La costruzione della ferrovia
Napoli-Portici, la prima in Italia, pur nella brevità del suo
percorso, fu importante dal punto di vista psicologico e
dell'immagine, in quanto pose il regno delle Due Sicilie al rango
delle più grandi potenze europee.
Un ingegnere francese, Armando
Bayard de la Vingtrie, nel mese di gennaio del 1836 espose un suo
progetto ferroviario al ministro di
Ferdinando II, marchese Nicola Santangelo. Il piano industriale
del francese era allettante: egli intendeva costruire la linea
ferrata a proprie spese, in cambio della concessione della gestione
per 99 anni. Evidentemente il Bayard pensava che fra gli Stati
italiani quello delle Due Sicilie era il più aperto al progresso,
vantando già la maggiore e più moderna flotta mercantile d'Italia.
La strada ferrata avrebbe
collegato Napoli con Nocera, con una diramazione per Castellammare.
Il ministro Santangelo sottopose la proposta al Re, appassionato
promotore del progresso tecnologico, che approvò la concessione (per
l'intera linea Napoli-Nocera con diramazione per Castellammare) con
decreto del 19 giugno 1836, dietro versamento di una cauzione di
100.000 ducati. Seguirono altri due decreti, uno del 3 febbraio
1838, che rimodulava la durata della concessione ad 80 anni ed un
altro definitivo del 19 aprile 1838 che sanciva il diritto di
proprietà dello Stato dopo 80 anni di gestione e stabiliva le
tariffe dei prezzi per il trasporto sia dei viaggiatori che delle
mercanzie.
I lavori, diretti dall'ingegnere
francese, incominciarono l'8 agosto 1838 e dopo tredici mesi il
primo tratto a un solo binario giungeva al Granatello di Portici. Ma
secondo la concessione i binari dovevano essere due, sicché
Ferdinando II fece sorvegliare l'avanzamento dell'opera da due
rappresentanti del governo: l'ingegner Ercole Lauria e l'ispettore
generale dei Ponti e Strade Luigi Giura.
I vagoni furono costruiti a Napoli, nello stabilimento di
San Giovanni a Teduccio, le locomotive acquistate dalla società inglese Longridge Starbuck e Co. di Newcastle-Upon Tyne. In seguito, anche le locomotive furono costruite a Pietrarsa, ed esportate anche in altri stati italiani. Il Piemonte, ad esempio, acquistò nel 1847 sette locomotive napoletane.
Il primo tratto della Ferrovia fu
inaugurato il 3 ottobre del 1839 con grande solennità. Il re
precedette il convoglio ferroviario facendosi trovare nella villa
del Carrione a Portici ed a mezzogiorno diede il segnale di partenza
egli stesso davanti a tutte le autorità, pronunziando un discorso in
cui disse: "Questo cammino ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando come tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al lido del Mare Adriatico".
Partì quel giorno il primo convoglio ferroviario italiano, composto
da varie vetture che portavano 48 invitati oltre ad una
rappresentanza dell'armata di Sua Maestà Siciliana costituita da 60
ufficiali, 30 fanti, 30 artiglieri e 60 marinai. Nell'ultima vettura
vi era la banda della guardia reale.
La stazione di Napoli fu
costruita nell'antica via detta «dei fossi» appena fuori le
mura aragonesi che in quel tempo ancora esistevano tra la Porta del
Carmine e la Porta Nolana, era costituita da un'ampia sala d'aspetto
per i passeggeri, di uffici, magazzini, rimesse per le vetture e le
macchine e di un'attrezzata officina di riparazione.
La linea attraversava le paludi
napoletane e la real strada delle Calabrie giungendo nei pressi
della spiaggia di Portici, al Granatello. All'intersezione con la
strada delle Calabrie fu costruito anche un ponte a due archi, per
permettere il passaggio dei mezzi stradali.
In questo primo tronco, di ponti
ne furono costruiti ben 33, con 2.958 metri di mura di sostegno e m.
541 di ringhiere di ferro a difesa del mare e dei caseggiati che si
trovavano lungo la strada. C'è da immaginarsi, quale fosse
l'entusiasmo e l'orgoglio di avere nel regno il primo tratto di
strada ferrata.
Nel 1840 la via ferrata arrivò a Torre del Greco, nel 1842 a
Castellammare di Stabia. I lavori furono continuati per portare la
Ferrovia fino a Nocera e terminarono il 18 maggio del 1844. Fu
necessario ordinare altre locomotive che vennero dall'Inghilterra
con macchinisti inglesi, poiché già alla fine dell'ottobre del 1839
la ferrovia napoletana aveva trasportato circa 58.000 persone
fruttando un utile netto del 14 %. La compagnia ritenne allora di
poter ribassare i prezzi (che tempi!) e nel 1840 furono previsti
biglietti ridotti per i cittadini meno abbienti, vale a dire «alle
persone di giacca e coppola, alle donne senza cappello, ai domestici
in livrea ed ai soldati e bassi ufficiali del real esercito».
Frattanto un secondo tronco ferroviario, finanziato direttamente dallo Stato, raggiunse Caserta nel 1843 e nel 1844 Capua. Nel 1853 fu concessa in appalto la costruzione del tronco Nola-Sarno-Sanseverino, che avrebbe dovuto poi proseguire per Avellino. Il 16 aprile 1855 Ferdinando Il approvò due decreti di Salvatore Murena, Direttore di Stato dei Lavori Pubblici: "Accordiamo concessione al signor Emmanuele Melisburgo di costruire ... una ferrovia da Napoli a Brindisi ... Accordiamo concessione al Barone D. Panfilo de Riseis, di costruire ... una ferrovia da Napoli agli Abruzzi fino al Tronto, con una diramazione per Ceprano, una per Popoli, una per Teramo ed un'altra per Sansevero ... ".
Il programma prevedeva poi che la linea Napoli-Capua dovesse essere prolungata a Cassino, e quindi allacciarsi con la ferrovia dello Stato Pontificio. La linea Napoli-Avellino doveva proseguire da un lato per Bari-Brindisi-Lecce, da un altro per la Basilicata e Taranto. Furono programmate anche le linee per Reggio e la tratta da Pescara al Tronto. In Sicilia erano previste le linee Palermo-Catania-Messina, e Palermo-Girgenti-Terranova. Nel 1860, al momento dell’annessione al Piemonte, erano in funzione 124 km di ferrovia (tutti nell'attuale Campania) ed altri 132 erano in costruzione o in preparazione (gallerie e ponti erano già stati realizzati). Il 15 Ottobre del 1860 Garibaldi, insediatosi da circa un mese a Napoli come dittatore, annullò tutte le convenzioni in atto per le costruzioni ferroviarie, e ne stipulò una nuova con la Società Adami e Lemmi di Livorno.
Non è quindi vero, come si sostiene ancora oggi, che la ferrovia fu realizzata solo per collegare le residenze reali, o per poter spostare più velocemente le truppe di stanza a Capua, in caso di disordini a Napoli. Essa invece fornì un servizio regolare a numerosi utenti, specialmente lavoratori ed artigiani, che si recavano al lavoro a Napoli. Occorre peraltro ammettere che i tempi di realizzazione del programma ferroviario risultarono troppo lunghi (basti pensare che al 1860 il Piemonte aveva approntato 866 km di ferrovie, il Lombardo Veneto 240 km, la Toscana 324 km, i ducati emiliani 180 km). Da un lato questi dati dimostrano che non basta essere i primi ad iniziare, se poi ci si lascia superare dagli altri. Dall'altro lato c'è da dire che il ritardo nello sviluppo delle ferrovie, va inquadrato nella concezione economico-fiscale-sociale del
Regno delle Due Sicilie. Qui accenniamo solo come, in tale concezione, i programmi di sviluppo dovessero essere "sostenibili", cioè proporzionati a risorse ed esigenze, e non viceversa. Fatto sta, il Piemonte è ancora ricordato per quei 866 km di ferrovie, sottacendo che contribuirono all'enorme Debito Pubblico che quello Stato lasciò in eredità all'Italia. Le conquistate
due Sicilie invece si videro portar via i materiali ed i macchinari allestiti per le costruzioni ferroviarie, che vennero adoperati al Nord, ed i suoi soldi andarono a turare le larghe falle delle casse del novello regno d'Italia.
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Strade Ferrate Meridionali. Archivio
Ciro La Rosa. |
Con l’unità d’Italia, il progetto di re Ferdinando II di realizzare una rete ferroviaria dal Tirreno all’Adriatico fu abbandonato e non venne più realizzato. I governi
unitari del re sabaudo e del duce del fascismo non si interessarono a sviluppare agevoli collegamenti all’interno del Sud,
anzi si concentrarono sullo sviluppo delle linee Sud-Nord per agevolare il trasferimento della mano d’opera meridionale al Nord.
Inserto
Cavour ncoppa 'a vaporiera
di Nicola Zitara
La società piemontese è sempre stata fortemente municipale, però a un livello elevato. Infatti, diversamente dal mio paese, dove ancora si sente pronunziare qualche nomignolo dal costrutto lessicale appartenete alla parlata volgare, lì, invece, a volte, si usa l'appellativo in luogo del nome. Niente di volgare, insomma. Per esempio, se alzate il tono della voce e pronunziate la parola Avvocato in una pubblica via, nessuno si volta. Solo gli agenti dell'intelligence FIAT, che si trovano a portata di voce, annotano sui loro taccuini che in via Conte Revel, un tale, di cui in seguito si accerterà meglio l'identità, ha proferito la parola Avvocato.
La notizia arriva in sede, e l'avvocato, dall'alto della sua sovrana sapienza, deciderà se la cosa deve avere un seguito. Quest'usanza municipale vigeva anche centocinquanta anni fa. Se un giornale scriveva le due parole "il Conte", tutti intendevano che si trattava di Cavour, all'anagrafe Camillo Benso (o Benzo, da cui Benzoni e mai Bensoni). E la cosa accadde veramente. Il 5 aprile dei 1854, il giornale Il Progresso Subalpino apparve con un titolo su cinque colonne (a quel tempo la sesta, la settima, l'ottava e la nona non erano ancora in uso, neppure a Torino). Diceva: Domani il Conte inaugurerà la nuova strada ferrata Torino - Genova.
La mattina del 6, alle quattro e tre quarti, mezza Torino era assiepata intorno alla stazione. Alle cinque precise, apparve, proveniente dal centro, un corteo di carrozze. Cavour, quelle poche volte che usciva per andare in visita da una marchesa sua amica, ci andava regolarmente a piedi. Infatti non sopportava il cattivo odore che i cavalli emanano, e poi gli piaceva ascoltare i suoi stessi passi e lo scricchiolio delle suole. Ma quella volta, trattandosi di un'occasione solenne, con la presenza di tutti i ministri, tranne quello degli esteri, nonché di generali, ammiragli, ambasciatori (di potenze italiane e straniere), di dame eleganti e di cavalieri in tuba e redingote, si adattò a fare il percorso in landeau.
Giunte le carrozze dinanzi alla stazione, il reggimento dei Cavalleggeri di Saluzzo, appiedato per l'occasione, presentò le Lance, con in cima la Bandierina Azzurro Savoja. Si formò, poi, il corteo degli ospiti. Il Conte tagliò il nastro (ancora azzurro: era un residuo di nastri pre-statutari, che l'oculata amministrazione sabauda non intendeva buttar via) e il corteo accedette ordinatamente al marciapiedi della stazione. Sul binario (ancora l'unico) sbuffava una vaporiera, a cui erano legate tre carrozze. Un fumo nero e acre avvolse gli astanti. La massa ferrosa che vibrava, le dimensioni stesse del mostro spaventarono signore e gentiluomini. Molti di loro si pentirono per aver accettato di fare una gita sull'orribile congegno. Alcuni si defilarono alla chetichella. Invece il Conte, che era di animo saldo, salì allegramente sul primo scompartimento della prima vettura, con l'aiuto di un robusto colonnello che lo spinse da sotto le natiche.
In vettura, arrivò un manipolo di cucinieri dei 7' Cavalleggeri di Pinerolo, in giacca e guanti bianchi, con delle gerle piene di panini al prosciutto, di panini al formaggio, di polli allo spiedo ancora caldi, di dolci tipici, di savoiardi al cacao, di prelibata gianduja artisticamente posata su piattini di fine maiolica di Vietri (la Ferrero non aveva ancora scoperto la carta-stagnola), di vecchie bottiglie di Albana, di Barbera, di Barolo.
Il Conte fece onore alla colazione. Un sergente della divisione Re, alto tre volte il Conte, si presentò con una bacinella di rame forbito, piena d'acqua tiepida, affinché Egli potesse sciacquarsi le dita. Il Conte lo fece volentieri, e poi chiese al sergente di porgergli l'asciugamani che recava sul braccio, appunto per l'uso dell'ospite. li sergente parve non capire la richiesta. Allora il Conte, immaginando che fosse francofono, gliela ripeté in francese. li sergente continuò a non capire. Mortificato, il colonnello Salmour, addetto militare dei Conte, comandò la cosa in una lingua somigliante al tedesco. Finalmente l'ordinanza ubbidì.
L'accaduto spinse il Conte a profonde riflessioni (sempre nel più puro francese, come era suo costume). "Se già nel Regno di Sardegna si parlano una decine di lingue, cosa avverrà quando sarà fatta l'Italia? Sicuramente sarà una babele!" (traduzione a cura del redattore).
Questa riflessione l'infastidì, per cui decise d'andare a vedere come funzionava la vaporiera. Il desiderio del Conte fu notificato all'ingegner Scott, uno scozzese che aveva progettato e costruito la ferrovia. A quel tempo il passaggio da un vagone all'altro non era ancora possibile, cosicché questi ordinò che il treno si fermasse e poi aiutò personalmente il Conte a scendere sulla sassosa scarpata. Lo aiutò anche a salire sulla macchina, cosa non facile neppure per un acrobata. Voleva salirci anche lui, ma il Conte, in un inglese per niente disprezzabile, gli chiese di non farlo. Voleva restar solo con i suoi sudditi e conversare con loro.
Il treno ripartì. Il macchinista e il fuochista, senza interrompere il loro lavoro, lo sbirciavano con condiscendenza. "E signuri sono curiosi, non è 'u vero, Vostra Eccellenza?". Il Conte capiva benissimo cosa stava dicendo il macchinista, ma non riusciva a inquadrare la provincia da cui proveniva. "Genovese non è, forse è sardo? Maa......" E così riflettendo andò per appoggiarsi a un passavano. "Attento, Signurì, ca ve spureate". Il Conte si ritrasse e guardò il fuochista, che l'aveva avvertito. "Merde, questi da dove vengono?" (Parziale traduzione del redattore).
Era inutile arrovellarsi su quel punto. Meglio dedicare il tempo a capire come funzionava la vaporiera. "Eccellenza, chisto è o freno. Se tiro sta leva, 'e rróte si bloccano. Il pericolo sta nel surriscaldamento delle rotaie. Avite capito, Signurì, chisto nunn' è nu mestiere facile! V' 'o ddico pecché il vostro regno ci paga poco, a confronto dei pericoli ca currìmme e p ' 'a fatica che facìmme".
"Ma perché?... da che regno venite?"
"Simme 'e Napoli, Eccellenza. Siamo a Torino da sette anni, noi e altre dodici persone... Sin da quando il nostro glorioso re Ferdinando vendette sette vaporiere a suo "cognato", il re Carlo Alberto, che Dio abbia in gloria l'anima sua".
"Ah, sì. Adesso ricordo ... Sette vaporiere, voi dite... ? O Dio, ci siamo dimenticati di pagarle!"
"Sì, Eccellenza. E sono la Sorrento, la Capri, la Posillipo, la Mergellina, la Capodimonte, la Portici, la Vesuvio, sulla quale Vostra Eccellenza ci fa l'onore, e l'Etna... Tutte sempre in perfetto funzionamento..."
Nicola Zitara
Nota del Portale del Sud
Il prof. Zitara ha dato nomi di fantasia alle locomotive, effettivamente vendute nel 1846 dalle napoletane Officine di Pietrarsa al Regno di Sardegna. Le macchine vennero consegnate a partire dal 1847 e regolarmente pagate. I nomi veri erano Pietrarsa, Corsi, Robertson, Vesuvio, Maria Teresa, Etna e Partenope. [Cfr. Il centenario delle ferrovie italiane 1839-1939 (Pubblicazione celebrativa delle FF.SS), Roma 1940, pp. 106, 137 e 139]. |
Bibliografia consigliata:
-
Antonio Gamboni,
Napoli-Portici, la prima ferrovia d'Italia - 1839,
Fiorentino 1987 (consultabile presso la Biblioteca Nazionale
di Napoli o L'Istituto di Storia Patria)
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