La seconda occupazione francese |
La rottura tra Napoletani e Siciliani divenne irreversibile dopo che
in seguito alla
battaglia di Austerliz (1805), il regno di “Napoli”
fu nuovamente occupato dai francesi
e si rese
necessario un nuovo trasferimento della corte borbonica a Palermo.
Tale soggiorno durerà fino al giugno 1815 e fu, per i siciliani, più
gravoso e meno gradito e soprattutto assai travagliato.
La rottura interna del regno meridionale ebbe una duplice
motivazione, la prima dovuta alla diversa supremazia che dovette
subire: Napoli in mano alla Francia e la Sicilia sotto la
“protezione” inglese, la seconda fu merito o demerito della
costituzione del 1812, che separava definitivamente
la Sicilia da Napoli. La conflittualità siculo-partenopea si
manifestò drammaticamente alla caduta di
Napoleone,
quando in Europa si istaurò la Restaurazione. Nel Regno
meridionale non si volle semplicemente tornare a “prima del 1789” ma,
forse esaudendo un sogno utopico, mai abbandonato da Napoli, si
tornò indietro ai tempi di
Carlo I
d’Angiò: un unico Stato con Napoli capitale. Fu un errore gravissimo,
specie se visto con gli occhi dei posteri.
La casa Borbone fece nei
confronti del regno di Sicilia quello che qualche decennio dopo la
casa Savoia avrebbe fatto nei confronti delle Due Sicilie. Cancellò,
senza neanche un finto referendum, ma con un regio decreto, l’antico
regno di
Ruggero il normanno, assimilandolo a provincia del regno di
Napoli.
Il deflagrare della crisi siculo-partenopea è testimoniata
dalle rivoluzioni del 1820, del 1848 ed infine quella catastrofica,
cavalcata e vinta da Cavour per conto della casa Savoia, del 1860.
Ma torniamo indietro e cerchiamo di capire cosa succedeva in quei
primi anni dell’Ottocento.
Come abbiamo visto nei precedenti capitoli nel
Settecento i due
regni meridionali sono distinti ma convivono, utilmente, con
Carlo III e
Ferdinando III di Sicilia e IV di Napoli fino al fatidico
1799. Nell’Ottocento Napoli e Sicilia entrano in conflitto, fino a
distruggersi e a consegnarsi, inermi, al Piemonte. Perché?
Il ruolo della regina Maria Carolina |
Quando nel 1806, dopo il fallimento delle trattative con Parigi,
Londra decise di presidiare con le sue truppe la Sicilia
intendeva semplicemente assicurarsi il
controllo dell’isola per la difesa contro il
regno napoleonide di
Napoli e difendere la numerosa e ricca colonia inglese che fin dalla
seconda metà del settecento aveva fatto della Sicilia la sede di
fiorenti commerci
.
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Maria Carolina
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A Londra arrivavano notizie contrastanti e poco rassicuranti:
Maria
Carolina, mentre Ferdinando cacciava (donne e cinghiali), tramava con
mezza Europa, comprese Parigi e Napoli. Prove non ce ne furono ma
sospetti si! Specie dopo l’alleanza austro-francese (trattato di Shonbrunn del 1809) ed il matrimonio di Napoleone con la
giovanissima Maria Luisa, figlia dell’imperatore austriaco e nipote
di Maria Carolina, nonché il matrimonio di una delle sue figlie
(Maria Amelia) con il duca d’Orléans, il futuro re di Francia, Luigi
Filippo. In tutto questo la corte napoletana si comportava come un
governo in esilio, pieno di rimpianti per la patria perduta e senza
fare alcuno sforzo per ingraziarsi la nazione ospitante. Il colpo di
grazia alle residue speranze “revanchiste” arrivò con la
incoronazione di Napoleone a imperatore dei francesi.
Il conflitto tra i baroni siciliani e la corte napoletana si acuì
particolarmente durante la sessione parlamentare del gennaio 1810,
quando alla richiesta del ministro Medici di aumentare i donativi all’erario
governativo ed il contributo agli oneri militari, i baroni siciliani
contrapposero una
propria proposta che accontentava gli inglesi con un aumento, seppur
contenuto, del contributo agli oneri militari, ma rendeva
praticamente impossibile qualsiasi accordo con il re, rifiutandogli
gli aumenti. Il Medici fu costretto alle dimissioni ed il re dovette
accogliere la richiesta parlamentare di nominare un nuovo governo
costituito solo da siciliani. Carolina, pur di non darla vinta al
principe di Belmonte, capo della rivolta parlamentare, fece in modo
che venissero chiamati al governo degli uomini “fantoccio” che non
rappresentavano nessuno. Tutto ciò concorreva ad aumentare la
tensione all’interno del parlamento fino a quando re Ferdinando non
ricorse al “colpo di stato” e, aggirando la guarentigia
costituzionale secondo la quale non si potevano imporre nuove tasse
senza il consenso del parlamento, con 3 decreti, il 14 febbraio
1811, impose una serie di tasse tra le quali una che colpiva le
attività commerciali e bancarie, scontentando in un colpo solo i
commercianti inglesi e siciliani, e decretò anche la vendita di
alcuni beni ecclesiastici. Non occorre molta fantasia per immaginare
cosa successe! I baroni presentarono ricorso di illegittimità
costituzionale alla Deputazione del Regno e cinque di loro
presentarono la protesta in prima persona. Ma
Ferdinando, su suggerimento di Carolina, rispose ordinando l’arresto
immediato e l’esilio dei cinque, con l’accusa di tramare con il
principe reggente (sic!) e con la Gran Bretagna. C’è da chiedersi
chi fossero e per chi lavorassero i consiglieri del re!
La crescente tensione dei rapporti tra la corte napoletana e i
siciliani non poteva non preoccupare i responsabili della politica
inglese a Palermo. Già nel luglio del 1810, l’ambasciatore inglese a
Palermo, lord Amherst, scriveva a lord Wellesley, segretario degli
esteri “… Ho ragion di credere che in tale occasione (la
convocazione del parlamento) si manifesterà lo spirito che
attualmente anima la nazione siciliana, e che, quando i baroni
saranno riuniti le loro deliberazioni non si limiteranno solamente
agli oggetti per cui saranno convocati”.
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Il barone William
Pitt Amherst |
Lord Amherst era infatti stato contattato dai più autorevoli baroni
siciliani che chiedevano il suo appoggio per strappare al re delle
concessioni. Scopo non tanto nascosto dei suoi interlocutori,
continua lord Amherst nella sua lettera, era di ottenere per la
Sicilia una costituzione il più possibile simile a quella della Gran
Bretagna “… Annunciano l’intenzione di avanzare le loro richieste
al re per mezzo dell’organo legale, il Parlamento; ma prevedono da
parte del sovrano una opposizione che nulla varrà a vincere, se non
la mediazione dell’Inghilterra. Se Londra si rifiutasse non
avrebbero avuto altra risorsa che una ribellione, che li avrebbe
probabilmente gettati nelle braccia della Francia”. La lettera
si concludeva “…la nazione è matura per opporsi al governo.
Diventare una provincia inglese non sarebbe considerata dalla
maggior parte dei suoi abitanti una disgrazia ma un governo
indipendente ed una libera costituzione sarebbero considerati una
fortuna, il cui raggiungimento legherebbe indissolubilmente i
siciliani alla nazione che gliela procurasse”
.
Oltre agli inviti di appoggio da parte del baronaggio, Londra era
sul chi vive anche per lo strano comportamento di Ferdinando e Maria
Carolina dell’estate del 1810, quando Murat tentò di sbarcare
nell’isola. Il tentativo fu rintuzzato dalle truppe inglesi con
l’aiuto della popolazione locale, nel completo disinteresse della
corte che non prese parte neanche ai festeggiamenti che il popolo
organizzò nella capitale per il successo conseguito.
La situazione era molto delicata e tesa ed il comportamento della
corte borbonica parve a Lord Amherst tanto ambiguo da spingerlo a
dare le dimissioni denunciando all’opinione pubblica inglese i suoi
timori e suggerendo al governo di Londra un intervento diretto
dell’Inghilterra nella politica siciliana. Con Amherst si dimise
anche il generale Stuart e la questione siciliana cominciò a farsi
pressante. L’opinione pubblica Inglese era fortemente divisa tra
coloro che pretendevano l’annessione “tout court” dell’isola, coloro
che optavano per un protettorato, coloro che difendevano
l’indipendenza dell’isola e quelli che privilegiavano gli interessi
inglesi nel mediterraneo. Ci fu anche chi suggerì di abbandonare a
se stesso il regno di Sicilia.
Il governo inglese tagliò la testa al toro e di fronte al pericolo
di un asse franco-siciliano e di una invasione francese nell’isola
decise di intervenire pesantemente e di ciò incaricò Lord William
Bentinck, in qualità di plenipotenziario. Non sembrino strane la
presenza militare inglese nell’isola e le perplessità di Amherst e
di Stuart, re Ferdinando aveva sottoscritto un trattato d’alleanza
in forza del quale l’Inghilterra era presente nell’isola con truppe
di terra, di mare e con un sussidio finanziario elargito alla corte
di Ferdinando.
L'arrivo a Palermo di lord William Bentinck |
Bentinck sbarcò a Palermo il 20 luglio del 1811, proprio
all’indomani dell’arresto dei cinque baroni ribelli e un episodio
che qualche anno prima non sarebbe stato di alcun interesse se non
locale divenne un “casus” internazionale.
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Lord William Bentinck |
Palermo doveva decidere, o con gli inglesi o con la Francia. Non era
ammissibile, per Bentinck, che la corte borbonica tendesse ad una
pericolosa, per l’Inghilterra, equidistanza tra Londra e Parigi. Il
governo londinese volle tuttavia improntare il rapporto ad una certa
prudenza e decise di agire sulla corte borbonica facendo leva sulle
aspirazioni dei baroni e del popolo che nutrivano una certa simpatia
per gli inglesi per le imprese che avevano avviato nell’isola e per
il lavoro che vi avevano portato
. Si chiedevano a Re Ferdinando due cose: il
comando militare unico per le truppe borboniche e inglesi, per meglio
fronteggiare eventuali tentativi di invasione dei francesi e un
governo a maggioranza siciliano per neutralizzare il partito
filo-francese della regina Maria Carolina.
Certo viene da pensare che se re Ferdinando avesse avuto più
attenzione per la politica, e non avesse lasciato le decisioni
importanti alle velleità della regina, forse la lacerazione tra i
due regni non sarebbe avvenuta.
Per realizzare i suoi obiettivi, Bentinck chiese a Londra di poter
controllare personalmente il sussidio che l’Inghilterra passava alla
corte borbonica, con l’intenzione di usarlo come strumento di
pressione, ma Londra, inizialmente, volle evitare un intervento
diretto e limitò i poteri di Bentinck, autorizzandolo a usarli solo
in caso di estrema necessità.
Arrivato a Palermo Bentinck si trovò, come abbiamo detto, di fronte
all’arresto di cinque tra i più importanti baroni siciliani
filo-inglesi. La Corte non si era ancora resa conto di chi fosse
veramente Bentinck (“Una sorta di Lawrence D’Arabia, avant “la
lettre” come viene definito da Renda
. Un Caracciolo al cubo, per intenderci!), e
rispose con un altezzoso diniego alle richieste di Bentinck. A onor
del vero il Medici aveva cercato di moderare l’atteggiamento delle
loro maestà, ma non aveva più voce in capitolo.
L’inglese non protestò nemmeno, ripartì subito per Londra dove,
esposta la situazione, ottenne ampia libertà d’azione, compreso
l’uso delle armi con l’unico impegno di mantenere i Borbone sul
trono di Sicilia, a costo di deporre Ferdinando e mettere al suo
posto il principe ereditario.
Quando Bentinck fece ritorno a Palermo, il 7 dicembre, la Regina e i
suoi consiglieri erano ancora indecisi sul da farsi: se acconsentire
alle richieste di Bentinck e liberare i baroni, o opporre un netto
rifiuto con la conseguenza di sottrarsi all’influenza di Londra e
affidarsi alla Russia.
Appena arrivato Bentinck per prima cosa sospese il pagamento del
sussidio alla corona e impose l’accettazione delle condizioni
inglesi. I reali rifiutarono e poco mancò che si passasse alle armi.
Per fortuna ci fu un incontro privato tra Bentinck e Francesco, il
principe ereditario, durante il quale l’inglese chiarì al principe i
punti fondamentali del suo mandato che qui di seguito riassumiamo
dalla relazione scritta che Francesco Borbone fece alle loro maestà:
1- Che il governo britannico non voleva né occupare la Sicilia
con le armi né diminuire il prestigio e l’autorità della famiglia
Reale né disconoscere i diritti della stessa sui domini perduti nel
continente.…
2- La Gran Bretagna avrebbe appoggiato i baroni limitatamente
all’accoglimento delle giuste rivendicazioni, che erano quelle che
la Sicilia fosse governata da siciliani a tenore di una nuova
costituzione . Qualora invece i baroni avessero tentato di abusare
del loro nuovo potere per mettere in pericolo i diritti della
famiglia reale, egli, Bentinck, li avrebbe impiccati …
3- Il Bentinck personalmente non credeva che la regina avesse
tradito l’alleanza entrando in corrispondenza coi francesi; ma la
condotta della sovrana meritava critiche e censure di ordine
diverso, che, per altro, investivano tutta la politica del governo
reale. …l’unico modo di dissipare qualsiasi equivoco era quello di
cambiare sistema di governo, ciò avrebbe creato un nuovo clima di
reciproca fiducia .
Francesco viene nominato Vicario del Regno |
Anche dopo questo incontro Ferdinando e Carolina rimasero
irremovibili. In realtà non volevano perdere la faccia, infatti il
re nominò suo vicario il principe Francesco e si ritirò al bosco
della Ficuzza, mentre la regina riparava a Castelvetrano. Nonostante
i poteri di Francesco fossero incompleti (il re aveva trattenuto per
sé la politica estera e il comando militare) il principe e lord
Bentinck si misero al lavoro e convocarono il Parlamento di rito
feudale perché in seduta costituente si scrivesse ed approvasse la
nuova costituzione del Regno di Sicilia.
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Francesco di Borbone, ritratto con la famiglia
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Francesco in verità avrebbe preferito una Costituzione “octrouayéè”
cioè promulgata bella e fatta e graziosamente concessa dal sovrano,
ma Bentinck lo convinse che una costituzione discussa e approvata da
un’assemblea costituente, come stavano facendo a Cadige in Spagna,
avrebbe avuto maggior peso in campo internazionale. Il 18 luglio si
apriva pertanto la sessione del Parlamento e iniziarono i lavori.
Lord Bentinck si tenne diplomaticamente in disparte durante
l’elaborazione della carta costituzionale e quella che ne venne
fuori fu una costituzione solo in apparenza fedele a quella inglese,
in realtà, come ben capì il Medici, nella costituzione siciliana si
celava, sebbene in chiave moderna, il regno feudale di
Federico III
d’Aragona! Il Medici si premurò di avvisare Francesco che chiese
l’intervento di Bentinck a garanzia che la costituzione siciliana
fosse ispirata a quella Inglese. Il Bentinck non si fece pregare,
facendo capire ai baroni che non sarebbe stato tenero se non si
fossero attenuti al modello inglese.
Con l’aiuto di Dio e soprattutto degli inglesi finalmente, il 10
agosto 1812, la costituzione venne approvata! Il primo effetto fu la
fine del feudalesimo siciliano, feudalesimo che a Napoli era stato
abolito qualche mese prima da Murat. C’era una differenza però tra
le due abolizioni: Murat non tenne a salvaguardare gli interessi e i
privilegi dei feudatari, il Parlamento siciliano, visto che erano
stati gli stessi feudatari a scrivere la costituzione, ebbe cura di
salvaguardare interessi e privilegi. In pratica i loro feudi, che
fino ad allora avevano posseduto jure feudalis e come tali
soggetti agli usi civici delle popolazioni vassalle, divennero
proprietà privata degli ex feudatari con, in pratica, l’abolizione
degli usi civici senza pagare alcun indennizzo e con il conseguente
impoverimento delle popolazioni vassalle. Il demanio feudale divenne
proprietà privata gratuitamente! Non lo possiamo chiamare furto
perché i baroni applicarono una norma costituzionale seppur da loro
stessi elaborata scritta ed approvata!
La Costituzione prevedeva anche la libertà di stampa, di parola, di
associazione, ecc
ma l’articolo di fondamentale importanza è il § 17. VIII, relativo alla
successione al trono, che prevedeva la separazione del regno di Sicilia dal regno di
Napoli e che così recitava “Se il Re di Sicilia riacquisterà il
regno di Napoli o acquisterà qualunque altro regno, dovrà mandarvi a
regnare il suo figlio primogenito o lasciare detto suo figlio in
Sicilia con cedergli il regno, dichiarandosi da oggi innanzi il
regno di Sicilia indipendente da quello di Napoli e da qualunque
altro regno o provincia. [Placet
per l’indipendenza; per tutto il dippiù resta a stabilirsi dal Re e
dal suo primogenito alla pace generale chi della loro Famiglia debba
regnarvi]”.
Era una esplicita garanzia d’indipendenza del regno di Sicilia da
quello di Napoli.
Il Baronaggio tuttavia non seppe gestire il passaggio dal vecchio
regime feudale al nuovo regime costituzionale, era troppo impegnato
a salvaguardare i propri interessi a scapito dei diritti delle altre
classi sociali. Ma nella nostra “bella Italia”, isole comprese, il
vizio non si è ancora perso! Le legislature si susseguivano senza
gran costrutto ed il clima piuttosto che di collaborazione era
di sospetto.
Proprio in questo periodo di confusione Bentinck fu costretto a
recarsi in Spagna e durante la sua assenza la situazione precipitò:
i conservatori passarono all’offensiva, i democratici non seppero
rispondere e quando, a luglio, per la fame e la miseria scoppiarono
dei tumulti non seppero far di meglio che proclamare la legge
marziale e chiudere le Camere. Furono riaperte dopo una settimana, ma
ormai si era creato un partito anti-inglese e
anti-liberale. A Bentinck, tornato in Sicilia non rimase altro che
costatare il fallimento del suo programma liberale. Proclamò la
legge marziale, sospese le garanzie costituzionali e sciolse il
Parlamento. Insomma istaurò una dittatura.
Quanto era stato deliberato in materia istituzionale a Cadige e, qualche mese dopo, a Palermo
presupponeva una lunga durata dell’impero napoleonico e nessuno
aveva messo in conto il ruolo da prima donna del Generale Inverno
che ad un certo punto si mise a capo dell’esercito dello Zar (siamo
alla fine del 1812) e, praticamente da solo, segnò l’inizio della
fine dell’egemonia napoleonica, che avrebbe sconvolto tutti i
piani strategici fino ad allora messi in atto dai governi europei
per tenere testa a Napoleone.
A Londra si propendeva, dopo la sconfitta napoleonica, per il
mantenimento della separazione della Sicilia da Napoli, mantenendo
ovviamente la tutela inglese.
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Sir William A’ Court |
La Sicilia indipendente, separata da Napoli e sotto protettorato
inglese, non era ben vista però dalle grandi potenze riunite a
Vienna in Congresso
. Londra fu costretta a cambiare opinione: non
poteva mettersi contro Vienna specie ora che questa si era accordata
con Murat, ma non poteva neanche permettere che Ferdinando di Borbone si
appoggiasse alla Francia. Decise, nel maggio 1814, di inviare in
Sicilia Sir William A’ Court, in qualità di ambasciatore con il
preciso incarico di dare il benservito al Bentinck, la cui politica
rischiava di compromettere in un sol colpo i rapporti con Napoli e
Vienna. L’interesse della Gran Bretagna era ora quello di sostenere
il nuovo ordine instaurato con la Restaurazione appoggiando le forze
conservatrici. Si arrivò così alla notifica, da parte
dell’ambasciatore A’ Court, della cessata interferenza britannica
negli affari siciliani e che non avrebbe più sostenuto
l’indipendenza della Sicilia. Lo stesso Lord Castlereagh, ministro
degli Esteri britannico, lo dichiarerà
apertamente nella seduta ai Comuni del 2 maggio rispondendo
all’opposizione che gli rimproverava “il tradimento” della causa
siciliana: “Non possiamo sacrificare agli interessi della Sicilia
la tranquillità e la sicurezza d’Europa”.
In
effetti, l'Inghilterra nel 1814 aveva inglobato nel suo impero
Malta, che le consentirà di mantenere un efficace controllo del
Mediterraneo con minor costo rispetto al protettorato della Sicilia!
Il Parlamento siciliano si ritrovò ad esaminare il problema del “che
fare?”, l’unica soluzione, seppur a malincuore sembrò essere quella
di rimettere tutto nelle mani del vecchio re Ferdinando.
Re Ferdinando che, non dimentichiamolo, aveva trattenuto per sé la
politica estera, era perfettamente informato di ciò che si discuteva
e si decideva al Congresso ma sapeva anche che l’indipendenza della
Sicilia e la separazione delle due corone erano state votate dal
parlamento ed egli aveva dato il suo regio consenso a quella
delibera (il "placet" che segue l'articolo costituzionale).
Si propugnava da parte delle grandi potenze riunite a Vienna una
costituzione moderata sull’esempio del re di Francia e del re di
Spagna. Ferdinando fu convinto in tal senso dal duca d’Orléans, suo
genero e futuro re di Francia, dallo zar di Russia che gli garantì
il suo appoggio, dalla stessa Gran Bretagna che si era piegata ai
voleri di Vienna e Pietroburgo e persino dal principe ereditario
Francesco. Tant’è che il 30 giugno del 1814 scrisse al Ruffo, suo
rappresentante a Vienna, che si impegnava, una volta tornato a
Napoli di concedere la costituzione anche in quel regno.
Per Ferdinando e i siciliani si trattava quindi di procedere ad una
revisione della costituzione non più ispirata al modello inglese ma
a quello francese. Ma dopo mesi di discussioni senza alcuna
conclusione - tra l’altro i costituzionalisti liberali più agguerriti
si erano auto esclusi - il Parlamento votò una delega al re perché
nominasse una commissione. Ciò stava a dimostrare l’incapacità di
autogoverno dei siciliani, troppo presi dagli interessi personali. E
sotto sotto questa situazione non dispiaceva a re Ferdinando, sempre
restio in fondo al cuore a concedere “libertà” che non fossero
controllabili dalla sua maestà.
Ferdinando lascia Palermo |
Fu in questo clima che si arrivò al 1° Maggio 1815, giorno in cui re
Ferdinando, allontanato definitivamente il pericolo napoleonico e
uscito di scena il Murat, lasciò la Sicilia, sciogliendo il
parlamento e lasciando i lavori di revisione in mano alla
commissione.
La commissione non iniziò mai i lavori e si stabilì un clima di non
collaborazione che stava ad indicare in realtà una carenza
d’iniziativa. Questa inerzia politica dei siciliani e gli ulteriori
sviluppi della situazione internazionale che viravano sempre più
alla restaurazione degli antichi regimi giocarono a favore di re
Ferdinando. Nel lasciar l’isola Ferdinando lanciò un proclama
assicurando che avrebbe concesso ai suoi popoli “la più energica e
la più desiderabile delle costituzioni”
La nascita per decreto del Regno delle Due Sicilie |
Trascorsero 18 mesi nell’immobilismo assoluto ed infine giunse, non
certamente inatteso e avallato da Vienna, il decreto dell’8 dicembre
1816 in virtù del quale i regni di Napoli e di Sicilia furono
riuniti nell’unico Regno delle Due Sicilie e la Sicilia, abolite
l’indipendenza e la separazione da Napoli divenne provincia.
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Il rientro a Napoli di Ferdinando
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Scrive
Pietro Colletta
“Il re Ferdinando IV si chiamò I, e in quel suo cambiar di
numero generò gravi mutamenti di Stato”. Su questa soluzione a
Napoli ci fu piena concordia, sia tra i borbonici sia tra i
murattiani, che in base al
trattato di Casalanza del 20 maggio 1815,
ebbero riconosciuti e concessi parità di diritti civili e politici.
Ciò che lasciò e lascia perplessi fu la mancanza di proteste da
parte dei siciliani, tranne che per un motteggio popolare
indirizzato a re Ferdinando, che recitava, quasi una premonizione:
“Fosti QUARTO e insieme TERZO,
Ferdinando or sei PRIMIERO
E se séguita lo scherzo
Finirai per esser ZERO”.
La legge 8 dicembre 1816 fu detta “legge fondamentale del Regno”
perché creò un unico grande stato meridionale, il più grande
d’Italia. Uno
stato nuovo che in precedenza non era mai esistito.
Ferdinando da Re delle due Sicilie, divenne Re del REGNO
delle due Sicilie o come veniva chiamato nel linguaggio
diplomatico, Sa Majesté sicilienne
Ciò rappresentò l’episodio storico più importante della prima metà
dell’800 prima della proclamazione del regno d’Italia. Erano passati
appena 45 anni da quel fatidico 8 dicembre.
Fara Misuraca, Alfonso Grasso
gennaio 2007
Continua….
Bibliografia
-
Aceto Giovanni, Della Sicilia e dei suoi rapporti con
l’Inghilterra nell’epoca della Costituzione del 1812,
Introduzione di Franco Valsecchi, dizioni della Regione
siciliana, Palermo 1970
-
Romeo Rosario Il risorgimento in Sicilia
-
Trevelyan Raleigh, Principi sotto il vulcano, BUR, 1997
-
AAVV Storia di Sicilia, edizioni storia di Napoli e della
Sicilia, Napoli, 1978
-
Correnti Santi, Storia di Sicilia, Editori riuniti
-
Renda Francesco, Storia della Sicilia, Sellerio 2002
-
Mack Smith, Denis, Storia della Sicilia medievale e moderna,
Editori Laterza, Bari 1971
-
Renda Francesco, La Sicilia nel 1812, Ed Sciascia, 1962
Il
Congresso di Vienna dura dal 1° ottobre 1814 al 9 giugno
1815, si chiude 9 giorni prima del tracollo di Napoleone a
Waterloo.
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