Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa

L’Italia nel 1800

I progetti politici unitari del Risorgimento e la loro caratteristica elitaria

Vincenzo Gioberti

Testo di Giuseppe Ressa

Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

Così, anche nella Penisola, nella prima metà dell’800, a livello di ristrette e colte elites, borghesi ed intellettuali, divenne sempre più presente e forte la convinzione dell’esistenza di un’unica Nazione Italiana che si faceva ascendere da alcuni all’impero romano, da altri al Medioevo; ad essa si facevano risalire i fasti del Rinascimento con il suo primato culturale indiscusso (che coincideva, con apparente paradosso, col punto più basso della rilevanza politica dell’Italia nel contesto europeo). Giovani universitari, avvocati, medici, giornalisti, scrittori, avevano formato il loro pensiero leggendo le opere di Foscolo, Berchet, Giusti, Giannone, Manzoni, Poerio, Pellico, Cuoco, D’Azeglio, Balbo, Botta e Gioberti (solo per citarne alcuni) e credettero fosse arrivato il momento di battersi per dare a questa Nazione uno Stato unitario; erano una esigua minoranza anche perchè solo pochissimi italiani sapevano leggere e scrivere (persino al momento dell’unità il loro numero superava a malapena il 20%).

Questa aspirazione ad un’unione statale della Penisola divenne il loro ideale da realizzarsi però tramite quattro progetti politici molto diversi e in palese conflitto tra loro: quello repubblicano-centralistico di Mazzini: repubblica e stato fortemente centralizzato; quello repubblicano-federale di Cattaneo il quale affermava che “gli italiani senza federalismo saranno sempre discordi, invidiosi, infelici[1]; quello monarchico-federale a guida papale di Gioberti, il quale, in antitesi al pensiero di Mazzini, faceva notare che “il popolo italiano“ non può essere soggetto d'azio­ne politica perché non è ancora altro che «un desiderio e non un fat­to, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa», per questo motivo la guida del risorgimento nazionale deve essere «monarchica ed aristocratica, cioè risedente nei prìncipi e avvalorata dal concorso degl'ingegni più eccellenti, che sono il patriziato naturale e perpetuo delle nazioni»; infine, quello monarchico-centralistico, il “tutto mio” dei Savoia. Alberto Banti, a proposito delle incompatibilità tra i quattro progetti politici unitari, scrive [2]:“Le fratture che correvano all'interno del mo­vimento nazionale erano di un tipo tale per cui chi avesse vinto la partita, avrebbe vinto tutto, e chi avesse perso sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano, in posizione politica (e spesso anche personale) del tutto marginale“. Anche per questo i massimi esponenti delle varie correnti di pensiero, si detestavano a vicenda, ad esempio Cavour affermava: ”Ciò che manca a Mazzini per essere un sommo rivoluzionario è il coraggio morale, l’intrepidità a fronte dei pericoli, il disprezzo della morte”, gli dava, insomma, del codardo, accusa peraltro ribadita da molti che criticavano “l’agiatissimo esilio” del Genovese e la sua contemporanea accesa retorica che spingeva altri soggetti a prendere le armi in pugno e a morire; “infame cospiratore e autentico capo di assassini” rincarava Cavour; di contro Mazzini gli rispondeva che “Io vi sapevo, da lungo tempo, tenero alla monarchia piemontese più assai che della patria comune; adoratore materialista del fatto più che di ogni santo, eterno principio…perciò se io prima non vi amavo, ora vi sprezzo”. Garibaldi, a sua volta, chiese a più riprese a Vittorio Emanuele II di liquidare Cavour il quale affermava che “Garibaldi è il più fiero nemico che io abbia”.

Bisogna, inoltre, rimarcare il fatto che “L’ingombrante presenza austriaca della penisolaponeva due ordini di problemi. Innanzi tutto, creava uno squilibrio permanente nei rapporti tra Stati italiani, dato che nessuno di essi aveva il peso ed il prestigio militare sufficienti a bilanciare l’influenza asburgica. In secondo luogo, catalizzava il problema italiano intorno alla parola d’ordine della cacciata dello straniero, ricca di suggestioni emotive …tali da far passare in secondo piano, come minimalista e inadeguato, qualunque programma volto a ottenere riforme costituzionali o amministrative nell’ambito degli ordinamenti esistenti…questa peculiarità italiana fece sì che la dimensione cospirativa di stampo settario (Mazzini)…avesse un peso rilevante[3] anche perché i programmi federalisti del Gioberti e di Cattaneo, rispettivamente monarchico e repubblicano, pur se rispettosi delle realtà secolari degli stati italiani, sostanzialmente fallivano nella soluzione del “problema Austria”.

Giuseppe Mazzini

Tutti questi progetti unitari “raccoglievano ostilità e soprattutto indifferenza nel popolo italiano”[4], nella prima metà dell’Ottocento, infatti, l’idea di un’Italia unita e indipendente non si era formata, com’era del tutto assente una coscienza nazionale; né sono da contrapporre a queste asserzioni le “spontanee insurrezioni popolari unitarie“ che si manifestarono nei vari stati italiani, esse erano notoriamente organizzate da agenti sabaudi, né tanto meno i risultati dei “plebisciti“ confermativi le annessioni piemontesi, che seguirono alla cacciata dei sovrani preunitari, e che nessuna mente intellettualmente onesta può definire, guardando alle modalità del loro svolgimento, libera espressione di volontà popolare.

Persino nel fervore delle guerre di indipendenza il sentimento di appartenenza ad un'unica patria era molto labile: nella prima, del 1848, i soldati piemontesi non mostrarono nessuna aspirazione alla causa unitaria e nazionale tanto che quando Gioberti e Brofferio (due importanti esponenti liberali e unitaristi) si presentarono al loro cospetto e tentarono di istruirli sul significato”risorgimentale” della guerra “le mille imprecazioni dei nostri Ufficiali il fecero desistere dalla sua impresa. [Brofferio] si fece accompagnare in vettura da tre Ufficiali per paura che per strada lo ammazzassero. Gioberti gli toccò la stessa sorte e un soldato finì per tirargli addosso un torsolo di cavolo”[5].

Nella seconda guerra (del 1859) “i soldati dell’esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani … non erano ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tanto è vero che ai volontari provenienti dalle altre regioni d’Italia rivolgevano la domanda: “Vieni dall’Italia?”[6]. Furono solo 10mila i volontari accorsi dalle altre regioni d’Italia (la popolazione complessiva di queste regioni era di 20 milioni di abitanti), un’ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto poco era sentita l’istanza di una unione politica dell’Italia, questo fatto riempì d’indignazione Cavour che si sfogò ripetutamente nella sua corrispondenza privata, i volontari arruolati a Torino, provenienti dalle Due Sicilie, furono 20 [7]. Il conflitto si svolse tra l’avversione del popolo piemontese, oppresso fiscalmente a causa della onerosissima politica estera governativa, l’indifferenza dei lombardi (protagonisti nel marzo del 1848 delle Cinque giornate di Milano) e l’ostilità dei veneti che si batterono valorosamente nelle fila dell’esercito austriaco.

Durante la terza (1866) quando a Lissa il comandante austriaco von Teghethoff annunciò agli equipaggi delle sue navi, composti quasi integralmente da veneti, che la battaglia contro la marina del regno d’Italia era stata vinta, essi lanciarono i berretti in aria in segno di giubilo e gridarono “Viva San Marco” [simbolo di Venezia].

Questo stridente contrasto tra gli ideali di una minoranza e le aspettative della grande maggioranza della popolazione fece causticamente commentare che “Il liberalismo, che pretende di essere l’interprete dei destini nazionali e della volontà popolare, è in realtà una parte che pretende di stare per il tutto, una minoranza ideologica che si autoconferisce l’identità di nazione…Italia fittizia che si sovrappone al Paese reale senza rappresentarlo[8] .

Passando dagli idealisti senza secondi fini, alle persone che invece avevano concreti interessi materiali, non vi è dubbio che dietro l’ideale unitario si creò una alleanza tra la borghesia settentrionale e i latifondisti meridionali; la prima, forte dell’appoggio politico del Piemonte, vedeva nell’unità la possibilità di espandere gli affari a danno di quella meridionale, la seconda patteggiò il sostegno ai Savoia in cambio della futura vendita sotto costo delle terre demaniali ed ecclesiastiche, privando in questo modo i contadini degli usi civici (cioè dell’uso gratuito delle terre dello Stato per la semina e il pascolo). La classe che fu fortemente penalizzata dal Risorgimento fu quella popolare la cui condizione economica peggiorò causando il tragico fenomeno dell’emigrazione “il popolo minuto era per il resto del tutto irrilevante ai fini del movimento nazionale, e ciò giova a spiegare come nessun elemento dirigente di quest’ultimo si prendesse la briga di conquistarne le simpatie[9]. Solo Garibaldi lo fece, ma solo strumentalmente, all’inizio della spedizione dei Mille: promise, con degli editti, le terre a chi lo avesse aiutato nella lotta contro i Borbone, poi, una volta ottenuto l’appoggio dei contadini, egli stesso ordinò la repressione di focolai di rivolte popolari, l’episodio più grave fu quello del paese di Bronte, in Sicilia. Qui ci fu la resa dei conti circa le promesse fatte: il 1° agosto 1860 i contadini, insorti contro i proprietari terrieri; uccisero una decina di “galantuomini”; il Nizzardo, sollecitato dal console inglese che gli intimava di far rispettare le proprietà britanniche lì presenti, e spinto anche dal verificarsi di rivolte contadine simili a Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, inviò il 6 Agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni di cacciatori al comando di Nino Bixio, “una forza atta a sopprimere li disordini che vi sono in Bronte che minacciano le proprietà inglesi[10]. Bixio, arrivato a Bronte, uccise subito a freddo un rivoltoso ed emise un decreto con cui intimava la consegna delle armi, l’esautorazione dell’amministrazione comunale e la condanna a morte dei responsabili più una tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla “pacificazione” della cittadina; nei giorni successivi incriminò cinque persone, tra cui un insano di mente, le quali dopo un processo farsa furono condannate a morte; gli accusati, che erano innocenti (i responsabili erano scappati prima dell’arrivo di Bixio), furono fucilati il 10 agosto e i loro cadaveri esposti al pubblico insepolti[11]. “Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo [Bixio] videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò più muoversi….se no ecco quello che ha scritto:“Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo [distruggiamo] come nemici dell’umanità[12].

I "galantuomini" avevano vinto su tutti i fronti e Garibaldi si dimostrò, quindi, come dice Denis Mack Smith, “il più religioso sostegno della proprietà“; lo aveva capito, già all’inizio della spedizione dei Mille, un frate siciliano, padre Carmelo, che declinò l’invito del garibaldino Giuseppe Cesare Abba di unirsi alle camicie rosse dicendogli:”Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero; ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia…così è troppo poco.[13]

Marcello Veneziani[14] osserva, inoltre, che il Risorgimento provocò, per la sua preminente matrice liberale ed anticlericale, anche ”la frattura con l’anima religiosa del popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di una civiltà contadina, la frattura con il Meridione”.

Interessanti, a quest’ultimo proposito, le opinioni di Denis Mack Smith e Paolo Mieli[15], dice il primo: “Contrariamente alla versione raccontata sui libri della storia ufficiale il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento“ e aggiunge il secondo: “La stagione risorgimentale e post-risorgimentale è fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri. Abbiamo vissuto una lunga guerra civile, di reietti contro buoni. Il popolo, soprattutto dell’Italia meridionale, è stato all’opposizione; lo era dai tempi delle invasioni napoleoniche [le cosiddette “insorgenze” contro i francesi che causarono decine di migliaia di vittime], c’erano stati moti molto forti, per diciannove anni, sino al 1815. Il popolo rimase sordamente ostile, perché legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla Chiesa cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali abbeverarsi. Il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero Sud, gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca emigrazione verso l’America “.

Nel giudizio storico sul distacco della popolazione meridionale dagli ideali di lotta allo straniero e di unità nazionale bisogna, al contrario di una superficiale e accusatoria storiografia ufficiale, mettere in conto che, a parte la sparuta minoranza che aveva nell’animo l’ideale unitario senza secondi fini utilitaristici, la massima parte dei meridionali, dal sovrano al più umile dei sudditi erano consapevoli di essere indipendenti da circa 800 anni, tanto contava il regno del Sud come età, e di avere, quindi, già una Patria bella e formata da secoli, lo straniero (l’Austria) era molto distante e non aveva più nessuna influenza, nè poteva minacciare le Due Sicilie.

Ci voleva, quindi, un grosso sforzo di immaginazione per pensare di poter mobilitare e soprattutto motivare uomini in armi per un ideale assolutamente incomprensibile. Il fatto che poi questo ideale unitario abbia prevalso nella realtà dei fatti, non vuol dire assolutamente che fosse l’inevitabile conseguenza del “secolo delle nazionalità”, almeno nel modo in cui si ottenne, tanto che anche molti accesi unitaristi affermarono che l’unità d’Italia era stata, per lo svolgimento degli avvenimenti, come un “terno a lotto” o un cosa che poteva riuscire una volta ogni cento anni...

Giuseppe Ressa


Note

[1] riportato da Alessandro Vitale nel Supplemento al n.10 di “Liberal”, febbraio 2002

[2] “ La nazione del Risorgimento”, Einaudi, 2000

[3] Roberto Martucci, “L’invenzione dell’Italia unita”, Sansoni, 1999

[4] Marcello Veneziani, Processo all’Occidente, ed. Sugarco, 1990, pag.225

[5] Giacomo Brachet Contol, “La formazione di Francesco Faà di Bruno”, citato da Francesco Pappalardo “Il mito di Garibaldi”, Piemme, 2002, pag. 94

[6] Girolamo Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori, Laterza, 2003, pag. 179

[7] Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, UTET 2004, pag. 264

[8] Civiltà Cattolica serie IV, vol. 7 (30 agosto 1860), p.647 riportata da Giovanni Turco in “Brigantaggio, legittima difesa del Sud”, Il Giglio editore, 2000, pag. XX

[9] Denis Mack Smith, citato da Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fiorentino, 1990, pag.508

[10] Giuseppe Garibaldi, lettera del 3-8-1860, in Epistolario, vol. V p. 197 citato da Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi, Piemme 2002, pag. 159

[11] in seguito fu celebrato un nuovo processo presso la Corte di Assise di Catania che nel 1863 comminò altre 37 condanne, di cui molte a vita.

[12] Abba, Da Quarto al Volturno, Oscar Mondadori, 1980, pagg.137-8

[13] ibidem, pag.68-69

[14] citato da F.M.Agnoli, “L’epoca delle Rivoluzioni”, Il Cerchio Itaca, 1999

[15] Dal quotidiano “La Stampa“ del 19 maggio 2001, pag. 23.


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