Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
La
storiografia ufficiale ha bollato Ferdinando II come un re
insensibile al richiamo del principio di nazionalità italiana, ma la
cosa è più complessa di quello che può sembrare e, per approfondire
il giudizio, è indispensabile rivedere gli avvenimenti dall’inizio.
Infatti, prima che naufragasse definitivamente il progetto federale,
Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, era stato più volte
sollecitato ad accettare la presidenza di un’ipotetica Lega degli
Stati Italiani
e già nel 1831 “i liberali italiani, riuniti in congresso a
Bologna, decidevano di offrire al Re di Napoli la Corona d’Italia”
perché lo riconoscevano come il sovrano italiano più aperto verso i
loro ideali. Nel 1832, Ferdinando II propose un accordo per ben due
volte, in primavera e in inverno, al Regno di Sardegna, prima di
mutua assistenza e poi allo scopo di abolire ogni influenza
straniera in Italia; il governo piemontese si rifiutò
anche perché il 23 luglio del 1831 aveva stipulato con l’Austria un
trattato difensivo e questo gli bastava per sentirsi al sicuro
contro eventuali attacchi francesi; questa proposta del re
meridionale fu interpretata a Vienna come una mossa antiaustriaca
tesa a liberare la Penisola dal dominio asburgico e provocò le ire
di Metternich. Ferdinando II ci riprovò l’anno successivo: “nel novembre del 1833, tramite il proprio ambasciatore a Roma,
conte Ludorf, egli invitava il papa Gregorio XVI a farsi promotore
di una Lega difensiva e offensiva fra i vari governi della
penisola“ , ma l’invito non fu accolto; persino il mazziniano Attilio
Bandiera, autore nel 1844, col fratello e altri, di un tentativo
insurrezionale unitario, prima di morire, scrisse una lettera a
Ferdinando II esplicitando la sua fede repubblicana ma anche la sua
disponibilità a seguirlo nel caso volesse diventare il Sovrano
costituzionale di tutta l’Italia.
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Attilio Bandiera |
Nel 1846
saliva al soglio di Pietro papa Pio IX, sulla cui persona si
catalizzarono le attenzioni di quanti vedevano la possibilità di
mettere in pratica il progetto monarchico federale di Gioberti,
questo perchè i primi atti del pontefice facevano intravedere una
sua tendenza liberale che in realtà era minore di quanto si
pensasse.
L’Austria, dal canto suo, ribadiva, in maniera forte, la sua
egemonia su gran parte dell’Italia: nel 1847 (il 24 aprile) ammonì,
con una nota diplomatica (inviata successivamente, per conoscenza,
anche a Carlo Alberto del Piemonte) il Granduca di Toscana a non
concedere riforme; il 17 luglio, data del primo anniversario della
concessione dell’amnistia da parte di papa Pio IX, occupò Ferrara;
la cosa era formalmente legittima, perché prevista dall’articolo 103
del trattato di Vienna, ma è chiaro che era un atto di rilevanza
politica come lo erano le due note inviate il 2 agosto alle potenze
firmatarie dei trattati del 1815 in cui si denunciavano i fermenti
liberali in Italia. In questo gioco di supremazia politica si
innestò l’Inghilterra che mandò in missione, in autunno, presso le
Corti italiane, Lord Minto per intimorire l’Austria e farsi garante
dell’appoggio inglese a tentativi di riforme liberali e dei principi
di nazionalità italiani. La risposta degli Asburgo fu l’occupazione
militare dei ducati di Modena e Parma, stringendo così da vicino la
Toscana e lo Stato della Chiesa.
Ma già ad
agosto , papa Pio IX, sull’onda delle idee federaliste del Gioberti
espresse nel libro “Il Primato morale e civile degli italiani”,
aveva preso l’iniziativa, cominciando a sondare l’adesione d’alcuni
sovrani italiani al progetto di una “lega doganale“, sulla falsariga
di quella realizzata l’11 maggio 1833 tra i venticinque stati
tedeschi (il Zollverein); a novembre fu firmata una bozza d’intesa
tra Roma, Firenze e Torino e ci furono contatti con Napoli e Modena
per un allargamento della stessa.
Il
momento cruciale per mettere alla prova i progetti di una unione
federale italiana avvenne nell’anno 1848: il 13 marzo, a Vienna,
scoppiò un’insurrezione liberale che chiedeva la Costituzione;
appena giunta la notizia, il 17 insorge Venezia e poi, dal 18 al 22
marzo [le Cinque giornate] Milano; i borghesi milanesi erano
esasperati dagli austriaci i quali mortificavano le loro attività
economiche, rivolte per lo più verso l’Italia, mentre Vienna le
voleva subordinate a quelle del resto dell’impero multinazionale
asburgico, si arrivò addirittura al rifiuto di prolungare oltre
Pavia la rete ferroviaria. I soldati del comandante Radetzky furono
costretti ad abbandonare Milano e i rivoltosi mandarono dei
messaggeri al re piemontese Carlo Alberto sollecitando un suo aiuto:
il 24 marzo 1848 (avuta notizia del ritiro del maresciallo
austriaco) il Piemonte dichiarò guerra all’Austria (la cosiddetta
prima guerra d’indipendenza) dopo aver fornito, in tutta fretta, le
sue truppe di vessilli tricolori con lo scudo dei Savoia al centro,
visto che la bandiera azzurra sabauda era malvista “e per viemmeglio
dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana”.
Il 26 marzo il ministro degli Esteri delle Due Sicilie sollecitò la
convocazione di un Congresso a Roma, sotto l’egida del papa, in
appoggio al progetto toscano di una “lega politica” detta italica.
Carlo Alberto, a sua volta, manda in missione il conte Rignon il
quale si reca prima dal Papa e poi da Ferdinando II per sollecitare
un aiuto militare; malgrado in Sicilia fosse in atto da gennaio una
grave rivolta indipendentistica.
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Johann Radetzky |
Il 7
aprile Ferdinando II dichiarò guerra all’Austria e stabilì di
inviare al nord un contingente di ben 16mila uomini (di cui 3 mila
volontari)
al comando del generale Guglielmo Pepe; il 20 aprile, col richiamo
dei rispettivi ambasciatori, la rottura tra Due Sicilie e Austria
era completa. Nell’occasione Ferdinando II emanò un proclama: “Noi
consideriamo com’esistente di fatto la Lega Italiana, dacché
l’universale consenso dè Prìncipi e dè popoli della Penisola ce la
fa riguardare come già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in
Roma il Congresso che Noi fummo i primi a proporre; e siamo per
essere i primi a mandarvi i rappresentanti di questa parte della
gran famiglia italiana [il 4 aprile erano stati già designati e l’11
si stabilì che essi aderissero comunque al progetto di lega
doganale] … le sorti della comune patria vanno a decidersi sui piani
di Lombardia ...unione, abnegazione, fermezza e l’indipendenza della
nostra bellissima Italia sarà conseguita. Tacciano davanti a tanto
scopo le meno nobili passioni e 24 milioni di italiani avranno una
patria potente, un comune ricchissimo patrimonio di gloria, e una
nazionalità rispettata che peserà in Europa”.
Il granduca di Toscana Leopoldo II, per suo conto, aveva già
mobilitato 3mila regolari ai quali si erano aggiunti altrettanti
volontari, dallo Stato della Chiesa partirono 7mila regolari e
10mila volontari; invece i duchi di Modena, Parma e Piacenza
fuggirono e le giunte cittadine si pronunciarono per una fusione col
Piemonte; a Venezia Daniele Manin e Niccolò Tommaseo proclamarono la
repubblica e il distacco da Vienna.
Nonostante la mobilitazione alla guerra, da parte degli altri stati
italiani, fosse acquisita, Carlo Alberto fece fallire il progetto di
federazione politica italiana, si limitò infatti a proporre, ai
rappresentanti diplomatici a Torino degli altri stati italiani, che
si riunissero nella sua capitale i delegati militari di Piemonte,
Toscana, Stato della Chiesa e Regno delle Due Sicilie per discutere
i particolari delle operazioni contro l’Austria. Questo intendimento
fu riferito dal cardinale Antonelli agli inviati delle Due Sicilie,
giunti il 18 aprile a Roma per il Congresso della costituenda Lega
politica; essi rimasero di sasso perchè l’adesione al conflitto
contro gli Asburgo era già acquisita, le truppe meridionali erano
pronte e la parte migliore della flotta meridionale si era diretta
nel mar Adriatico per unirsi a quella piemontese contro
l’austriaca. Non va sottaciuto il fatto che i siciliani “dai forti
di Messina spararono contro le navi di Ferdinando II che si
dirigevano in Adriatico per operare, congiuntamente con la flotta
sarda, contro la marina austriaca. Era la riprova che per la
Sicilia, il nemico ereditario era Napoli e non Vienna”.
Pio IX
dichiarò: “Io non solo approvo la Lega, ma la riconosco necessaria;
per questo ho invitato pertanto i sovrani di Napoli, di Toscana e di
Sardegna a concluderla; disgraziatamente il Governo di Torino si
mostra restio”.
I delegati piemontesi non arrivarono mai a Roma, il loro re aveva
gettato la maschera, il progetto monarchico-federale doveva essere
sepolto perchè egli aveva ambizioni diverse, voleva diventare
l’unico Re d’Italia fedele emulo di quello che aveva affermato il
suo antenato Emanuele Filiberto:“L’Italia? È un carciofo di cui i
Savoia mangeranno una foglia alla volta”. Di opinione esattamente
opposta il re Ferdinando II, il quale, come riporta lo storico De
Cesare, non certo sospetto di simpatie per i Borbone, dichiarò nel
letto di morte: “Mi è stata offerta la corona d’Italia, ma non ho
voluto accettarla; se io l’avessi accettata, ora soffrirei il
rimorso di aver leso i diritti dei sovrani e specialmente i diritti
del Sommo Pontefice”.
Il 29
aprile il Papa si disimpegnò dall’adesione alla guerra federale,
rimarcando la preminenza del suo magistero spirituale, respinse
l’idea di mettersi a capo di una federazione politica italiana,
contemporaneamente mandò un messaggio all’Austria invitandola a
rientrare nei suoi “naturali confini”: fu il colpo di grazia al
progetto monarchico-federale a guida papale propugnato da Gioberti.
Dopo giorni di inutile attesa, il 4 maggio, vista la sospensione
delle trattative per la lega politica, la delegazione meridionale si
ritirava e nello stesso giorno il generale Pepe si imbarcò sulla
corvetta a vapore Stromboli, raggiunse Ancona l’8 maggio e si
diresse verso i campi di battaglia del Nord; era uno dei pochi ad
esserne entusiasta, non lo erano nè i suoi ufficiali sottoposti, nè
tantomeno i soldati semplici perchè “come scrisse Giuseppe Paladino:
“Nel Sud non erano popolari nè la guerra, nè il nazionalismo, nè
l’indipendenza [italiana si intende, perché il popolo meridionale
già si sentiva pienamente tale non essendo minacciato
dall’Austria]”, la guerra voleva dire nuove imposte e la partenza
degli uomini che procuravano il pane”
Dopo
l’insurrezione antimonarchica napoletana del 15 maggio (già
descritta nei capitoli precedenti) Ferdinando II ordinò, il 22
maggio, al contingente militare meridionale di terra e di mare di
rientrare in patria, anche perché molto preoccupato della
contemporanea rivolta indipendentista siciliana e di altri moti
liberali in corso in Calabria. Per questo gesto fu molto criticato
dai liberali ma dobbiamo osservare due cose: non c’era nessun patto
scritto tra le Due Sicilie e il Piemonte, per cui, in caso di
sconfitta dei subalpini, l’Austria avrebbe potuto invadere il Sud;
in caso invece di vittoria comune, nessun beneficio si sarebbe
riversato sul regno meridionale che, in definitiva, ci avrebbe
rimesso uomini e denari in tutte e due le eventualità; in più il Re
si trovava a dover contemporaneamente domare una gravissima
insurrezione che minacciava di fargli perdere una parte importante
del regno quale era la Sicilia ed egli sospettava che i liberali si
nascondessero dietro gli ideali unitari allo scopo di favorire la
secessione siciliana; secondo lui la partenza verso il Nord delle
forze di terra e di mare faceva parte di un piano di
destabilizzazione interna che avrebbe potuto portare alla caduta del
regno, tanto è vero che, subito dopo la partenza erano avvenuti i
luttuosissimi fatti del 15 maggio.
Ma le
operazioni al fronte erano in pieno svolgimento e i soldati
meridionali contribuirono, in maniera decisiva alle vittoriose
battaglie di Curtatone e Montanara, del 29 maggio, e di Goito del
30, malgrado fossero in netta inferiorità numerica (“si erano
battute con un coraggio da leone”, scrisse Radetzky nelle sue
memorie); stranamente, però, sull’obelisco eretto nei luoghi degli
scontri i loro nomi non compaiono assieme a quelli dei citati
soldati toscani. Il bellicoso generale napoletano Guglielmo Pepe,
ricevuto l’ordine di ritirarsi da parte di Ferdinando II, rifiutò di
abbandonare la partita e rimase al fronte con una piccolissima parte
delle truppe che lo seguirono, disubbidendo agli ordini del sovrano;
fu nominato, da Daniele Manin, comandante in capo delle truppe di
terra della neonata repubblica di Venezia, anche altri ufficiali
meridionali come Cesare Rossarol, Alessandro Poerio, Enrico Cosenz,
Carlo e Luigi Mezzacapo restarono al fronte e si coprirono di
imperitura gloria. I soldati meridionali furono, invece, definiti
indesiderati da Carlo Alberto il quale dichiarò che avrebbe fatto
“da sé e solo da sé”. Di parere opposto i cittadini di Goito che nel
loro “manifesto di commiato” dichiararono: “Prodi napoletani del 10°
di linea Abruzzo! Voi che appena arrivati vi uniste a noi con
fratellevole simpatia, voi che per tutto il tempo che abbiamo
passato insieme vi siete distinti per una condotta esemplare, voi
che la memoranda giornata del 30 maggio pugnaste così valorosamente
nella battaglia combattuta alle soglie del nostro paese e noi
dall’alto delle case vi abbiamo veduti e ammirati, accettate i
ringraziamenti degli abitanti di Goito, riconoscenti…” oppure per
citare il saluto dei commilitoni toscani che avevano combattuto a
Montanara: “Vi abbiamo amati come fratelli negli accampamenti, vi
abbiamo ammirati come prodi soldati sul campo di battaglia. Siete
chiamati in Patria e noi sentiamo la forza del vostro dovere”
. Nel frattempo il 29 maggio si era svolto un plebiscito per
l’adesione “condizionata” della Lombardia al Piemonte (561mila voti
favorevoli e 681 contrari) che doveva essere confermato da una
Assemblea Costituente da eleggere in un prossimo futuro.
L’11
giugno ci fu la sconfitta di Vicenza del contingente pontificio,
agli ordini di Durando; scrisse Pellegrino Rossi:” Io dico solo che
chiunque…sia l’autore [degli avvenimenti del 15 maggio] si fece
colpevole di un enorme delitto, avendo quei moti fermato le armi
napoletane che già toccavano le sponde del Po. Indi l’indebolimento
dell’esercito (non veneto) posto a custodia di Venezia, indi
l’audace rivolgersi di Radetzky, e la gloriosa, ma infelice giornata
di Vicenza, indi i pericoli gravissimi onde per quella vittoria
austriaca è minacciata l’ Italia” e aggiunge Ranalli”se il moto di
Napoli…fosse stato di altri pochi giorni indugiato, forse non
sarebbe sì alle cose della guerra funesta; avendo già il generale
Pepe ricevuto ordini da Carlo Alberto di passare nel paese veneto….e
con un esercito di più di ventimila uomini, e con buona artiglieria,
non solo avrebbe potuto sostenere Vicenza, ma dare l’appoggio al re,
da indurlo forse a passare l’Adige. Tanto può il caso ne’ destini
delle nazioni”.
Il
contingente navale meridionale era agli ordini del retro ammiraglio
Raffaele de Cosa, egli, come già detto, aveva ricevuto un primo
ordine del sovrano ma lo aveva ignorato, rispondendo al ministro
segretario di stato della Marina che “essere mio capitale dovere,
come buon cittadino e onesto militare…di rammentare che l’inviato
soccorso di truppe e della flotta non fu che un solo ardentissimo
voto disinteressato del Re e di otto milioni di generosi napoletani,
che rispondevano così al voto di altrettanti fratelli italiani e che
quindi l’ordinata ritirata, nei momenti più imperiosi, avrebbe
ricoperto il nome napoletano di taccia obbobriosissima e ridotto la
reduce milizia lo scherno di tutti e in particolare dei loro
medesimi cittadini”;
successivamente il mattino del giorno 11 giugno si vide recapitare
un secondo ordine perentorio di rientro in Patria, mentre la marina
era impegnata nel blocco navale di Trieste, che era il maggior porto
austriaco, con la disposizione reale della sua sostituzione al
comando in caso di persistente rifiuto. “Soltanto una minoranza
degli ufficiali della Marina napoletani nutriva sentimenti liberali,
mentrea la più parte degli stati Maggiori e la quasi totalità degli
equipaggi erano fedeli al sovrano. Un’eventuale ulteriore
disubbidienza del de Cosa, sull’esempio di quanto aveva fatto il
Generale Guglielmo Pepe, non avrebbe avuto seguito, provocando anzi
una reazione contraria. Al vecchio ammiaglio non restò altra scelta
che piegarsi al volere di Ferdinando II e di dare l’ordine di
partenza. Nella notte del 12 giugno lasciarono il golfo di Trieste ”
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Guglielmo Pepe |
Ma la
guerra continuava, gli austriaci ripresero in mano il comando delle
operazioni e così seguì la sconfitta piemontese di Custoza (23
luglio). Carlo Alberto si ritirò a Milano dove fu assediato dai
milanesi nel palazzo in cui soggiornava, fatto segno di grida
“Traditore!” e colpi d’arma da fuoco, per cui, mestamente e protetto
dall’oscurità della notte, ritornò a Torino. Fu siglato un
armistizio nel quale, però, non si faceva nessun cenno al Granducato
di Toscana, i cui uomini avevano combattuto fino all’ultimo con i
piemontesi e la cui integrità territoriale era quindi in balia
dell’Austria vincitrice, questa fu un’ulteriore riprova che Carlo
Alberto considerava questo primo conflitto contro lo straniero solo
come una guerra dinastica, gli altri italiani servivano solo per i
suoi scopi egoistici. Radetzky rientrò a Milano accolto da grida di
“Evviva” della festante popolazione; l’anno successivo, alla ripresa
delle ostilità, ci fu la definitiva sconfitta piemontese di Novara
(3 marzo 1849). Scrisse Gramsci nell’opera “Il Risorgimento”: “La
politica incerta, ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei
partiti di destra piemontesi fu la cagione della sconfitta; essi
furono di una astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi
degli eserciti degli altri stati Italiani, napoletani e romani, per
aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non
una confederazione italiana; essi non favorirono ma osteggiarono il
movimento dei volontari…pensando di poter vincere gli Austriaci con
le sole forze regolari piemontesi [e non si capisce come potessero
avere una tale presunzione], o avrebbero voluti essere aiutati a
titolo gratuito [e anche qui non si capisce come politici seri
potessero pretendere un tale assurdo]“;
gli avvenimenti del 1848 causarono, quindi, il fallimento dell’
ipotesi monarchico-federalista del Gioberti.
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Antonio Gramsci |
La prima
guerra di indipendenza fu l’unica che riuscì a creare la
partecipazione fattiva, pur tra mille perplessità e diffidenze, di
tutte le principali realtà statali italiane; il suo fallimento fece
perdere, per sempre, l’opportunità di un’unità nazionale che
garantisse, allo stesso tempo, le secolari autonomie delle realtà
statali italiane: fu un fatto molto grave e la causa principale
della “mala unità” a guida piemontese che le soppresse con la forza.
Le cause
principali del fallimento vanno ascritte, in primis, all’egoismo del
re piemontese e, contemporaneamente, alla rivolta antimonarchica
napoletana del 15 maggio che impedì lo sviluppo di istituzioni
rapresentative nel Sud che, per primo, le aveva ricevute. La
storiografia ufficiale ha, invece, messo in secondo piano la
furbizia e l’opportunismo di Carlo Alberto, bollando Ferdinando II
come il principale responsabile della disfatta. Questo, a noi,
sembra ingeneroso e non avvalorato dai fatti, che abbiamo già
narrati: la sua dichiarazione di guerra all’Austria, l’adesione alla
lega politica italiana con l’invio dei delegati meridionali a Roma,
il tentativo reale del 15 maggio 1848 di mediare con i rivoltosi del
neonato Parlamento meridionale, pur di far partire l’esperimento
costituzionale. Ci si deve chiedere cosa altro avrebbe fatto un
qualsiasi sovrano, messo nell’angolo dalle barricate erette nella
sua Capitale e, contemporaneamente, dalla rivolta indipendentistica
di una parte dei suoi domini (la Sicilia, in questo caso). Ci si
deve anche chiedere, cosa sarebbe potuto accadere senza le
meschinità piemontesi e l’irresponsabilità dei liberali meridionali,
a noi sembra ovvio che che la lega politica italiana si sarebbe
consolidata, anche in virtù di una probabilissima vittoria militare
sull’Austria degli eserciti e delle marine federate italiane,
generando uno stato nazionale unitario che avrebbe, nel tempo che
necessitava, maturato una vera coscienza nazionale popolare, che
andasse al di là del pensiero di pochi . Ma queste sono solo
congetture di nessun valore storico.
Fallita
l’ipotesi monarchico federalista, restavano teoricamente in campo le
due ipotesi repubblicane, quella centralistica di Mazzini e quella
federale di Cattaneo, ma esse erano quasi impossibili da realizzare
nell’Europa di quei tempi in cui l’istituto monarchico era la regola
ed era amato dal popolo (costituito per il 70% dai contadini); alla
fine del processo unitario guidato dai Savoia, Cattaneo, pur se
eletto successivamente per tre volte al Parlamento del regno
d’Italia, coerentemente rifiutò l’incarico per non giurare fedeltà
al Re; Mazzini, a sua volta, si chiuse sempre più in se stesso e
morì isolato da tutti; egli aveva affrontato solo il problema
dell’unità nazionale e della cacciata dello straniero senza
elaborare progetti atti a risolvere le esigenze pratiche del popolo
italiano: la questione contadina, la depressione economica,
l’analfabetismo; il solco con le classi inferiori, che però erano la
schiacciante maggioranza, rimase incolmabile per cui i numerosi moti
da lui suscitati non ebbero mai nessun seguito popolare e con essi
fallì il progetto repubblicano-centralistico.
Per tutti
questi motivi rimase in piedi solo il programma
monarchico-centralista dei Savoia che ebbe in Cavour un formidabile
esecutore, lo stesso Garibaldi scrisse il 26 febbraio 1854 a
Giuseppe Mazzini: “… appoggiarci al governo piemontese è un pò duro,
io lo capisco, ma lo credo il miglior partito, e amalgamare a quel
centro tutti i differenti colori che ci dividono; comunque avvenga,
a qualunque costo… gli Inglesi unici che ponno tollerare una nazione
italiana, e appoggiarci, quando loro convenga, sono del mio parere,
e voi lo sapete”;
nacque così la formula “Italia e Vittorio Emanuele”. La classe
politica piemontese si atteggiò a punto di riferimento per il
movimento liberale con il quale ostentava un ruolo di “supremazia
politica“ del regno di Sardegna rispetto agli altri stati italiani
in quanto in esso, contrariamente che altrove, era stato mantenuta
in vigore la Costituzione anche dopo gli sconvolgimenti del 1848-49.
Enorme la differenza tra i fatti di Napoli, già descritti, e il
comportamento pacato e responsabile dei torinesi che accolsero con
soddisfazione e curiosità l’esperimento costituzionale senza dar
vita a provocazioni ed intimidazioni di piazza che potessero
scatenare la reazione di Carlo Alberto. Nel Piemonte, a differenza
delle Due Sicilie, la borghesia si affiancava alla nobiltà, dedita
anch’essa agli affari e che non viveva solo di rendita come nel Sud
d’Italia, nel servire fedelmente la monarchia; l’aristocrazia
prevaleva ma non aveva il monopolio delle cariche: logica
conseguenza di queste premesse fu il rafforzamento del sistema
parlamentare. A Napoli, invece, già culla dell’Illuminismo italiano,
era tutto l’opposto, come già ben dimostrato dagli avvenimenti del
1799 della Repubblica Napoletana, essa era stata fatta proprio dai
nobili e dai borghesi napoletani contro il re e il popolo; quest’ultimo
era, quindi, l’unico che appoggiava, senza riserve, la monarchia
meridionale; la politica amalgamatrice dei Borboni non era riuscita,
dal 1815 al 1848, a sopire gli ideali repubblicani dei liberali
meridionali, tanto che la stessa Carboneria nacque e prosperò
soprattutto al Sud d’Italia.
In realtà
lo Statuto Albertino non era una costituzione più avanzata di altre,
prevedeva, all’articolo 5 :“Al Re solo appartiene il potere
esecutivo” e all’articolo 65 “Il Re nomina e revoca i ministri”, da
ciò ne derivò una debolezza congenita dei premier che si
susseguirono a ritmo serrato fino alla fine dell’epoca liberale nel
1922; inoltre l’estensione dei diritti politici ai cittadini era
limitatissima (gli aventi diritto al voto erano un’esigua
minoranza), scarsissima la centralità legislativa del parlamento
tanto è vero che dall’ascesa al potere di Cavour (4 novembre 1852)
all’apertura del primo parlamento unitario (18 febbraio 1861) , su
3000 giorni disponibili per il dibattimento la Camera fu chiusa per
ben 2145 e questo fu “costituzionalmente “ possibile grazie agli
articoli dello Statuto.
Comunque sia, lo stato sabaudo divenne il polo d’attrazione per
tutti gli esuli politici d’Italia, il cui numero raggiunse alla
vigilia dell’unità un massimo di 50mila persone, essi furono
“cooptati dalla classe dirigente subalpina, arrivando ad occupare
posti di rilievo nell’Università, nell’editoria, nel giornalismo,
nel parlamento, senza risparmiare l’esercito…numerosi gli ufficiali
integrati nell’esercito sardo…un quarto dell’organico complessivo“.
“Torino diventa la Mecca degli italiani e in particolare di una
colonia di napoletani …saranno loro l’officina ideologica dello
statalismo piemontese, esteso poi, come in una guerra coloniale, a
tutta la penisola assoggettata con le armi. È il caso di Beltrando e
Silvio Spaventa, Pasquale Stanislao Mancini, Francesco de Sanctis,
Ruggero Borghi, Angelo e Camillo De Meis, i quali avranno un ruolo
di primo piano nella conquista sabauda”.
Gli esuli ricevevano dei sussidi dal governo piemontese ma per essi
il prezzo da pagare per queste “attenzioni” fu altissimo: abbandono
degli ideali repubblicani o federalisti e adesione al processo
unitario monarchico-centralista sotto la guida dei Savoia; così,
sulle ceneri delle precedenti associazioni con vari orientamenti
programmatici, nacque il 1° agosto 1857 la “Società Nazionale” con
segretario il siciliano Giuseppe La Farina, essa raggruppò i nomi
più importanti del movimento unitario (Manin, Montanelli, Depretis,
Bastogi, Visconti Venosta, Garibaldi, Verdi, Pallavicino Trivulzio),
tutte le pregiudiziali repubblicane e federaliste vennero messe da
parte e si rinsaldò l’alleanza con Cavour; quest’ultimo
ufficialmente negava ogni rapporto con i “rivoluzionari” ma, in
realtà, li finanziava e se ne serviva per destabilizzare, con
sommosse ed attentati, gli altri Stati italiani, tutto questo in
funzione del suo progetto espansionistico di annessioni forzate al
Piemonte.
Il
Risorgimento perse in questo modo la gran parte della sua idealità e
dello spirito democratico avendo come misero risultato finale il
mantenimento dell’istituto monarchico e il progressivo
“allargamento” del Piemonte con l’abbattimento delle frontiere
interne. “Anche un innamorato del Risorgimento come Giovanni
Spadolini non nascose che, accanto alle luminarie patriottiche si
trovavano le ombre di questioni rimaste insolute: “Quella dei Savoia
- scrisse - era una dinastia ambiziosa ed intraprendente all’estero,
retrograda e conservatrice all’interno. Più astuta che geniale. Più
fortunata che gloriosa. Più abile che audace. Una sola meta:
estendere lo Stato sabaudo verso est e cioè verso le pingui pianure
lombarde. Il Risorgimento era stato troncato a mezzo delle sue
aspirazioni…..i Savoia sono rimasti gli stessi, utilitari ed
esclusivisti piemontesi di prima e hanno tentato di piemontizzare
l’Italia, appoggiandosi alla sua ottusa e superba consorteria
militare e accaparrandosi con concessioni e compromessi i diversi ed
eterogenei partiti politici, espressioni più di clientele che di
popolo”
Aggiunge
Gigi Di Fiore :”
La tendenza dei Savoia fu sempre quella, a partire da Vittorio
Emanuele II, di far identificare la Nazione con la dinastia e non
viceversa. Mai furono rinnegate le radici piemontesi tanto che il re
cercava di stare il meno possibile a Roma, fuggendo, quando poteva a
Torino. La festa nazionale, collegata alla concessione dello Statuto
albertino, la bandiera con al centro lo stemma di casa
Savoia…….erano tutti segni esteriori che contribuivano
all’identificazione dell’Italia con la casa regnante….a questi vanno
aggiunti la fedeltà giurata dai militari prima al re e poi alla
Nazione, nonché il grido di battaglia che accompagnò per anni i
soldati italiani “Savoia!”. Evidente identificazione del sacrificio
militare con la monarchia.”
Giuseppe Ressa
Note
[1] anche
Giuseppe Verdi lo omaggiò scrivendo “La Patria, Inno
nazionale a Ferdinando II di Borbone“, spartito e testo
pubblicati dall’editore Giraud nel 1848, entrambi
disponibili negli archivi del Conservatorio San Pietro a
Maiella di Napoli.
[11] da Acton,
Gli ultimi borboni di Napoli, Giunti, pag. 263
[12] Citazioni
tratte da Antonio Zezon, Tipi militari ecc ecc, Napoli 1850,
ristampato da Bideri, 1970, pag. XVI
[13] citato da
Federico Curato, op. cit. pag. 105
[14] Lamberto
Radogna, Soria della Marina militare delle Due Sicilie,
Mursia, 1978, pag. 121
[15] Lamberto
Radogna, op. cit., pag. 122
[16] citato da
Francesco Maria Agnoli, “L’epoca delle rivoluzioni“, Il
Cerchio iniziative editoriali, 1999, pag.58
[17] Francesco
Pappalardo, op. cit. pag. 131
[18]
- [19] Roberto
Martucci, “L’invenzione dell’Italia unita“, Sansoni 1999
[20] Angelo
Socci, La dittatura anticattolica, Sugarco 2004, pag.105
[22] I vinti
del Risorgimento, UTET 2004, pag. 266
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