Le Pagine di Storia

 

1854: Ferdinando II inaugura il porto d'Ischia

a cura di Alfonso Grasso

 

Eravi a settentrione dell'isola uno stagno ampissimo, originatosi fin dai più remoti tempi dall'ultimo dei tre gran tremuoti, onde quella fu sommossa, siccome ricorda la storia, il quale appena avrebbe dato adito a qualche navicello peschereccio che vi fosse entrato per via di un angustissimo canale comunicante col mare.

Veduto dunque il Re che niun luogo offrivasi più acconcio ad un porto, comandava che vi si fosse aperta nel sito più vicino al mare un'ampia bocca da poter dare agevolissimo passaggio a qualsivoglia più grande piroscafo da guerra, e che il suo fondo si fosse purgato dì tutte le materie, che i secoli vi avevano accumulate, affinché anche grandi navigli riparare vi potessero e stanziarvi a loro bel agio.

Acciocché poi la bollente rabbia dei venti non obbligasse i fiotti de' marosi a spingere le accumulate arene in quella chiostra, e la foga de' cavalloni nuocer non potesse ai legni nel luogo medesimo dove cercan salvezza; volle Sua Maestà che di lunga ed acconcia scogliera si munisse

l'entrata del porto. Avanzatasi maravigliosamente l'opera in pochi mesi, sotto gli auspicii del Sovrano, un magnifico spettacolo si vide in quelle acque il giorno 17 settembre dell'anno 1854.

Non appena saputo, che poteva un chicchessia nel nuovo porto entrare; che gli ischioti non solo, ma e la gente quanta era delle isole circostanti, muoveva a deliziarsi in quel loco dove si trovava infrenato il più infido elemento. E più che altri ne godevano gli abbronziti pescatori, cui gli ami e le reti, i viminei laberinti, e le dentate fiocine esponevano a maggiori pericoli, sicché in poco d'ora quelle acque si popolarono di numero innumerabile di palischermi, feluche, paranzelli, tartane e trabacche, folte e gremite di festevoli passeggieri; le quali, ornate a banderuole galanti, guernite di cortine listate, e adorne la poppa, quai di porporine rose, e quai di verdeggianti mirti, battendo i remi a golfo lanciato, entrarono con alcuni battelli a vapore nella chiostra preparata dalla provvidenza dell'ottimo Principe al commercio ed alla sicurezza dei naviganti.

Ma quale non fu la sorpresa, quando si accorsero che il Re medesimo, a fianco dell'Augusta sua Consorte e di tutta la regale famiglia, da una tenda innalzata sul clivo soprastante gioiva di quella gioia, che Egli stesso aveva procacciato ai suoi sudditi? Fu bel vedere a quanti segni di plauso si esprimesse l'esultanza degli animi e un bel sentire i replicati fragorosi Viva il Re, maggioreggianti anche tra le nunnerose salve dei piroscafi da guerra, il Tancredi, la Saetta, il Delfino, l'Antilope, della Cristina e degli altri legni erranti nelle vicine acque con le reali bandiere. Alle quali salve rispondeva per tutto intorno ai rivaggi del porto, e ai prossimi colli una calca immensa, che ad alte prolungate voci, non senza suon di mani, tutte chiamava le benedizioni del cielo sul capo del suo Sovrano adorato, in mentre che i più vicini beavansi a contemplar quella fronte su cui raggiano, ad un tempo, la fede in Dio, la maestà del Principato, l'amore ai popoli.

Mostra bellissima facevano gli abiti paesani e festerecci, quelli soprattutto delle foresi dell'isola e di Procida, che tanto ritraggono delle antiche fogge. Sfavillavano esse per ori ed argenti, con indosso quanto possedevano in rubini e perle, e di ogni altra simil cosa di pregio, gravate più che ornate. Era un superbo guardarle così riccamente, e così vagamente abbigliate. Che curiose attillature!

Che ricchezza di stoffe! Tuniche a rapporti di broccato; pettiglie guernite di ricercati galloncini, sciamiti con componimenti di cordorii, trine aggruppate, nodi capricciosi, frammessi nuovi; capi quali incercinati di trecce, altri con capelli carichi non solamente infrascati di nastri.

E tutte queste figure tanto più belle, quanto che riscontravansi collo sfoggiato e corteggiato vestire, che il Tamigi e la Senna avevano inviato alle dame ed ai cavalieri, che, trovandosi a villeggiare ne' diversi alberghi dell'isola, mossero per godere l'inaspettata letizia. La quale, prolungatasi per più ore, si faceva ad ogni istante diversa; ma sempre nuova, bellissima, soprammirabile per gli effetti del sol cadente, onde l'acqua si tingeva di fiamme, che, ripercuotendo sui volteggianti legni, gli ostri e gli smeraldi delle pompose donne in mille guise lampeggiare facevano. Ché in quella piacevolezza della stagione placido era il mare e splendido meglio di puro zaffiro il cielo, da cui pareva, che, intercedente il Santo nostro Patrono Gennaro, l'Angelo del Signore avesse disgombra la mortifera nube, che dall'esizial suo grembo piovve su queste belle Sicilie i pestilenziali semi dell'asiatico morbo. E sì che tutti avrebbero voluto per molto più di tempo contemplare la Maestà di un Re, la cui presenza è la storia parlante di quel senno, per cui, vindice di tutte le civili ragioni, Ei va promovendo opifizii ed industrie, ed ogni cosa onde l'umano consorzio si rinvigorisce. Di che sfolgorano in tutto il regno a mille gli esempi, ed ultimamente in quest'isola, che n'ebbe rotabili strade, bagni adorni, e terme salubri; e, che più è, atti solenni di pietà e religione, non ultimo dei quali è il sacro tempio onde belle si faranno le rive del porto.

Ma già la stella di espero, scintillando più chiaro dell'usato sull'orizzonte, annunziava il presto arrivar della notte; quando le il Re e la Regina, sulle mosse di ritirarsi, furono di bel nuovo salutati da lunghi Evviva e schietti rimbombanti applausi. Sicché, allo spirare di una brezza leggiera che riempiva dolcemente le vele, tutte quelle schiere gioiose, là tornando donde erano partite, acclamavano a Ferdinando II, come a colui chepadre si mostra a tutti coloro che da re felicemente governa.

I terremoti lasciano tracce indelebili nella storia alterando per sempre civiltà, economie, rapporti sociali, identità collettive. Quando nel passato hanno colpito popoli e città evolute e organizzate del Mediterraneo, i terremoti hanno cambiato il corso di intere società: dall'esplosione di Santorini, a Pompei, al terremoto dell'Italia meridionale del 1783 (la lista è molto lunga) e le "ricostruzioni" non sono state mai guaritrici delle ferite ricevute. Non è soltanto la morte a prendere il posto di quello che c'era prima; c'è lo smarrimento e lo stupore dei sopravvissuti e dei testimoni, l'assenza che risucchia, in chi si è salvato, la percezione del tempo e persino il dolore fisico dei superstiti feriti.


Fonte: Annali Civili del Regno delle Due Sicilie - vol. LIII - 1855, Bernardo Quaranta)

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