Letture e monografie storiche

Il Regno Siculo-Partenopeo

Dalla Rivoluzione Francese al Congresso di Vienna

di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso

Parte 3ª: 1806, l'esilio siciliano di Ferdinando III

Il Casino di Caccia della Ficuzza

 

La seconda occupazione francese

La rottura tra Napoletani e Siciliani divenne irreversibile dopo che in seguito alla battaglia di Austerliz (1805), il regno di “Napoli” fu nuovamente occupato dai francesi [1] e si rese necessario un nuovo trasferimento della corte borbonica a Palermo. Tale soggiorno durerà fino al giugno 1815 e fu, per i siciliani, più gravoso e meno gradito e soprattutto assai travagliato.

Medaglia 1806 in bronzo coniata a Parigi in occasione della conquista di Napoleone del Regno di Napoli. Clicca sull'immagine per ingrandire. (cfr. "Il medagliere storico dei Borbone", Collezione Francesco di Rauso, Caserta)

Medaglia 1806 in ferro fuso per il III corpo d’armata francese in Calabria. Clicca sull'immagine per ingrandire. (cfr. "Il medagliere storico dei Borbone", Collezione Francesco di Rauso, Caserta)

La rottura interna del regno meridionale ebbe una duplice motivazione, la prima dovuta alla diversa supremazia che dovette subire: Napoli in mano alla Francia e la Sicilia sotto la “protezione” inglese, la seconda fu merito o demerito della costituzione del 1812, che separava definitivamente la Sicilia da Napoli. La conflittualità siculo-partenopea si manifestò drammaticamente alla caduta di Napoleone, quando in Europa si istaurò la Restaurazione. Nel Regno meridionale non si volle semplicemente tornare a “prima del 1789” ma, forse esaudendo un sogno utopico, mai abbandonato da Napoli, si tornò indietro ai tempi di Carlo I d’Angiò: un unico Stato con Napoli capitale. Fu un errore gravissimo, specie se visto con gli occhi dei posteri. La casa Borbone fece nei confronti del regno di Sicilia quello che qualche decennio dopo la casa Savoia avrebbe fatto nei confronti delle Due Sicilie. Cancellò, senza neanche un finto referendum, ma con un regio decreto, l’antico regno di Ruggero il normanno, assimilandolo a provincia del regno di Napoli.

Il deflagrare della crisi siculo-partenopea è testimoniata dalle rivoluzioni del 1820, del 1848 ed infine quella catastrofica, cavalcata e vinta da Cavour per conto della casa Savoia, del 1860.

Ma torniamo indietro e cerchiamo di capire cosa succedeva in quei primi anni dell’Ottocento.

Come abbiamo visto nei precedenti capitoli nel Settecento i due regni meridionali sono distinti ma convivono, utilmente, con Carlo III e Ferdinando III di Sicilia e IV di Napoli fino al fatidico 1799. Nell’Ottocento Napoli e Sicilia entrano in conflitto, fino a distruggersi e a consegnarsi, inermi, al Piemonte. Perché?

Il ruolo della regina Maria Carolina

Quando nel 1806, dopo il fallimento delle trattative con Parigi, Londra decise di presidiare con le sue truppe la Sicilia [2] intendeva semplicemente assicurarsi il controllo dell’isola per la difesa contro il regno napoleonide di Napoli e difendere la numerosa e ricca colonia inglese che fin dalla seconda metà del settecento aveva fatto della Sicilia la sede di fiorenti commerci [3].

Maria Carolina

A Londra arrivavano notizie contrastanti e poco rassicuranti: Maria Carolina, mentre Ferdinando cacciava (donne e cinghiali), tramava con mezza Europa, comprese Parigi e Napoli. Prove non ce ne furono ma sospetti si! Specie dopo l’alleanza austro-francese (trattato di Shonbrunn del 1809) ed il matrimonio di Napoleone con la giovanissima Maria Luisa, figlia dell’imperatore austriaco e nipote di Maria Carolina, nonché il matrimonio di una delle sue figlie (Maria Amelia) con il duca d’Orléans, il futuro re di Francia, Luigi Filippo. In tutto questo la corte napoletana si comportava come un governo in esilio, pieno di rimpianti per la patria perduta e senza fare alcuno sforzo per ingraziarsi la nazione ospitante. Il colpo di grazia alle residue speranze “revanchiste” arrivò con la incoronazione di Napoleone a imperatore dei francesi.

Il conflitto tra i baroni siciliani e la corte napoletana si acuì particolarmente durante la sessione parlamentare del gennaio 1810, quando alla richiesta del ministro Medici di aumentare i donativi all’erario governativo ed il contributo agli oneri militari, i baroni siciliani contrapposero una propria proposta che accontentava gli inglesi con un aumento, seppur contenuto, del contributo agli oneri militari, ma rendeva praticamente impossibile qualsiasi accordo con il re, rifiutandogli gli aumenti. Il Medici fu costretto alle dimissioni ed il re dovette accogliere la richiesta parlamentare di nominare un nuovo governo costituito solo da siciliani. Carolina, pur di non darla vinta al principe di Belmonte, capo della rivolta parlamentare, fece in modo che venissero chiamati al governo degli uomini “fantoccio” che non rappresentavano nessuno. Tutto ciò concorreva ad aumentare la tensione all’interno del parlamento fino a quando re Ferdinando non ricorse al “colpo di stato” e, aggirando la guarentigia costituzionale secondo la quale non si potevano imporre nuove tasse senza il consenso del parlamento, con 3 decreti, il 14 febbraio 1811, impose una serie di tasse tra le quali una che colpiva le attività commerciali e bancarie, scontentando in un colpo solo i commercianti inglesi e siciliani, e decretò anche la vendita di alcuni beni ecclesiastici. Non occorre molta fantasia per immaginare cosa successe! I baroni presentarono ricorso di illegittimità costituzionale alla Deputazione del Regno e cinque di loro [4] presentarono la protesta in prima persona. Ma Ferdinando, su suggerimento di Carolina, rispose ordinando l’arresto immediato e l’esilio dei cinque, con l’accusa di tramare con il principe reggente (sic!) e con la Gran Bretagna. C’è da chiedersi chi fossero e per chi lavorassero i consiglieri del re!

La politica inglese

La crescente tensione dei rapporti tra la corte napoletana e i siciliani non poteva non preoccupare i responsabili della politica inglese a Palermo. Già nel luglio del 1810, l’ambasciatore inglese a Palermo, lord Amherst, scriveva a lord Wellesley, segretario degli esteri “… Ho ragion di credere che in tale occasione (la convocazione del parlamento) si manifesterà lo spirito che attualmente anima la nazione siciliana, e che, quando i baroni saranno riuniti le loro deliberazioni non si limiteranno solamente agli oggetti per cui saranno convocati”.[5]

Il barone William Pitt Amherst

Lord Amherst era infatti stato contattato dai più autorevoli baroni siciliani che chiedevano il suo appoggio per strappare al re delle concessioni. Scopo non tanto nascosto dei suoi interlocutori, continua lord Amherst nella sua lettera, era di ottenere per la Sicilia una costituzione il più possibile simile a quella della Gran Bretagna “… Annunciano l’intenzione di avanzare le loro richieste al re per mezzo dell’organo legale, il Parlamento; ma prevedono da parte del sovrano una opposizione che nulla varrà a vincere, se non la mediazione dell’Inghilterra. Se Londra si rifiutasse non avrebbero avuto altra risorsa che una ribellione, che li avrebbe probabilmente gettati nelle braccia della Francia”. La lettera si concludeva “…la nazione è matura per opporsi al governo. Diventare una provincia inglese non sarebbe considerata dalla maggior parte dei suoi abitanti una disgrazia ma un governo indipendente ed una libera costituzione sarebbero considerati una fortuna, il cui raggiungimento legherebbe indissolubilmente i siciliani alla nazione che gliela procurasse [6] .

Oltre agli inviti di appoggio da parte del baronaggio, Londra era sul chi vive anche per lo strano comportamento di Ferdinando e Maria Carolina dell’estate del 1810, quando Murat tentò di sbarcare nell’isola. Il tentativo fu rintuzzato dalle truppe inglesi con l’aiuto della popolazione locale, nel completo disinteresse della corte che non prese parte neanche ai festeggiamenti che il popolo organizzò nella capitale per il successo conseguito.

La situazione era molto delicata e tesa ed il comportamento della corte borbonica parve a Lord Amherst tanto ambiguo da spingerlo a dare le dimissioni denunciando all’opinione pubblica inglese i suoi timori e suggerendo al governo di Londra un intervento diretto dell’Inghilterra nella politica siciliana. Con Amherst si dimise anche il generale Stuart e la questione siciliana cominciò a farsi pressante. L’opinione pubblica Inglese era fortemente divisa tra coloro che pretendevano l’annessione “tout court” dell’isola, coloro che optavano per un protettorato, coloro che difendevano l’indipendenza dell’isola e quelli che privilegiavano gli interessi inglesi nel mediterraneo. Ci fu anche chi suggerì di abbandonare a se stesso il regno di Sicilia.

Il governo inglese tagliò la testa al toro e di fronte al pericolo di un asse franco-siciliano e di una invasione francese nell’isola decise di intervenire pesantemente e di ciò incaricò Lord William Bentinck, in qualità di plenipotenziario. Non sembrino strane la presenza militare inglese nell’isola e le perplessità di Amherst e di Stuart, re Ferdinando aveva sottoscritto un trattato d’alleanza in forza del quale l’Inghilterra era presente nell’isola con truppe di terra, di mare e con un sussidio finanziario elargito alla corte di Ferdinando.

L'arrivo a Palermo di lord William Bentinck

Bentinck sbarcò a Palermo il 20 luglio del 1811, proprio all’indomani dell’arresto dei cinque baroni ribelli e un episodio che qualche anno prima non sarebbe stato di alcun interesse se non locale divenne un “casus” internazionale.

Lord William Bentinck

Palermo doveva decidere, o con gli inglesi o con la Francia. Non era ammissibile, per Bentinck, che la corte borbonica tendesse ad una pericolosa, per l’Inghilterra, equidistanza tra Londra e Parigi. Il governo londinese volle tuttavia improntare il rapporto ad una certa prudenza e decise di agire sulla corte borbonica facendo leva sulle aspirazioni dei baroni e del popolo che nutrivano una certa simpatia per gli inglesi per le imprese che avevano avviato nell’isola e per il lavoro che vi avevano portato [7]. Si chiedevano a Re Ferdinando due cose: il comando militare unico per le truppe borboniche e inglesi, per meglio fronteggiare eventuali tentativi di invasione dei francesi e un governo a maggioranza siciliano per neutralizzare il partito filo-francese della regina Maria Carolina.

Certo viene da pensare che se re Ferdinando avesse avuto più attenzione per la politica, e non avesse lasciato le decisioni importanti alle velleità della regina, forse la lacerazione tra i due regni non sarebbe avvenuta.

Per realizzare i suoi obiettivi, Bentinck chiese a Londra di poter controllare personalmente il sussidio che l’Inghilterra passava alla corte borbonica, con l’intenzione di usarlo come strumento di pressione, ma Londra, inizialmente, volle evitare un intervento diretto e limitò i poteri di Bentinck, autorizzandolo a usarli solo in caso di estrema necessità.

Arrivato a Palermo Bentinck si trovò, come abbiamo detto, di fronte all’arresto di cinque tra i più importanti baroni siciliani filo-inglesi. La Corte non si era ancora resa conto di chi fosse veramente Bentinck (“Una sorta di Lawrence D’Arabia, avant “la lettre” come viene definito da Renda [8]. Un Caracciolo al cubo, per intenderci!), e rispose con un altezzoso diniego alle richieste di Bentinck. A onor del vero il Medici aveva cercato di moderare l’atteggiamento delle loro maestà, ma non aveva più voce in capitolo.

L’inglese non protestò nemmeno, ripartì subito per Londra dove, esposta la situazione, ottenne ampia libertà d’azione, compreso l’uso delle armi con l’unico impegno di mantenere i Borbone sul trono di Sicilia, a costo di deporre Ferdinando e mettere al suo posto il principe ereditario.

Quando Bentinck fece ritorno a Palermo, il 7 dicembre, la Regina e i suoi consiglieri erano ancora indecisi sul da farsi: se acconsentire alle richieste di Bentinck e liberare i baroni, o opporre un netto rifiuto con la conseguenza di sottrarsi all’influenza di Londra e affidarsi alla Russia.

Appena arrivato Bentinck per prima cosa sospese il pagamento del sussidio alla corona e impose l’accettazione delle condizioni inglesi. I reali rifiutarono e poco mancò che si passasse alle armi. Per fortuna ci fu un incontro privato tra Bentinck e Francesco, il principe ereditario, durante il quale l’inglese chiarì al principe i punti fondamentali del suo mandato che qui di seguito riassumiamo dalla relazione scritta che Francesco Borbone fece alle loro maestà:

1- Che il governo britannico non voleva né occupare la Sicilia con le armi né diminuire il prestigio e l’autorità della famiglia Reale né disconoscere i diritti della stessa sui domini perduti nel continente.…

2- La Gran Bretagna avrebbe appoggiato i baroni limitatamente all’accoglimento delle giuste rivendicazioni, che erano quelle che la Sicilia fosse governata da siciliani a tenore di una nuova costituzione . Qualora invece i baroni avessero tentato di abusare del loro nuovo potere per mettere in pericolo i diritti della famiglia reale, egli, Bentinck, li avrebbe impiccati …

3- Il Bentinck personalmente non credeva che la regina avesse tradito l’alleanza entrando in corrispondenza coi francesi; ma la condotta della sovrana meritava critiche e censure di ordine diverso, che, per altro, investivano tutta la politica del governo reale. …l’unico modo di dissipare qualsiasi equivoco era quello di cambiare sistema di governo, ciò avrebbe creato un nuovo clima di reciproca fiducia .[9]

Francesco viene nominato Vicario del Regno

Anche dopo questo incontro Ferdinando e Carolina rimasero irremovibili. In realtà non volevano perdere la faccia, infatti il re nominò suo vicario il principe Francesco e si ritirò al bosco della Ficuzza, mentre la regina riparava a Castelvetrano. Nonostante i poteri di Francesco fossero incompleti (il re aveva trattenuto per sé la politica estera e il comando militare) il principe e lord Bentinck si misero al lavoro e convocarono il Parlamento di rito feudale perché in seduta costituente si scrivesse ed approvasse la nuova costituzione del Regno di Sicilia.

Francesco di Borbone, ritratto con la famiglia

Francesco in verità avrebbe preferito una Costituzione “octrouayéè” cioè promulgata bella e fatta e graziosamente concessa dal sovrano, ma Bentinck lo convinse che una costituzione discussa e approvata da un’assemblea costituente, come stavano facendo a Cadige in Spagna, avrebbe avuto maggior peso in campo internazionale. Il 18 luglio si apriva pertanto la sessione del Parlamento e iniziarono i lavori. Lord Bentinck si tenne diplomaticamente in disparte durante l’elaborazione della carta costituzionale e quella che ne venne fuori fu una costituzione solo in apparenza fedele a quella inglese, in realtà, come ben capì il Medici, nella costituzione siciliana si celava, sebbene in chiave moderna, il regno feudale di Federico III d’Aragona! Il Medici si premurò di avvisare Francesco che chiese l’intervento di Bentinck a garanzia che la costituzione siciliana fosse ispirata a quella Inglese. Il Bentinck non si fece pregare, facendo capire ai baroni che non sarebbe stato tenero se non si fossero attenuti al modello inglese.

Con l’aiuto di Dio e soprattutto degli inglesi finalmente, il 10 agosto 1812, la costituzione venne approvata! Il primo effetto fu la fine del feudalesimo siciliano, feudalesimo che a Napoli era stato abolito qualche mese prima da Murat. C’era una differenza però tra le due abolizioni: Murat non tenne a salvaguardare gli interessi e i privilegi dei feudatari, il Parlamento siciliano, visto che erano stati gli stessi feudatari a scrivere la costituzione, ebbe cura di salvaguardare interessi e privilegi. In pratica i loro feudi, che fino ad allora avevano posseduto jure feudalis e come tali soggetti agli usi civici delle popolazioni vassalle, divennero proprietà privata degli ex feudatari con, in pratica, l’abolizione degli usi civici senza pagare alcun indennizzo e con il conseguente impoverimento delle popolazioni vassalle. Il demanio feudale divenne proprietà privata gratuitamente! Non lo possiamo chiamare furto perché i baroni applicarono una norma costituzionale seppur da loro stessi elaborata scritta ed approvata! [10]

La Costituzione prevedeva anche la libertà di stampa, di parola, di associazione, ecc [11] ma l’articolo di fondamentale importanza è il § 17. VIII, relativo alla successione al trono, che prevedeva la separazione del regno di Sicilia dal regno di Napoli e che così recitava “Se il Re di Sicilia riacquisterà il regno di Napoli o acquisterà qualunque altro regno, dovrà mandarvi a regnare il suo figlio primogenito o lasciare detto suo figlio in Sicilia con cedergli il regno, dichiarandosi da oggi innanzi il regno di Sicilia indipendente da quello di Napoli e da qualunque altro regno o provincia. [Placet per l’indipendenza; per tutto il dippiù resta a stabilirsi dal Re e dal suo primogenito alla pace generale chi della loro Famiglia debba regnarvi]”.

Era una esplicita garanzia d’indipendenza del regno di Sicilia da quello di Napoli.

Il Baronaggio tuttavia non seppe gestire il passaggio dal vecchio regime feudale al nuovo regime costituzionale, era troppo impegnato a salvaguardare i propri interessi a scapito dei diritti delle altre classi sociali. Ma nella nostra “bella Italia”, isole comprese, il vizio non si è ancora perso! Le legislature si susseguivano senza gran costrutto ed il clima piuttosto che di collaborazione era di sospetto. [12]

Proprio in questo periodo di confusione Bentinck fu costretto a recarsi in Spagna e durante la sua assenza la situazione precipitò: i conservatori passarono all’offensiva, i democratici non seppero rispondere e quando, a luglio, per la fame e la miseria scoppiarono dei tumulti non seppero far di meglio che proclamare la legge marziale e chiudere le Camere. Furono riaperte dopo una settimana, ma ormai si era creato un partito anti-inglese e anti-liberale. A Bentinck, tornato in Sicilia non rimase altro che costatare il fallimento del suo programma liberale. Proclamò la legge marziale, sospese le garanzie costituzionali e sciolse il Parlamento. Insomma istaurò una dittatura.

Quanto era stato deliberato in materia istituzionale a Cadige e, qualche mese dopo, a Palermo presupponeva una lunga durata dell’impero napoleonico e nessuno aveva messo in conto il ruolo da prima donna del Generale Inverno che ad un certo punto si mise a capo dell’esercito dello Zar (siamo alla fine del 1812) e, praticamente da solo, segnò l’inizio della fine dell’egemonia napoleonica, che avrebbe sconvolto tutti i piani strategici fino ad allora messi in atto dai governi europei per tenere testa a Napoleone.

Il Congresso di Vienna

A Londra si propendeva, dopo la sconfitta napoleonica, per il mantenimento della separazione della Sicilia da Napoli, mantenendo ovviamente la tutela inglese.

Sir William A’ Court

La Sicilia indipendente, separata da Napoli e sotto protettorato inglese, non era ben vista però dalle grandi potenze riunite a Vienna in Congresso [13]. Londra fu costretta a cambiare opinione: non poteva mettersi contro Vienna specie ora che questa si era accordata con Murat, ma non poteva neanche permettere che Ferdinando di Borbone si appoggiasse alla Francia. Decise, nel maggio 1814, di inviare in Sicilia Sir William A’ Court, in qualità di ambasciatore con il preciso incarico di dare il benservito al Bentinck, la cui politica rischiava di compromettere in un sol colpo i rapporti con Napoli e Vienna. L’interesse della Gran Bretagna era ora quello di sostenere il nuovo ordine instaurato con la Restaurazione appoggiando le forze conservatrici. Si arrivò così alla notifica, da parte dell’ambasciatore A’ Court, della cessata interferenza britannica negli affari siciliani e che non avrebbe più sostenuto l’indipendenza della Sicilia. Lo stesso Lord Castlereagh, ministro degli Esteri britannico, lo dichiarerà apertamente nella seduta ai Comuni del 2 maggio rispondendo all’opposizione che gli rimproverava “il tradimento” della causa siciliana: “Non possiamo sacrificare agli interessi della Sicilia la tranquillità e la sicurezza d’Europa”.[14]

In effetti, l'Inghilterra nel 1814 aveva inglobato nel suo impero Malta, che le consentirà di mantenere un efficace controllo del Mediterraneo con minor costo rispetto al protettorato della Sicilia!

Il Parlamento siciliano si ritrovò ad esaminare il problema del “che fare?”, l’unica soluzione, seppur a malincuore sembrò essere quella di rimettere tutto nelle mani del vecchio re Ferdinando.

Re Ferdinando che, non dimentichiamolo, aveva trattenuto per sé la politica estera, era perfettamente informato di ciò che si discuteva e si decideva al Congresso ma sapeva anche che l’indipendenza della Sicilia e la separazione delle due corone erano state votate dal parlamento ed egli aveva dato il suo regio consenso a quella delibera (il "placet" che segue l'articolo costituzionale).

Si propugnava da parte delle grandi potenze riunite a Vienna una costituzione moderata sull’esempio del re di Francia e del re di Spagna. Ferdinando fu convinto in tal senso dal duca d’Orléans, suo genero e futuro re di Francia, dallo zar di Russia che gli garantì il suo appoggio, dalla stessa Gran Bretagna che si era piegata ai voleri di Vienna e Pietroburgo e persino dal principe ereditario Francesco. Tant’è che il 30 giugno del 1814 scrisse al Ruffo, suo rappresentante a Vienna, che si impegnava, una volta tornato a Napoli di concedere la costituzione anche in quel regno.

Per Ferdinando e i siciliani si trattava quindi di procedere ad una revisione della costituzione non più ispirata al modello inglese ma a quello francese. Ma dopo mesi di discussioni senza alcuna conclusione - tra l’altro i costituzionalisti liberali più agguerriti si erano auto esclusi - il Parlamento votò una delega al re perché nominasse una commissione. Ciò stava a dimostrare l’incapacità di autogoverno dei siciliani, troppo presi dagli interessi personali. E sotto sotto questa situazione non dispiaceva a re Ferdinando, sempre restio in fondo al cuore a concedere “libertà” che non fossero controllabili dalla sua maestà.

Ferdinando lascia Palermo

Fu in questo clima che si arrivò al 1° Maggio 1815, giorno in cui re Ferdinando, allontanato definitivamente il pericolo napoleonico e uscito di scena il Murat, lasciò la Sicilia, sciogliendo il parlamento e lasciando i lavori di revisione in mano alla commissione.

La commissione non iniziò mai i lavori e si stabilì un clima di non collaborazione che stava ad indicare in realtà una carenza d’iniziativa. Questa inerzia politica dei siciliani e gli ulteriori sviluppi della situazione internazionale che viravano sempre più alla restaurazione degli antichi regimi giocarono a favore di re Ferdinando. Nel lasciar l’isola Ferdinando lanciò un proclama assicurando che avrebbe concesso ai suoi popoli “la più energica e la più desiderabile delle costituzioni [15]

La nascita per decreto del Regno delle Due Sicilie

Trascorsero 18 mesi nell’immobilismo assoluto ed infine giunse, non certamente inatteso e avallato da Vienna, il decreto dell’8 dicembre 1816 in virtù del quale i regni di Napoli e di Sicilia furono riuniti nell’unico Regno delle Due Sicilie e la Sicilia, abolite l’indipendenza e la separazione da Napoli divenne provincia.

Il rientro a Napoli di Ferdinando

Scrive Pietro Colletta [16] “Il re Ferdinando IV si chiamò I, e in quel suo cambiar di numero generò gravi mutamenti di Stato”. Su questa soluzione a Napoli ci fu piena concordia, sia tra i borbonici sia tra i murattiani, che in base al trattato di Casalanza del 20 maggio 1815, ebbero riconosciuti e concessi parità di diritti civili e politici. Ciò che lasciò e lascia perplessi fu la mancanza di proteste da parte dei siciliani, tranne che per un motteggio popolare indirizzato a re Ferdinando, che recitava, quasi una premonizione:

“Fosti QUARTO e insieme TERZO,

Ferdinando or sei PRIMIERO

E se séguita lo scherzo

Finirai per esser ZERO”.

La legge 8 dicembre 1816 fu detta “legge fondamentale del Regno” perché creò un unico grande stato meridionale, il più grande d’Italia. Uno stato nuovo che in precedenza non era mai esistito. Ferdinando da Re delle due Sicilie, divenne Re del REGNO delle due Sicilie o come veniva chiamato nel linguaggio diplomatico, Sa Majesté sicilienne [17]. Ciò rappresentò l’episodio storico più importante della prima metà dell’800 prima della proclamazione del regno d’Italia. Erano passati appena 45 anni da quel fatidico 8 dicembre.

Fara Misuraca, Alfonso Grasso

gennaio 2007

Continua….

Parte I: 1798, La fine del sogno illuminista

Parte II: 1799, la Repubblica Napoletana e il primo soggiorno a Palermo di Ferdinando III


Bibliografia

  • Aceto Giovanni, Della Sicilia e dei suoi rapporti con l’Inghilterra nell’epoca della Costituzione del 1812, Introduzione di Franco Valsecchi, dizioni della Regione siciliana, Palermo 1970

  • Romeo Rosario Il risorgimento in Sicilia

  • Trevelyan Raleigh, Principi sotto il vulcano, BUR, 1997

  • AAVV Storia di Sicilia, edizioni storia di Napoli e della Sicilia, Napoli, 1978

  • Correnti Santi, Storia di Sicilia, Editori riuniti

  • Renda Francesco, Storia della Sicilia, Sellerio 2002

  • Mack Smith, Denis, Storia della Sicilia medievale e moderna, Editori Laterza, Bari 1971

  • Renda Francesco, La Sicilia nel 1812, Ed Sciascia, 1962


Note

[1] Fu proclamato re di Napoli in un primo tempo Giuseppe Bonaparte e successivamente Gioacchino Murat, rispettivamente fratello e cognato di Napoleone.

[2] Alla richiesta di Lord Leymour di garanzie per la Sicilia, Talleyrand rispose che sarebbe stato impossibile mantenere il regno di Napoli, senza l’isola e che quindi la Francia intendeva conquistarla. Nel luglio successivo un contingente anglo-borbonico sbarcava in Calabria mettendo in serie difficoltà Giuseppe Bonaparte ( A. Sorel, L’Europe e la revolution francaise, Paris, 1903, in Giovanni Aceto, op. cit.)

[3] Il ministro degli esteri Howick credette opportuno, per non capitolare ai napoleonidi, porre sotto il comando inglese le forze siciliane e soprattutto favorire un governo siciliano che esautorasse l’”entourage” napoletano della regina, sospettato di avere simpatie francesi. Drummond, rappresentante inglese in Sicilia era invece per una linea ancora più dura e proponeva di sottomettere la Sicilia all’Inghilterra.

[4] I cinque barono erano il principe di Belmonte, il principe di Castelnuovo, il principe di Aci, il principe di Villafranca e il duca d’Angiò. Belmonte e Castelnuovo furono confinati a Favignana, Villafranca a Pantelleria, Aci a Ustica e Angiò a Marettino

[5] T. Whitaker Scalia, Sicilia e Inghilterra. Ricordi politici. La vita degli esuli italiani in Inghilterra (1848-1870) riportato da Franco Valsecchi nella Introduzione a Della Sicilia dei suoi rapporti con l’Inghilterra all’epoca della costituzione del 1812, di Giovanni Aceto, p. 11

[6] Ibidem

[7] In realtà la maggior parte dei capitali provenienti dal commercio del Marsala, del salgemma, degli zolfi, della soda, ecc. veniva investito in America e in Gran Bretagna piuttosto che in Sicilia. Per capir meglio il ruolo degli inglesi nell’industria siciliana raccontiamo in breve l’avventura dei fratelli Turrisi, titolari della più grande cartiera dell’isola. Ma per fare la carta occorrono gli stracci. Gli inglesi facevano incetta a prezzi concorrenziali, di stracci e li spedivano in Inghilterra, nelle loro cartiere. I Turriti finirono col fallire. E come loro tante altre industrie locali. Come amaramente osserva Romualdo Giuffrida in un articolo su “La cartiera Turriti” in “Il risorgimento in Sicilia” (1969), citato da Trevelyan in Principi sotto il Vulcano, p. 60 “in nome della libertà di commercio “mercanti” britannici non soltanto monopolizzarono le materie prime siciliane per le industrie del loro paese, ma ostacolarono o strangolarono sul nascere qualsiasi tentativo di industrializzazione a opera del capitale siciliano”

[8] Francesco Renda, La Sicilia nel 1812.

[9] Francesco Borbone, principe ereditario Relazione della conversazione avuta il 10 gennaio (1812) fra me e Lord Bentinck in seguito del permesso avutone da S.M. il Re; la relazione è citata per intero da Renda in La Sicilia del 1812, pp 206-208

[10] Dopo la restaurazione una legge borbonica dispose la restituzione di quanto tolto alle popolazioni vassalle (Renda, Storia di Sicilia)

[11] Il giurista Paolo Balsamo, insieme ad un’assemblea costituente, redige la costituzione secondo un modello costituzionale liberale sul modello bicamerale inglese. Le principali riforme politiche e amministrative sono di seguito riassunte:

  • Istituzione camera dei Comuni e camera dei Pari (modello inglese)

  • Separazione tra potere legislativo delle camere e potere esecutivo del Recon diritto per quest’ultimo, di veto e di scioglimento del Parlamento

  • Responsabilità dei ministri di fronte al Parlamento

  • Obbligo per il monarca o a regnare personalmente in Sicilia o a cedere il trono al suo primogenito in forma del tutto indipendente da Napoli

  • Divieto per il re di tenere truppe straniere in Sicilia senza il consenso del Parlamento

  • Le principali Riforme sociali furono: 

  • Uguaglianza in campo giuridico per cui tutti risultavano uguali di fronte alla legge

  • Abolizione della tortura

  • Libertà di stampa e di associazione

  • Abolizione dei diritti feudali

  • Abolizione del maggiorascato e tentativo di parcellizzazione dei feudi

[12] E’ in questo clima che la notte del 9 marzo 1913, Re Ferdinando torna in città e si insedia a Palazzo reale con l’intenzione di riprendere il potere. Ma Bentinck, che aveva avuto carta bianca, circondò con le sue truppe il palazzo reale e costrinse Re Ferdinando ad abbandonare il suo proposito. Maria Carolina, come al solito, ispiratrice del complotto fu invitata a lasciare la Sicilia e a tornarsene a Vienna, dove morì il 2 febbraio del 1814. Tra le altre cose la regina era da tempo oppiomane, droga alla quale si era assuefatta per via delle sue innumerevoli gravidanze.

[13] Il Congresso di Vienna dura dal 1° ottobre 1814 al 9 giugno 1815, si chiude 9 giorni prima del tracollo di Napoleone a Waterloo.

[14] Franco Valsecchi in Introduzione a Della Sicilia e dei suoi rapporti con l’Inghilterra…di Givanni Aceto, p. 27

[15] Il proclama si può leggere in Guglielmo Pepe, Relazione delle circostanze relative agli avvenimenti politici e militari in Napoli nel 1820 e 1821; cit da Spagnoletti, Storia del regno delle due Sicilie e riportato da Renda in Storia della Sicilia, op. cit. p 822

[16] Pietro Colletta Storia del reame di Napoli

[17] Con buona pace di quanto si recitava nella Costituzione del 1812 che prevedeva che in caso di riacquisto del regno di Napoli, Re Ferdinando non poteva più essere, come era già stato, re di Napoli e re di Sicilia, ma doveva decidere se andare a Napoli e lasciare la Sicilia al figlio Francesco o viceversa.

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