,
Ferdinando II concedesse la
Costituzione che fu promulgata il 10 febbraio 1848. Essa
conteneva caratteri comuni allo
Statuto
Albertino, di lì a poco concesso da
Carlo Alberto
in Piemonte, ma in talune parti rifletteva l’eccesso di
clericalismo di cui si è accennato. Basta citare al riguardo che
la religione cattolica, oltre ad essere quella di Stato, era
l’unica ammessa, vietandosi la professione di culti diversi:
l’anti-ebraismo praticato fin dai tempi di
Federico II di Svevia , veniva eletto alla dignità di
articolo costituzionale. Non c’è da stupirsi pertanto se gli
Ebrei italiani si schiereranno in larga parte a favore del
movimento unitario a guida sabauda, e dei finanziamenti a tale
causa concessi dai potentati internazionali.
|
1849, Pio IX benedice
l'Esercito dal Palazzo Reale di Napoli |
La Chiesa esercitava nel regno un potere
enorme e incondizionato, e possedeva la gran parte dei
terreni. La stessa educazione fatta impartire all'erede
al trono, Francesco, si dimostrò troppo imperniata su di una
religiosità di stampo bigotto. Francesco dimostrò infatti, nel
corso della spedizione di Garibaldi, limiti caratteriali
sicuramente esaltati dalla educazione ricevuta. Questo processo
involutivo trova conferma nel decreto del 10 gennaio del 1843,
con il quale Ferdinando II consegnava l’istruzione primaria alla
esclusiva direzione dei Vescovi autorizzandoli "a destituire
i maestri e le maestre delle scuole primarie, a sospenderli e a
rimuoverli…". Il decreto stabiliva inoltre: "Art. 2 - Le scuole
saranno di preferenza stabilite pe’ fanciulli ne’ Conventi e
Monasteri, e per le fanciulle ne’ Ritiri e ne’ Conservatori di
donne. Art. 3 - Saranno stabilite altresì scuole primarie, con
il metodo di mutuo insegnamento, ne’ Capoluoghi di Provincia ed
in tutti gli altri comuni che ne avranno i mezzi. Queste scuole
saranno nello stesso modo affidate a’ Vescovi e da loro
esclusivamente dirette per ciò che riguarda la disciplina, co’
metodi e libri elementari approvati dalla Pubblica Istruzione".
|
Un decreto contro l'uso di
veleni in agricoltura |
Ferdinando II cercò fino alla fine di essere il garante
dei rapporti interclassisti, tra popolani e nobili, tentando di
difendere i primi dall'atavica prepotenza dei secondi. Questa
era stata nei secoli la principale preoccupazione dei re di
Napoli e Sicilia. Per tale motivo l'ideale dell'istituto
monarchico è tuttora riscontrabile nel Meridione. Ma nell'età ferdinandea, a partire da quel
1830 in cui venne incoronato re, emersero con sempre maggior
vigore cambiamenti sociali e ideologici, tali da incidere
profondamente sulla stessa concezione di stato, che si
trasformava in "nazionale". La portata di questa evoluzione
epocale non fu colta dal re, che forse la riteneva "passeggera".
Per tale motivo le due Sicilie non divennero mai una "nazione",
almeno nel senso che si da oggi alla parola. Prova ne è che i
sudditi del regno non si diedero mai un nome per differenziarsi
dagli altri italiani, e venivano genericamente indicati come
"siciliani" o "napolitani".
Ferdinando II morì senza poter avviare a soluzione la
grave
questione sociale del
Mezzogiorno, tra cui lo squilibrio
tra la Capitale e gli arretrati paesini delle Province, nonché
quello connesso con la proprietà dei terreni. Se è vero,
infatti, che gli
Usi Civici consentivano ai contadini di
sopravvivere, e anche vero che nessuno - né i baroni, né la
Chiesa, che possedeva immensi appezzamenti - aveva stimoli ed
interesse a migliorare e, come si direbbe oggi, a far sistema.
Ebbero così facile gioco, dopo l'invasione piemontese del 1860,
i "galantuomini", cioè i nuovi proprietari borghesi, che si
impossessarono delle terre demaniali e ecclesiastiche (solo quest’ultime ammontavano al 40% del territorio), espropriate dai
nuovi dominatori con la legge del 1863: un enorme “lascito” che
finì nelle mani dei Piemontesi. Le terre furono vendute con aste
frettolose, per fare cassa, e così furono rastrellati risparmi e
capitali meridionali, che vennero investiti dai vincitori
dappertutto tranne che nel Sud stesso. Ne conseguì la creazione
di latifondi privati scarsamente produttivi e il conseguente
immiserimento dei contadini, tanto che dopo la sanguinosa
resistenza ("brigantaggio":
1861-1866), i superstiti degli
stati d'assedio, delle stragi, delle rappresaglie e le
esecuzioni sommarie perpetrate dalle truppe d'occupazione,
cominciarono a espatriare in massa.
|
Ferdinando II con la famiglia |
La mancata soluzione del
problema sociale, che si
trascina fino ai nostri tempi, e che è proporzioni più
vaste di quelle sommariamente descritte in questa pagina,
comportò per il Sud un ruolo di sudditanza nei confronti del
resto del Paese. Ma in effetti, il Sud finanziò per più di un
secolo lo sviluppo della Penisola, senza riceverne
corrispondenti benefici.
Alfonso Grasso
aprile 2007
1] Il moto di Ciro
Menotti iniziò a Modena il 3 febbraio, propagandosi ad
Imola, Faenza, Reggio Emilia, Forlì, Bologna, Ferrara.
Pesaro ed a Parma, estendendosi quindi ad Ancona,
Perugia, Assisi, Foligno, Todi. Gli Austriaci, su invito
del papa, intervengono per reprimere le rivolte. Il 27
aprile muore Carlo Felice, l'ultimo dei Savoia, e sale
sul trono del regno di Sardegna un suo lontano parente:
Carlo Alberto, 7° principe di Carignano, che partecipa
attivamente a stroncare nel sangue gli ultimi conati
della rivolta. il 26 maggio 1831, vengono impiccati Ciro
Menotti e Vincenzo Borelli. Il 14 agosto, Giuseppe
Mazzini fonda a Marsiglia la nuova organizzazione
cospirativa e insurrezionale "Giovine Italia", sempre in
ambito massonico ma diversa dalla carboneria: essa
persegue un ideale rivoluzionario di matrice unitaria e
repubblicana, capace di attirare a sé tutte le forze
popolari, in quanto la coscienza nazionale non dove
restare prerogativa di una casta, ma patrimonio di
tutti. Il 1° settembre scoppiano disordini a Palermo,
fomentati da un doganiere, tal Di Marco. Arrestato con
altri undici complici, finiranno fucilati il 26 ottobre.
Nisco Nicola, Storia
del reame di Napoli dal 1824 al 1860. Napoli, 1908, vol.
II, p. 27-28.
[3]
Maria Cristina di Savoia (Cagliari 14.11.1812 - Napoli
31.1.1836) fu donna di eccezionale spirito religioso.
Non ebbe vita facile a Napoli per ragioni di salute, ma
sopportò tutto con grande rassegnazione. Fu considerata
dai sudditi come una santa e la stessa Chiesa Cattolica
l’annovera tra le Venerabili. Morì il 31 gennaio 1836,
quindici giorni dopo il parto. Per comprendere il clima
di perenne e latente rivolta dell'epoca, basti pensare
che Ferdinando, per sposarsi, si era recato a Genova
sotto falso nome: si temeva infatti che i carbonari
potessero approfittare dell'assenza del re per tentare
un moto rivoluzionario. Il matrimonio fu celebrato nel
santuario di Nostra Signora dell'Acquasanta il 21
novembre del 1832.
Carlo Alberto aveva fatto preparare un lussuoso
appartamento nel palazzo reale, ma la giovane coppia
regale preferì alloggiare nel Palazzo Ducale. Gli sposi
si intrattennero cinque giorni nella città ligure,
quindi il 26 novembre s'imbarcarono sulla Regina
Isabella scortata da fregate sarde e napoletane. La
coppia aveva caratteri e stili di vita molto differenti,
egli scherzoso ed a volte un po' volgare, lei semplice e
riservata. Non appena giunta nel suo regno, la giovane
regina volle con il suo appannaggio riscattare tutti i
piccoli pegni, far condonare le pene lievi e donare
alcune doti per le giovani ospiti del conservatorio di
Sant'Eligio al Mercato.
|
Maria Cristina di Savoia
|
[4]
Vienna 31.07.1816 - Albano Laziale 08.08.1867. La
seconda moglie di Ferdinando si rivelò ben diversa dalla
dolce Maria Cristina di Savoia: sospettosa ed invidiosa,
amava il pettegolezzo e gli intrighi. Per di più non era
nemmeno bella e per nascondere le sue piccole spalle
imponeva alle dame di corte il taglio dei vestiti à
la vierge. Essendo austriaca, inoltre, fece di tutto
per fare orientare la politica estera a favore della suo
paese. Anche
Francesco II ebbe la vita difficile a causa della
matrigna, che avrebbe voluto deporlo e sostituire con il
proprio primogenito Luigi (che però morì alcolizzato
poco dopo l'unità d'Italia).
Maria Teresa d'Asburgo (1837,
Reggia di Caserta)
|
[5]
Carlo Ferdinando Maria (Palermo 10.10.1811 – Torino
22.04.1862) Principe di Capua. Ferdinando II fu spesso
costretto a richiamarlo per la sua condotta licenziosa e
gli negò il consenso di sposare la "chiacchierata"
Penelope Smith. Carlo allora fuggì con l'amante,
contravvenendo la legge che proibiva ai principi di casa
reale di uscire dal regno senza l'esplicito permesso del
re. Ferdinando II si limitò ad inviare un ufficiale con
un biglietto che invitava fraternamente il principe a
rientrare. Carlo ricevette l'ufficiale con la pistola in
pugno, ma, visto il tenore moderato della lettera,
congedò il messo dicendogli che avrebbe risposto in
seguito a Sua Maestà, e proseguì imperterrito per
l'Inghilterra, dove il 5 aprile del 1836 sposò la sua
Penelope.
[6]
Leopoldo, Conte di Siracusa (Palermo 22.05.1813 - Pisa
04.12.1860), sposato con Maria Vittoria di Savoia Carignano, fu luogotenente generale del Re in Sicilia.
Luigi, Conte d’Aquila (Napoli 19.07.1824 - Parigi
05.03.1897) fu comandante dell’Armata di mare all’epoca
dei Mille. Entrambi tradiranno Francesco II.
[7]
Il cosiddetto “popolino” napoletano aveva
un’organizzazione patriarcale, gradita ai regnanti, che
grazie ad essa riuscivano a controllare le masse.
Nell’organizzazione sociale aveva grande influenza il
clero, che spesso assecondava le grossolane manifestazioni di
religiosità pagana e superstiziosa. Il controllo era
anche affidato alla “società”, cioè alla camorra che,
sorta in epoca vicereale, serviva per mantenere lo
status quo interclassista. Solo gli eccessi venivano
perseguiti: intere famiglie, nel corso del Regno di
Ferdinando, vennero trasferite alle isole Termiti, e
molti camorristi finirono in galera. La promiscuità
carceraria con i detenuti politici, favorì la diffusione
nella camorra delle pratiche di iniziazione tipiche
delle società segrete, con giuramenti di sangue
“arricchiti” di pseudo-religiosità e di superstizione:
si pensi in proposito anche alla “Sacra Corona Unita”
pugliese.
|