Alessandro Luzio ha scritto che nell'autografo dell'inno
di Mameli, conservato presso il Museo del Risorgimento
di Genova (Istituto Mazziniano) sono evidenti le tracce
"dell'eruzione vulcanica" con cui sgorgano dall'anima
del poeta "quelle strofe ispirate". L'illustre storico,
così continua:
«Come rivoli di lava, le strofe proruppero quasi
indipendenti l'una dall'altra e simultanee, sicché il
poeta con più riposato senso d'arte, dové poi dar loro
un ordine diverso da quello che occupavano nel primo
getto tumultuario, perché apparissero più logicamente
concatenate. L'inno cominciava in origine con un "Evviva
l'Italia - l'Italia s'è desta»: quel grido parve banale
al Mameli, che ripudiò, perché troppo faticosa e
letteraria, la variante «È sorta dal feretro - L'Italia
s'è desta». E forse operò altri cambiamenti, sinché non
gli scattò la vera parola di quel momento di santi
entusiasmi - l'appello ai "fratelli d'Italia" che tutti
dovevano insorgere e darsi la mano nella guerra allo
straniero. Era tale la concitazione febbrile del poeta
nel vergare quell'inno alato, ond'era data una voce
possente alla rivoluzione italiana, che egli non poté
scrivere que' pochi e brevi versi, senza calpestare da
ribelle in tutto, anche l'ortografia. Voi cerchereste
invano nell'autografo regolarità di punteggiatura e di
accenti: incontrate invece molti trascorsi di penna -
Itatia o Ilia per Italia, ero per creò, stringiamgi per
stringiamci, Ballilla per Ballila, gionchi per giunchi»
.
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Goffredo Mameli (Genova 1827 - Roma 1849).
Foto quirinale.it |
Il Luzio non accetta la data suggerita dal Barrili che
colloca la composizione dell'inno al settembre del 1847
e non ha dubbi su quanto aveva affermato Paolo Boselli
in una sua commemorazione mameliana che la indica al 10
novembre dello stesso anno
. Lo statista
savonese si era basato sulla data riportata
nell'autografo conservato presso il Museo del
Risorgimento di Torino, ma quel documento non è che una
bella copia dell'inno trascritta per essere inviata a
Cesare Valerio, il quale doveva sottoporla alla
revisione della censura torinese per essere poi
pubblicata nella raccolta di poesie e prose che doveva
uscire in quella città col titolo "Dono nazionale a
Carlo Alberto». È ovvio che la grafia di quel documento
è più accurata, e che «si era già calmata la convulsa
eccitazione dell'estro». La redazione dell'autografo di
Torino non è quella definitiva, perché la quinta strofa
è così riportata «Evviva l'Italia / Dal sonno s'è desta
/ Dell'elmo di Scipio / S'è cinta la testa, ecc.». Dopo
la data e la firma appare la quinta strofa con grafia
non uguale.
L'inno ebbe vastissima diffusione manoscritta e su fogli
volanti a stampa; non poche sono le varianti che si
riscontrano su tali fogli e nelle prime edizioni. Arturo
Codignola ha fornito l'edizione critica di questo inno,
come di tutte le poesie di Mameli e possiamo rilevare la
ricchezza delle varianti.
Iniziata la prima guerra d'indipendenza, si diffuse
l'inno e fu musicato da alcuni
. A Genova nella
ricorrenza della celebrazione del 10 dicembre erano
apparsi altri canti nazionali e nell'imminenza della
guerra pubblicati su fogli volanti
. Alcune espressioni
dell'inno erano adottate o parafrasate
. Il nome di Mameli
era ormai noto nel Regno di Sardegna e fuori. In un
articolo intitolato "Esequie rese dai Genovesi ai
fratelli Lombardi" di David Chiossone è detto "giovane
d'ingegno e di cuore ardentissimo"
. All'annuncio della
imminente costituzione albertina, per le vie di Genova
si udiva un canto popolare scritto da David Chiossone e
musicato dal maestro Novella
. A Torino, il 27
febbraio 1848 si cantò l'inno, segno evidente di
concordia italiana
. Al teatro
Carignano della capitale, il pianista lombardo Fumagalli
tenne un concerto il 12 marzo e suonò anche l'inno di
Mameli
. Il giovane poeta,
pallido e biondo, era in Lombardia; il 24 marzo 1848, a
Genova sulla torre del palazzo ducale era innalzata la
bandiera tricolore, simbolo di redenzione e di
unificazione di tutti i popoli della Penisola italiana.
A poco più di tre mesi, quella bandiera che Goffredo
aveva, con singolare audacia, innalzato in corteo, ora
era bene in vista nella sua città.
Con la liberazione di Milano e con l'inizio della prima
guerra d'indipendenza furono composti e musicati
numerosi inni di giubilo e di guerra
che non giunsero
all'estate del 1848. Soltanto l'inno di Mameli, con
qualche altro (oggi dimenticato) ha superato l'ambito
risorgimentale ed è rimasto vivo nella coscienza
nazionale.
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Michele Novaro (Genova 1818-1885). Foto
quirinale.it |
Le parole di Mameli furono utilizzate in parte da
diversi autori
e talune sue
espressioni entrarono nel repertorio quotidiano popolare
durante la prima guerra d'indipendenza. Parole e musica
entusiasmavano. Vari autori adottarono le frasi
mameliane su diverse arie ma, quando furono diffuse le
note di Michele Novaro, l'inno trovò i suoi giusti
moduli di canto e tale si suona e si canta da cento
cinquant'anni.
L'inno fu musicato a Torino; Anton Giulio Barrili aveva
trascritto il racconto dello stesso Novaro nella
circostanza che ebbe a musicarlo
. Il musicista, in
casa di Lorenzo Valerio ricevette, per mezzo di Ulisse
Borzino, il testo dell'inno di Mameli e cercò subito di
rivestirlo di note. Sulla facciata di quella casa, il 22
novembre 1928 fu scoperta una lapide, la quale ricorda
che al secondo piano di essa fu musicato il celebre inno
.
Quando Mameli giunse alla composizione di questo inno,
contava in suo attivo un buon esercizio letterario, una
serie di prove poetiche di qualche rilevanza. Il suo
linguaggio è basato su immagini ed espressioni già
calibrate nei suoi canti. Non è difficile trovare frasi
già usate.
Questo inno è mazziniano per eccellenza, non soltanto
perché il suo autore aveva già frequentato scritti
dell'Apostolo ma perché in quell'autunno così fervido di
canti in tutto il Regno di Sardegna egli è l'unico ad
essere integrale discepolo dell'Esule. In quel Regno,
dove l'elemento locale si armonizzava con il culto per
il sovrano, egli è affascinato non dal re riformatore,
ma dalla virtù dell'antica Roma repubblicana. Non loda
Carlo Alberto, non esalta Pio IX, non vede l'Italia
passando attraverso un Piemonte ingrandito, ma
presagisce l'unità politica della Penisola. È
mazzinianamente italiano, non ha voce da unire al coro
che inneggia alle riforme. Il suo è davvero il canto
degli italiani, che vogliono risorgere; non è il
genovese che trova in Balilla il mezzo per il riscatto
nazionale ma è l'Italiano che valorizza tutto ciò che in
Italia è stato sollevazione di popolo dall'Alpi alla
Sicilia.
|
Giuseppe Mazzini |
Canto singolare questo in quell'atmosfera psicologica
determinata dall'albertismo. Democratico e mazziniano.
Mameli non si faceva illusioni, non credeva nel re ma
nella volontà di fusione degli Italiani, nella forza del
popolo, che a lui, come al suo Maestro ideale, appariva
come il profeta di Dio sulla terra.
Il suo è il canto della riscossa, il grido di guerra
all'Austria: come Mazzini, già aveva avvertito taluni
segni che indicavano un non lontano declino
dell'imperialismo austriaco, perché la potenza di Vienna
era già compromessa ("già l'aquila d'Austria le penne ha
perdute"). È stato il suo un inno destinato a restare
vivo nella tradizione italiana, perché non è legato a
fattori contingenti, a episodi locali, a determinati
momenti magari importanti per lo storico futuro, ma i
suoi motivi di canto sono sempre attuali, si adattano a
qualsiasi momento.
Il giovane poeta aveva già sperimentato diversi metri
nelle sue poesie, aveva una buona conoscenza metrica
quando compose questo inno
, il quale, come
scrisse il Carducci squilla come una fanfara di
gioventù. Sostanzialmente l'inno è un appello ai giovani
italiani perché vadano a combattere contro l'Austria per
conseguire l'unità della patria risorta. In esso
confluiscono argomenti religiosi, storici e politici
(strofe terza, quarta e quinta). Gli studiosi hanno
trovato soprattutto il calore dell'ispirazione nelle
strofe prima e quarta e hanno rilevato la rapidità della
sequenza delle idee. Anche se qualcuno ha potuto
scorgervi un apparente formalismo politico e una certa
fatica di lettura, mai viene meno l'entusiasmo poetico e
profetico. Il maestro Novaro ha saputo interpretare
compiutamente il carattere mameliano, conferendo al
canto un afflato talvolta elegiaco. Il Carducci ha
scritto che questo fu l'inno d'Italia, dell'unione e
dell'indipendenza che risonò per tutte le terre e su
tutti i campi di battaglia della Penisola nel 1848 e
1849. Fanciullo, il poeta maremmano sentiva la forza di
quelle "magiche parole", che anche senza la musica, gli
mettevano i brividi per tutte le ossa, e anche da adulto
gli inumidivano gli occhi.
Leggiamo ora l'inno:
Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la vittoria?
Le porga la chioma
Che schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte,
Siam pronti alla morte
l'Italia chiamò.
Nel primo momento della sua creazione il poeta aveva
scritto "Evviva l'Italia" ma sembrandogli, troppo
convenzionale tale inizio aveva adottato "È sorta dal
feretro" ma aveva peggiorato banalizzando l'immagine. Ha
poi sostituito con "Fratelli d'Italia", appropriato con
il senso politico della redenzione della patria in quel
particolare momento politico. Fratelli è il
termine mazziniano che si ricollega a tutta la
tradizione patriottica dalla fine del Settecento: i
fratelli sono di tutta l'Italia e non soltanto del Regno
di Sardegna. Il termine fratelli da il tono a tutto
l'inno. Tutti sono fratelli di una patria e ora più
vicini che è scoccato il tempo della riscossa. Può anche
essere stato suggerito dal coro di Giuseppe Giusti per
Ciro Menotti e Vincenzo Morelli, scritto nel 1831 che
inizia: «Fratelli, sorgete/ La patria vi chiama».
L'Italia s'è desta, l'autografo torinese riporta
"Dal sonno s'è desta", si è risvegliata, si è scossa dal
lungo sonno della schiavitù e della barbarie.
Dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa.
L'Italia si è personificata, si è cinta la testa con
l'elmo di Publio Cornelio Scipione l'Africano, maggiore,
che nella seconda guerra punica (218-201) conquistò la
Spagna (211-206), e a Zama in Africa, il 19 ottobre 202
a. Cristo, sbaragliò Annibale, il più tenace nemico di
Roma. È un'immagine che nella sua rapidità significa che
l'Italia toma all'antica grandezza come al tempo di
Scipione. E un ricordo classico, piuttosto scolastico ma
che nella sua ingenuità richiama le antiche glorie che
Tito Livio ha celebrato e che sono rimaste vive nella
tradizione italiana. Per capire come potesse piacere
questo elmo di Scipione posto sulla testa dell'Italia,
personificata si pensi che allora nelle scuole,
specialmente in quelle degli Scolopi, i giovani erano
educati su Livio, su Virgilio, su Orazio e che ai tempi
di Mameli il culto di Roma grande e vittoriosa era vivo
e tema di esercizio letterario. Questo ricordo storico,
artisticamente, stona in un canto di carattere popolare,
però non ne disturba l'impeto. Questo "Scipio" si trova
frequentemente negli scrittori umanisti e nella lirica a
cominciare dal Petrarca. Nella sua ode "L'alba" del
1846, al verso 36, Mameli scrive: «L'elmo antico
s'adatta alla fronte» che ricorda l'ode del Rossetti
«All'anno 1831» che recita: «Cingi l'elmo, la mitra
deponi, / O vetusta signora del mondo, / Sorgi, sorgi
dal sonno profondo; / Io son l'alba del nuovo tuo dì».
Dov'è la vittoria? Le porga la chioma;
che schiava di Roma Iddio la creò.
Il soggetto è la Vittoria; essa porga la chioma
all'Italia perché l'afferri; infatti Dio la fece schiava
di Roma che sempre vinse i suoi nemici. La Vittoria qui
è personificata quale dea. Gli antichi credevano che la
dea Vittoria, come la dea Fortuna, girasse sopra una
ruota e che gli uomini dovessero afferrarla per i
capelli. Nel libretto d'opera "II pirata" di Felice
Romani, musicato da Vincenzo Bellini, si legge, atto I,
scena VI, «La fortuna le porse le chiome. La vittoria
seguì le sue vele», dramma che Mameli aveva
probabilmente conosciuto.
Stringiamci a coorte:
vale a dire in ordinata e salda disciplina: la coorte
era la decima parte della legione; uniamoci in schiera.
Qui il termine coorte si addice bene al ricordo
dell'Italia antica. Siam pronti alla morte, siamo
preparati a tutto perché l'Italia ci ha chiamati; è la
patria comune che invoca i suoi figli.
Noi siamo da secoli
calpesti, derisi
Perché non siam Popolo,
Perché siam divisi:
Raccolgaci un'unica
Bandiera, Una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte,
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.
Noi siamo da secoli calpesti e derisi,
perché non siam Popolo, perché siam divisi:
la discordia ci rese schiavi, non siamo un popolo
libero. Il Prati aveva scritto nell'Aspirazione
questo verso «Dio santo, siam popoli / Vaganti e
derisi», siamo calpestati perché siamo, come scrisse il
Manzoni nel primo coro dell'Adelchi, «un volgo
disperso che nome non ha». Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme: dopo tanto ci unisca una
bandiera unitaria, quella della "Giovine Italia";
soltanto l'unione ci farà liberi. Di fonderci insieme
già l'ora suonò. Il poeta dice "di fonderci" e con
questo esprime il concetto unitario di fusione secondo
la dottrina di Mazzini: gli Italiani devono fondersi,
non soltanto unirsi; devono formare un popolo solo
perché è già sonata l'ora di tale fusione. Dante
Gabriele Rossetti nell'inno "O morte o libertà" aveva
scritto: «Del riscatto già l'ora sonò».
Uniamoci, amiamoci,
L'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
il suolo natio:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte,
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci.
Svolge approfondendolo quello che è stato accennato al
sesto verso della seconda strofa con la parola "speme".
L'unione e l'amore rivelano ai popoli le vie del
Signore. Esprime qui un concetto che Mazzini ha più
volte ribadito. Nella dedica del suo libretto sui
fratelli Bandiera aveva parlato delle vie del Signore
che si riveleranno all'Italia. E ripreso il concetto
religioso già manifestato nell'ode "La buona novella".
Secondo Mazzini l'umanità è rivelazione di Dio e vincolo
d'amore. Mameli aveva già scritto che se i re tenevano
divisi gli Italiani insinuando l'odio, i giovani avevano
imparato che l'amore è unione e perciò si raccolgano
attorno ad una bandiera unica, quella che Mazzini aveva
additato per ottenere un'Italia unita e libera. Sui
fondamenti religiosi della volontà unitaria il Rossetti
aveva scritto nel "Veggente in solitudine" questi versi
"Chi in sette ti partio, / Tradì
l'idea di Dio». Uniti per Dio chi vincer ci può?
Il poeta lo afferma nel nome di Dio, che l'unione rende
invincibili. Quel "per Dio" vuoi dire che gli Italiani
sono stati uniti da Dio in un popolo solo; quel "per"
vale "da", come il "par" francese; basti un esempio; il
"per" di San Francesco nel Cantico delle Creature. Tra
le vie del Signore c'è anche quella che deve condurre a
ridare la libertà alla patria.
Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
l'Italia chiamò.
Questa strofa piacque molto a Garibaldi, perché in essa
- egli diceva - c'è tutto quello che un italiano non
dovrebbe ignorare della sua storia
. Questa quarta
strofa si ricollega alla prima: quella ricordava
l'Italia romana, questa l'Italia medievale. Sono qui
rammentati fatti gloriosi. Dovunque in Italia c'era la
volontà ferma di cacciare i tiranni, come già aveva
fatto la lega lombarda, giurata a Pontida che cacciò,
sconfiggendolo, il 29 maggio 1176 a Legnano Federico
Barbarossa. Più tardi. Luigi Mercantini scriverà: «La
terra dei fiori, dei suoni, dei carmi / Ritorni, qual
era, la terra dell'armi!/ Di cento catene le avvinser la
mano, / Ma ancor di Legnano sa i ferri brandir!»
Ferruccio, Francesco, il valoroso capitano caduto il 2
agosto 1530 a Gavinana nel pistoiese, che combatté
eroicamente per la repubblica di Firenze. I bimbi
d'Italia si chiaman Balilla, perché tutti, essendo
come lui sono intolleranti delle prepotenze nemiche. I
vespri suonò: come il 30 marzo 1282 tutti i campanili di
Palermo sonarono a dare il segnale dell'insurrezione
contro i francesi di Carlo d'Angiò. Abilmente Mameli ha
saputo applicare questo ricordo storico all'idea della
squilla che suona a vespro per la preghiera della sera.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'aquila d'Austria
Le penne ha perdute. -
Il sangue d'Italia
Bevé, col Cosacco
II sangue Polacco:
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
l'Italia chiamò.
Questa ultima strofa racchiude un forte significato
politico. L'Austria è in decadenza: questo era anche il
pensiero di Mazzini. Le milizie mercenarie (le spade
vendute) non hanno la forza e la capacità di resistere
eroicamente, ma cedono come il giunco pieghevole. Già
l'aquila d'Austria le penne ha perdute: l'aquila
bicipite, lo stemma asburgico, cioè l'impero austriaco,
ha già perduto le penne, Vienna sta perdendo terreno, il
suo potere è scosso, e perciò, spennacchiata, l'aquila
non ha più forza, non fa più paura. Il sangue d'Italia
beve: soffocando nel sangue cospirazioni e insurrezioni.
Insieme con la Russia (col cosacco) l'Austria aveva
smembrato e oppresso la Polonia, ma quel sangue le ha
bruciato il cuore. Le sanguinose repressioni per tenere
quei popoli schiavi l'hanno fatta odiare e ne hanno
compromessa la forza. Quel sangue è come se fosse
veleno. La Polonia tripartita nel 1795 tra la Russia, la
Prussia e l'Austria, era insorta nel 1831, l'anno delle
insurrezioni contro la Russia, ma fu repressa in poco
tempo e soffrì ogni ferocia. La crudeltà sanguinaria non
da forza ai tiranni ma li indebolisce, poiché gli
oppressi muovono alla vendetta. L'accento della strofa
batte su "le spade vendute"; per questo il composito
impero austriaco è in crisi, perché è basato su milizie
mercenarie. È questo un tema meditato dal Mameli; nella
sua tragedia Paolo da Novi aveva scritto «la spada degli
schiavi piega / nella loro man siccome un giunco, al
cozzo / Della spada dei liberi» (Atto II, scena I).
Quest'inno, che Lorenzo Valerio, prefetto nelle Marche
nel 1865, aveva dichiarato nazionale è sempre stato
presente nella tradizione italiana. Mameli, il giovane
poeta pallido e biondo, caduto difendendo la Repubblica
Romana, è sempre stato utilizzato da democratici e da
illiberali. Il fascismo, da Gentile a Bottai lo ha
esaltato, trovando in lui un forte carisma. Anche la
Repubblica Sociale lo ha fatto oggetto di propaganda
.
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Bandiera costituzionale del Regno delle
Due Sicilie |
Note
Tratto da
“Fratelli d'Italia. Goffredo Mameli e Genova nel 1847”
a cura di Emilio Costa, Giulio Fiaschini, Leo Morabito,
con uno scritto del Presidente della Repubblica Oscar
Luigi Scalfaro, Genova 1998. |