Tratto dal saggio di GIOVANNI RAFFAELE, “Istruzione ed educazione nell'ultimo cinquantennio borbonico”, in “Contributi per un bilancio del Regno Borbonico”, edito dalla Fondazione Lauro Chiazzese, 1990.
Adattamento a cura di Fara Misuraca e Alfonso Grasso Il clericalismoLe disposizioni emanate nei decenni della Restaurazione riguardano non soltanto - come vedremo - la direzione degli studi, ma anche la vita quotidiana degli studenti, tenuti a presentare periodicamente il certificato di battesimo, attestazioni comprovanti l'adempimento dell'obbligo della comunione pasquale o l'appartenenza a una delle tante congregazioni di spirito [1]. All'università di Napoli, per esempio, per conseguire i gradi accademici era necessario esibire un certificato del prefetto di spirito [2].
Il concordato del 1818 e il decreto del 1821 sono due tappe importanti di questo processo di clericalizzazione dell'insegnamento, che culmina nel 1843, quando venne ufficialmente delegata ai vescovi la discrezionalità pressoché assoluta su ogni provvedimento riguardante le scuole comunali e i loro insegnanti, a partire dal loro reclutamento. Un decreto del 1849, teso a meglio specificarne gli ambiti, prescriveva che “gli arcivescovi e i vescovi nelle loro diocesi rispettive saranno gli ispettori nati dei collegi, dei licei, degli istituti e di ogni altra scuola d'insegnamento pubbliche o private per tutto ciò che si riferisce alla parte religiosa e morale, tanto scientifica quanto disciplinare" [3]. Tali disposizioni furono precisate e rafforzate con il successivo decreto del 18 ottobre 1849 (esteso alla Sicilia il 15 novembre dello stesso anno), che puntualizzava, tra l'altro, i requisiti necessari agli insegnanti per esercitare la loro professione: "Considerando che il nobile uffizio di maestro deesi affidare solamente alle persone che veramente sono istruite nelle scienze che insegnano, e che la base di ogni insegnamento debba essere la Religione Cattolica Romana, parte d'ogni civiltà... Qualunque sia la scienza che voglia insegnarsi, coloro che aspirano ad essere maestri dovranno subire un esame in lingua italiana sul Catechismo grande della Dottrina Cristiana; rispondendo altresì a’ quesiti sulla medesima Dottrina relativi alla scienza che si propongono d'insegnare, i quali saranno indicati dal Consiglio generale di pubblica istruzione... Se taluno volesse insegnare il solo leggere e scrivere, dovrà almeno avere ottenuta la cedola in belle lettere e subire l'esame sul catechismo della Dottrina Cristiana. Le donne che assumono la qualità di maestre per insegnare sia le arti donnesche, sia il leggere e scrivere, saranno tenute ad insegnare eziandio il Catechismo suddetto" [4].
Se questa egemonia poteva, sia pure parzialmente, essere contrastata nelle città più grandi (dove, almeno fino al 1848, funzionavano numerosi studi privati), essa era invece totale in provincia, nei piccoli centri e nei distretti rurali, dove l'insegnamento era impartito per lo più a base di latino, retorica, filosofia morale, secondo un metodo rigido e consacrato, volto a determinare nel ragazzo un atteggiamento di sottomissione intellettuale e morale.
Non bisogna dimenticare però che spesso tale insegnamento era l’unica alternativa che si presentava in molte realtà a chi volesse ricevere una sia pur elementare istruzione e, in certi casi, anche una più completa erudizione. Gli scolopi e i gesuiti, spesso in concorrenza tra loro, e anche i teatini monopolizzavano il settore educativo, a volte anche con discreti risultati, come nel caso del Collegio Massimo dei gesuiti a Palermo, ritenuto a lungo la migliore scuola secondaria dell'isola. Numerose iniziative sorgevano localmente, fosse per spirito cristiano e per fervore missionario o per più terreni disegni di controllo sociale. L'opera educativa era in ogni caso finalizzata soprattutto all'obiettivo di diffondere il catechismo e difendere la dottrina cristiana. In questo campo un ruolo di rilievo svolse la "Congregazione della dottrina cristiana per i fanciulli", sorta a Palermo all'inizio del Settecento e ancora attiva nell'Ottocento, a opera di chierici e laici e diretta dai vescovi e, localmente, dai parroci [5]. Essa si preoccupava che i ragazzi adempissero sistematicamente i doveri istituzionali del buon cristiano, imponendo - se era il caso - l'esibizione del certificato di confessione al preside della scuola, sotto pena di espulsione. Ma i vescovi che nella Congregazione avevano il punto di riferimento si impegnarono anche ad aprire scuole serali e festive per i figli di contadini e artigiani impossibilitati a frequentare quelle diurne e invitarono i parroci ad alfabetizzare, catechizzandoli, "i figli del popolo" [6].
Pur tenendo conto degli aspetti positivi della presenza del clero nel campo dell'istruzione e del loro necessario ruolo di supplenza, non si possono però non rilevare i limiti che questa egemonia comportò sia sul piano della preparazione professionale che su quello di contenuti e metodi. Esemplare, a riguardo, è il regolamento dei concorsi a cattedra (emanato nell'ottobre 1849), riservati ai candidati anche laici. Agli esaminandi di logica e metafisica si ponevano quesiti che rimandavano, per così dire, a una razionalità tomistica: "Si può difendere - si chiede nel primo quesito - lo scetticismo senza distruggere la fede?"; e nel dodicesimo: "II metodo empirico può servirsi in filosofia senza recar pregiudizio alla dottrina cattolica?"; e nel trentaquattresimo: "Può dirsi con i razionalisti che i misteri della Rivelazione cattolica, altro non sono se non sviluppi di verità naturali, opportuni a rendere questi intelligibili al rozzo intendimento del volgo?"; o ancora nel trentacinquesimo: "Ripugna all'umana ragione il dogma cattolico dell'eternità delle pene?". Al di là dell'ambiguità dei quesiti, che potevano facilmente trasformarsi in trappole dottrinarie, gli avvertimenti finali del regolamento sciolgono ogni dubbio: "Avvertenza: non si vogliono nelle risposte lunghe dimostrazioni, ma basta, rispondendo, mostrare che si conosce la materia e notare le opinioni che sulla medesima offender possono la Chiesa Cattolica" [7].
Gli insegnanti
L'insegnante così formato finiva con l'essere d'ostacolo all'introduzione di sistemi pedagogici e didattici più moderni, limitandosi spesso a elementari nozioni di religione o a predicare rassegnazione e obbedienza [8].
Scelta dei maestri, imposizione di orari, contenuti, metodi, tecniche disciplinari: l'egemonia confessionale appare dunque abbastanza salda e strettamente aderente agli obiettivi politici generali della Restaurazione. Ma il quadro così non sarebbe completo. Infatti, nonostante le remore e le diffidenze da cui l'istruzione pubblica era circondata, cresceva lentamente il numero degli alunni, cui non teneva dietro quello degli insegnanti. La carenza, quantitativa e qualitativa, del corpo docente costituiva indubbiamente una strozzatura determinante del sistema educativo. La supplenza del clero, come abbiamo visto, colmava in parte questa lacuna ed era agevolata dai Borboni per la sua maggiore affidabilità. Ma non era sufficiente e il ricorso ai laici si rendeva inevitabile. Non infrequente perciò era il caso di cattedre affidate a insegnanti non patentati, spesso impreparati e che talvolta non sapevano neanche leggere e scrivere. Pur essendo sanzionato legislativamente l'obbligo della patente (o, in subordine, della licenza), erano previste (al di là della tacita accettazione delle situazioni di irregolarità e di corruzione) deroghe abbastanza ampie, attraverso istruzioni provvisorie, circolari, decreti che esentavano dal possesso dei requisiti legali. Questa pratica venne, per così dire, ufficializzata definitivamente nel 1858, come risulta dalla circolare inviata dall'intendente Rosica alle autorità scolastiche provinciali il 7 aprile: “II munificente e clemente nostro re e signore, intento sempre a veder risvegliata la condizione dei suoi sudditi, ha inculcato che sia provveduto alla istruzione primaria colla nomina dei maestri e maestre onde arrecar utile in ispecie alla gente povera. A conseguire siffatto scopo, ove per avventura in qualche municipio non vi fossero sacerdoti a potere essere prescelti a maestri, ha permesso d'includere nelle terne anche i laici; e se degli uni e degli altri siavi difetto, potranno proporsi anche persone che abbiano cura di anime, a tenore del real rescritto del 14 aprile 1852. Le agevolazioni inoltre autorizzate per le femmine, in caso di mancanza di idonee persone, sono di potersi includere nelle teme eziandio donne che non sappiano né leggere né scrivere, coll'obbligo però di farsi coadiuvare da persone capaci approvate dall'ordinario diocesano" [9].
Si trattava verosimilmente di un risultato inevitabile delle difficoltà e delle modalità di un reclutamento che spesso rispondeva più a criteri di opportunità politiche che di qualità professionali. Se infatti determinante e soffocante era il controllo clericale, altrettanto condizionante era il filtro politico attraverso il quale l'insegnante era costretto a passare. "Le commissioni - noterà Aubè nel 1872 - si succedevano l'una all'altra, tutte egualmente disarmate; l'intolleranza del Governo e la sfiducia erano agli estremi. La scienza, la competenza, la capacità erano le condizioni meno importanti nella scelta dei professori; esigendosi più che altro la qualità politica, ne passandosi ad una elezione prima dell'attestato della polizia, e del certificato di religione e di buona condotta" [10].
Tutto ciò influiva negativamente sulla qualità dell'insegnamento, spesso impartito dilettantescamente e senza la minima padronanza delle più elementari cognizioni didattiche e metodologiche. In una relazione inviata da Caltanissetta alla Commissione Suprema di pubblica istruzione di Palermo si lamenta, per esempio, che i fanciulli disertino le lezioni, ma se ne attribuisce la responsabilità soprattutto al corpo docente, "primo perché spesso non si portano i Maestri al locale della scuola in ora solita e stabilita, secondo perché svogliato ed insufficiente è il loro insegnamento" [11]. Dalla raccolta di giudizi della Commissione sulla qualità dei maestri, risulta altresì che molti si presentavano in aula ubriachi, tenevano atteggiamenti immorali e si mostravano "privi di ogni scrupolo" [12].
Certamente non contribuiva alla nobiltà del comportamento del maestro e della sua missione il livello degli stipendi. Nella sua opera del 1844 sull'istruzione primaria, Marchese, dopo avere deplorato la pessima qualità dell'insegnamento, ne riconduceva le cause, tra l'altro, proprio alla bassa remunerazione dei maestri: "Infine, sia per la tenuità dello stipendio, sia per negligenza delle comunali deputazioni, gli istitutori non si consacrano all'istruzione con l'assiduità e l'impegno necessario, per ottenere il fine desiderato. Gli stipendi assegnati a’ pubblici istitutori sono assai tenui, da non potere somministrare mezzi di sussistenza neppure a persona dell'infima classe del popolo” [13].
Lo stipendio non solo era basso (e la sua corresponsione dipendente dallo stato delle finanze comunali e dall'arbitrio degli amministratori), ma variava anche da luogo a luogo, creando disparità, confusione, precarietà. Se nella parte continentale del regno, tra gli anni Trenta e Cinquanta, oscillava intorno a 50 ducati annui, con frequenti tendenze al ribasso, al limite dei dieci ducati, in Sicilia oscillava mediamente tra i 50 e gli 80 ducati, con forti differenziazioni locali. Negli anni Cinquanta lo stipendio a Caltanissetta variava tra un minimo di 23 ducati, un massimo di 72 e uno medio di 50; a Catania le cifre rispettivamente erano 12, 240, 45; a Girgenti, 15, 108, 48; a Messina, 12, 175, 35; a Siracusa, 30, 130, 64; a Palermo, 17, 192, 42; a Trapani, 25, 120, 58. A Caltanissetta 10 maestri riscuotevano uno stipendio tra 50 e 70 ducati e solo 3 oltre i 70 ducati; a Catania, rispettivamente, 9 e 10 maestri; a Girgenti, 10 e 3; a Messina, 6 e 6; a Siracusa, 10 e 12; a Palermo, 11 e 18; a Trapani, 9 e 7; nell'intera Sicilia, 65 e 49 [14]. A Catania, nel 1844, lo stipendio medio dei 71 maestri (60 uomini e 11 donne) era mediamente di 37 e 23 ducati, per una spesa complessiva comunale di 2647,21 ducati [15].
Ma le cifre nella loro asetticità non rendono sufficientemente conto delle ristrettezze economiche dei maestri. Il paragone con altre categorie di lavoratori è molto più eloquente. Secondo Vigo, “a Napoli, tra il 1840 e il 1850, il compenso giornaliero di un muratore - uguale a quello di un fabbro o di un falegname – si aggirava intorno alle 40 grana, qualcosa come 100 ducati all'anno, mentre i 9/10 dei maestri guadagnavano meno di 60 ducati” [16]. Era una retribuzione che difficilmente consentiva la sussistenza familiare. Nel 1810, scrive Cosimato, “per sostenere una famiglia di cinque persone e cioè un fuoco (il catasto onciario di Carlo III aveva fissato in cinque persone la media dei componenti di ogni fuoco), occorrevano non meno di quattro carlini al giorno per il solo vitto, costituito da cinque rotoli di pane, due di legumi ed ortaggi. Considerato che un carlino era la decima parte del ducato, il maestro di Ceraso, uno dei più fortunati coi suoi quattro ducati al mese, se aveva moglie e tre figli, aveva da essere tranquillo per centoquaranta giorni all'anno solo a pane, legumi e ortaggi: ed i maccheroni costavano all'ingrosso quindici ducati al cantaio, cioè 89 kg, l'olio 20, la carne bovina 19 grana al rotolo e via dicendo” [17].
Il nostro povero maestro era così costretto a ricorrere al doppio lavoro; anzi spesso l'insegnamento costituiva il guadagno accessorio per fabbri, calzolai, sarti. Oppure si dedicava, più o meno proficuamente, al mercato delle cattedre, come doveva rilevare, nella sua angosciata relazione del 1855, il consultore di Stato, Capomazza: "Spesso ancora ho rilevato che alcuni si procurino la nomina a maestro non per insegnare direttamente ai fanciulli, ma per costituirsi un beneficio personale (quanto grande la miseria che poteva trovare nel miserabile soldo un beneficio!) ed incaricare altri per l'insegnamento, o col condividerne il soldo, o con dame una piccola frazione al maestro sostituto. In tal modo la scuola si tiene da persone le più abbiette e le meno capaci" [18].
Non deve allora stupire la scarsa considerazione in cui era tenuta (e sarà tenuta fino a tutto l'Ottocento anche nello Stato unitario) la figura del maestro: condizionato politicamente, reclutato arbitrariamente, controllato dall'apparato confessionale, pagato poco e senza regolarità, impreparato per forza delle cose e obbligato a integrare lo stipendio con lavori assolutamente incongruenti con la sua professione. Così lo troverà De Sanctis: "Lo stato in cui si trovano i maestri è deplorabile. Costretti ad esercitare i più umili e talora bassi uffici per accattarsi la vita, rozzi, pedanti, sono essi tenuti in pochissimo conto presso l'universale, talché non vi è nome tanto stimabile, e così poco stimato, come quello del maestro di scuola"[19].
I metodi di insegnamento
"Eccesso di studio grammaticale; prevalenza del latino sull'italiano; scarsa o niuna conoscenza della lingua e degli autori; precetti rettorici, e niuna notizia delle opere a cui riferisconsi; assoluta mancanza di esercizi per migliorare le potenze intellettive, ecco che sono, in che peccano e di che mancano le nostre scuole elementari" [20]. Così si esprimeva nel 1838 Castiglia.
"L'insegnamento - aggiungeva Marchese - si trova ordinariamente nel fatto limitato al solo leggere, scrivere, ed alle più semplici combinazioni dei numeri. L'istruzione Religiosa, de' doveri sociali e del sistema metrico nella massima parte delle scuole è trascurata. Il leggere e lo scrivere si esegue da' fanciulli macchinalmente e si odono tuttavia ripetere le monotone cantilene che addimostrano come per essi è un semplice esercizio materiale" [21]. Le osservazioni di Castiglia e Marchese coglievano gli aspetti negativi più diffusi dell'istruzione nel Regno delle due Sicilie, a cominciare dalla mnemonica meccanica.
Ma invero il loro giudizio è forse troppo severo. A prescindere infatti dai progetti settecenteschi (Filangeri, Cuoco, ecc.), anche nel corso della Restaurazione non mancarono tentativi di rinnovamento pedagogico, sia sul piano della riflessione teorica sia su quello delle pratiche realizzazioni. Il punto di svolta è segnato indubbiamente da De Cosmi, cui nel 1788 venne affidata la direzione delle scuole, in cui iniziò ad applicare il cosiddetto metodo normale. Nato in Prussia, e diffusosi soprattutto attraverso l'opera di La Salle e dello stesso Federico II, filtrato, attraverso il riformismo teresiano nel Lombardo-Veneto e da qui, con la mediazione di Vuoli, nel Regno delle due Sicilie, venne elaborato nella sua forma più completa da De Cosmi, che lo interpretava alla luce della cultura formale e dell'empirismo di impronta lockiana, di cui si professava seguace.
L'insegnamento prevalente allora era quello individuale, in corrispondenza, d'altronde, con la concezione dell'istruzione riservata a una minuscola élite, da cui uscivano i quadri dirigenti. Questo tipo di sistema didattico non poteva non entrare in crisi con lo sviluppo di un'istruzione estesa ai ceti medi e, gradualmente, anche ai figli delle classi più povere. Il metodo normale offriva il grande vantaggio della simultaneità, per la quale un gran numero di scolari poteva essere seguito dal maestro nel suo insieme e, al tempo stesso, in base all'età, alle caratteristiche, alla loro capacità di ricezione e di apprendimento e alla loro preparazione, gli alunni venivano distribuiti in classi omogenee, secondo una gradualità prestabilita. Il metodo prevedeva infatti la suddivisione in due corsi, inferiore e superiore, ciascuno di due anni. Nel primo s'imparava a leggere, scrivere e svolgere le quattro operazioni aritmetiche. Nel secondo, facoltativo (al termine del primo biennio si lasciavano liberi i genitori di avviare i figli al lavoro), si leggevano classici come il "Fiore di virtù", scelti per l'intensità morale e la purezza della lingua; si iniziava lo studio delle parti del discorso e si approfondivano le implicazioni della matematica maggiormente utilizzabili nella vita pratica dei ceti più umili, che più oltre non avrebbero proseguito gli studi. Il progetto di De Cosmi prevedeva inoltre un secondo grado, rivolto alla gente "mezzana" (commercianti, artigiani), in cui si sarebbero dovuti studiare geometria, economia, disegno, agronomia; un terzo grado, di impronta più schiettamente umanistica, a base di latino, storia, geografia, etica, logica, metafisica; e un quarto grado, coincidente con l'università [22].
Quanto alla didattica, De Cosmi rifuggiva da ogni meccanicismo mnemonico. Egli prestava la massima attenzione alla questione linguistica, considerata la chiave di volta della formazione di un intelletto razionale e ordinato, e all'analisi psicologica, filtrata attraverso la lezione lockiana (sensazione e riflessione come fasi successive). Perciò lettura e scrittura non avrebbero dovuto essere operazioni meccaniche, ma graduali e rese vive da contenuti ad alta intensità morale.
Dopo le prime sperimentazioni, indubbiamente coraggiose e proficue, il metodo normale andò gradualmente isterilendosi e irrigidendosi, soprattutto a causa di una gestione burocratica. Restavano però le sue conquiste di fondo e, in particolare, la simultaneità dell'insegnamento, che lo rendeva agli occhi di molti contemporanei il più adatto all'istruzione popolare. Lo esaltava, per esempio, negli anni Venti, Mercurino Ferrara, perché, a suo dire, esso "sostituiva a quello individuale l'insegnamento collettivo; contribuiva a rendere più agevole il corso delle lezioni, ordinandole in modo che ciascuna di esse fosse di preparazione a quella successiva più difficile; e proponeva un procedimento che, utilizzando le domande, le ripetizioni, le letture e, per l'insegnamento dell'alfabeto, le tabelle e le lettere iniziali, sviluppava l'intelligenza degli scolari, metteva ordine nelle loro cognizioni e favoriva una memoria ferma e tenace" [23]. Il solo limite che Ferrara (e altri con lui) individuava stava nella difficoltà insita nel servirsi di un criterio analitico, ostico per le menti dei fanciulli.
Qui si inseriscono la novità e la fortuna del mutuo insegnamento. Non erano mancate nei primi due decenni dell'Ottocento altre proposte pedagogiche: valgano per tutti i progetti stilati (in particolar modo da Ortolani e Roberto) in occasione del concorso bandito in concomitanza con la concessione della costituzione del 1812, ma che non furono mai presi in considerazione dal governo borbonico, che, pure, li aveva sollecitati [24]. Ma il sistema bell-lancasteriano, introdotto a Napoli nel 1817 dall'abate Scoppa (nativo di S. Lucia del Mela, in provincia di Messina) e in Sicilia, a Palermo, nel 1819, dall'abate Scovazzo, è l'unico che riuscì a imporsi all'attenzione generale e a svilupparsi in concorrenza con il normale.
Indubbiamente i motivi del suo successo vanno ricercati innanzitutto nel fatto che - ancor più che il sistema di De Cosmi - poteva ovviare all'insufficiente numero dei maestri e consentiva al tempo stesso un discreto livello di risparmio per le pubbliche finanze. Secondo il suo indirizzo, infatti, l'insegnamento veniva impartito in un'unica grande classe suddivisa in otto livelli, corrispondenti alle capacità acquisite dagli scolari, i quali si spostavano lungo i gradi predisposti in base ai miglioramenti o peggioramenti fatti registrare. A ogni livello era preposto un "monitore" (in genere un alunno del livello superiore), che sorvegliava l'andamento dell'istruzione e costituiva il tramite del passaggio da un livello all'altro. Un unico maestro era preposto all'intera classe, sorvegliandola, guidandola e intervenendo nei casi più difficili o laddove il monitore non era all'altezza di controllare il processo cognitivo e disciplinare.
I tre principi portanti del metodo erano dunque la simultaneità, la classificazione, la reciprocità: elementi tutti che risultavano efficaci "nel rinsaldare il senso della responsabilità, il sentimento dell'onore, lo spirito di emulazione e nel favorire la pratica dell'autogoverno" [25]. Per queste sue caratteristiche il metodo lancasteriano fu accolto favorevolmente dagli esponenti liberali, più attenti - per motivi complessi e spesso contraddittori - all'istruzione popolare. E inizialmente suscitò infatti i sospetti della Commissione Suprema di Pubblica Istruzione, che tentò di bloccarlo dopo i moti del 1820-21, attribuendogli una nefasta influenza, contraria ai principi di autorità e di subordinazione; ma riprese slancio nel 1822 e, al momento dell'unità, contava scuole pressoché in tutti i comuni siciliani, procedendo parallelamente al metodo normale.
Certamente il mutuo insegnamento non era scevro da difetti e i suoi avversari furono pronti nel coglierli e attaccarli. Il principale critico è il messinese F. Bartolomeo, che espone le sue osservazioni ragionate in un opuscolo del 1839. La sua tesi di fondo è che "il mutuo insegnamento dei due inglesi è destinato: 1° alla sola educazione del popolo, 2° che malamente adempie questa importante incombenza, 3° ch'è incapace di formare la mente e il cuore de' fanciulli agiati e civili, 4° ch'è inapplicabile allo studio delle lingue, delle belle lettere e della filosofia". Esso ha indubbiamente dei meriti, a partire dalle economie di scala che consente e che Bartolomeo paragona alla divisione del lavoro della sorgente industria capitalistica europea: "Siccome le macchine, rendendo inutile l'opera di moltissime braccia, diminuiscono il prezzo delle manifatture, e n'estendono l'uso ad ogni classe di persone: così il metodo del mutuo insegnamento, che ha per base la parsimonia delle spese, somministra a' poveri qualche sparuta particella di quell'istruzione, che ordinariamente è la privativa de' ricchi".
I difetti, secondo Bartolomeo, consistono soprattutto nell'impartire un'istruzione superficiale, effimera, incompiuta; essa inoltre sarebbe anche meccanica, attenta alla materia delle parole, non al loro contenuto, che non lascia tracce nella mente e nel cuore degli scolari.
Sul piano politico, poi, il mutuo insegnamento allargherebbe il solco tra le classi, contribuendo così all'inasprimento di quelle tensioni sociali che in teoria vorrebbe allentare. E ciò è dovuto al numero limitato di materie previste nel curriculum scolastico e, quindi, soprattutto, alle gravi esclusioni che ne derivano: "L'educazione intellettuale, morale e fisica della prima età – nota Bartolomeo - dev'essere tale da servire a' bisogni di tutti i fanciulli di qualsiasi stato, e condizione. Nelle scuole infantili devono i figli del ricco, del patrizio, del magistrato, del negoziante avvezzarsi a non isdegnare i cenci de' figli del contadino e dell'artigiano, e a non riguardarli come esseri appartenenti ad una specie meno nobile, e privilegiata. Le scuole infantili devono essere il ritrovo in cui gli uni e gli altri convengono per conoscersi e avvicendarsi gli affetti d'amicizia e di benevolenza, primaché negli anni dell'adolescenza la diversità degli affari, delle professioni, delle abitudini, delle fortune induca una necessaria separazione. L'istruzione nelle scuole alla Lancaster per la natura delle materie, alle quali si limita, e per quella del metodo è così acciabbattata, che in esse concorrono que' soli fanciulli, che non sono in tale agiatezza da procurarsene una migliore. L'istruzione adunque di queste scuole, restringendosi alla classe più bisognosa della società, esclude un mezzo facile e pratico d'unire tutti gli uomini nella fanciullezza, e produce in coloro, che le frequentano, e in coloro che se ne astengono, de' sentimenti, e delle tendenze opposte a quelle che nascerebbero dall'identità de' primi studi, e dalla comunanza delle abitudini infantili".
Sul piano morale, infine, il mutuo insegnamento insinuerebbe sentimenti di invidia e di emulazione perniciosa, di rivalità insanabile: chi corregge il compagno non lo fa per il suo bene, ma per sostituirsi più facilmente a lui nella scalata dei livelli e nella corsa al posto di monitore, figura insidiosa, per i margini di arbitrio di cui gode e per la contrapposizione tra gruppi che crea. Inoltre - non ultimo difetto - il sovraffollamento delle scuole lancasteriane, se positivo dal punto di vista economico, può risultare dannoso da quello dell'apprendimento e della crescita morale individuale: "Le affollatissime scuole lancasteriane - conclude Bartolomeo - e la loro divisione in piccole parti istruite e governate da' rispettivi monitori rendono il maestro isolato, e quasi solitario, e gli tolgono il campo alle osservazioni ed agli esperimenti necessari per conoscere la varia influenza delle cause testé indicate sopra i fanciulli, e le loro azioni" [26].
Conclusioni
Nonostante tutto, dunque, il dibattito non è spento e si registrano anche pratiche realizzazioni, come ho cercato di mettere in evidenza attraverso le statistiche. Ma in una vantazione complessiva le zone d'ombra superano decisamente gli spiragli di luce. Le condizioni economiche e civili del regno, e della Sicilia in particolare, così come l'arretratezza culturale e l'oscurantismo dei sovrani e della chiesa, sono di ostacolo a un'emancipazione dei settori più umili della società, di cui l'istruzione popolare avrebbe dovuto essere il sostegno principale. Anche i tentativi più illuminati e le sporadiche iniziative riformistiche del sovrano si fermano di fronte ai timori delle possibili conseguenze sul piano delle tensioni sociali. In questo quadro l'istruzione popolare è una graziosa concessione dall'alto, di cui si devono garantire limiti e finalità. "In breve - commenta Bonetta – si voleva rendere organicamente funzionale un tipo di istruzione popolare alla conservazione di uno status quo politico e sociale che non perorava una educazione realmente emancipatrice e stimolatrice delle virtù popolari, ed innovativa dal punto di vista sociale, quanto appagatrice degli umili e secolari bisogni del popolo. La nocività dell'istruzione generalizzata era individuata in quei caratteri “propri” della medesima, cioè nei suoi elementi di progresso intellettuale e civile apportatori di disgregazione culturale e di destabilizzazione socio-economica, che mal si conciliavano con la restaurazione dinastica e politica" [27].
In quest'ottica si comprendono anche i limiti e la prudenza dei settori progressisti e liberali, al di là della repressione che, pure, periodicamente li colpiva e dei dissidi che dividevano moderati e democratici [28]. Questi ceti intellettuali sono ancora animati, insomma, da una concezione di sé e della società che li fa oscillare tra paternalismo e separatezza di fronte ai ceti subalterni. "A Palermo, ma in tutte le principali città dell'isola - osserva Palazzolo - non si sono ancora create le premesse per un mutamento radicale dell'attività intellettuale che resta monopolio di eruditi o storiografi, pur noti nell'ambiente nazionale, ma scarsamente desiderosi di costituire un punto di riferimento e di iniziativa nella situazione locale" [29].
Emancipazione sociale e politica hanno ancora per molti intellettuali progressisti un significato incomprensibile per i settori più svantaggiati della popolazione. Rivolgendosi ai suo elettori nel 1848, Vito d'Ondes Reggio esclamava: "La patria sorge alla libertà... Libertà intera nell'insegnamento, il quale è l'aureo vincolo che unisce gli adulti alle giovani generazioni che vi aspirano per lo proprio bene, per lo bene e la speranza della patria. Presso un popolo libertà ricchezze beneficienze gentilezze potenza, ogni magnanimità, gloria, ogni prosperità partono dalla scienza, come ogni danno ed ogni vergogna dall'ignoranza... Taluni argomenti del sapere non debbono sconoscersi da alcuna generazione di cittadini; che non imparino che leggere e scrivere, non basta, è troppo poco; è d'uopo che tutti apprendano le verità certe e più importanti all'umanità, e le fondamentali proprie leggi, e ciascuno poi i principi del mestiere o dell'arte a cui si da" [30].
Lo stesso De Sanctis, nel suo progetto di riforma del 1848, pur lottando per l'allargamento e la diffusione dell'istruzione, ne contempera le conseguenze con il consueto richiamo all'educazione: "Dare a tutti gli ordini sociali la medesima istruzione è non solo vanità ma danno; che un'istruzione superiore al bisogno ed al proprio stato alimenta disordinati desideri, desta passioni che non si possono soddisfare, rendeci inquieti e scontenti, e mitre di ambizione, di vanità e di superbia i nostri animi" [31].
Ancora una volta emerge l'insanabile contraddizione tra la necessità della diffusione dell'istruzione e la difesa degli interessi di una classe che si va costituendo come classe dirigente sul piano economico e politico. Non debbono stupire allora i ritardi accumulati nel campo dell'alfabetizzazione rispetto a paesi a struttura sociale più avanzata e che avrebbero gettato la loro ombra lunga anche sui decenni successivi nel nuovo Stato unitario.
Note
[1] Nota D. Bertoni Jovine: "In questa atmosfera l'insegnamento catechistico, che aveva il merito di non aver mai turbato il sistema sociale durante tanti secoli, riprese il suo predominio. Le iniziative statali furono o del tutto trascurate o spogliate di ogni velleità innovatrice e abbandonate alla direzione del clero". D. BERTONI JOVINE, Storia della scuola popolare..., cit., p. 65.
[2] Cfr. R. DE CESARE, op. cit., p. 396; A. ZAZO, L'ultimo periodo borbonico, cit., p. 574.
[3] La citazione dal decreto del 28.6.1849 è in G. LEANTI, L'istruzione elementare in Sicilia dagli Arabi fino al 1860, Noto 1924, p. 40.
[4] II testo del decreto del 18.10.1849 (esteso alla Sicilia il 15.11.1849) è citato in G. AUBÈ, Studio sulla pubblica istruzione in Sicilia e particolarmente sulla storia dell'Università di Palermo, Palermo 1872, pp. 29-30.
[5] Tutte le notizie e le citazioni sono contenute in "Congregatio panormitana", 1852 e riportate in A. GAMBASIN, Religiosa munificienza e plebi in Sicilia nel 'XIX secolo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1979, pp. 199-200.
[6] Ibidem. Questo ruolo insostituibile del clero non era solo favorito dalla politica governativa, ma addirittura auspicato anche da riformatori non certo in odore d'incenso, come Castiglia, il quale proponeva (coniugando tensione all'alfabetizzazione e riforma del parassitismo clericale) di affidare l'insegnamento proprio agli ecclesiastici, in virtù del loro alfabetismo e del minor costo economico che comportava il loro impiego, previo ammaestramento in una scuola centrale di metodo che garantisse l'uniformità dell'insegnamento. B. CASTIGLIA, op. cit., p. 62.
[7] Il testo del regolamento è in A. SANTONI RUGIU, op. cit., pp. 59-60.
[8] Vivacissima è la descrizione dei collegi ecclesiastici, che ebbe modo di frequentare, in Settembrini, che ricorda tristemente il suo come "una prigione di un centinaio di fanciulli che stanno inginocchiati o seduti per la maggior parte del giorno ed apprendono dottrine cristiane e in lingua latina... recitano sempre rosarii, litanie e Angelus e con lo stesso tono anche le lezioni di scuola. Educare lì non è altro che spezzare ogni volontà nei giovinetti, non farli ragionar mai, ridurli a stupida e fratesca obbedienza. Imparano cose inutili... escono di collegio ignoranti e increduli per istizza". L. SETTEMBRINI, Ricordanze della mia vita, Laterza, Bari 1934, vol. I, p. 8.
[9] Il testo della circolare è in D. BERTONI JOVINE, Storia della scuola popolare..., cit., p.244.
[10] G. AUBÈ, op. cit., p. 28.
[11] La testimonianza è riportata in G. VIGO, op. cit., p. 44.
[13] S. MARCHESE, Della primaria istruzione del popolo considerata qual precipuo mezzo di migliorare le condizioni dell'industria siciliana, Catania 1844, p. 18.
[14] Le cifre sono ricavate da A. CRIMI, I primordi..., cit.
[15] Le cifre sono in R. ROMEO, op. cit., p. 274.
[16] G. Vigo, Il maestro elementare italiano nell'Ottocento. Condizioni economiche e status sociale, in "Nuova Rivista Storica", nn. 1-2, 1977, p. 53.
[17] D. COSIMATO, Note e ricerche archivistiche su l'istruzione pubblica nella provincia di Salerno, Salerno 1967, p. 61.
[18] La relazione Capomazza è riportata in I. ZAMBALDI, op. cit., pp. 97-98.
[19] F. DE SANCTIS, Rapporto sul progetto di legge per il riordinamento dell'istruzione primaria di Napoli (2.9.1848), in G. Vico, Il maestro elementare..., cit., pp. 61-62.
[20] B. CASTIGLIA, op. cit., p. 33.
[21] S. MARCHESE, op. cit., p. 17.
[22] Per quanto riguarda il metodo di De Cosmi, cfr. G. LEANTI, op. cit. e I. ZAMBALDI, op. cit.
[23] L'opuscolo di Mercurino Ferrara è citato in A. CRIMI, I primordi..., cit., p. 89.
[24] Cfr. A. CRIMI, / primardi..., cit., pp. 30-60.
[25] F. CANGEMI, op. cit., p. 431.
[26] F. BARTOLOMEO, op. cit., pp. 9, 29, 91-92, 129.
[27] G. BONETTA, op. cit., p. 36.
[28] Così, per esempio, il progetto di Lanza di Scordia negli anni '50 per l'avocazione allo stato dell'istruzione elementare è presentato sotto forma di umile richiesta al sovrano, di cui si continuarono a lodare le supposte istanze riformistiche.
[29] M. I. PALAZZOLO, Editori, librai e intellettuali. Viesseux e i corrispondenti siciliani, Liguori, Napoli 1980, p. 24.
[30] V. D'ONDES REGGIO, Ai miei elettori, in "L'Indipendenza e la Lega", 27 marzo 1848.
[31] F. DE SANCTIS, Scritti e discorsi sull'educazione, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 35.
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