Le Pagine di Storia

 

 

Fratelli d'Italia

pagina a cura di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

 

Alessandro Luzio ha scritto che nell'autografo dell'inno di Mameli, conservato presso il Museo del Risorgimento di Genova (Istituto Mazziniano) sono evidenti le tracce "dell'eruzione vulcanica" con cui sgorgano dall'anima del poeta "quelle strofe ispirate". L'illustre storico, così continua:

«Come rivoli di lava, le strofe proruppero quasi indipendenti l'una dall'altra e simultanee, sicché il poeta con più riposato senso d'arte, dové poi dar loro un ordine diverso da quello che occupavano nel primo getto tumultuario, perché apparissero più logicamente concatenate. L'inno cominciava in origine con un "Evviva l'Italia - l'Italia s'è desta»: quel grido parve banale al Mameli, che ripudiò, perché troppo faticosa e letteraria, la variante «È sorta dal feretro - L'Italia s'è desta». E forse operò altri cambiamenti, sinché non gli scattò la vera parola di quel momento di santi entusiasmi - l'appello ai "fratelli d'Italia" che tutti dovevano insorgere e darsi la mano nella guerra allo straniero. Era tale la concitazione febbrile del poeta nel vergare quell'inno alato, ond'era data una voce possente alla rivoluzione italiana, che egli non poté scrivere que' pochi e brevi versi, senza calpestare da ribelle in tutto, anche l'ortografia. Voi cerchereste invano nell'autografo regolarità di punteggiatura e di accenti: incontrate invece molti trascorsi di penna - Itatia o Ilia per Italia, ero per creò, stringiamgi per stringiamci, Ballilla per Ballila, gionchi per giunchi» [1].

Goffredo Mameli (Genova 1827 - Roma 1849). Foto quirinale.it

Il Luzio non accetta la data suggerita dal Barrili che colloca la composizione dell'inno al settembre del 1847 e non ha dubbi su quanto aveva affermato Paolo Boselli in una sua commemorazione mameliana che la indica al 10 novembre dello stesso anno [2]. Lo statista savonese si era basato sulla data riportata nell'autografo conservato presso il Museo del Risorgimento di Torino, ma quel documento non è che una bella copia dell'inno trascritta per essere inviata a Cesare Valerio, il quale doveva sottoporla alla revisione della censura torinese per essere poi pubblicata nella raccolta di poesie e prose che doveva uscire in quella città col  titolo "Dono nazionale a Carlo Alberto». È ovvio che la grafia di quel documento è più accurata, e che «si era già calmata la convulsa eccitazione dell'estro». La redazione dell'autografo di Torino non è quella definitiva, perché la quinta strofa è così riportata «Evviva l'Italia / Dal sonno s'è desta / Dell'elmo di Scipio / S'è cinta la testa, ecc.». Dopo la data e la firma appare la quinta strofa con grafia non uguale.

L'inno ebbe vastissima diffusione manoscritta e su fogli volanti a stampa; non poche sono le varianti che si riscontrano su tali fogli e nelle prime edizioni. Arturo Codignola ha fornito l'edizione critica di questo inno, come di tutte le poesie di Mameli e possiamo rilevare la ricchezza delle varianti.

Iniziata la prima guerra d'indipendenza, si diffuse l'inno e fu musicato da alcuni [3]. A Genova nella ricorrenza della celebrazione del 10 dicembre erano apparsi altri canti nazionali e nell'imminenza della guerra pubblicati su fogli volanti [4]. Alcune espressioni dell'inno erano adottate o parafrasate [5]. Il nome di Mameli era ormai noto nel Regno di Sardegna e fuori. In un articolo intitolato "Esequie rese dai Genovesi ai fratelli Lombardi" di David Chiossone è detto "giovane d'ingegno e di cuore ardentissimo" [6]. All'annuncio della imminente costituzione albertina, per le vie di Genova si udiva un canto popolare scritto da David Chiossone e musicato dal maestro Novella [7]. A Torino, il 27 febbraio 1848 si cantò l'inno, segno evidente di concordia italiana [8]. Al teatro Carignano della capitale, il pianista lombardo Fumagalli tenne un concerto il 12 marzo e suonò anche l'inno di Mameli [9]. Il giovane poeta, pallido e biondo, era in Lombardia; il 24 marzo 1848, a Genova sulla torre del palazzo ducale era innalzata la bandiera tricolore, simbolo di redenzione e di unificazione di tutti i popoli della Penisola italiana. A poco più di tre mesi, quella bandiera che Goffredo aveva, con singolare audacia, innalzato in corteo, ora era bene in vista nella sua città.

Con la liberazione di Milano e con l'inizio della prima guerra d'indipendenza furono composti e musicati numerosi inni di giubilo e di guerra [10] che non giunsero all'estate del 1848. Soltanto l'inno di Mameli, con qualche altro (oggi dimenticato) ha superato l'ambito risorgimentale ed è rimasto vivo nella coscienza nazionale.

Michele Novaro (Genova 1818-1885). Foto quirinale.it

Le parole di Mameli furono utilizzate in parte da diversi autori [11] e talune sue espressioni entrarono nel repertorio quotidiano popolare durante la prima guerra d'indipendenza. Parole e musica entusiasmavano. Vari autori adottarono le frasi mameliane su diverse arie ma, quando furono diffuse le note di Michele Novaro, l'inno trovò i suoi giusti moduli di canto e tale si suona e si canta da cento cinquant'anni.

L'inno fu musicato a Torino; Anton Giulio Barrili aveva trascritto il racconto dello stesso Novaro nella circostanza che ebbe a musicarlo [12]. Il musicista, in casa di Lorenzo Valerio ricevette, per mezzo di Ulisse Borzino, il testo dell'inno di Mameli e cercò subito di rivestirlo di note. Sulla facciata di quella casa, il 22 novembre 1928 fu scoperta una lapide, la quale ricorda che al secondo piano di essa fu musicato il celebre inno [13].

Quando Mameli giunse alla composizione di questo inno, contava in suo attivo un buon esercizio letterario, una serie di prove poetiche di qualche rilevanza. Il suo linguaggio è basato su immagini ed espressioni già calibrate nei suoi canti. Non è difficile trovare frasi già usate.

Questo inno è mazziniano per eccellenza, non soltanto perché il suo autore aveva già frequentato scritti dell'Apostolo ma perché in quell'autunno così fervido di canti in tutto il Regno di Sardegna egli è l'unico ad essere integrale discepolo dell'Esule. In quel Regno, dove l'elemento locale si armonizzava con il culto per il sovrano, egli è affascinato non dal re riformatore, ma dalla virtù dell'antica Roma repubblicana. Non loda Carlo Alberto, non esalta Pio IX, non vede l'Italia passando attraverso un Piemonte ingrandito, ma presagisce l'unità politica della Penisola. È mazzinianamente italiano, non ha voce da unire al coro che inneggia alle riforme. Il suo è davvero il canto degli italiani, che vogliono risorgere; non è il genovese che trova in Balilla il mezzo per il riscatto nazionale ma è l'Italiano che valorizza tutto ciò che in Italia è stato sollevazione di popolo dall'Alpi alla Sicilia.

Giuseppe Mazzini

Canto singolare questo in quell'atmosfera psicologica determinata dall'albertismo. Democratico e mazziniano. Mameli non si faceva illusioni, non credeva nel re ma nella volontà di fusione degli Italiani, nella forza del popolo, che a lui, come al suo Maestro ideale, appariva come il profeta di Dio sulla terra.

Il suo è il canto della riscossa, il grido di guerra all'Austria: come Mazzini, già aveva avvertito taluni segni che indicavano un non lontano declino dell'imperialismo austriaco, perché la potenza di Vienna era già compromessa ("già l'aquila d'Austria le penne ha perdute"). È stato il suo un inno destinato a restare vivo nella tradizione italiana, perché non è legato a fattori contingenti, a episodi locali, a determinati momenti magari importanti per lo storico futuro, ma i suoi motivi di canto sono sempre attuali, si adattano a qualsiasi momento.

Inno di Mameli - Spartito 1. Foto www.educational.rai.it

Il giovane poeta aveva già sperimentato diversi metri nelle sue poesie, aveva una buona conoscenza metrica quando compose questo inno [14], il quale, come scrisse il Carducci squilla come una fanfara di gioventù. Sostanzialmente l'inno è un appello ai giovani italiani perché vadano a combattere contro l'Austria per conseguire l'unità della patria risorta. In esso confluiscono argomenti religiosi, storici e politici (strofe terza, quarta e quinta). Gli studiosi hanno trovato soprattutto il calore dell'ispirazione nelle strofe prima e quarta e hanno rilevato la rapidità della sequenza delle idee. Anche se qualcuno ha potuto scorgervi un apparente formalismo politico e una certa fatica di lettura, mai viene meno l'entusiasmo poetico e profetico. Il maestro Novaro ha saputo interpretare compiutamente il carattere mameliano, conferendo al canto un afflato talvolta elegiaco. Il Carducci ha scritto che questo fu l'inno d'Italia, dell'unione e dell'indipendenza che risonò per tutte le terre e su tutti i campi di battaglia della Penisola nel 1848 e 1849. Fanciullo, il poeta maremmano sentiva la forza di quelle "magiche parole", che anche senza la musica, gli mettevano i brividi per tutte le ossa, e anche da adulto gli inumidivano gli occhi.

Leggiamo ora l'inno:

Fratelli d'Italia,

l'Italia s'è desta,

Dell'elmo di Scipio

S'è cinta la testa.

Dov'è la vittoria?

Le porga la chioma

Che schiava di Roma

Iddio la creò.

Stringiamci a coorte,

Siam pronti alla morte

l'Italia chiamò.

Nel primo momento della sua creazione il poeta aveva scritto "Evviva l'Italia" ma sembrandogli, troppo convenzionale tale inizio aveva adottato "È sorta dal feretro" ma aveva peggiorato banalizzando l'immagine. Ha poi sostituito con "Fratelli d'Italia", appropriato con il senso politico della redenzione della patria in quel particolare momento politico. Fratelli è il termine mazziniano che si ricollega a tutta la tradizione patriottica dalla fine del Settecento: i fratelli sono di tutta l'Italia e non soltanto del Regno di Sardegna. Il termine fratelli da il tono a tutto l'inno. Tutti sono fratelli di una patria e ora più vicini che è scoccato il tempo della riscossa. Può anche essere stato suggerito dal coro di Giuseppe Giusti per Ciro Menotti e Vincenzo Morelli, scritto nel 1831 che inizia: «Fratelli, sorgete/ La patria vi chiama». L'Italia s'è desta, l'autografo torinese riporta "Dal sonno s'è desta", si è risvegliata, si è scossa dal lungo sonno della schiavitù e della barbarie.

Dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa. L'Italia si è personificata, si è cinta la testa con l'elmo di Publio Cornelio Scipione l'Africano, maggiore, che nella seconda guerra punica (218-201) conquistò la Spagna (211-206), e a Zama in Africa, il 19 ottobre 202 a. Cristo, sbaragliò Annibale, il più tenace nemico di Roma. È un'immagine che nella sua rapidità significa che l'Italia toma all'antica grandezza come al tempo di Scipione. E un ricordo classico, piuttosto scolastico ma che nella sua ingenuità richiama le antiche glorie che Tito Livio ha celebrato e che sono rimaste vive nella tradizione italiana. Per capire come potesse piacere questo elmo di Scipione posto sulla testa dell'Italia, personificata si pensi che allora nelle scuole, specialmente in quelle degli Scolopi, i giovani erano educati su Livio, su Virgilio, su Orazio e che ai tempi di Mameli il culto di Roma grande e vittoriosa era vivo e tema di esercizio letterario. Questo ricordo storico, artisticamente, stona in un canto di carattere popolare, però non ne disturba l'impeto. Questo "Scipio" si trova frequentemente negli scrittori umanisti e nella lirica a cominciare dal Petrarca. Nella sua ode "L'alba" del 1846, al verso 36, Mameli scrive: «L'elmo antico s'adatta alla fronte» che ricorda l'ode del Rossetti «All'anno 1831» che recita: «Cingi l'elmo, la mitra deponi, / O vetusta signora del mondo, / Sorgi, sorgi dal sonno profondo; / Io son l'alba del nuovo tuo dì».

Inno di Mameli - Spartito 2. Foto www.educational.rai.it

Dov'è la vittoria? Le porga la chioma; che schiava di Roma Iddio la creò. Il soggetto è la Vittoria; essa porga la chioma all'Italia perché l'afferri; infatti Dio la fece schiava di Roma che sempre vinse i suoi nemici. La Vittoria qui è personificata quale dea. Gli antichi credevano che la dea Vittoria, come la dea Fortuna, girasse sopra una ruota e che gli uomini dovessero afferrarla per i capelli. Nel libretto d'opera "II pirata" di Felice Romani, musicato da Vincenzo Bellini, si legge, atto I, scena VI, «La fortuna le porse le chiome. La vittoria seguì le sue vele», dramma che Mameli aveva probabilmente conosciuto.

Stringiamci a coorte: vale a dire in ordinata e salda disciplina: la coorte era la decima parte della legione; uniamoci in schiera. Qui il termine coorte si addice bene al ricordo dell'Italia antica. Siam pronti alla morte, siamo preparati a tutto perché l'Italia ci ha chiamati; è la patria comune che invoca i suoi figli.

Noi siamo da secoli

calpesti, derisi

Perché non siam Popolo,

Perché siam divisi:

Raccolgaci un'unica

Bandiera, Una speme:

Di fonderci insieme

Già l'ora suonò.

Stringiamci a coorte,

Siam pronti alla morte

L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli calpesti e derisi, perché non siam Popolo, perché siam divisi: la discordia ci rese schiavi, non siamo un popolo libero. Il Prati aveva scritto nell'Aspirazione questo verso «Dio santo, siam popoli / Vaganti e derisi», siamo calpestati perché siamo, come scrisse il Manzoni nel primo coro dell'Adelchi, «un volgo disperso che nome non ha». Raccolgaci un'unica bandiera, una speme: dopo tanto ci unisca una bandiera unitaria, quella della "Giovine Italia"; soltanto l'unione ci farà liberi. Di fonderci insieme già l'ora suonò. Il poeta dice "di fonderci" e con questo esprime il concetto unitario di fusione secondo la dottrina di Mazzini: gli Italiani devono fondersi, non soltanto unirsi; devono formare un popolo solo perché è già sonata l'ora di tale fusione. Dante Gabriele Rossetti nell'inno "O morte o libertà" aveva scritto: «Del riscatto già l'ora sonò».

Uniamoci, amiamoci,

L'Unione, e l'amore

Rivelano ai Popoli

Le vie del Signore;

Giuriamo far libero

il suolo natio:

Uniti per Dio

Chi vincer ci può?

Stringiamci a coorte,

Siam pronti alla morte

L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci. Svolge approfondendolo quello che è stato accennato al sesto verso della seconda strofa con la parola "speme". L'unione e l'amore rivelano ai popoli le vie del Signore. Esprime qui un concetto che Mazzini ha più volte ribadito. Nella dedica del suo libretto sui fratelli Bandiera aveva parlato delle vie del Signore che si riveleranno all'Italia. E ripreso il concetto religioso già manifestato nell'ode "La buona novella". Secondo Mazzini l'umanità è rivelazione di Dio e vincolo d'amore. Mameli aveva già scritto che se i re tenevano divisi gli Italiani insinuando l'odio, i giovani avevano imparato che l'amore è unione e perciò si raccolgano attorno ad una bandiera unica, quella che Mazzini aveva additato per ottenere un'Italia unita e libera. Sui fondamenti religiosi della volontà unitaria il Rossetti aveva scritto nel "Veggente in solitudine" questi versi "Chi in sette ti partio, / Tradì l'idea di Dio». Uniti per Dio chi vincer ci può? Il poeta lo afferma nel nome di Dio, che l'unione rende invincibili. Quel "per Dio" vuoi dire che gli Italiani sono stati uniti da Dio in un popolo solo; quel "per" vale "da", come il "par" francese; basti un esempio; il "per" di San Francesco nel Cantico delle Creature. Tra le vie del Signore c'è anche quella che deve condurre a ridare la libertà alla patria.

Dall'Alpi a Sicilia

Dovunque è Legnano,

Ogn'uom di Ferruccio

Ha il core, ha la mano,

I bimbi d'Italia

Si chiaman Balilla

Il suon d'ogni squilla

I Vespri suonò.

Stringiamci a coorte

Siam pronti alla morte

l'Italia chiamò.

Questa strofa piacque molto a Garibaldi, perché in essa - egli diceva - c'è tutto quello che un italiano non dovrebbe ignorare della sua storia  [15]. Questa quarta strofa si ricollega alla prima: quella ricordava l'Italia romana, questa l'Italia medievale. Sono qui rammentati fatti gloriosi. Dovunque in Italia c'era la volontà ferma di cacciare i tiranni, come già aveva fatto la lega lombarda, giurata a Pontida che cacciò, sconfiggendolo, il 29 maggio 1176 a Legnano Federico Barbarossa. Più tardi. Luigi Mercantini scriverà: «La terra dei fiori, dei suoni, dei carmi / Ritorni, qual era, la terra dell'armi!/ Di cento catene le avvinser la mano, / Ma ancor di Legnano sa i ferri brandir!» Ferruccio, Francesco, il valoroso capitano caduto il 2 agosto 1530 a Gavinana nel pistoiese, che combatté eroicamente per la repubblica di Firenze. I bimbi d'Italia si chiaman Balilla, perché tutti, essendo come lui sono intolleranti delle prepotenze nemiche. I vespri suonò: come il 30 marzo 1282 tutti i campanili di Palermo sonarono a dare il segnale dell'insurrezione contro i francesi di Carlo d'Angiò. Abilmente Mameli ha saputo applicare questo ricordo storico all'idea della squilla che suona a vespro per la preghiera della sera.

Son giunchi che piegano

Le spade vendute:

Già l'aquila d'Austria

Le penne ha perdute. -

Il sangue d'Italia

Bevé, col Cosacco

II sangue Polacco:

Ma il cor le bruciò.

Stringiamci a coorte

Siam pronti alla morte

l'Italia chiamò.

Questa ultima strofa racchiude un forte significato politico. L'Austria è in decadenza: questo era anche il pensiero di Mazzini. Le milizie mercenarie (le spade vendute) non hanno la forza e la capacità di resistere eroicamente, ma cedono come il giunco pieghevole. Già l'aquila d'Austria le penne ha perdute: l'aquila bicipite, lo stemma asburgico, cioè l'impero austriaco, ha già perduto le penne, Vienna sta perdendo terreno, il suo potere è scosso, e perciò, spennacchiata, l'aquila non ha più forza, non fa più paura. Il sangue d'Italia beve: soffocando nel sangue cospirazioni e insurrezioni. Insieme con la Russia (col cosacco) l'Austria aveva smembrato e oppresso la Polonia, ma quel sangue le ha bruciato il cuore. Le sanguinose repressioni per tenere quei popoli schiavi l'hanno fatta odiare e ne hanno compromessa la forza. Quel sangue è come se fosse veleno. La Polonia tripartita nel 1795 tra la Russia, la Prussia e l'Austria, era insorta nel 1831, l'anno delle insurrezioni contro la Russia, ma fu repressa in poco tempo e soffrì ogni ferocia. La crudeltà sanguinaria non da forza ai tiranni ma li indebolisce, poiché gli oppressi muovono alla vendetta. L'accento della strofa batte su "le spade vendute"; per  questo il composito impero austriaco è in crisi, perché è basato su milizie mercenarie. È questo un tema meditato dal Mameli; nella sua tragedia Paolo da Novi aveva scritto «la spada degli schiavi piega / nella loro man siccome un giunco, al cozzo / Della spada dei liberi» (Atto II, scena I).

Quest'inno, che Lorenzo Valerio, prefetto nelle Marche nel 1865, aveva dichiarato nazionale è sempre stato presente nella tradizione italiana. Mameli, il giovane poeta pallido e biondo, caduto difendendo la Repubblica Romana, è sempre stato utilizzato da democratici e da illiberali. Il fascismo, da Gentile a Bottai lo ha esaltato, trovando in lui un forte carisma. Anche la Repubblica Sociale lo ha fatto oggetto di propaganda [16].

Bandiera costituzionale del Regno delle Due Sicilie


Note

[1] Cfr. A. Luzio, Profili biografici e bozzetti storici, Milano, 1927, 2ª, vol. 1, pp. 421-422. Per la bibliografia sull'inno cfr. G. Mameli, La vita e gli scritti, a cura di A. Codignola, Venezia, [1927], vol. II, pp. 435-442.

[2] Il primo foglio volante stampato a Genova reca il seguente titolo: In occasione della Benedizione delle Bandiere il giorno 10 in Oregina - Canto Nazionale, Tip. Faziola, figurano quattro strofe e il ritornello. Quella che solitamente è la terza strofa, appare al quarto posto e il primo verso di essa è “Uniamoci, uniamoci”. Quella che tradizionalmente è la quarta strofa appare al terzo posto e riporta: «I bimbi d'Italia / Son tutti Ballila». La benedizione delle Bandiere. Canto Nazionale. Genova, Tip. Delle Piane; appaiono cinque strofe e il ritornello; la strofa "Dall'Alpi a Sicilia" figura al terzo posto e reca: «I bimbi d'Italia / son tutti Ballila», la strofa «Uniamoci, amiamoci» è riportata al quarto posto e inizia: «Uniamoci, uniamoci». La quinta strofa “Son giunchi che piegano”, reca «Già l'aquila d'Austria» secondo la lezione che fu accolta dal Canale, mentre il Codignola ha accettato quella dell'autografo di Torino «Ah l'aquila d'Austria». Vi si riscontra una vistosa variante: «II sangue d'Italia bevé col cosacco / Ma il sangue polacco / il cuor le bruciò». Di sicuro interesse risultano altri fogli volanti: Inno di G. Mameli. Il canto degli Italiani, Milano, Tip. Ranzini. La quinta strofa inizia con «Evviva l'Italia» come nel "Dono nazionale" vi si legge in calce: «La musica per Piano e Canto si vende presso la Tip. Ranzini a netti ceni. - 40». Canto degli Italiani. Parole di Manimetti [sic], musica del Maestro Novella (Piemontesi). Modena, Tip. Rossi  1848. La prima strofa è ripetuta come ritornello e si legge in epigrafe alla seconda: «Si ripeta con seconda melodia in Mi Bemolle e voci di accompagnamento». Sotto il ritornello «Stringiamci a coorte ecc.». Al quarto verso «L'Italia chiamò» è aggiunto tra parentesi (sì). Il ritornello risulta formato da dodici versi / sette della prima strofa più quattro) e doveva essere ripetuto ad ogni strofa. La terza strofa riporta al primo verso: «Uniamoci, uniamoci». Quella che è la quarta strofa figura al quinto posto, mentre l'ultima risulta al quarto e reca «Ah l'aquila d'Austria». In calce al foglio si legge «Questo Canto viene eseguito dalla Banda Nazionale».     Canto degli Italiani, Modena, Tip. Vincenzi, 1848. Il testo pubblicato è identico a quello della Tip. Rossi di Modena. La prima volta che apparve in volume, questo inno è stato raccolto nell'opera Dono Nazionale, Torino Cantari [1848], pp. 81-82, con il titolo "Inno nazionale. Messo in musica dal Maestro Novaro" e reca alla firma G.M. La terza strofa inizia "Uniamoci, uniamoci». L'ultima strofa non permessa dalla censura di Torino, inizia «Evviva l'Italia / Dal sonno s'è desta ecc.».

[3] Fra le pubblicazioni musicali dello stabilimento nazionale di Francesco Lucca di Milano, si legge: «Inno nazionale del cittadino Mammelli [sic]. Musica di N.N., Fr. 2,50 (Cfr. "Il mondo illustrato", Torino, 22 aprile 1848, p. 255).

[4] Cfr. Inno nazionale cantato in Genova la sera del 10 dicembre 1847, posto in musica dal M.o Cagnoni autore del Bucefalo. Poesia di Giulio Guerrieri [Genova], s.i.t. Reca la musica e inizia: «Cittadini, accorrete, accorrete. Le compatte falangi formate, / Ed al mondo alla fine mostrate /Ch'oggi Italia ha il suo canto guerrier». Inno nazionale d'Ippolito d'Aste posto in musica dal maestro Novella, [Genova], Tip. Faziola che inizia: «Italiani, il fulgid'astro / Del Piemonte è a noi redito /Ogni affanno sia bandito / Or che libero è il pensier». Inno nazionale di Guerra [Genova], Tip. Delle Piane: «Sorge l'alba, fratelli agguerriti, / Noi siam pronti a bramato cimento! Non ci arresta dubbiezza e spavento /Che vittoria seconda l'ardir!». Non figura il nome dell'autore. Anonimo è pure All'armi Italiani! Inno nazionale, [Genova], Tip. Dagnino. Ecco la prima strofa: «All'arme Italiani, / Prendiamo lo schioppo! / Dall'empio straniero soffrimmo già troppo. / Del nostro dolore / II vile si vanta / All'arme! Una santa / Crociata bandiam». Circolava manoscritto un Inno nazionale di Emanuele Celesta posto in musica dal m. Novella che inizia così: «Su figli d'Italia / Leoni dormenti / De' prosperi eventi / già l'ore suonar».

[5] Ad esempio, a Torino al teatro Carignano su una bandiera si leggeva «Unita per Dio / Chi vincer la puote? (Cfr. "Ballo nazionale" ne "II mondo illustrato", Torino, 22 gennaio 1848 p. 46).

[6] Cfr. "Il mondo illustrato", Torino, 5 febbraio 1848, p. 70.

[7] Il canto popolare "La costituzione in Piemonte" del Chiossone, pur nel suo aperto albertismo reca echi mameliani, come l'iniziale "Fratelli" e il "Fratelli d'Italia" della quarta strofa e altro (cfr. "Il mondo illustrato", Torino, 4 marzo 1848, p. 134).

[8] Cfr. "Il mondo illustrato", Torino, 4 marzo 1848, n. 134.

[9] «Ma l'anima dell'artista ebbe l'aureola italiana quando tradusse in melodia robusta e sonora gl'inni "Fratelli d'Italia, ecc.", "Coll'azzurra coccarda sul petto, ecc.». L'ispirazione sposata alla libertà scintillava nel suo volto, ove la prima volta l'anima le si apriva senza il terrore degli sbirri austriaci. Colla voluttà di un vergine patriottismo intrecciava i due inni, ne faceva germogliare i suoni diversi contemporaneamente, onde significare la consonanza dell'Italia cantata dal Mameli col Piemonte cantato dal Bertoldi. Era questo un omaggio che l'infelice Lombardo rendeva a nome de' suoi poveri fratelli a Carlo Alberto» (Cfr. "Il mondo illustrato", Torino, 18 marzo 1848, p. 176).

[10] Ricordiamo alcuni di essi, usciti a Milano presso lo stabilimento nazionale di Francesco Lucca: Cantiam lieti osanna! Osanna, cantico di Tommaso Grossi, posto in musica da G. Alessandro Biaggi. La libertà, Inno lombardo, parole di Salvatore Mazza, musica di G. Levasini. All'armi o figli d'Italia, inno patriottico, imitato dal celebre inno marsigliese, musica di Rouget De Lisle. Ai Lombardi, canto di guerra a tre voci, poesia di A. Zoncada, musica di Jacopo Foroni; Milano Libera, inno, poesia di A. Zoncada, musica di Francesco Baroni. Della risorta Italia, inno popolare, musica di A. Mussi. Inno guerriero, poesia di Giuseppe Grassi, musica di G. Winter. Cantico del milite lombardo [...] poesia di Samuele Biava, autore delle melodie italiche, musica di Luigi Gambale. Trascrizione dell'inno a Pio IX, musica di G. Rossini per pianoforte. La canzone di Ciceuracchio, poesia del D. Giuseppe Sangregorio, musica di A. Mussi. Italia è libera, danza popolare lombarda per pianoforte di Giacomo Granellini. Il vessillo, musica di G. Magazzari trascritta per pianoforte. Inno nazionale popolare, poesia del dott. Francesco Carrai, musica del maestro Campana.  Anche lo stabilimento nazionale di Giovanni Ricordi a Milano pubblicava canti e inni popolari in musica. Se ne potevano contare alcune decine, ricordiamo: Il vessillo lombardo, inno popolare, poesia di Antonio Buccelleni; Milano liberata poesia di Tommaso Grossi, Canzone nazionale di Achille Gallarati; Inno popolare a Pio IX di A. Balsamo; Inno popolare di E. Scolari; Gli Italiani redenti di Pio Giuseppe Falocchio; Canto popolare dei Milanesi di Luigi Malvezzi; Il voto di una donna italiana di Carolina Viani-Visconti; Inno nazionale di Giulio Carcano. Apparvero numerose altre composizioni che riguardavano il milite lombardo, la guerra, il sentimento nazionale, i subalpini e altri popoli italiani, gli amnistiati. Era musicato da molti l'inno del popolo O giovani ardenti.

[11] Valga come esempio Ai Siciliani. Sulla scelta da loro fatta del Duca di Genova a Re costituzionale dell'Isola, di Eligio Bensa che inizia: «Trionfa l'Italia, / Sicilia s'è desta» (Cfr. "Il mondo illustrato", Torino, 22 luglio 1848, p. 459).

[12] Narra il Barrili che in casa di Lorenzo Valerio a Torino si faceva musica e politica; si leggevano al pianoforte diversi inni sbocciati in quei mesi; si era nell'autunno del 1847. Continua lo scrittore: «In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l'egregio pittore che tutti i suoi Genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi al Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca, in quel punto: «To! gli disse; tè lo manda Goffredo. II Novaro apre il foglio, legge, si commuove. Gli chiedono tutti che cos'è; gli fan ressa d'attorno. “Una cosa stupenda!” esclama il maestro, e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. “Io sentii” mi diceva il maestro nell'aprile del '75, avendogli io chiesto notizie dell'Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli “io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo con le dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all'inno mettendo giù frasi melodiche, l'una sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai, scontento di me; mi trattenni ancora un po' di tempo in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio; presi congedo, e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d'un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo, e per conseguenza anche sul povero foglio: fu questo l'originale dell'inno "Fratelli d'Italia". Piacque, pei versi, e qui l'amico era modesto, come sempre, ed ingiusto con sé; ma l'Italia gli renderà la giustizia ch'egli voleva negarsi; ed era cantato con entusiasmo. La polizia rincorreva come tante fiere tutti coloro che lo cantavano: ma già il popolo lo aveva fatto suo, e in ogni moto, in ogni festa, ufficiale o non ufficiale, l'Inno faceva capolino. Fu proibito fino alla dichiarazione di guerra all'Austria; e da quel giorno, poi, tutte le bande militari lo suonarono. I soldati, quando partivano per la Lombardia, lo cantavano alzando i caschetti sulla punta delle baionette. Un anno dopo, è vero, lo suonarono a scherno le bande militari nemiche nello entrare in Alessandria. Ma non fece loro buon pro, che anzi...Ma via, lasciamola lì, poiché la pace si è fatta, e noi siamo in casa nostra padroni.    Tornando a que' tempi, io non vidi il Mameli, se non a Milano, nell'aprile del '48. Si discorreva, in piazza del Duomo, di tutte le cose nostre genovesi, quando ad un tratto la banda Nazionale intuona il "Fratelli d'Italia". Un urrà generale si levò per la piazza; Goffredo ebbe come un lampo negli occhi, mi gittò le braccia al collo e mi baciò. Fu l'ultima volta che lo vidi; e fu uno dei pochi baci ond'io serbo memoria”. (Cfr. Scritti editi e inediti di Goffredo Mameli. Ordinati e pubblicati con proemio, note e appendici a cura di A.G. Barrili, Genova, 1902, pp. 26-27).

[13] L'iscrizione fu dettata da Angelo Custòdero. Ecco il testo: «In questa casa che fu / di Lorenzo Valerio / una sera sui 10 di novembre 1847, il maestro Michele Novaro / divinava le note al fatidico / Inno di Mameli / Nel centenario della / nascita del Poeta / Auspice il Liceo Cavour 1927». (Cfr. A. Custòdero, Goffredo Mameli e il suo "Inno", Torino, 1929, p. 16).

[14] Il metro di questo inno è il seguente: sono strofe di otto senari, suddivise ciascuna di due membri di quattro versi. Il primo membro ha il primo e il terzo verso sdruccioli, il secondo e il quarto piani e rimati fra di loro. Il secondo membro ha il primo verso sdrucciolo, tronco l'ultimo, piani e rimati insieme i due versi di mezzo. Ogni strofa è seguita da un ritornello di tre versi che ribadisce la stessa idea con le medesime parole: esso è composto di due senari piani con rima eguale e di un verso tronco in rima con l'ultimo di ciascuna strofa. Lo schema metrico è il seguente: ABCBDEEF - GGF.

[15] Cfr. Scrìtti editi ed inediti di G. Mameli, cit., p. 47.

[16] Un manifesto raffigurava Mameli con la spada in pugno; in epigrafe: «Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta» e in calce: «1849-1944. Lo spirito di Goffredo Mameli difenderà la Repubblica Sociale».


Tratto da “Fratelli d'Italia. Goffredo Mameli e Genova nel 1847” a cura di Emilio Costa, Giulio Fiaschini, Leo Morabito, con uno scritto del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, Genova 1998.

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