La classe media meridionale |
Quando durante una delle più nefande guerre di religione dei
cristiani contro se stessi
[1],
le armate cattoliche del Giglio di Francia misero sotto assedio
Lione, roccaforte protestante, si pose loro il problema se uccidere
in massa, come era già stato fatto altrove, o risparmiare almeno
parte della classe dirigente della città. Non si trattava di un
dilemma etico, ma squisitamente pratico e utilitaristico: Lione, con
i suoi professionisti, artigiani, ingegneri, commercianti,
rappresentava il maggiore concentrato di ricchezza economica e
intellettuale del Paese.
Gli ugonotti avevano formato una gruppo sociale del tutto speciale e
originale rispetto al resto dell'Europa cattolica: si erano
arricchiti con il loro lavoro ed il loro ingegno, ricercando e
utilizzando nuove tecnologie e nuovi saperi. Praticavano la
curiosità intellettuale e la dedizione alla propria attività come
un'unica virtù; ripudiavano il dogmatismo e la superstizione, ed
investivano i capitali ricavati dal loro lavoro in imprese utili
alla collettività che si arricchiva tutta partecipandovi.
Ma soprattutto, ciò che orripilava gli inquisitori papali è che
compravano molti libri e li leggevano in gruppo con i loro amici;
addirittura le loro donne leggevano e si riunivano per discutere!
Una classe sociale che si identificava quindi non solo per
disponibilità materiale ma anche e soprattutto intellettuale, che
non avendo le rendite di posizione di clero e nobiltà, era spinta
alla libertà ed al rinnovamento.
Ciò che accadeva a Lione alla fine del XVI secolo, accadeva anche
altrove, in Inghilterra, in Olanda, nelle città anseatiche, in quel
territorio geografico sociale, segnato dalla riforma protestante,
che diventerà il perno della modernità. Così, anche se i cattolici
"sistemarono" Lione, massacrando gli ugonotti, non riuscirono ad
arrestare la progressiva ascesa di quella che ancora oggi chiamiamo
"classe media", da allora sempre presente e riconosciuta nei
mutamenti e nelle rivoluzioni degli ultimi secoli, dalla rivoluzione
americana a quella francese, sino a quella sovietica.
Nel sud siculo-partenopeo, la “classe media” – o meglio, la sua
“antenata” – era stata distrutta già secoli prima, con l’avvento dei
nobili creati dai conquistatori di turno,
Normanni inclusi,e dalla messa al bando di Ebrei e Islamici (nel 1200
all’avanguardia nell’economia e nell’artigianato) operata da
Federico II di Svevia. Feudo della Chiesa, il sud siculo-partenopeo
ancora alla fine del 1600 era sottoposto all’attenta cura
dell’inquisizione.
Non mancava nel sud quella che Indro Montanelli chiamava "la plebe
borghese", ma che non ha niente a che fare con la classe media,
poiché non ne possedeva né la propensione etica, né quella
democratica, né il senso civico-nazionale. Il “popolo grasso”
napoletano non aveva questa “forma mentis” e perseguiva più
semplici, carnali, interessi di bottega.
La cultura meridionale esplose nel secolo dei lumi, quando nel 1734,
con
Carlo di Borbone,
Don Carlos, come amava esser chiamato, fu
rifondato nel Sud lo Stato nazionale e per vari decenni cultura e
dinastia procedettero in parallelo, attuando "La filosofia in
soccorso dei governi" per citare
Filangieri, autore della "Scienza
della legislazione" e uno dei massimi esponenti dell'illuminismo
napoletano.
Gli illuministi meridionali proponevano al giovane re oltre la
scienza della legislazione, la trasformazione della classe
dirigente, come suggeriva il
Genovesi, incentrando l'educazione
sull'economia, in modo da creare una mentalità e una classe di
imprenditori; una cultura anticuriale, propugnata dal Giannone, per
emancipare il Regno dall’influenza papalina; l’istituzione di
scuole
pubbliche per diffondere l’alfabetizzazione curata dal De Cosmi
; una rivoluzione in campo medico, con le
sperimentazioni sulle malattie infettive portate avanti dal
Cotugno
e la ristrutturazione dei manicomi del Pisani, con la fondazione
della Real Casa dei matti, dove i malati di mente non venivano
trattati come bestie da domare ma come persone da curare; una
legislazione sociale che ebbe felice applicazione alla
Reale Seteria
di San Leucio.
La cultura in soccorso dei governi per realizzare la città
dell'uomo, visto il fallimento della realizzazione della città di
Dio in terra.
Gli uomini di cultura suggerivano programmi per i ministri spagnoli,
toscani e inglesi che operavano alla Corte di Napoli, a
dimostrazione dell’universalità della cultura europea del settecento
illuminato. La cultura diventava “napoletana” se espressa a Napoli o
francese se espressa a Parigi, ma scevra dal timore di perdere
quella “identità” che, contrariamente a quanto oggi si predica da
più parti, viene ad essere persa proprio per la mancanza di
confronto e di apertura con altre tradizioni e “culture” popolari.
Nonostante tutto questo, nonostante le felici premesse, è indubbio
che Croce ebbe ragione ad affermare che il regno di Napoli iniziò il
suo declino nel 1799 allorché, quando la rivoluzione in Francia era
già finita, a Napoli esplose… la rivoluzione.
Questo evento lacerante annullò la collaborazione tra gli
illuministi e i Borbone (hanno avuto paura, che male c’è?)
. Alcuni degli intellettuali infatti passarono
dal ruolo di collaboratori del governo al ruolo di governanti di una
Repubblica con una
Costituzione di cui dirà razionalmente lo stesso
Cuoco, uno dei padri costituenti, che "se è buona per tutti gli
uomini, vuoi dire che non è buona per nessuno".
Nel '99 le riforme del Regno siculo-partenopeo erano ancora quasi
tutte da fare solo alcune cose erano state realizzate dai governanti
del "dispotismo illuminato". C’erano certamente San Leucio; il
catasto onciario che rendeva certe le proprietà; la stazione
marittima; l'Albergo dei Poveri; la limitazione del potere feudale
a difesa della libertà personale; un principio di rivoluzione
industriale con garanzie sociali, sanitarie e previdenziali. Ma si
trattava di “fiori all’occhiello”, e a quei fiori mancava l’asola (e
la giacca) su cui portarli!
Mancava la cosa più importante: la ricca borghesia imprenditrice
e la classe operaia. Mancava un forte substrato sociale e
consapevole su cui costruire una società solidale
.
La mancanza di una classe borghese e operaia diffusa nel regno
faceva si che nei bassi della capitale o delle città più importanti
e a pochi chilometri da esse, nelle campagne, cominciasse la miseria
ed il degrado sia fisico che civile. I “lazzari” saranno stati una
“simpatica” curiosità per i viaggiatori ma non erano certamente un
segno di benessere!
Purtroppo quella rivoluzione ormai fuori tempo, la repressione
violenta operata dalle truppe del cardinale Ruffo, il taglio netto
con gli intellettuali, impedironolo sviluppo dell’imprenditorialità che aveva visto il sorgere
di promettenti industrie che riguardavano la lavorazione del lino e
della canapa, le fonderie, gli stabilimenti meccanici, i cantieri
navali, il legno, la trasformazione dei prodotti della terra.
Duecento anni fa il regno meridionale non aveva niente da invidiare
a nessuno e, in Italia, per popolazione, forma urbana, arte,
rapporti con l'estero, era tra i primi. Poi accadde qualcosa, una
rivoluzione fuori tempo e soprattutto senza “corpo”. Il centro della
vita rimase quello di sempre: di qua la plebe, di là gli
aristocratici, il piano nobile e il “vascio”. Non si può istaurare
una democrazia se non c’è un popolo che la esercita. Non bastano
“repubbliche” né “costituzioni” se la società è costituita soltanto
da due fasce estreme, i servi e i padroni. Londra e Parigi, che
avevano gli stessi problemi, andarono avanti: ebbero la rivoluzione
borghese e industriale e man mano instaurarono la democrazia.
Realizzarono ciò che
G.B. Vico aveva teorizzato da tanto tempo:
posero davanti a tutto il diritto delle genti.
Non dissimile da allora è oggi la situazione in buona parte dei
territori meridionali: la mancanza di una classe sociale intermedia
matura, capace di muoversi in maniera indipendente e socialmente. Ci
troviamo di fronte ad una massa amorfa, ignorante, a-sociale,
disposta solo a farsi sfruttare nel miraggio di un facile guadagno
quotidiano. Niente di nuovo rispetto al popolo dei “lazzari” con la
differenza che oggi lo sfruttatore non è l’aristocrazia “illuminata”
ma la criminalità.
Con il 1799, gli intellettuali avevano di fatto rinunciato a quello
che era stato un elemento basilare e peculiare dell’illuminismo
napoletano: l’originalità, l’essere precursori e propulsori. Con
l’arrivo delle truppe francesi, si inizia la fase dei “liberatori” a
cui spalancare le porte e con cui collaborare in posizione gregaria.
Quest’atteggiamento si stabilizzerà nell’Ottocento dei “paglietti”,
e resterà presente fino ai nostri giorni con i politici meridionali
incapaci di elaborare strategie e politiche originali.
A Napoli, la porta del palazzo Serra di Cassano, fu riaperta nel
1995 in segno di riconciliazione con la cultura partenopea, dopo
duecento anni di ostinata chiusura. Alla fine della rivoluzione
napoletana del 1799, i Serra di Cassano avevano deciso di fare il
muso duro al re che aveva mandato a morte Gennaro, il principe
rivoluzionario, trasformando la facciata del loro palazzo in un
retro accecato, da esporre, per spregio, alla prospiciente reggia
dei Borbone. Nella odierna défaillance dell'ordine pubblico
napoletano, colpisce l'aggressione sistematica delle famiglie alle
volanti che vanno ad arrestare i loro criminali congiunti. A questa
resistenza tribale della malavita che capita solo a Napoli, almeno
nel mondo occidentale, vengono contrapposte riunioni, dibattiti,
statistiche, giudizi, invettive che, però, non recepiscono l’essenza
del problema: a Napoli si era rotto da tempo il tessuto sociale.
Colpisce ancor più l'ignoranza della storia. Napoli non è una città
qualunque, ma una delle due (ex) capitali italiane (l'altra è
Milano) che non hanno assimilato l'illuminismo dall'esterno, ma
l'hanno prodotto in loco. Nel Settecento la patria di Giambattista
Vico è stata una delle più importanti metropoli europee, assieme a
Parigi, Londra, Vienna, Pietroburgo e Madrid, e ha sviluppata una
sottile vocazione razionalista, ben rappresentata da
Filangieri,
Cuoco,
Giannone e tanti altri.
Ma nell'Ottocento l'eredità illuminista era stata persa di vista. E
così il velo di civiltà che copriva una plebe immensa e via via
sempre più povera, deportata dalle campagne e stipata nei bassi, si
era rotto e la città era rimasta senza educatori.
Da allora vi è come una nube a sostenere il castello delle
incongruenze napoletane: quella strana indulgenza e comprensione per
i difetti, e la convinzione di esserne individualmente esenti.
Continuiamo ad agire con la nostra teatralità, attenti a ben
figurare ed a pronunciare frasi ad effetto, farcite di antichi detti
e proverbi, indovinelli, perifrasi, insinuazioni.
Nel ‘700 gli intellettuali meridionali - magari numericamente pochi,
ma molto forti ideologicamente – furono capaci di ragionare in
termini di programmi e prospettive. Costoro perseguivano fini ideali
come il risveglio del pensiero, la diffusione dell'istruzione e il
rinnovamento culturale e civile che tuttavia avevano un importante
risvolto pratico come fisiocrati ed economisti, filosofi, moralisti
e legislatori ben sapevano nella convinzione che la conquista
dell’istruzione avrebbe portato ad un generale miglioramento delle
condizioni del popolo. La riforma settecentesca, contrariamente a
quanto piace credere, non voleva mirare all’indebolimento della
monarchia ma al suo rafforzamento con la conquista della pubblica
opinione, la preparazione di funzionari capaci e di sudditi fedeli,
la vittoria nel contrasto con il potere della Chiesa, in una parola
la realizzazione dell'assolutismo “illuminato”. Nel '700 per voce di
Antonio Genovesi,
Gaetano Filangieri, Scipione Maffei
si iniziò a realizzare quel legame tra scuola e mondo del lavoro che
da allora sarebbe stato considerato una conquista acquisita nella
storia delle istituzioni scolastiche e che ha portato allo sviluppo
di una “società civile”. E' proprio questo ceto, ricco di curiosità
intellettuale e critico nei confronti delle superstizioni religiose,
che sparirà completamente e definitivamente da Napoli e dal regno a
seguito del 1799. Ancora oggi non esiste.
il problema odierno dei “fetenti”, cioè di quella enorme
massa di napoletani che vivono nella violenza, malvivenza ed
ignoranza, è tuttora insoluto proprio per l'incapacità di formare
una classe media, istruita quanto basta per farle riconoscere ed
amare la legalità. Napoli si delinea così come un “luogo”, dove
vivono comunità diverse che si disprezzano tra di loro, in
un'incomunicabilità sociale che salva solo le apparenze.
Indicativa della perdita dei valori dell’illuminismo fu la maniera
di diffusione della
costituzione siciliana del 1812: non ci fu una
versione “in siciliano”, ma la divulgazione e l’interpretazione per
il popolo fu affidata ai “preti”, unico "mezzo di comunicazione/
persuasione/ superstizione/ coercizione" tra classi che, pur vivendo
fisicamente nello stesso “topos”, erano tra di loro distanti
anni luce: i padroni, grandi o piccoli, ma pur sempre padroni,
l’aristocratico ed i suoi “campieri” e i servi da sfruttare e
manipolare.
Tutti attaccatissimi alla terra, alla città, alla civiltà, ai
prodotti, alla cultura … nessuno però che si curi di "uomini":
l'umanità si ferma alla famiglia e agli antenati, i simili non
esistono, o tutt'al più sono un fastidio.
È questo eccesso di individualismo che sta alla base dell'asocialità
meridionale, sfruttata e alimentata ad arte da
approfittatori-politici-malviventi di varie latitudini. L'eccesso di
individualismo genera anche la perversa questione sociale, cioè la
comunità (sic!) suddivisa economicamente in caste, e razzialmente in
"signori" e "popolo".
Tra la fine del 700 ed oggi non c'è molta differenza, in fondo!
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
novembre 2006
A. Genovesi nelle sue analisi mette in luce lo stretto
rapporto fra istruzione ed economia è messo in luce dalle
analisi di, che sostengono l'importanza di una estesa rete
di scuole di base e la moltiplicazione delle scienze utili e
di uomini che producano. “ In un popolo colto – scrive
Genovesi - sono sì importanti le teorie, ma non è necessario
che siano “troppo comuni”, “ben è importante, che
il sieno le pratiche delle Scienze utili. E’ bene che vi
sieno de’ gran Geometri, Fisici, Astronomi, Architetti, ecc.
Teologi: ma non è necessario, né utile, che sieno soverchi”.
“Io non comprendo già in questo le scuole del leggere, e
di scrivere la propria lingua: conciosiacché non faccia
male, ch’elleno sieno alquanto più numerose di quelle delle
Scienze, servendo a dare dello spirito alla nazione, e più
di destrezza e finezza all’Arti”.
Il legame fra lo sviluppo delle attività produttive ed
economiche e la crescita culturale e civile delle
popolazioni è sottolineato anche da Giovanni Agostino De
Cosmi in Ragionamento su la pubblica educazione, che
parte dall’analisi delle condizioni di miseria e di
arretratezza della Sicilia; osservava De Cosmi che "la
condizione estremamente povera è d'un ostacolo invincibile
alla formazione sociale della mente e de' sentimenti; toglie
il coraggio alle radici, impicciolisce lo spirito, e lo
rende pressoché insensibile al dolce senso del dovere di
uomo, di padre, e di cittadino". Il governo doveva
quindi farsi carico di una istruzione di base per tutti con
un "metodo chiaro, spedito, uniforme" per offrire gli
strumenti della cultura nazionale, utili "quanto basta al
comune servigio" e allo svolgimento dei diversi mestieri
e delle principali attività professionali.
Bibliografia -
Gleijeses Vittorio, La Storia di Napoli, Società Editrice
Napoletana, 1977
-
Gleijeses Vittorio, La guida storica, artistica, monumentale,
turistica della città di Napoli e dei suoi dintorni, Società
Editrice Napoletana, 1979
-
Maggiani Maurizio, La classe media non si misura sui soldi,
articolo 11/06, Il Secolo XIX
-
Vertone Saverio, Napoli e il tabù della tolleranza zero,
articolo 11/06, Il Secolo XIX
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