L’uomo e la famiglia
I titoli di principe di Palagonia e principe di Lercara Friddi non
erano che i primi di una serie dei quali don Francesco Paolo Gravina
poteva fregiarsi. Ma forse il principale era proprio quello di
chiamarsi “Gravina”, uno dei cognomi del Sud che più grondano di
storia. Cento sono i rivoli dei Gravina: i Montevago, i Comitini, i
Ramacca, i Grifeo, tanto per citarne solo alcuni dei più illustri e
solo tra i siciliani.
Francesco Paolo, nato a Palermo il
5 febbraio 1800, fu l’8° ed ultimo dei Gravina di Palagonia e di
Lercara, perché, non avendo avuto né figli né fratelli, con lui si
estinse quel ramo, e il titolo dei Palagonia e gli altri infiniti
titoli (duca di Valverde, marchese di Francofonte, barone di almeno
quattordici feudi e signore di quasi altrettanti) passarono ai
principi Grifeo di Partanna, che tuttora se ne fregiano. Quelli che
non erano trasmissibili, perché gli appartenevano come persona,
erano: Grande di Spagna di Prima Classe, Pari ereditario del Regno,
Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro e Gentiluomo di Camera di Sua
Maestà con esercizio
.
Ma Francesco Paolo, vivendo a differenza dei suoi avi
una vita semplice e donata al prossimo, sembrò non accorgersi di
questo grondare di titoli – ai quali corrispondevano sostanziosi
beni – tanto che oggi i più distratti ritengono che quando si parla
del principe di Palagonia ci si riferisca al suo originale nonno,
Francesco Ferdinando II, 7° principe di Palagonia, il quale aveva
terminato i lavori dell’intero complesso monumentale di villa
Palagonia a Bagheria con le decorazioni e gli arredi interni ed
esterni, finendo per far conoscere nel mondo quella sua residenza
quale la “Villa dei Mostri” per la particolare decorazione
che aveva voluto adornasse i muri esterni dei corpi bassi, formata
da statue in "pietra tufacea d'Aspra", raffiguranti animali
fantastici, figure antropomorfe, statue di dame e cavalieri,
musicanti e caricature varie.
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Francesco
Ferdinando II, 7° principe di Palagonia |
La villa, però, possiede ben altre bellezze e uno
straordinario disegno unitario, con tutti gli elementi che si
sviluppano e agiscono coordinatamente rispetto all'asse del viale.
Molto particolare è lo scalone a doppia rampa, realizzato in pietra
calcarea, sotto il fastoso principesco stemma della famiglia
Gravina.
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I “mostri” che
sembrano ancora correre sui muri di villa Palagonia |
Francesco Paolo Gravina era un uomo diverso dal
bizzarro, geniale e anticonformista nonno.
Giovanissimo aveva sposato Nicoletta Filangeri e Pignatelli, una
delle mani più ambite della Palermo nobile, che, dopo un decennio di
vita matrimoniale burrascosa, lo aveva lasciato per Francesco Paolo
Notarbartolo e Vanni, principe di Sciara. Lo scandalo era scoppiato
in una Palermo non certo nuova a episodi di infedeltà, specialmente
nell’ambiente sociale dei giovani coniugi, ma ghiotta di quelli che
oggi chiamiamo gossip. Mentre Nicoletta rimaneva al
fianco del giovane principe di Sciara per tutta la vita (lo sposò
quando rimase vedova del primo marito nel 1854),
Francesco Paolo Gravina restò fedele a quel vincolo, non accettò
compromessi di alcun genere, accettò la sua solitudine – dal
matrimonio non erano nati figli – e iniziò un lungo soliloquio con
se stesso, che sfociò in una decisione altrettanto scioccante per il
suo ambiente sociale.
Palazzo Palagonia e palazzo Sciara erano a distanza di
pochi passi, a Palermo, nell’antica, nobile via Alloro. Ma a pochi
passi c’era anche la bellissima chiesa di Santa Maria degli Angeli,
ricca di opere d’arte e di suggestioni religiose, con il convento
annesso dei frati minori dove era possibile parlare cuore a cuore
con frati di santa vita. Era l’uomo, però, non le eventuali
occasioni, a tracciare a se stesso la strada da percorrere: “preciso,
metodico, puntiglioso e con la tempra dell’organizzatore di razza,
che nulla lascia al caso. Inoltre era un Gravina di Palagonia,
l’ultimo discendente di quella stirpe di accorti accumulatori di
beni che, in cinquecento anni, avevano solo ammassato ricchezze fino
a farle giungere in quantità immensa nelle sue mani…”.
Al termine di un anno di riflessione, e al termine del lungo e
spregiudicato colloquio con se stesso compiuto sotto gli occhi di
Dio, stavano presenti due irrefutabili realtà. La prima erano le sue
immense proprietà, la seconda era lo sterminato popolo di infelici,
che già nella vecchia Palermo circondava i palazzi dei signori.
Quell’amara, orrenda processione di esseri deformi o comunque
sfortunati che al suo avo Francesco Ferdinando era parso così
spiritoso farsi raffigurare in pietra e porre intorno alla sua villa
di delizia a Bagheria, come sberleffo alla società e alla vita,
assumeva ai suoi occhi un aspetto diverso e perfino calamitante.
Scrisse poi nel suo testamento che questa era stata la sua “irrevocabile
decisione”: sarebbe rimasto solo l’amministratore di quegli
immensi beni i cui veri proprietari sarebbero divenuti da quel
momento tutti i diseredati della vita.
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Il principesco
scalone di ingresso a Villa Palagonia a Bagheria |
Ma il principe di Palagonia non diventa per questo un
filantropo misantropo, dedito alle pratiche di carità e di pietà
religiosa. Se i salotti dove la nobiltà palermitana puntava ai
tavoli da gioco fortune incalcolabili non lo videro mai, e se i
lussuosi equipaggi (carrozze e cavalli) per i quali i patrizi si
coprivano di debiti mai lo tentarono, il suo impegno civico fu
invece netto e costante lungo tutta la vita: fu pretore di Palermo
nel 1834 e presidente della Commissione Centrale per la Sanità,
incarichi che – a lui che già percorreva i vicoli maleodoranti della
città per incontrarvi i miserabili che la abitavano – gli
consentirono di svolgere documentate indagini per la soluzione del
problema della mendicità.
Il problema della mendicità
Era questo, infatti, uno dei grandi problemi dell’Europa
dell’Ottocento e Palermo vi era dentro in tutta la sua drammaticità.
In più, erano gli anni nei quali si parlava della ripresa di uno dei
grandi mali del tempo, il colera, del quale si paventava
l’avvicinarsi dal nord Europa e si prendevano misure per arginarne
l’arrivo e diminuirne gli spaventosi effetti. Francesco P. Gravina,
pretore di Palermo e presidente della Commissione Centrale di
Santità riceve una ministeriale di Antonio Lucchesi Palli, principe
di Campofranco e luogotenente generale del re in Sicilia, che
sollecita le autorità cittadine, proprio in vista dell’avvicinarsi
del colera, a provvedere alla nettezza delle strade e all’alloggio
notturno dei mendicanti.
Non esiste la possibilità di un confronto preciso con
la nostra categoria mentale di mendicante. E’ la povertà di oggi che
è diversa da quella di ieri, che era uno spaventoso stato sociale,
le cui dimensioni e i cui aspetti non si trovano più in Europa. Ha
scritto Brancato “…non è possibile sul piano storico instaurare
un confronto, che perciò non avrebbe senso”
L’atteggiamento delle autorità nei confronti della massa viscida e
sfuggente dei poveri era di creare dei depositi, dove
rinchiuderli e renderli inoffensivi:
“Per i funzionari dell’ordine pubblico e per i gestori delle opere
pie, i ricoverati e gli affamati diventavano sinonimo di vagabondi,
briganti, ladri, oziosi, provocatori di rivolte e pubblici untori.”
Una serie di spietate leggi sui poveri tentò di estinguere la
mendicità con un’azione più di polizia che di carità, e pene severe
furono previste per i mendicanti renitenti. poveri tentò di
estinguere la mendicità con un’azione più di polizia che di carità,
e pene severe furono previste per i mendicanti renitenti.
Un funzionario diverso
Nel 1835 viene affidato al principe di Palagonia l’incarico di
fondare e reggere il Deposito di Mendicità e nel 1839 la presidenza
dell’Albergo dei Poveri. In fondo non sarebbe stato altro che un
alto burocrate, un grand commis dello stato. Ma da questi
incarichi la sua esistenza viene singolarmente e definitivamente
condizionata.
Ed è il suo rapporto con i poveri che è diverso, è
l’atteggiamento di un’anima cristiana. Sin dall’inizio, la sua
ricerca del luogo dove installare l’immenso ospizio è una ricerca
non da deposito, ma da casa di lavoro, lavoro non coatto ma
redentore dall’ozio e dal vagabondaggio. E inoltre gli spazi ampi,
le suppellettili, i vestiti fino ai berretti di lana, il vitto
proporzionato alle necessità, i medici e i chirurghi e i cappellani…
La concezione del “Deposito di mendicità di Palermo” era dunque
nella mente di Francesco Paolo Gravina un’opera di misericordia, che
veniva istituita dal governo invece che dalla chiesa, ma che aveva
come scopo la redenzione del povero.
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Villa Sperlinga (oggi villa Palagonia) la prima sede
del “Deposito di Mendicità” |
Nel 1835 nasce dunque il “Deposito di Mendicità” e
circa cinquecento mendicanti vi vengono ospitati. Quattro anni dopo,
nel 1839, Francesco Paolo Gravina viene eletto Presidente del Reale
Albergo dei Poveri di Palermo e vi trova altri mille ospiti, tra
vecchie, fanciulle e ragazzi. Tra queste due date sono da collocare
due avvenimenti: il colera del 1837, che devastò Palermo arrivando
da lontano, e la fondazione delle Suore di Carità. Il colera vide il
principe di Palagonia tra i pochissimi nobili a rimanere al loro
posto. “Scappano… un gran numero di nobili, sacerdoti, magistrati
e proprietari”, scrive A. Sansone nel suo fondamentale studio “La
Sicilia nel Trentasette”, in Archivio Storico Siciliano, NS 14,
ma definisce il principe “angelo consolatore dei miseri”
perché l’eroismo del Gravina arriva al punto di assistere
personalmente i contagiati e – poiché gli ospedali li rifiutano - ad
offrirsi alle autorità perché gli si desse un locale adatto e dei
medici, e potesse curarli separatamente. Quando il colera lascia
Palermo, anche le sue opere sono devastate e molti suoi poveri e
collaboratori morti. Ma l’uomo possiede risorse immense e scrive:
“Si doveva di nuovo seriamente pensare a tutto riorganizzare”.
Le Suore di Carità
La gestazione dell’istituto che avrebbe preso il suo stesso posto
nella storia e nei fatti delle opere benefiche del principe di
Palagonia, non fu facile né breve. Lui stesso dovette convincersi di
poter fondare – laico convinto qual era – un ordine religioso. Il
Deposito di Mendicità, pur tra difficoltà enormi, aveva preso
quell’aspetto di casa di lavoro che fin dall’inizio era stato
nei suoi progetti. Nella villa Sperlinga F.P. Gravina aveva
impiantato un laboratorio di ceramiche faentine per gli uomini, i
quali inoltre provvedevano in squadre alla pulizia della città, un
laboratorio di tessitura per le donne, per la cui direzione aveva
chiamato due famosi maestri svizzeri, i coniugi Helg, ma non era
ancora soddisfatto.
La richiesta al luogotenente generale del re di poter
istituire un Corpo di Sorelle di Carità è del 1843, ma un gruppo di
signore palermitane avevano iniziato dieci anni prima ad assistere i
poveri del principe e si erano trasformate in suore, anche se
l’istituzione giuridica sarebbe stata così tardiva. Le suore avevano
presto preso possesso - negli immensi istituti: villa Sperlinga,
l’Albergo dei Poveri e le altre dipendenze – della direzione, dei
laboratori, della cucina, dell’infermeria, mentre loro stesse
prendevano un posto importante nel cuore del principe che le avrebbe
sempre considerate le figlie che non aveva avuto. A loro trasmise
quella carità e quella misericordia verso gli infelici che sarebbe
divenuta la loro caratteristica e che ne avrebbero fatte le naturali
continuatrici della sua missione.
L’uomo politico
Francesco Paolo Gravina non si occupò di
politica in modo professionale, ma il suo rango – specialmente
l’essere Pari ereditario del Regno - e le gravi circostanze che
occorsero nel ventennio che precedette il crollo della dinastia
borbonica fecero sì che vi fosse coinvolto. Negli anni Trenta era
stato pretore di Palermo e presidente della Commissione Centrale di
Sanità, ma era stato quindi un amministratore. Nel 1848 la
rivoluzione che dilagava in Europa lo costrinse ad assumere un
atteggiamento preciso: il 25 marzo, quando il parlamento dichiarò la
perdita di ogni diritto dei Borbone al trono di Sicilia, il principe
era presente e fu tra i pari che firmarono il famoso decreto. Il
nuovo regime visse poco più di un anno. Denis Mac Smith dà il senso
del momento: “Mentre Ferdinando restaurava la sua posizione di
despota a Napoli i parlamentari litigavano su questioni marginali”.
Francesco P. Gravina in quanto pari era spesso presente nell’Aula
della Camera Alta, della quale però il parlamento rifiutava
l’autorità con i fatti con le parole. Usò il voto che gli spettava,
ma spesso vanamente. Ha scritto Rosario Romeo: “Tutta la vita
politica rivoluzionaria fu imperniata sulla Camera dei Comuni, di
fronte alla quale passò in secondo piano la Camera Nobile”.
Quando gli eventi travolsero la rivoluzione, però, mentre la maggior
parte dei deputati e dei pari chiedevano perdono al re e
assicuravano di essere stati costretti ad appoggiarla, egli rifiutò
di rinnegare la sua adesione al decreto, rispondendo che “i
principi di Palagonia, pria che con la mano erano usi a firmar colla
testa”.
Perdette il favore della corte, fu privato dei diritti di pari
del regno e di grande di Spagna e gli si vietò di indossarne le
insegne.
Era stato a lui, però, che Palermo si era rivolta
(insieme al vescovo Ciluffo, al marchese di Rudinì e al conte Lanza)
per parlamentare con Carlo Filangieri, principe di Satriano, e
offrigli la sottomissione della città e ottenere l’amnistia
generale, che fu concessa, con poche riserve.
Francesco P. Gravina mantenne però il suo posto di
presidente dell’Albergo dei Poveri e del Deposito di Mendicità. La
sua vita fu colmata dalla carità, dai problemi immensi che
provenivano dalla direzione di due enormi luoghi di raccolta colmi
si poveracci, che venivano sistematicamente ignorati dalle autorità,
che ne scaricavano il mantenimento su di lui e sulle sue ricchezze.
Francesco Paolo Gravina proseguì nella sua vita di benefattore, fino
al giorno in cui, morendo, il 15 aprile del 1854, rivelò la sua
anima prescrivendo che il suo corpo fosse rivestito della tonaca
francescana e attraversando a cassa scoperta la città così fosse
portato all’eremo di Baida. La sua causa di beatificazione ha
superato il processo diocesano ed è ormai alla sacra congregazione
per le causa dei santi a Roma. Ma il ricordo dell’uomo che fu,
supera gli aspetti di religione e di fede, ed entra legittimamente
nella memoria storica come quello di un grande siciliano, fiero,
nobile e generoso.
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15 maggio 2000,
Municipio di Palermo, Salone delle Aquile. La città rende onore al
suo grande figlio e installa un suo ritratto tra le immagini dei
sindaci dal passato più glorioso |
Umberto Castagna
Ottobre 2011
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