Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa

Il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità

La calunnia come arma politica:

la “negazione di Dio”

Lord Palmerston

Testo di Giuseppe Ressa

Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

La politica destabilizzante inglese nei confronti delle Due Sicilie, dopo la questione degli “zolfi” già citata, continuò con William Gladstone, deputato e già ministro delle Colonie del governo Peel, che fu inviato dal suo governo per seguire il processo che si sarebbe dovuto svolgere nelle Due Sicilie contro gli aderenti alla società segreta ”Unità d’Italia“ i cui scopi erano impliciti nella sua stessa denominazione. Le loro attività sovversive andavano dalla diffusione di proclami antimonarchici che invitavano alla disobbedienza civile, all’organizzazione di attentati come quello del settembre 1849, quando un ordigno esplose davanti al palazzo reale di Napoli mentre si svolgeva una festa di giubilo per Papa Pio IX il quale, fuggito a suo tempo da Roma a causa dell’instaurarsi della Repubblica Romana, si apprestava a benedire le centomila persone presenti. “Qualsiasi governo avrebbe perseguitato una setta segreta che minacciava la sua stessa esistenza e propugnava l’assassinio politico con proclami come questo: “Voi soli, o fratelli, voi soli rimanete indietro. È vero che voi avete cotesta tigre Borbonica, che vi lacera le membra e vi beve il sangue, cotesto ipocrita, cotesto furbo, cotesto scelleratissimo Ferdinando. Ma non siete italiani voi? Non avete un pugnale? Nessuno di voi darà la sua vita per 24 milioni di fratelli? Un uomo solo, una sola punta darebbe libertà all’Italia, farebbe mutar faccia all’Europa. E nessuno vorrà questa bella gloria?“[1]; e ancora “Noi vogliamo la libertà, e dobbiamo conquistarla col sangue, col sangue anche dei nostri figli se sono traditori…gli scellerati devono essere uccisi, presto, e tutti, senza pietà. All’armi …non parlate, ma fate; non gridate, ma uccidete, ferite, bruciate…morte al tiranno, morte alla polizia, morte agli amici del tiranno[2]

Il processo iniziò il 1 giugno 1850 e si concluse il 1 febbraio del 1851 (non era quello contro i 39 imputati per i disordini del 15 maggio 1848 che si celebrò dal 9 dicembre 1851 all’ 8 ottobre 1852). Tra gli imputati, in tutto 42, ricordiamo i nomi di Agresti, Faucitano, Settembrini, Poerio, Pironti, Romeo; condannati alla pena capitale furono i primi tre, subito graziati da Ferdinando; ad altri due fu comminato l’ergastolo, ai rimanenti condanne fra trent'anni e quindici giorni, otto furono assolti; l’11 gennaio 1859 tutti i condannati per il reato di lesa maestà furono amnistiati e costretti all’esilio. Tornato a Londra nel 1851, d’intesa col primo ministro Lord Palmerston, Gladstone fece diffondere alcune lettere da lui inviate al ministro degli esteri, lord Aberdeen, nelle quali si etichettava il regno del Sud come la “negazione di Dio”; nella prima (del 7 aprile, pubblicata l’11 luglio) il Gladstone riferiva di una visita, mai avvenuta, alle carceri napoletane e così concludeva: «II governo borbonico rappresenta l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto; l’assoluta persecuzione delle virtù congiunta all’intelligenza, fatta in guisa da colpire intere classi di cittadini, la perfetta prostituzione della magistratura, come udii spessissimo volte ripetere; la negazione di Dio, la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo»”.[3]L’Inghilterra gridò così al mondo intero il proprio sdegno per le asserite disumane condizioni in cui erano tenuti i detenuti politici e queste notizie rimbalzarono da una cancelleria all’altra, trovando ampie casse di risonanza sui giornali di Torino e nella stessa Napoli negli esterofili ambienti degli oppositori; a nulla servirono le smentite del governo borbonico che invitò anche commissioni di giornalisti a verificare de visu la realtà, poi, a "giochi fatti", cioè dopo l'annessione piemontese, sarà lo stesso deputato inglese ad ammettere candidamente la menzogna: «Gladstone, tornato a Napoli nell’anno 1888-1889, fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del cosi detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la loro rivoluzione; ma a questo punto il Gladstone versò una vera secchia d’acqua gelata sui suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di lord Palmerston, che egli non era stato in nessun carcere, in nessun ergastolo, che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari»[4].  In quegli stessi anni il sistema carcerario della “civilissima“ Inghilterra faceva fremere di orrore la penna dello scrittore Charles Dickens, e lo stesso Cavour ne aveva visitata una, commentando nel suo diario“La prigione è orribile…nella quale sono rinchiusi, come bestie feroci, 360 individui. Niente può dare idea del misero stato in cui si trovano. Stanno rinchiusi in 60 dentro una sola camera, respirano aria mefitica e si coricano su delle miserabili stuoie di giunco. Fanno pena a vederli. Sono ammucchiati uno sugli altri senza nessuno ordine né distinzione…la disciplina è severa. I detenuti sono sottoposti alla legge del silenzio assoluto. Non possono parlare in nessun momento e per nessuna circostanza. Le punizioni sono il pane e acqua, i ferri e la cella oscura. Siamo discesi in uno di questi buchi. In verità non ho visto niente di più tetro in vita mia[5]; contemporaneamente la Francia inviava oltre 10 mila prigionieri politici in Algeria e alla Cayenna, negli Stati Uniti c’era ancora lo schiavismo, tutto questo non scandalizzò Gladstone. In realtà la situazione nelle carceri napoletane non era peggiore di quella del resto d’Europa [6], anzi, leggendo alcune corrispondenze di noti liberali reclusi si potrebbe pensare il contrario. Da una lettera di Carlo Poerio: “Ho ricevuto la vostra lettera del 1 di questo mese, che mi è giunta non so dire quanto gradita. Sono lietissimo di sentire che la vostra preziosa salute vada sempre di bene in meglio e posso assicurarvi che è lo stesso di me. Oggi abbiamo avuto una magnifica giornata di primavera e ho avuto la consolazione di passeggiare a mio piacere …Vi ho scritto per la posta d’inviarmi, col corriere di Pasqua, dè frutti, dè piselli, dè carciofi e del burro, come di costume. Vostro affezionatissimo nipote.”[7]. Molti inglesi si stupivano vedendo le floride condizioni degli esuli delle Due Sicilie che arrivavano in Gran Bretagna, alcuni di essi erano addirittura sovrappeso. Di contro, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da tutti gli studiosi come il più avanzato d’Italia preunitaria, in linea con la grandissima scuola meridionale di diritto, basti pensare al Codice Penale del 1819. I magistrati erano reclutati per concorso e non per nomina regia come in altre parti d’Italia; quelli che componevano le Gran Corti Criminali, presenti nei 15 capoluoghi della parte continentale e in 6 siciliani, erano in numero pari poiché in caso di equilibrio nel giudizio “ L’opinione è per il reo“. Paolo Mencacci[8] a proposito del sistema giudiziario in vigore nelle Due Sicilie, riporta che:“A giudicare coi criteri odierni che ritengono la pena di morte una barbarie, il Regno delle Due Sicilie, nel decennio che precede l'unificazione, è senz'ombra di dubbio uno stato modello.“, ma già con l’ordinanza del 18 novembre 1833 “Ferdinando II prescriveva ai Procuratori Generali del Reame di segnalare al Ministro, con rapporto circostanziato, i pronunziati delle Corti a pene capitali, affinché il Re fosse messo in condizioni di provvedere - motu proprio - per l’eventuale grazia o commutazione di pena. Infatti su 175 condanne a morte emesse dalle Corti, negli anni che vanno dal 1838 al 1846, ne furono eseguite soltanto 16[9], dal 1851 al 1854 di 42 condanne a morte non ne fu eseguita nessuna, fatto unico in Europa; Ferdinando II aveva inoltre abolito, il 25 febbraio 1836, la pena dei lavori forzati perpetui che invece decenni più tardi fu comminata, in gran copia, dal governo “unitario“ piemontese ai cosiddetti “briganti“ meridionali. Viceversa “Nel Regno di Sardegna la realtà è molto diversa. Se assumiamo la pena di morte come indice della violenza di un regime, il regno sardo è uno stato brutale perché da quando i liberali vanno al potere, le esecuzioni capitali aumentano a dismisura, dal 1851 al 1855 sono ben 113 contro le 39 avvenute in un quin­quennio di governo assoluto (1840-44). Regno violento, pieno di debiti, con un altissimo tasso di criminalità, il regno sardo, tramite il suo presi­dente del Consiglio, i suoi ministri, la sua stampa, prosegue nella calunnia sistematica degli altri stati della penisola su cui proietta la propria realtà e, contempora­neamente mitizza le condizioni di vita dei paesi liberali”[10].

Va però osservato che “Il governo borbonico non fu certo esente da colpe, come dimostra la sua assoluta insensibilità nel comprendere la necessità della battaglia culturale per contrastare attivamente con libri o pubblicazioni (che non mancavano ed erano qualificatissimi) la calunniosa propaganda massonica e liberale che invece dilagò presso le classi colte e conferì una giustificazione intellettuale alla loro brama di potere“.[11]

Giuseppe Ressa


Note

[1] dalla penna di Luigi Settembrini, citato da Harold Acton, “Gli ultimi Borboni di Napoli”, Giunti

[2] dalla stessa penna, citato da Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fiorentino, 1990, pag. 225

[3] Carlo Alianello, La conquista del sud, Rusconi editore

[4] Ibidem

[5] Cesare Bertoletti, op. cit.; pag. 303

[6] ricordiamo, comunque, per rendere l’idea della mentalità punitiva dell’epoca ben diversa da quella riabilitativa dei giorni nostri, che l’obbligo della catena al piede per i condannati ai lavori forzati fu abolito solo il 2 agosto 1902 nel nuovo regno d’Italia.

[7] riportata da Ò Clery, La rivoluzione italiana, Ares, 2000, pag. 374

[8] Nelle “ Memorie Documentate” citate da Angela Pellicciari “ L’altro Risorgimento “, Piemme, 2000, pag.188

[9] Domenico Capecelatro Gaudioso, Retroscena e responsabilità nell’attentato a Ferdinando II di Borbone, Del Delfino,1975

[10] Angela Pellicciari, “L’altro Risorgimento“, op. cit.

[11] Eduardo Spagnolo, Manifestazioni antisabaude in Irpinia, , ed. Nazione Napoletana, 1999


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