Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
Nel Settecento, sotto l’impulso dei sovrani
meridionali che ne incentivarono fattivamente lo
sviluppo, si assistette alla rinascita culturale
delle Due Sicilie; il rigoglioso fiorire di studi
filosofici, giuridici e scientifici si fregiò di
illustri personalità le cui opere furono tradotte in
diverse lingue, solo per citarne alcuni ricordiamo:
Giovanbattista Vico, considerato una delle più
grandi menti di tutti i tempi,
Gaetano Filangieri, la cui “Scienza della
legislazione” era tenuta sulla sua scrivania da
Napoleone Bonaparte che non esitò a dichiarare
“Questo giovane è stato il maestro di tutti noi”
;
Antonio Genovesi,
Ferdinando Galiani,
Giacomo Della Porta,
Pietro Giannone,
Mario Pagano.
|
Il Teatro di San Carlo |
Napoli era il centro di pensiero più vivace d’Italia
e in Europa era seconda solo a Parigi per la
diffusione delle idee dell’Illuminismo;
lo splendore della Corte e della società napoletana
era proverbiale ed erano poli di attrazione per le
più importanti menti dell’epoca che spesso vi
rimanevano a lungo; geni assoluti come Goethe
riconobbero nelle classi elevate meridionali una
preparazione non comune. Ebbe a dire Stendhal: “Napoli
è l’unica capitale d’Italia, tutte le altre grandi
città sono delle Lione rafforzate“; era di gran
lunga la più grande d’Italia e tra le prime quattro
d’Europa, fu definita come: "la città più allegra
del mondo, scintillante di carrozze, quasi non
riesco a distinguerla da Broadway, la vera libertà
consiste nell’essere liberi dagli affanni ed il
popolo pare veramente aver concluso un armistizio
con l’ansia e suoi derivati”
Il Regno vantava
quattro università: quella
di Napoli, fondata da Federico II nel
1224,
quelle di Messina e Catania, rinnovate dai Borbone e
la neonata università di Palermo; a Milano la prima
università, il Politecnico, fu fondata solo nel 1863
ed il primo ingegnere si laureò nel 1870; al tempo
della nascita dello Stato italiano,
il numero
degli studenti meridionali era maggiore di quello di
tutte le università italiane messe assieme (9 mila
su complessivi 16mila).
A Napoli furono istituite la
Prima
cattedra universitaria al mondo di Economia Politica con Antonio
Genovesi (1754), “Napoletana fu la prima clinica
ortopedica d’Italia prima dell’unità, napoletani
furono i migliori ospedali militari che potesse
vantare l’Europa; napoletano fu quell’atto
rivoluzionario nella storia della psichiatria, che
vide, per la prima volta in Europa, togliere
nell’ospedale psichiatrico di Aversa, i ceppi ai
dementi”
;
notevole era l’Orto botanico che forniva le erbe
mediche alla Facoltà di Medicina; nella facoltà di
Giurisprudenza nacquero l‘Istituto della
Motivazione delle Sentenze (Gaetano Filangieri,
1774), il primo Codice Marittimo Italiano ed il
primo Codice Militare. I giornali milanesi erano
ancora fogli di provincia, mentre quelli napoletani
facevano e disfacevano i governi;
le case
editrici napoletane pubblicavano il 55% di tutti
libri editi in Italia
;
il Real Ufficio Topografico dell’Esercito realizzò
delle accuratissime carte topografiche sia marittime
che terrestri.
Fu fondato
l’Osservatorio Sismologico Vesuviano (1° nel mondo),
realizzato dal fisico Macedonio Melloni e sviluppato
da Luigi Palmiericon annessa stazione meteorologica.
Palermo divenne famosa per la presenza
dell’astronomo Giuseppe Piazzi (curatore
dell’Osservatorio astronomico fondato nel 1801 e scopritore del primo asteroide battezzato
“Cerere Ferdinandea“), per il suo Orto Botanico e
per la nascita, ad opera del Barone Pisani e sotto
il patrocinio dei Borbone, del primo manicomio in
Europa, “La real casa dei Matti” dove i
malati di mente erano separati dagli altri degenti e
erano trattati umanamente e non più segregati come
bestie furiose.
Furono aperte: Biblioteche, Accademie Culturali (la
più famosa l’Ercolanense, fondata nel 1755) il
Gabinetto di Fisica del Re ed erano organizzati
frequenti Congressi Scientifici.
Per quanto riguarda
la musica: “Fino al
settecento l’Italia era vista da tutti i musicisti
europei con un particolare atteggiamento di
rispetto, in Italia, nel Seicento, era nata l’opera
che nel corso degli anni aveva conquistato tutti i
più grandi teatri; operisti italiani componevano
presso tutte le corti d’Europa e gli stessi
musicisti stranieri scrivevano opere in lingua
italiana, tanto si identificava allora il melodramma
col paese che ne era stato la culla. Non molto
diversa era la situazione per la musica strumentale,
i conservatori e le accademie italiane erano i più
celebri in assoluto e un musicista non poteva
affermare di possedere una preparazione completa
senza aver compiuto un viaggio d’istruzione in
Italia …la penisola era considerata quasi una terra
promessa per ogni compositore”
e Napoli era
considerata la Regina mondiale dell’Opera.
|
Giovanni Paisiello |
Basta ricordare che il
teatro San Carlo è
il più
antico teatro lirico d'Europa, fu
inaugurato il 4.11.1737 dopo soli 8 mesi dall'inizio
della sua costruzione, ben 41 anni prima del teatro
della Scala di Milano e 51 anni prima della Fenice
di Venezia; non ha mai sospeso le sue stagioni,
tranne che nel biennio 1874-76, a causa della grave
recessione economica di quegli anni e conseguente
sospensione dei contributi , ma siamo già nel regno
d'Italia. Subì un grave incendio nel 1816 e fu
ricostruito in soli dieci mesi. Anche se non tutti i
re Borbone amavano la lirica furono senz’altro dei
grandi mecenate tanto che il teatro San Carlo
attrasse l'attenzione di tutta la società colta
europea, colpita dalla creatività della Scuola
musicale napoletana, sia nel campo dell'opera buffa
che di quella seria, basti ricordare i nomi di:
Alessandro Scarlatti, Nicolò Porpora, G. Battista
Pergolesi,
Nicola Piccinni, Saverio Mercadante,
Domenico Cimarosa, Enrico Petrella, Giovanni
Paisiello (autore quest’ultimo, nel 1787, su
commissione di Ferdinando IV, dell’ “Inno
Nazionale delle Due Sicilie”); tra i grandi
compositori italiani basta ricordare la triade
Rossini-Bellini-Donizetti che fiorì nel
Conservatorio di Napoli; la città partenopea era
guardata come culmine della loro carriera musicisti
del livello di Bach e Gluck. Il teatro S.Carlo
divide con
la Scala di Milano
il primato della più antica
scuola di ballo italiana, mentre è nel 1816 che
vi nasce la scuola di scenografia diretta da Antonio
Niccolini. "Vuoi tu sapere se qualche scintilla
di vero fuoco brucia in te? Corri, vola a Napoli ad
ascoltare i capolavori di
Leonardo Leo, Durante,
Jommelli, Pergolesi. Se i tuoi occhi si inumidiranno di
lacrime, se sentirai soffocarti dall'emozione, non
frenare i palpiti del tuo cuore: prendi il
Metastasio e mettiti al lavoro il suo genio
illuminerà il tuo"
.
Teatri lirici erano presenti nelle altre parti del
regno, solo
la Calabria
ne aveva quattro. I conservatori musicali (quello
di S. Pietro a Majella era considerato il più
prestigioso del mondo), l’Accademia Filarmonica
e
la Scuola Musicale
Napoletana erano i massimi riferimenti per gli
artisti dell’epoca;
la Canzone Napoletana
a Piedigrotta (“Te voglio bene assaje”, “Luisella”,
“Santa Lucia”, “Tarantella”) si diffuse in tutto il
mondo.
A Napoli, ogni sera, erano aperti una quindicina
di teatri [che erano diffusi anche nelle altre
parti del regno] mentre a Milano non tutte le
sere c’era un teatro aperto
I lavoratori del mondo dello spettacolo
erano tutelati anche dal punto di vista
previdenziale “Gli interventi a tutela dei
lavoratori dello spettacolo risalgono, anche se
erogati in forma ridotta e frammentaria, a periodi
molto lontani. Già nel 1821, con un Regolamento
approvato dal Real Rescritto fu istituita a Napoli,
nel Regno delle due Sicilie, una Cassa delle
pensioni e sovvenzioni dei professori giubilati
addetti ai reali teatri. Le entrate della Cassa
derivavano da contribuzioni versate dal personale,
dai proventi delle multe ad essi inflitte, da
sovvenzioni dello Stato e dall'incasso di due serate
di beneficio del Real Teatro San Carlo. Le
prestazioni erogate dalla Cassa consistevano in un
trattamento di giubilazione (pensione) anche
reversibile alle vedove dei dipendenti, in
sovvenzioni una tantum alle famiglie dei dipendenti
deceduti prima di aver maturato l'anzianità minima
richiesta per l'accesso al trattamento di
giubilazione, in sovvenzioni agli artisti divenuti
inabili prima di avere maturato dieci anni di
servizio e, infine, nell'assistenza medica gratuita”.
Molto vivace era anche il mondo dell’arte: Napoli
pullulava di pittori, scultori, studenti d’arte, la
Corte giocava il ruolo di mecenate, commissionando
opere e sovvenzionando mostre; ricordiamo:
la Scuola
pittorica di Posillipo (Gigante,
Smargiassi, Vianelli,
Fergola,
Palizzi), le formidabili
testimonianze architettoniche come i Palazzi reali (Reggia
di Napoli, Portici e
Caserta;
Palazzina Cinese e
Ficuzza a Palermo), il
Casino del Fusaro, l’acquedotto Carolino, la
masseria il Carditello,
S. Leucio.
Grande l’interesse per l’archeologia con
l’avvio degli scavi di
Ercolano e
Pompei,
iniziati
nel 1738 per volere del primo re Borbone Carlo III,
dopo un ritrovamento durante i lavori di restauro di
una cisterna di un casale, “Da due secoli intorno al
nome di Ercolano e Pompei (scoperta nel 1748) è
prosperato un mito che sedusse contemporanei e
quanti altri, nel prosieguo del tempo, si spinsero
all’ombra dello “sterminator Vesuvio”….si può
ben dire che la scoperta di Ercolano e Pompei non si
limitò a rivoluzionare l’archeologia e la storia del
mondo antico, ma segnò in modo indelebile anche la
civiltà europea. Non ci fu intellettuale, erudito,
scrittore o artista che non sentisse il fascino di
quel che stava rendendo al mondo il ventre del
Vesuvio…De Brosses, Goethe, Melville, Mark Twain… fu
una vera e propria frenesia… da quel fuoco nacque
nell’Europa dei Lumi quella che si indica come
civiltà neoclassica: così come la scoperta dalla
Domus Aurea era nato il Rinascimento……le vestigia
che venivano alla luce vennero sistemate alla meglio
nella nuova Villa Reale di Portici e più tardi
trasferite, in solenne corteo, a Napoli nel
Museo Archeologico”
(oggi Museo Nazionale); fu istituita l’Officina
dei Papiri, un laboratorio che si occupava del
recupero e restauro dei reperti provenienti dagli
scavi d’Ercolano “. Re Carlo III già nel 1755 aveva
emanato un bando in cui si prescriveva la tutela del
patrimonio artistico delle Due Sicilie che prevedeva
anche pene detentive per chi esportava o vendeva
materiale d’epoca; esso fu rinnovato da Ferdinando I
nel 1766, nel 1769 e nel 1822; nel 1839 Ferdinando
II nominava una “Commissione di Antichità e Belle
Arti” per la tutela e la conservazione dei beni.
Di segno
opposto, rispetto ai fasti dell’arte, della
scienza e della cultura di grado superiore, era la
situazione riguardo
l’istruzione
di massa. C’è da dire che,
all’epoca, la sua utilità non era condivisa da
tutti, anzi, era molto forte la corrente di pensiero
che la negava; molteplici, poi, sono i fattori di
cui dobbiamo tener conto per farci un giudizio
obiettivo circa la scarsa alfabetizzazione nel regno
delle Due Sicilie.
Semplificando, possiamo considerare tre aspetti:
1) Nella realtà
economico sociale del tempo prevaleva l’agricoltura
e la classe dei contadini, i quali vedevano nella
loro numerosa prole più delle “braccia da lavoro”
che dei potenziali studenti; anche le nascenti
attività industriali, commerciali e artigianali non
necessariamente richiedevano mano d’opera
alfabetizzata.
2) Il ceto
intellettuale meridionale e anche quello borghese
erano decisamente contrari all’istruzione di massa e
questo convincimento veniva espresso anche da parte
dei loro rappresentanti più riformisti, essi
rilevavano che “le popolazioni non devono essere
composte tutte da scienziati, altrimenti le arti di
prima necessità non verrebbero in alcun guisa
esercitate e mancherebbe quella diversità di
mestieri, e di professioni, che unisce gli uomini
col vincolo dè comuni bisogni, e costituisce
l’ordine della società”
3) La parte politica più reazionaria
guardava con sospetto l’allargamento della base di
cittadini istruiti e consapevoli, temendo
sconvolgimenti dell’ordine costituito.
Comunque sia, nel regno delle Due Sicilie già dal
1768, molto prima quindi della Rivoluzione Francese,
re Ferdinando stabilì che ci fosse una scuola
gratuita per ogni comune del regno aperta ad
entrambi i sessi, impose anche che le case religiose
tenessero scuole, anch’esse gratuite, per i bambini.
Nel 1818
la Commissione Suprema
della Pubblica Istruzione confermò l’istituzione
della scuola primaria gratuita il cui onere veniva
demandato ai singoli comuni. Queste lodevoli
iniziative del potere centrale si scontrarono, nella
realtà, con l’incuria degli enti locali, per cui,
quando c’era da risparmiare sul bilancio comunale,
spesso le prime spese che subivano dei tagli erano
quelle per l’istruzione obbligatoria; colpevolmente
scarso era il controllo su queste manchevolezze, da
parte dell’intendente (una specie di governatore
locale).
In questo modo, il 10 giugno 1861, il letterato Luigi Settembrini, portava a
conoscenza i risultati di una sua indagine nella
quale si rilevava che “Su 3094 comuni e borgate
obbligate dalle leggi borboniche a provvedere
all’istruzione popolare, ben 1084 mancavano di ogni
insegnamento, 920 mancavano di scuola femminile, 21
della maschile, così solo 999 erano i comuni e
borgate in regola con la legge. Gli alunni, maschi e
femmine, erano appena
67.431”. Sul totale della
popolazione solo il 10% era alfabetizzata, questo dato
era il
peggiore di tutti gli stati preunitari.
La scuola elementare era divisa in due corsi di due
anni ciascuno, nel primo si imparava a leggere,
scrivere e a svolgere le quattro operazioni
aritmetiche, nel secondo (che era facoltativo) si
leggevano dei testi semplici e si sviluppavano le
nozioni di matematica; l’ordine degli studi
prevedeva, poi, la scuola di secondo grado
(l’odierna scuola media), una di terzo grado
(l’attuale liceo: ne esistevano 14, nel 1859, in
tutto il regno, con 233 cattedre) e, infine, una di
quarto grado che equivaleva all’Università.
Per quanto riguarda il personale docente delle
scuole elementari c’è da rilevare che il livello
dello stipendio non solo era molto basso ma variava
da luogo a luogo; a Napoli il compenso annuale di un
muratore, uguale a quello di un fabbro o di un
falegname, si aggirava attorno ai 100 ducati, mentre
quello dei maestri era meno di 60; facendo opportuni
calcoli basati sulle necessità di mantenimento di
una famiglia di cinque persone e cioè “un fuoco”
(era così chiamato un nucleo famigliare medio), pur
considerando il bassissimo costo della vita nel
meridione d’Italia, un insegnante poteva a malapena
arrivare a sostenere la famiglia per metà dell’anno.
Per questi motivi i docenti erano costretti ad
arrotondare il misero stipendio statale con
l’insegnamento privato (che rimase diffusissimo
nelle classi abbienti delle Due Sicilie) o
addirittura con i mestieri più disparati. Non vi è
dubbio che questo confermava la scarsa
considerazione in cui era tenuta la figura del
maestro (questa cattiva abitudine proseguirà in
tutto l’Ottocento e, secondo alcuni, fino ai giorni
nostri). In verità la prassi di retribuire poco i
docenti era molto diffusa, e persino l’Austria, che
spendeva per l’istruzione più di tutti gli stati
europei, assegnava ad un insegnante uno stipendio
pari a quello di un bracciante agricolo, equivalente
addirittura a un terzo di quello di un impiegato
pubblico.
Dobbiamo, poi, rimarcare il processo di progressiva
clericalizzazione dell’insegnamento per cui
si passò da uno essenzialmente laico del Settecento,
sottratto ai gesuiti che furono espulsi dal regno
nel 1767, ad uno che trovò la sua massima
espressione nel decreto del 10 gennaio 1843
che delegava agli
arcivescovi e i vescovi i compiti di ispettorato
scolastico delle scuole di ogni ordine e grado,
l’opera educativa veniva così subordinata
all’obiettivo di diffondere il catechismo e
difendere la dottrina cristiana. Ferdinando II,
nelle sue intenzioni, voleva riproporre, in pieno
Ottocento, un’alleanza tra il trono e l’altare, per
cui se un’alfabetizzazione ci doveva pur essere, si
dessero le sue redini alla Chiesa che poteva così
esercitare un controllo sulla coscienza delle masse,
con l’obiettivo di consolidare l’ordine costituito. Il
clero, comunque, si adoperò per aprire anche scuole
serali e festive per i figli dei contadini e degli
artigiani che non potevano frequentare la scuola
pubblica nei giorni feriali; alcuni videro
addirittura un vantaggio in questa clericalizzazione
della scuola, a causa del risparmio che così si
otteneva per le casse dello Stato.
C’è, infine, da sottolineare il controllo politico
che si esercitava sugli studenti universitari, che
erano quelli potenzialmente più in grado di
suscitare torbidi rivoluzionari; la loro frequenza
agli studi non era scoraggiata tanto dal livello
delle tasse, relativamente basso per l’epoca, o dal
controllo clericale sull’insegnamento e sulla
disciplina, quanto dalla sorveglianza poliziesca.
Il real scritto del 5 marzo 1856 prescriveva che “Ogni studente nei quindici
giorni del suo arrivo a Napoli dovesse presentarsi a
una speciale commissione di vigilanza per dichiarare
il suo nome, la patria, l’età, gli studi, l’abilità,
la congregazione di spirito a cui egli era ascritto
e così via. Gli studenti delle provincie, poi, erano
divisi per quartiere e sorvegliati dai parrochi, dà
commissari di polizia, da ispettori della pubblica
istruzione e tutti costoro dovevano informare se lo
studente coabitasse con altri suoi compagni, quali
case fosse solito frequentare, e prender nota dei
libri che egli leggeva e dell’ora in cui rincasava”
Giuseppe Ressa
J.
J. Rousseau: Dictionnaire de Musique.
Voce: génie.
|