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Don Francesco Paolo Gravina

Principe di Palagonia

di Umberto Castagna

Francesco Paolo Gravina (5 Febbraio 1800 - 15 Aprile 1854)

 

L’uomo e la famiglia

I titoli di principe di Palagonia e principe di Lercara Friddi non erano che i primi di una serie dei quali don Francesco Paolo Gravina poteva fregiarsi. Ma forse il principale era proprio quello di chiamarsi “Gravina”, uno dei cognomi del Sud che più grondano di storia. Cento sono i rivoli dei Gravina: i Montevago, i Comitini, i Ramacca, i Grifeo, tanto per citarne solo alcuni dei più illustri e solo tra i siciliani.

Francesco Paolo, nato a Palermo il 5 febbraio 1800, fu l’8° ed ultimo dei Gravina di Palagonia e di Lercara, perché, non avendo avuto né figli né fratelli, con lui si estinse quel ramo, e il titolo dei Palagonia e gli altri infiniti titoli (duca di Valverde, marchese di Francofonte, barone di almeno quattordici feudi e signore di quasi altrettanti) passarono ai principi Grifeo di Partanna, che tuttora se ne fregiano. Quelli che non erano trasmissibili, perché gli appartenevano come persona, erano: Grande di Spagna di Prima Classe, Pari ereditario del Regno, Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro e Gentiluomo di Camera di Sua Maestà con esercizio [1].

Ma Francesco Paolo, vivendo a differenza dei suoi avi una vita semplice e donata al prossimo, sembrò non accorgersi di questo grondare di titoli – ai quali corrispondevano sostanziosi beni – tanto che oggi i più distratti ritengono che quando si parla del principe di Palagonia ci si riferisca al suo originale nonno, Francesco Ferdinando II, 7° principe di Palagonia, il quale aveva terminato i lavori dell’intero complesso monumentale di villa Palagonia a Bagheria con le decorazioni e gli arredi interni ed esterni, finendo per far conoscere nel mondo quella sua residenza quale la “Villa dei Mostri” per la particolare decorazione che aveva voluto adornasse i muri esterni dei corpi bassi, formata da statue in "pietra tufacea d'Aspra", raffiguranti animali fantastici, figure antropomorfe, statue di dame e cavalieri, musicanti e caricature varie.

Francesco Ferdinando II, 7° principe di Palagonia

La villa, però, possiede ben altre bellezze e uno straordinario disegno unitario, con tutti gli elementi che si sviluppano e agiscono coordinatamente rispetto all'asse del viale. Molto particolare è lo scalone a doppia rampa, realizzato in pietra calcarea, sotto il fastoso principesco stemma della famiglia Gravina.

I “mostri” che sembrano ancora correre sui muri di villa Palagonia

Francesco Paolo Gravina era un uomo diverso dal bizzarro, geniale e anticonformista nonno.[2] Giovanissimo aveva sposato Nicoletta Filangeri e Pignatelli, una delle mani più ambite della Palermo nobile, che, dopo un decennio di vita matrimoniale burrascosa, lo aveva lasciato per Francesco Paolo Notarbartolo e Vanni, principe di Sciara. Lo scandalo era scoppiato in una Palermo non certo nuova a episodi di infedeltà, specialmente nell’ambiente sociale dei giovani coniugi, ma ghiotta di quelli che oggi chiamiamo gossip. Mentre Nicoletta rimaneva al fianco del giovane principe di Sciara per tutta la vita (lo sposò quando rimase vedova del primo marito nel 1854),[3] Francesco Paolo Gravina restò fedele a quel vincolo, non accettò compromessi di alcun genere, accettò la sua solitudine – dal matrimonio non erano nati figli – e iniziò un lungo soliloquio con se stesso, che sfociò in una decisione altrettanto scioccante per il suo ambiente sociale.

Palazzo Palagonia e palazzo Sciara erano a distanza di pochi passi, a Palermo, nell’antica, nobile via Alloro. Ma a pochi passi c’era anche la bellissima chiesa di Santa Maria degli Angeli, ricca di opere d’arte e di suggestioni religiose, con il convento annesso dei frati minori dove era possibile parlare cuore a cuore con frati di santa vita. Era l’uomo, però, non le eventuali occasioni, a tracciare a se stesso la strada da percorrere: “preciso, metodico, puntiglioso e con la tempra dell’organizzatore di razza, che nulla lascia al caso. Inoltre era un Gravina di Palagonia, l’ultimo discendente di quella stirpe di accorti accumulatori di beni che, in cinquecento anni, avevano solo ammassato ricchezze fino a farle giungere in quantità immensa nelle sue mani…”.[4] Al termine di un anno di riflessione, e al termine del lungo e spregiudicato colloquio con se stesso compiuto sotto gli occhi di Dio, stavano presenti due irrefutabili realtà. La prima erano le sue immense proprietà, la seconda era lo sterminato popolo di infelici, che già nella vecchia Palermo circondava i palazzi dei signori. Quell’amara, orrenda processione di esseri deformi o comunque sfortunati che al suo avo Francesco Ferdinando era parso così spiritoso farsi raffigurare in pietra e porre intorno alla sua villa di delizia a Bagheria, come sberleffo alla società e alla vita, assumeva ai suoi occhi un aspetto diverso e perfino calamitante. Scrisse poi nel suo testamento che questa era stata la sua “irrevocabile decisione”: sarebbe rimasto solo l’amministratore di quegli immensi beni i cui veri proprietari sarebbero divenuti da quel momento tutti i diseredati della vita. [5]

Il principesco scalone di ingresso a Villa Palagonia a Bagheria

Ma il principe di Palagonia non diventa per questo un filantropo misantropo, dedito alle pratiche di carità e di pietà religiosa. Se i salotti dove la nobiltà palermitana puntava ai tavoli da gioco fortune incalcolabili non lo videro mai, e se i lussuosi equipaggi (carrozze e cavalli) per i quali i patrizi si coprivano di debiti mai lo tentarono, il suo impegno civico fu invece netto e costante lungo tutta la vita: fu pretore di Palermo nel 1834 e presidente della Commissione Centrale per la Sanità, incarichi che – a lui che già percorreva i vicoli maleodoranti della città per incontrarvi i miserabili che la abitavano – gli consentirono di svolgere documentate indagini per la soluzione del problema della mendicità.

Il problema della mendicità

Era questo, infatti, uno dei grandi problemi dell’Europa dell’Ottocento e Palermo vi era dentro in tutta la sua drammaticità. In più, erano gli anni nei quali si parlava della ripresa di uno dei grandi mali del tempo, il colera, del quale si paventava l’avvicinarsi dal nord Europa e si prendevano misure per arginarne l’arrivo e diminuirne gli spaventosi effetti. Francesco P. Gravina, pretore di Palermo e presidente della Commissione Centrale di Santità riceve una ministeriale di Antonio Lucchesi Palli, principe di Campofranco e luogotenente generale del re in Sicilia, che sollecita le autorità cittadine, proprio in vista dell’avvicinarsi del colera, a provvedere alla nettezza delle strade e all’alloggio notturno dei mendicanti.

Non esiste la possibilità di un confronto preciso con la nostra categoria mentale di mendicante. E’ la povertà di oggi che è diversa da quella di ieri, che era uno spaventoso stato sociale, le cui dimensioni e i cui aspetti non si trovano più in Europa. Ha scritto Brancato “…non è possibile sul piano storico instaurare un confronto, che perciò non avrebbe senso” [6]. L’atteggiamento delle autorità nei confronti della massa viscida e sfuggente dei poveri era di creare dei depositi, dove rinchiuderli e renderli inoffensivi:

“Per i funzionari dell’ordine pubblico e per i gestori delle opere pie, i ricoverati e gli affamati diventavano sinonimo di vagabondi, briganti, ladri, oziosi, provocatori di rivolte e pubblici untori.” [7] Una serie di spietate leggi sui poveri tentò di estinguere la mendicità con un’azione più di polizia che di carità, e pene severe furono previste per i mendicanti renitenti. poveri tentò di estinguere la mendicità con un’azione più di polizia che di carità, e pene severe furono previste per i mendicanti renitenti.

Un funzionario diverso

Nel 1835 viene affidato al principe di Palagonia l’incarico di fondare e reggere il Deposito di Mendicità e nel 1839 la presidenza dell’Albergo dei Poveri. In fondo non sarebbe stato altro che un alto burocrate, un grand commis dello stato. Ma da questi incarichi la sua esistenza viene singolarmente e definitivamente condizionata.

Ed è il suo rapporto con i poveri che è diverso, è l’atteggiamento di un’anima cristiana. Sin dall’inizio, la sua ricerca del luogo dove installare l’immenso ospizio è una ricerca non da deposito, ma da casa di lavoro, lavoro non coatto ma redentore dall’ozio e dal vagabondaggio. E inoltre gli spazi ampi, le suppellettili, i vestiti fino ai berretti di lana, il vitto proporzionato alle necessità, i medici e i chirurghi e i cappellani… La concezione del “Deposito di mendicità di Palermo” era dunque nella mente di Francesco Paolo Gravina un’opera di misericordia, che veniva istituita dal governo invece che dalla chiesa, ma che aveva come scopo la redenzione del povero.

Villa Sperlinga (oggi villa Palagonia) la prima sede del “Deposito di Mendicità”

Nel 1835 nasce dunque il “Deposito di Mendicità” e circa cinquecento mendicanti vi vengono ospitati. Quattro anni dopo, nel 1839, Francesco Paolo Gravina viene eletto Presidente del Reale Albergo dei Poveri di Palermo e vi trova altri mille ospiti, tra vecchie, fanciulle e ragazzi. Tra queste due date sono da collocare due avvenimenti: il colera del 1837, che devastò Palermo arrivando da lontano, e la fondazione delle Suore di Carità. Il colera vide il principe di Palagonia tra i pochissimi nobili a rimanere al loro posto. “Scappano… un gran numero di nobili, sacerdoti, magistrati e proprietari”, scrive A. Sansone nel suo fondamentale studio “La Sicilia nel Trentasette”, in Archivio Storico Siciliano, NS 14, ma definisce il principe “angelo consolatore dei miseri” perché l’eroismo del Gravina arriva al punto di assistere personalmente i contagiati e – poiché gli ospedali li rifiutano - ad offrirsi alle autorità perché gli si desse un locale adatto e dei medici, e potesse curarli separatamente. Quando il colera lascia Palermo, anche le sue opere sono devastate e molti suoi poveri e collaboratori morti. Ma l’uomo possiede risorse immense e scrive: “Si doveva di nuovo seriamente pensare a tutto riorganizzare”.

Le Suore di Carità

La gestazione dell’istituto che avrebbe preso il suo stesso posto nella storia e nei fatti delle opere benefiche del principe di Palagonia, non fu facile né breve. Lui stesso dovette convincersi di poter fondare – laico convinto qual era – un ordine religioso. Il Deposito di Mendicità, pur tra difficoltà enormi, aveva preso quell’aspetto di casa di lavoro che fin dall’inizio era stato nei suoi progetti. Nella villa Sperlinga F.P. Gravina aveva impiantato un laboratorio di ceramiche faentine per gli uomini, i quali inoltre provvedevano in squadre alla pulizia della città, un laboratorio di tessitura per le donne, per la cui direzione aveva chiamato due famosi maestri svizzeri, i coniugi Helg, ma non era ancora soddisfatto.

La richiesta al luogotenente generale del re di poter istituire un Corpo di Sorelle di Carità è del 1843, ma un gruppo di signore palermitane avevano iniziato dieci anni prima ad assistere i poveri del principe e si erano trasformate in suore, anche se l’istituzione giuridica sarebbe stata così tardiva. Le suore avevano presto preso possesso - negli immensi istituti: villa Sperlinga, l’Albergo dei Poveri e le altre dipendenze – della direzione, dei laboratori, della cucina, dell’infermeria, mentre loro stesse prendevano un posto importante nel cuore del principe che le avrebbe sempre considerate le figlie che non aveva avuto. A loro trasmise quella carità e quella misericordia verso gli infelici che sarebbe divenuta la loro caratteristica e che ne avrebbero fatte le naturali continuatrici della sua missione.

L’uomo politico

Francesco Paolo Gravina non si occupò di politica in modo professionale, ma il suo rango – specialmente l’essere Pari ereditario del Regno - e le gravi circostanze che occorsero nel ventennio che precedette il crollo della dinastia borbonica fecero sì che vi fosse coinvolto. Negli anni Trenta era stato pretore di Palermo e presidente della Commissione Centrale di Sanità, ma era stato quindi un amministratore. Nel 1848 la rivoluzione che dilagava in Europa lo costrinse ad assumere un atteggiamento preciso: il 25 marzo, quando il parlamento dichiarò la perdita di ogni diritto dei Borbone al trono di Sicilia, il principe era presente e fu tra i pari che firmarono il famoso decreto. Il nuovo regime visse poco più di un anno. Denis Mac Smith dà il senso del momento: “Mentre Ferdinando restaurava la sua posizione di despota a Napoli i parlamentari litigavano su questioni marginali”.[8] Francesco P. Gravina in quanto pari era spesso presente nell’Aula della Camera Alta, della quale però il parlamento rifiutava l’autorità con i fatti con le parole. Usò il voto che gli spettava, ma spesso vanamente. Ha scritto Rosario Romeo: “Tutta la vita politica rivoluzionaria fu imperniata sulla Camera dei Comuni, di fronte alla quale passò in secondo piano la Camera Nobile”.[9] Quando gli eventi travolsero la rivoluzione, però, mentre la maggior parte dei deputati e dei pari chiedevano perdono al re e assicuravano di essere stati costretti ad appoggiarla, egli rifiutò di rinnegare la sua adesione al decreto, rispondendo che “i principi di Palagonia, pria che con la mano erano usi a firmar colla testa”.[10] Perdette il favore della corte, fu privato dei diritti di pari del regno e di grande di Spagna e gli si vietò di indossarne le insegne.

Era stato a lui, però, che Palermo si era rivolta (insieme al vescovo Ciluffo, al marchese di Rudinì e al conte Lanza) per parlamentare con Carlo Filangieri, principe di Satriano, e offrigli la sottomissione della città e ottenere l’amnistia generale, che fu concessa, con poche riserve.

Francesco P. Gravina mantenne però il suo posto di presidente dell’Albergo dei Poveri e del Deposito di Mendicità. La sua vita fu colmata dalla carità, dai problemi immensi che provenivano dalla direzione di due enormi luoghi di raccolta colmi si poveracci, che venivano sistematicamente ignorati dalle autorità, che ne scaricavano il mantenimento su di lui e sulle sue ricchezze. Francesco Paolo Gravina proseguì nella sua vita di benefattore, fino al giorno in cui, morendo, il 15 aprile del 1854, rivelò la sua anima prescrivendo che il suo corpo fosse rivestito della tonaca francescana e attraversando a cassa scoperta la città così fosse portato all’eremo di Baida. La sua causa di beatificazione ha superato il processo diocesano ed è ormai alla sacra congregazione per le causa dei santi a Roma. Ma il ricordo dell’uomo che fu, supera gli aspetti di religione e di fede, ed entra legittimamente nella memoria storica come quello di un grande siciliano, fiero, nobile e generoso.

15 maggio 2000, Municipio di Palermo, Salone delle Aquile. La città rende onore al suo grande figlio e installa un suo ritratto tra le immagini dei sindaci dal passato più glorioso

Umberto Castagna

Ottobre 2011


Note

[1] La fonti principali da cui si possono trarre le notizie sulla famiglia Gravina di Palagonia si trovano in: Archivio di Stato di Palermo, Archivio Gravina di Palagonia e di Lercara, Inventario n. 81; in: Fedele Pollaci Nuccio, Cenni sulla Famiglia Gravina Cruyllas e sull’ultimo Principe di Palagonia, Palermo, 1897; e in: Vincenzo Palizzolo Gravina, La Casa Gravina, Cenno e Tavole Genealogiche, Palermo, 1887. Altre fonti importanti vengono citate nel corso della narrazione.

[2] Su Francesco Ferdinando II, VII principe di Palagonia, Giovanni Macchia ha scritto una deliziosa biografia: Il Principe di Palagonia, Mostri, sogni, prodigi nelle metamorfosi di un personaggio, Mondadori, 1978.

[3] Vedi: Archivio di Stato di Palermo, Archivio Notarbartolo di Sciara e di Castelreale, Inventario n° 104.

[4] Umberto Castagna, L’ultimo Principe, Storia di don Francesco Paolo Gravina, principe di Palagonia, II ed, Arte Tipografica Editrice, Napoli, 1998, pag. 103.

[5] Ultime disposizioni dell’Ecc.mo Sig. D.Francesco di P.F. Gravina, Principe di Palagonia e Lercara, ecc. ecc., Palermo, 1887, IV ed. con aggiunte.

[6] F. Brancato, Società e poveri nella Sicilia dell’Ottocento e l’opera di G. Cusmano, in Atti del II Convegno di Studi Cusmaniani,Palermo, 1985.

[7] A. Gambasin, Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo, Roma, 1979, pag. 60.

[8] Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari, 1970, p. 565.

[9] Il risorgimento in Sicilia, Bari, 1950, p. 295.

[10] F. Pollaci Nuccio, cit. p. 14.

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