Come già scritto, per chi ha letto il
precedente capitolo, la
mattina del 9 gennaio 1848 viene diffuso per le strade di
Palermo un provocatorio manifesto che invita i cittadini alla
rivolta. Ne fissa anche la data: il 12 gennaio, compleanno di re
Ferdinando II. Ovviamente la polizia nella notte procede
all’arresto di una serie di noti liberali tra cui Emerico Amari,
famoso penalista e fratello di Michele Amari, e il letterato
Francesco Paolo Perez, ma invano: non erano i vecchi liberali i
promotori della rivolta. Infatti, il giorno 10 compaiono altri
manifesti che fissano anche l’ora della rivoluzione: si invitano
i cittadini a scendere armati all’alba per le strade e attendere
i capi che daranno loro le direttive. La mattina del 12 un
gruppetto di cittadini armati alla meno peggio si riunisce in
piazza della Fieravecchia, oggi nota come piazza Rivoluzione,
dove li aspettava il giovane avvocato Paolo Paternostro e il
giovane Giuseppe La Masa tornato dall’esilio fiorentino qualche
giorno prima, che cominciarono ad incitare la piccola folla
[1]. Il La
Masa improvvisa o quasi, un proclama a nome di un fantomatico
comitato provvisorio; vengono distribuite armi, bandiere
tricolori e coccarde e mano mano che altra gente affluisce,
cominciano a suonare a stormo le campane e iniziano le prime
scaramucce con le truppe regie che erano accorse e che,
fortunosamente, sono messe in fuga da un gruppo di rivoltosi
particolarmente agguerrito, guidato dal La Masa.
Scrive lord Dickinson, vice console britannico, nel suo diario “All’alba
quando il primo colpo di cannone annuncia, il compleanno di Sua
Maestà Ferdinando II, gruppi di gente armata, in maniera
disordinata, con ogni specie di armi mortali si radunano nelle
piazze principali, a cui si uniscono gente armate dei
sobborghi. Seguono dimostrazioni al grido di viva Pio IX
. La polizia non reagisce ma a mattino inoltrato la Cavalleria
attacca la folla. Un ufficiale è ferito, 10-11 uomini uccisi e
il resto si ritira nei quartieri ….”
La inattesa vittoria dei rivoltosi in questo primo scontro diede
coraggio e fece divampare la rivolta. Da ogni parte liberali,
giovani e vecchi, aderirono al Comitato provvisorio inventato da
La Masa e seduta stante cominciarono ad organizzarsi azioni di
guerriglia volte contro le sedi dei commissariati e delle
gendarmerie. Con straordinaria rapidità la rivolta si espanse a
macchia d’olio: dalle province e dalle campagne arrivarono non
solo aristocratici, intellettuali, borghesi e possidenti, ma
anche masse di agricoltori che si unirono ai popolani. A questi
si aggiunsero, come sempre avviene in questi casi, gli evasi
dalle carceri e la teppaglia urbana e rurale. Gli scontri
durarono una decina di giorni durante i quali i rivoltosi si
impadronirono della maggior parte della città e, nel frattempo,
venne formato un Comitato Generale che sostituì quello
provvisorio.
A presiedere il Comitato Generale venne designato Ruggero
Settimo dei principi di Fitalia, un anziano liberale, già
brigadiere della marina borbonica e ministro nel governo nel
1812. Da Napoli intanto era arrivata la flotta e un rinforzo di
5000 soldati. Ma ci fu poco da fare. Le truppe assediate a
palazzo reale, al comando del maresciallo Vial non riuscirono ad
essere rifornite dai contingenti arrivati dal continente e la
notte del 26 gennaio abbandonarono le posizioni e, facendo terra
bruciata al loro passaggio, raggiunsero il mare e si imbarcarono
per Napoli. Restava ai regi il solo Castello a Mare. Alla
notizia dei fatti di Palermo insorsero anche Messina, Catania e
via via tutte le altre città dell’isola. Insomma in meno di un
mese la Sicilia fu in mano del governo provvisorio tranne la
cittadella di Messina.
Intanto Ferdinando, preoccupato per le agitazioni dei liberali
napoletani e temendo una insurrezione anche nella capitale,
promise la Costituzione, ne fissò i principi e li trasmise anche
a Palermo. Ma, come vedremo, il Comitato rivoluzionario respinse
l’offerta, non rispondente alle istanze d'indipendenza
dell’isola, e istituì un Comitato di Governo presieduto
sempre da Ruggero Settimo e con Mariano Stabile come segretario
generale.
|
Ruggero Settimo. Palermo, Museo del Risorgimento. |
La rapidità del successo dei rivoltosi è incredibile ma non
ingiustificata. Non dimentichiamo che l’intera Europa, tranne la
Gran Bretagna, la Svezia e la Russia, per motivi diversi, è
percorsa in questo periodo da un anelito rivoluzionario e la
Sicilia è stata proprio la miccia che ha fatto esplodere in
sequenza, da sud verso nord, valicando le Alpi, l’intera
polveriera. E ovunque gli insorti hanno la meglio: il 10
febbraio insorge Napoli, il 15 Firenze, il 27 Parigi. Il 5 marzo
insorge Torino, Roma il 14, Vienna e Budapest il 15. Berlino il
19 Venezia il 22 ed infine buon ultima Milano, il 23.
Ma così come velocemente si erano imposte le rivolte,
altrettanto rapidamente vennero soffocate. A Napoli il 15 maggio
le truppe regie hanno ragione dei rivoltosi e il Parlamento che
avrebbe dovuto convocarsi in quella data viene sciolto. Anche
Parigi cede, l’insurrezione operaia viene domata a Giugno e
Luigi Bonaparte viene eletto presidente della repubblica. Anche
a Vienna l’insorgenza viene soffocata.
In Italia la sola rivoluzione che riesce a sopravvivere è quella
piemontese: lo
Statuto giurato da
Carlo Alberto viene rispettato! E’ questo, noi crediamo, il
carico da undici che il Piemonte, coscientemente o no, ha calato
per le sue prossime fortune!
Ma torniamo a noi, in Sicilia. Tra il febbraio e il marzo del
1848, gli ambasciatori inglesi a Napoli, Napier e soprattutto
Minto lavorano per convincere Re Ferdinando a riadattare la
costituzione del 1812.
Appunta Dickinson nel suo diario che “Lord Minto afferma di
aver carte blanche, purché non venga toccata l’integrità della
corona”
L’Inghilterra aveva capito che la situazione nel regno
meridionale era assai precaria, ma il Re e i suoi ministri
insistevano a voler rispettare il trattato del 1815 che come ben
sappiamo, con quello che si può chiamare un colpo di stato,
aveva cancellato l’antico regno di Sicilia. Lord Minto fu
sorpreso dalla presa di posizione di Re Ferdinando ma sperò fino
all’ultimo che il Re avrebbe riconosciuto le esigenze dei
siciliani. Ma così non fu e il 10 febbraio fu firmata la
Costituzione Napoletana che non teneva conto delle esigenze
siciliane. Minto chiese spiegazioni ma gli fu risposto che si
era trattato di “una dimenticanza”. Minto diede fiducia al re e
scrisse al console inglese a Palermo, Goodwin, una lettera in
cui comunicava che la costituzione firmata da Ferdinando doveva
ritenersi applicabile solo a Napoli e che quanto prima sarebbe
arrivato a Palermo con spiegazioni
Ma prima ancora che lord Minto sbarcasse a Palermo il Comitato
rivoluzionario rifiutò le offerte “napoletane” di Ferdinando e
propose le proprie condizioni
:
Le riassumiamo:
Che il Re avesse ripreso l’antico titolo di re delle
Due Sicilie (e non del Regno delle Due Sicilie)
Che il suo rappresentante in Sicilia si fosse chiamato
Vicerè e che fosse un membro della famiglia reale o un siciliano
Che l’atto di convocazione del Parlamento, facesse
parte della costituzione
Che gli impieghi civili, militari ed ecclesiastici
fossero appannaggio dei siciliani
Che si consegnasse alla Sicilia la quarta parte della
flotta, delle armi e del materiale di guerra o l’equivalente in
denaro
Che fossero restituiti i battelli doganali e postali
acquistati per conto della Sicilia
Che gli affari d’interesse comune fossero trattati e
determinati dai due parlamenti
Che in una lega politica o commerciale degli Stati
italiani vi dovesse essere rappresentata la Sicilia come Stato
indipendente
Che la Sicilia potesse coniare moneta
Al ripristino della situazione anteriore al Congresso di Vienna,
cioè la separazione della Sicilia da Napoli era contraria la
Francia che temeva una supremazia degli inglesi nel
mediterraneo. Chi un po’ di storia conosce, sa che questa
rivalità franco-inglese verrà superata solo nel momento in cui
si vorrà impedire un aumento dell’influenza della Russia o
dell’Austria nel Mediterraneo e che condizionerà sempre le
alleanze e le disalleanze.
Il governo napoletano approfittando di questa rivalità rifiutò
le proposte siciliane fino ad arrivare alla nota, firmata da
Ferdinando il 22 di marzo 1848, in cui veniva dichiarato nullo
tutto ciò che in Sicilia era stato fatto fino ad allora. Non
solo, ma fece notare che così facendo i siciliani andavano
contro lo spirito risorgimentale e di fratellanza che in quel
periodo attraversava la patria comune. Fece recapitare, con una
corsa speciale del vapore “Flavio Gioia”
,
a lord Minto che si trovava ancora a Palermo la sua nota entro
il 24 marzo, la vigilia dell’apertura del Parlamento siciliano,
convocato con “suo” regio decreto il 6 marzo. Minto, pur non
condividendo la nota, trasmise a Ruggero Settimo la decisione
del Re. A questo punto Settimo si rese conto di essere
considerato solo un ribelle e non più un luogotenente del re e
che veniva messo a conoscenza di decisioni prese sulla propria
pelle e sulla pelle dei siciliani indirettamente. Non vogliamo
giustificare ma capiamo i siciliani, che avevano battuto sul
campo le truppe regie, in seguito all’appassionato discorso
d’apertura dei lavori del Parlamento dichiararono:
Ferdinando Borbone e la sua dinastia decaduti dal
trono di Sicilia
La Sicilia si reggerà a governo costituzionale e
chiamerà al trono un principe italiano dopo che avrà formato il
suo statuto.
Il richiamo al “principe italiano” mise in risalto uno dei
limiti dei siciliani: la mancanza di fiducia reciproca. Ruggero
Settimo avrebbe potuto essere un ottimo presidente di una
“repubblica” siciliana, ma non si fidò di se stesso e forse, dei
suoi collaboratori, e il trono fu offerto al secondogenito di
Carlo Alberto, il duca di Genova Ferdinando, ma a patto che
cambiasse il nome in Alberto Amedeo, non desiderando un altro re
Ferdinando!.
Questa scelta non era stata preceduta da alcuna preparazione
diplomatica e fu, come c’era da aspettarsi, fortemente
osteggiata da Ferdinando II che immediatamente si preoccupò di
contattare a scopo dissuasivo, i principi italiani e le potenze
europee. Il governo di Londra, vista la scarsa intesa del
momento con Napoli si mostrò favorevole mentre Parigi, pur non
contraria all’idea, avrebbe preferito la nomina di Carlo di
Lorena, principe di Toscana. Il Papa e gli altri principi
italiani suggerivano invece, in vista dell’unità italiana, di
offrire la corona a un figlio di Ferdinando II.
|
Bandiera siciliana
del 1848 -1849
|
Neanche Carlo Alberto fu d’accordo. In quel momento non poteva
inimicarsi Ferdinando II, era impegnato contro l’Austria e gli
serviva la solidarietà e l’aiuto di Napoli.
Facciamo un passo indietro per seguire gli avvenimenti di
Napoli.
Incoraggiati dai buoni risultati ottenuti dai ribelli siciliani,
anche i liberali napoletani avevano sperato di poter avere il
sopravvento sulle truppe governative. Nel febbraio del ’48,
sotto la spinta della minaccia rivoluzionaria, Ferdinando II
aveva costituito un nuovo governo e fu chiamato a farne parte il
duca di Serracapriola come ambasciatore a Parigi; fra i ministri
che volle esonerare dall'incarico fu compreso il “famigerato” del Carretto. Agli interni fu
preposto Francesco Paolo Bozzelli, che aveva sofferto esilio e
prigionia per le sue idee politiche: egli ebbe l'incarico di
compilare lo schema della Costituzione. Il decreto
costituzionale fu pubblicato il 29 gennaio del 1848 e la stampa
italiana fece grandi lodi a Ferdinando II di Borbone. Vi fu uno
spettacolo di gala al
San Carlo, durante il quale il sovrano fu applaudito dai
palchi, dalla platea e dal loggione, e dovunque si videro
coccarde tricolori, che il re detestava. Fu concessa una
amnistia e ritornarono Luigi Settembrini ed altri esuli fra cui
alcuni, come il Poerio ed il Tofano, ebbero incarichi di
responsabilità.
La
costituzione napoletana era un adattamento di quella francese:
il re prestò giuramento il 24 febbraio nella basilica di San
Francesco di Paola mentre dai forti echeggiavano salve di
artiglieria. Dopo la cerimonia passò in rivista a cavallo le
truppe schierate sulla piazza. Due giorni dopo, si seppe che a
Parigi era scoppiata la rivoluzione che aveva costretto Luigi
Filippo alla fuga: un po' dovunque si respirava desiderio di
repubblica. Dopo re Ferdinando, in Italia anche il granduca di
Toscana Leopoldo e Carlo Alberto di Savoia concessero la
costituzione, mentre in Austria scoppiavano dei moti
rivoluzionari che costringevano il potente principe di Metternich a prendere la via dell'esilio
. Vi furono
altre rivolte a Venezia e a Milano e lo stesso Pio IX accordò
una costituzione di tipo francese. Il momento non era tra i
migliori per la pubblicazione della
legge elettorale che prescriveva la scelta di 164 deputati a
plebiscito popolare.
Re
Ferdinando desiderava pacificare la Sicilia, ed aveva
permesso a Ruggero Settimo di governare in suo nome con il
grado di Luogotenente. Il
nuovo
governo napoletano, influenzato dal Gioberti
, scacciò
nuovamente i gesuiti. La rivoluzione di Vienna e la fuga del
Metternich, seguiti dalle Cinque Giornate di Milano, causarono
ancora rivolte a Napoli e l'ambasciatore austriaco, il cui
palazzo fu devastato, ritenne prudente imbarcarsi segretamente
per Trieste.
Dopo
circa 28 anni di esilio, fu permesso anche a Guglielmo Pepe di
ritornare a Napoli. I nuovi movimenti fecero cadere ancora il
ministero e ne fu formato quindi un altro sotto la presidenza
dello storico e liberale Carlo Troja
, amico del
primo ministro del Piemonte Balbo
. Venne deciso
l'invio di un primo contingente di truppe napoletane in aiuto di
Carlo Alberto, in guerra contro l’Austria. Il corpo di
spedizione era formato esclusivamente di volontari, cui fece da
«mascotte» la giovane principessa di Belgioioso, una «pasionaria»
dell'800. A Ferdinando II la cosa non dispiacque: poiché per
riavere la Sicilia aveva bisogno a sua volta di un aiuto, Il Re
non si oppose anche alla successiva decisione di inviare un
secondo contingente più numeroso. Il 7 aprile Napoli dichiarò
guerra all'Austria e alla dichiarazione seguì un proclama, nel
quale il sovrano napoletano considerava la lega italiana valida
anche per il Regno.
Mentre il re approvava l'invio in Lombardia di un esercito di
17.000 uomini al comando del generale Pepe, giunse da Palermo la
già citata notizia che la Sicilia lo aveva dichiarato decaduto
dal trono. Per il mantenimento dell'esercito, per la campagna
del Nord, occorrevano fondi: bisognò chiedere infatti un
prestito di tre milioni di ducati.
Le
elezioni nel napoletano si tennero normalmente ed il parlamento
avrebbe dovuto riunirsi il 15 maggio nell'antico monastero di
San Lorenzo. Il 13 maggio i parlamentari si riunirono a Monteoliveto e chiesero di mutare in parte la formula del
giuramento. Ferdinando II si dichiarò disposto a discuterne, e propose di aprire il
Parlamento senza giuramento, in attesa di trovare un accordo.
L'assemblea si apri, ma alcuni facinorosi, guidati da Giovanni La
Cecilia
e Pietro
Mileti, irruppero nella sala sostenendo che il re aveva dato
ordine alle truppe di circondare il palazzo. Ciò era falso, come
poté riferire il prefetto di polizia, che rassicurò i deputati.
Ma la capitale era in subbuglio e si cominciarono a formare
alcune barricate.
|
L'arresto di Carlo Poerio.
Napoli, museo di San Martino |
Il
10° Reggimento di Fanteria Borbonico era a Goito e l'esercito
napoletano al comando del generale Pepe, già oltre Bologna, si
stava preparando per misurarsi con gli austriaci di Radetzky.
Tuttavia, a Napoli scoppiava la rivoluzione. Furono
erette barricate in tutta la città, da San Nicola alla Carità a
San Ferdinando, da Santa Brigida a Chiaia sino all'ospedale
della Pace
. In città si
sentivano esplodere colpi di armi da fuoco e si vedevano
circolare gente armata che con aria provocante distruggeva tutto
quanto aveva a portata di mano. In effetti, la rivolta non aveva
motivazioni ideali o di solidarietà con la Sicilia o con
l'Italia in generale, bensì nasceva dall’intento di alcuni di
pescare nel torbido per ottenere vantaggi per se stessi. Non
si può parlare quindi di episodio risorgimentale, in quanto il
Regno era impegnato nella prima guerra d'Indipendenza. I colpi
di arma da fuoco si avvicinavano sempre più alla reggia, finché
furono colpiti al petto due militari di truppa che sostavano
davanti al palazzo reale. Lo stesso avvenne nel largo Mercatello,
l'attuale piazza Dante, dove una sentinella fu ammazzata dai
rivoltosi
. Alcuni
deputati e generali - Nunziante, Statella, ed il brigadiere
Eugenio Stockalper - si riunirono per indurre il sovrano a
reagire con la forza.
Il
deputato rivoluzionario conte Giuseppe Ricciardi di Camaldoli
aveva riunito i ribelli davanti a palazzo Gravina
. Gli
svizzeri, riusciti ad entrare nel cortile dell'edificio insieme
a un drappello di guardie reali comandato dal maggiore Nunziante
passarono per le armi quanti si opposero loro e misero in stato
di arresto 50 persone. Fatti del genere incominciarono ad
accadere dovunque, mentre Castel Nuovo inalberava un drappo
rosso, per significare che le truppe erano in allarme attivo,
seguito dal Castello del Carmine e poi da Sant'Elmo, ove il
maggiore Zanetti prese l'iniziativa di far fuoco. Davanti alla
reggia erano pronti due battaglioni della Guardia Reale con la
batteria a cavallo. Vi erano nella capitale un totale di 12.000
uomini.
Visto
che la situazione continuava a peggiorare, il re diede ordine
alle truppe di intervenire. La batteria a cavallo che era
davanti alla reggia entrò in azione contro la barricata che era
alla fine di via Toledo angolo San Ferdinando. Le barricate
furono prese d'assalto dai soldati napoletani. I rivoltosi
combattevano strenuamente, e quando si vide che la truppa non
riusciva a contenere il loro impeto, il colonnello fiammingo
Jieniens diede ordine ai pezzi d'artiglieria di sparare. Diversi
palazzi presero fuoco. La calma ritornò, ma non prima che la
violenza avesse fatto, secondo le fonti ufficiali, 150 vittime,
tra militari e civili e circa 270 feriti: la polizia arrestò 520
rivoltosi. In realtà, le vittime furono almeno 2.000.
Come
disse Giustino Fortunato, quel 15 maggio del '48 fu una giornata
di sangue non voluta dal popolo né da Ferdinando II. Piuttosto,
con Luigi Settembrini, che certamente non era devoto al re,
possiamo dire che questa giornata sanguinosa la vollero «i
pazzi», mentre «non seppero impedirla i savi».
|
Ferdinando II di Borbone |
Dopo
questa grave insurrezione fu sciolta la Guardia Nazionale, fu
imposta la legge marziale e molti deputati fuggirono, provocando
rivolte in Calabria. Il re richiamò dall'Italia settentrionale
le truppe per riprendere la Sicilia. Il 2 luglio Carlo Alberto
fu sconfitto a Custoza, mentre a Napoli si riapriva il
Parlamento. Per riconquistare la Sicilia, Ferdinando nominò
comandante del corpo di spedizione, composto di 20.000 uomini,
il generale Carlo Filangieri. Le truppe salparono da Napoli il
30 agosto.
Il bombardamento di Messina |
In Sicilia ancora si discuteva su chi potesse sedere sul trono.
L’esercito napoletano si era ammassato a Reggio. Messina fu
sottoposta per 3 giorni (dal 3 al 6 settembre) ad un feroce
bombardamento sia dalle truppe che ancora tenevano in mano la
cittadella sia dal mare. Annichilita la città, si procedette
allo sbarco e dopo due giorni di combattimento le truppe regie
ebbero ragione degli insorti, entrarono nella città e, come
sempre succede in questi casi, non mancarono saccheggi e stragi.
Le cose cominciavano a volgere al peggio, sia per l’inferiorità
numerica delle truppe siciliane sia perché ormai l’ondata
rivoluzionaria era sfumata in tutta Europa e un ulteriore
spargimento di sangue fu evitato dall’intervento dei comandanti
delle navi inglesi e francesi, di stanza nel mediterraneo, che
informati dell’accaduto invitarono i loro rappresentanti
diplomatici a Napoli a premere perché si arrivasse ad un
armistizio impedendo al Filangieri di infierire sulla
popolazione.
|
Carlo Filangieri |
L’8 ottobre si arrivò così ad un armistizio di lunga durata. Ma
la rivoluzione siciliana era ormai nei fatti conclusa e con il
decreto del 28 febbraio 1849 (conosciuto come ultimatum di
Gaeta), Ferdinando confermò l’unità del regno delle Due Sicilie
con poche concessioni agli insorti. Lo sdegno dei siciliani fu
enorme, ci fu un ultimo tentativo di ribellione ma ormai si era
allo sfascio e le truppe regie ebbero facile vittoria sugli
ultimi focolai di resistenza. Il 22 aprile il governo rassegnò
le dimissioni nelle mani della municipalità
Sotto la spinta popolare si ricostituirono le antiche
corporazioni e con a capo il barone Riso si costituì un governo
delle maestranze che il 1° maggio 1849 offrì la capitolazione al
colonnello Nunziante. Una settimana dopo arrivarono le
disposizioni del re: resa incondizionata e amnistia generale
tranne che per 43 personaggi individuati come i capi della
rivoluzione. Costoro, e molti altri, tuttavia avevano preso la
via dell’esilio ancor prima che il Filangieri prendesse
ufficialmente possesso della città.
|
1849, Pio IX benedice
l'Esercito dal Palazzo Reale di Napoli |
Le ripercussioni della rivoluzione |
In tutta
la vicenda, Ferdinando II aveva compiuto, alla luce degli
avvenimenti che seguiranno, alcuni errori di valutazione che
segneranno in maniera irreversibile il destino del Regno
siculo-partenopeo: la riconquista armata della Sicilia, quando
sarebbe convenuto a tutti un trattato che prevedesse
l'indipendenza dell'isola da Napoli; l'abbandono della
costituzione, nella convinzione che il Regno fosse inattaccabile
(difeso dall'acqua di mare e dall'acqua santa, come soleva dire
il sovrano) e che la vittoria austriaca del '48-49 potesse
fermare il movimento liberale.
|
Salvatore Vigo |
L’espulsione dalla Sicilia della classe dirigente che ne
rappresentava, nel bene e nel male, la cultura, le tradizioni, i
sentimenti, il cervello in una parola, ebbe come conseguenza lo
spostamento del baricentro politico della lotta tra egemonismo
napoletano e indipendentismo siciliano, dall’ambito geopolitico
meridionale all’ambito geopolitico dell’intera penisola; creò in
definitiva le premesse per la disfatta del regno delle Due
Sicilie. Senza contare che la diaspora della classe politica e
culturale creò un pericolosissimo vuoto. Le migliori menti
dell’isola fuggirono e furono ospitate nelle maggiori capitali
europee e italiane lasciando un pericolosissimo vuoto culturale
e politico nell’isola
La diaspora degli intellettuali siciliani ebbe una grande
importanza e consentì che la classe dirigente isolana
proiettasse la questione siciliana nella questione dell’unità
d’Italia accantonando la propria identità politica per cui si
era sempre battuta pur di averla vinta sulla Casa Borbone.
D’altra parte la rivoluzione del ’48 non lasciò indenne nessuno
stato europeo. All’apparenza i moti erano stati soffocati ma
quella rivoluzione fu uno spartiacque che cambiò la situazione
politica in buona parte dell’Europa
: la
nascita del Regno d’Italia nel 1861, la nascita dell’impero
tedesco nel 1870 e la fine del potere temporale della Chiesa
cattolica nel 1872.
L’unificazione dei due paesi, Germania e Italia fu fatta su basi
diverse: quella tedesca fu di tipo federale con la creazione di
due entità statali distinte e separate, una con capitale Berlino
e l’altra con capitale Vienna, quella italiana fu invece
centralistica e dopo la morte di Cavour, l’unica “bella” mente
piemontese assunse sempre più le caratteristiche di conquista
che di unione. In verità fino quasi alla vigilia dell’impresa
garibaldina l’ipotesi più votata era di realizzare anche in
Italia due entità statali distinte federate ma a questa ipotesi
si opponevano da un lato Giuseppe Mazzini e il Partito d’azione
e dall’altro il rifiuto della Sicilia di rimanere provincia di
Napoli. Infine non di poco conto, se non il più importante, fu
il ruolo svolto dalla cecità politica degli ultimi di Casa
Borbone. Non vollero mai capire la bontà della formula politica
di Carlo III: due regni, un unico re e un unico stato federale!
In tutto questo dobbiamo ricordare l’opera svolta nella seconda
metà degli anni ’50 dell’800, da Cavour e della sua brillante
politica estera che riuscì ad inserire il Piemonte tra le
nazioni che gestivano gli equilibri europei e gli consentirono
di impadronirsi della Lombardia, della Toscana e dei Ducati
dell’Emilia. Per finire, nel bel mezzo di tali avvenimenti di
riassestamento, il 25 maggio 1859 morì Ferdinando II a cui
successe il giovane
Francesco, inesperto e timido e soprattutto non educato, per
intenzione non tanto nascosta della matrigna, alla politica.
Quando un re muore, così come quando finisce una legislatura, si
rimette in discussione la politica. Nel caso del Regno delle Due
Sicilie si rimise in discussione sia la politica interna che
quella internazionale: la Francia e l’Inghilterra tentarono di
riallacciare le relazioni diplomatiche, l’Austria da parte sua
cercò di mantenere l’antica alleanza, rinsaldata dal recente
matrimonio tra Francesco e Maria Sofia.
|
Francesco II |
Anche Cavour propose a Francesco un’alleanza offrendogli la
garanzia dell’integrità territoriale del regno compresa la
Sicilia; in cambio chiedeva al Borbone di allinearsi col
Piemonte contro l’Austria e il ritorno in vigore della
costituzione del ’48, che non era mai stata ufficialmente
abrogata
.
Ma Francesco II rispose che non intendeva tradire la politica
del genitore verso l’Austria né cedere ad istanze liberali. La
scelta del giovane re fu semplicemente un suicidio politico.
Qualche mese dopo ne raccoglierà i frutti anche se dal punto di
vista umano, lui e Maria Sofia si riscatteranno con la
resistenza, inutile ma romantica, della fortezza di Gaeta.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
maggio 2007
[1] E' ben
strano che la polizia borbonica non li avesse arrestati
con gli altri.
[2] Dal
diario di William Dickinson, vice console inglese,
trascritto e tradotto da Liliana Scarlata e pubblicato
da DoraMarcus col titolo Patrioti e Galeotti, Sicilia
1848, diario di una rivoluzione, 2003, p14
[3] Patrioti
e galeotti, op. cit, pp 57 e seguenti
[4] Patrioti
e Galeotti, op. cit.
[5] Oggi ci
sono gruppi che si definiscono “duosiciliani” , un
neologismo inaccettabile, perché indice di
prevaricazioni su uno stato libero e indipendente,
quello di Sicilia, e si ritengono legittime certe prese
di posizioni da parte del re di Napoli. La lotta che
allora fecero i “siciliani” contro il re fu analoga alle
rivendicazioni dei gruppi indipendentisti che conosciamo
oggi ma che molti “napoletano” a quanto pare non
conoscono perché hanno studiato e divulgano solo quella
parte di storia che ad essi fa comodo.
[6] Le
condizioni per intero si possono leggere nel testo
“Memorie” di Fardella di Torrearsa, riportate da Renda
in Storia di Sicilia , 2° volume. Pag 932, edizioni
Sellerio
[7] Dickinson,
Patriotti e Galeotti, op. cit. p. 60
[9] Di quel
periodo ci rimangono due monumenti, che in realtà sono
due strade: il viale della Libertà, tuttora la più bella
strada di Palermo, e corso Alberto Amedeo, in nome di un
re inesistente di nome e di fatto.
[10] Fu
sempre ostile all'Italia ed al Regno di Napoli.
Venceslao Clemente, principe di Metternich Winnerburg,
si permise di definire l'Italia una «espressione
geografica ». A causa dei moti di Vienna del '48 fu
costretto a lasciare la carica che aveva tenuto sin dal
1814. Morì nel 1859.
[11]
Vincenzo Gioberti era sacerdote, ma essendo impossibile
conciliare il cattolicesimo col suo modernismo
filosofico, la Chiesa lo allontanò dalla sua missione
sacerdotale. Nemico acerrimo dei gesuiti fece sempre
l'impossibile per combatterli, e scrisse Il gesuita
moderno. Si riconciliò poi con le autorità
ecclesiastiche e morì a Parigi nel 1852.
[12]
Scrittore napoletano, lo si ricorda per la sua Storia
d'Italia nel Medioevo per alcuni saggi letterari fra cui
lo studio dantesco Del Veltro Allegorico di Dante.
Morì nel 1858.
[13] Cesare
Balbo, insigne statista ed acuto storico, fu tra gli
studiosi politici che appoggiarono le massime politiche
neoguelfe del Gioberti, ma in opposizione ad altri,
escluse qualsiasi federazione di stati italiani con
l'Austria. Scrisse la Vita di Dante e un profondo
ed erudito Sommario della Storia d'Italia. Morì a
Torino nel 1853.
[14] Era un
ex capitano della guardia nazionale che, ritornato
dall'esilio beneficiando dell'amnistia del re, era
divenuto funzionario del ministero degli Interni.
[15] Era
l'antico palazzo di Ser Gianni Caracciolo, l'uomo più
potente e temuto del Regno di Napoli per essere il
favorito della
regina Giovanna. Fu acquistato nel 1587 dall'Ordine
dei frati Ospedalieri che vi crearono appunto un
ospedale: al complesso nel 1629 fu annessa la chiesa
della Pace, dedicata all'Assunzione, che fu chiamata
così per la pace tra Filippo IV di Spagna e Luigi XII di
Francia.
[16]
Come avviene i questi casi, la responsabilità per i
fatti del 15 maggio è da suddividere tra il re, che non riusciva
governare la situazione, ed i liberali radicali, che
avevano già ottenuto concessioni ed incarichi, e che non
tennero conto che il Regno stava partecipando alla I
guerra d'indipendenza d'Italia.
[17]
Attualmente è sede della Facoltà di Architettura
dell'Università di Napoli.
[18] Si
trattava degli ammiragli Parker e Baudin
[19] In
quegli stessi giorni, Carlo Alberto, sconfitto a Novara,
abdicava in favore del figlio Vittorio Emanuele e veniva
firmato l’armistizio con l’Austria.
[20]
Francesco Ferrara, uno dei più importanti economisti
liberalisti dell’800, finì esule a Torino, padre
Gioacchino Ventura, antesignano del liberalismo
democratico cristiano a Parigi con lo storico Michele
Amari e lo scienziato Stanislao Cannizzaro. Giuristi
come Vito D’Ondes ed Emerico Amari andarono ad insegnare
rispettivamente a Genova e a Firenze, per non parlare di
politici come Crispi, La Masa, Stabile, ecc. In somma
bisognerà aspettare i nostri giorni per assistere ad una
così imponente fuga di cervelli che lasciò l’isola in
mano a pochi aristocratici viziati, gabellati senza
scrupoli e banditi di ogni genere. In pochi anni la
Sicilia ebbe modo di regredire di qualche secolo.
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Francesco Crispi |
[21] Non è
stato certo casuale che il 1848 è anche l’anno di
pubblicazione del Manifesto del partito comunista, di
Marx ed Engels. Manifesto che segna la fine di un’epoca,
quella del Congresso di Vienna e l’inizio di un’epoca
nuova.
[22]
Nell’aprile del 1849, Ferdinando II aveva sciolto le
Camere che rifiutavano di approvare il bilancio statale.
Promise nuove elezioni, che però non si tennero mai, e
la Costituzione fu messa in disparte: non ufficialmente
abrogata, ma sepolta sotto un velo di oblio.