Sul
finire del XVIII secolo il Mezzogiorno d’Italia, allo stesso
modo delle altre regioni italiane e della maggioranza dei paesi
europei, era di fatto e di diritto un sistema feudale. Della
necessità di superare tale stato feudale e del come, se ne
occupò largamente anche un nostro studioso,
Gaetano Filangieri,
ne
La
Scienza della Legislazione.
Nel suo trattato egli distinse due tipi di feudalità: la
feudalità in quanto sistema istituzionale-politico e la
feudalità in quanto complesso di rapporti tra economia, classi
sociali, cultura, morale, comportamento, ecc. L’emancipazione da
questi due tipi di feudalità deve necessariamente seguire tempi
e percorsi diversi.
In
Francia la feudalità “istituzionale” fu abolita nel 1789,
in Italia ci si arrivò in seguito alle invasioni napoleoniche.
Le prime regioni a muoversi in tal senso furono quelle del
centro-nord che per prime furono assoggettate a Napoleone.
Seguirono quelle del Mezzogiorno continentale governate da
Giuseppe Bonaparte (1806) prima e da
Gioacchino Murat (1811)
dopo
.
In
Sicilia, dove Napoleone non arrivò mai, si giunse comunque
all’abolizione della feudalità nel 1812 ad opera però di un
Parlamento di rito feudale. All’atto della Restaurazione, re
Ferdinando I confermò l’abolizione della feudalità
.
Malgrado tutte queste buone intenzioni, nel 1860, al momento
dell’unità d’Italia, oltre il 40% delle terre coltivabili
apparteneva al clero, circa il 25% era baronale, altrettanti del
demanio e solo il 10% era diviso in piccole proprietà
.
L’ultima regione italiana ad abolire il feudalesimo fu la
Sardegna dei Savoia, nel 1836.
Questa trasformazione da società feudale in moderna, come
prevedibile, in un primo momento riguardò solo l’aspetto
giuridico-istituzionale; le riforme erano sulla carta ma la loro
trasformazione in un sistema borghese necessitava di una
applicazione continuata e cosciente per poterne cogliere gli
effetti nel campo dell’economia, della cultura, della politica,
ecc. La trasformazione della mentalità sociale richiedeva tempi
ben più lunghi ed ogni paese europeo la affrontò e la risolse in
tempi e modi diversi in funzione del substrato sociale,
culturale e religioso di partenza.
Possiamo osservare infatti che nelle regioni europee che
insistevano sulle coste settentrionali dell’Atlantico e che si
erano svincolate dall’influenza del papato, la società iniziò a
mutare in senso “borghese” già fin dalla prima metà del ‘600
allorché, dopo la scoperta dell’America, la cacciata degli Ebrei
dai paesi cattolici e la riforma luterana, erano divenute il
cuore pulsante dei commerci internazionali a scapito del sud
d’Europa ed in particolare del Mezzogiorno d’Italia che rimase
chiuso nel Mediterraneo quasi come in un ghetto.
La posizione di sudditanza nel Reame Siculo-Partenopeo |
La
lentezza della transizione nelle Due Sicilie ed in particolare
nell’isola di Sicilia fu influenzata dal ruolo che il Regno ebbe
tra le potenze europee. Ricordiamo poi che tra la fine del XVIII
secolo e l’inizio del XIX l’Europa affronta la crisi agraria e
la rivoluzione industriale: o ci si rinnova o si perisce! Ed è
la stessa rivoluzione industriale che fornisce i mezzi per
trasformare l’agricoltura. In questo frangente a fare la parte
del leone sono le due grandi potenze Gran Bretagna e Francia che
grazie alla loro influenza politica e alla loro potenza militare
cercano di conquistare quanti più possibili mercati e di
subordinarli a loro vantaggio. In questo panorama il Regno
borbonico, proprio per la sua dislocazione geografica, non è
libero di avere né una politica estera indipendente né una
economia indipendente. Politicamente l’economia meridionale, pur
non essendo una economia coloniale, è fortemente condizionata
dal mercato internazionale che è saldamente controllato da
Francia e Inghilterra.
Dopo
la caduta di Napoleone ad esempio, l’Inghilterra, che aveva
fatto della Sicilia una sua base militare, la smilitarizzò ma
mantenne con essa un rapporto economico privilegiato con la
stipula, nel 1816
di un apposito trattato di commercio rinegoziato nel 1845. Per
attenuare questa condizione di dipendenza economica il governo
di Napoli sottoscrisse anche trattati con la Francia, la Spagna,
il nord Africa e la Russia. Più che i trattati, contavano però
gli effettivi legami siculo-inglesi rappresentati dalla cospicua
presenza di commercianti e imprenditori inglesi che godevano di
un doppio status: quello di cittadini inglesi e quello di
cittadini siciliani beneficiati dal governo locale di
particolari agevolazioni fiscali e doganali. Si era venuto a
creare una sorta di Stato nello Stato. Famiglie come gli Ingham,
i Woodhouse, i Whitaker si stabilirono definitivamente in
Sicilia, divennero siculo-inglesi e con le loro immense fortune
realizzarono nei fatti la supremazia britannica nell’economia
siciliana
Questa situazione si ripercuoteva anche all’interno del Regno
stesso.
I viaggi di Vincenzo Di Bartolo: un caso emblematico |
È in
questa situazione ad esempio che possiamo inquadrare i viaggi di
Vincenzo Di Bartolo
. Tutto
cominciò nel 1838 quando gli Ingham, grandi produttori di
Marsala che operavano in Sicilia, gli fornirono un brigantino,
l’Elisa, di appena 248 tonnellate, con il quale salpò da Palermo
il 28 0ttobre con 12 marinai. Era fornito di una cambusa viva,
portavano con loro maiali e galline e partirono per Sumatra via
Boston. Perché Sumatra? Per il pepe, il pepe nero. Merce
preziosissima ai tempi. Fu di ritorno il 14 dicembre del 1839 e
aveva le stive talmente colme di spezie che i marinai dovettero
fare il tutto viaggio di ritorno sopra coperta perché le
esalazioni delle spezie erano talmente intense da non consentire
di respirare. L’avvenimento ebbe una tale risonanza da
convincere il re Ferdinando II di Borbone ad investirlo di
particolari privilegi: fu conferita infatti a Di Bartolo la
medaglia d’oro al merito civile e la nomina ad Alfiere di
Vascello della Regia Marina Borbonica. La nomina ad Alfiere di
Vascello era anche un bel regalo perché gli dava franchigia
doganale per il carico dei bastimenti al suo comando. Come dire
una bella evasione fiscale autorizzata dal re che fece la
fortuna del Di Bartolo ma soprattutto degli Ingham. Costoro
infatti, qualche mese dopo, nel 1840 gli armarono un altro
bastimento, ben più grande del primo e lo inviarono in Brasile
con un carico di vino, olio, noci, mandorle che vendettero a Rio
e poi a Sumatra dove fecero il carico di spezie. I viaggi furono
sei, avventurosi e non scevri di pericolo. Ma Di Bartolo, non
perse mai né un uomo d’equipaggio né un carico di merce. La cosa
è dimostrata dal fatto che i Lloyds inglesi gli ridussero i
premi assicurativi. Tutto questo però fu praticamente ad
esclusivo beneficio degli Ingham che non reinvestirono mai i
loro guadagni nell’isola ma in Inghilterra e in America. In
questo consisteva la sudditanza economica dalla quale
evidentemente era difficile sfuggire.
La
parte continentale e la parte isolana avevano due economie
diverse. Nel napoletano, già a partire dalla fine del secolo
XVIII erano sorte numeroso fabbriche ed imprese. Il sito ha dedicato a tale sviluppo
numerose pagine, come da
elenco in calce. Qui basti ricordare:
l’industria metalmeccanica e siderurgica (circa 100 opifici
metalmeccanici di cui 21 con più di 100 addetti e l’eccellenza
costituita dallo stabilimento di Stato di Pietrarsa, nel 1860 la
più grande industria d’Italia)
; la
Cantieristica navale (il cantiere di
Castellammare di Stabia, con 1.800 operai, l’Arsenale di Napoli
con annesso bacino in muratura); l’industria tessile,
capillarmente diffusa in tutto il Regno; le circa duecento
cartiere; i pastifici alimentari; le fabbriche di cristalli e ceramiche, tra cui la
rinomata Capodimonte.
|
La statua di Ferdinando II a Pietrarsa
|
Le
aziende godevano dei vantaggi, ma subivano anche gli svantaggi,
del protezionismo statale, specialmente con
Ferdinando II
teso
all’autarchia. Il contesto in cui agivano era quello
dell’economia dirigista borbonica, con la sua blanda pressione
fiscale e, quindi, con investimenti altrettanto blandi.
La
differenze tra Sicilia e parte continentale erano tuttavia più
apparenti che reali perché l’asse portante della società sia nel
continente che nell’isola era rurale e in questo non ci sarebbe
stato niente di male, se non fosse stato che la terra rimaneva
saldamente in mano all’aristocrazia che, specie in Sicilia e
nelle zone montane della parte continentale del Regno, ben si
guardava dall’ammodernare le colture e continuava a sfruttare in
maniera obsoleta il latifondo, con predominio della
cerealicoltura e del pascolo, con scarso sviluppo del mercato
interno. Inoltre è bene ricordare che il grano nella prima metà
dell’ottocento aveva perso gran parte del suo valore strategico.
L’espansione delle aree coltivate in Europa e la parallela
evoluzione dei trasporti via mare fecero si che nel Mediterraneo
ormai si commerciasse anche il grano russo e il grano turco a
prezzi concorrenziali. È da notare come si mantenne praticamente
invariato il tessuto urbano: mentre nel nord Italia e nel resto
d’Europa si disgregavano i borghi medievali e si costituivano
fattorie e aziende agricole, nel Mezzogiorno il sistema di
coltivazione rimase in gran parte immutato e poche furono le
zone che si adattarono ai nuovi modelli e introdussero nuove
colture. Per fare un esempio la patata ed il mais che tanta
importanza ebbero per lo sviluppo dell’Europa perché
rispondevano all’espansione della esigenze alimentari
determinate dalla rivoluzione industriale furono scarsamente
considerate. Non tutto ovviamente era rimasto immobile, notevole
sviluppo ebbero le colture della vite e degli agrumi e
dell’olivo. Ma anche qui, dispiace dirlo, i maggiori produttori
portavano cognomi stranieri: Ingham, Whitaker, Woodhouse, Wood,
ecc. Solo un nome italiano spicca tra questi, quello dei Florio.
L’estrazione dello zolfo: una
produzione strategica |
Si
esportavano soprattutto materie prime non lavorate, quali zolfo
e sale marino e prodotti agricoli pregiati quali olio, agrumi,
manna, liquirizia, seta grezza e vino. Di contro eravamo
costretti ad importare prodotti finiti quali tessuti, cuoio,
medicine, ecc destinati quasi totalmente a soddisfare necessità
individuali. Il segno tangibile della nostra subalternità ai
mercati esteri è dato dalla modalità di produzione e del
commercio degli zolfi. L’industria degli zolfi in Sicilia nasce
nel 1808, quando il governo diede i consensi per lo sfruttamento
del sottosuolo. La necessità di estrarre in gran quantità lo
zolfo era dettata dalla nascita della moderna industria chimica
europea e la Sicilia aveva il monopolio naturale dello zolfo.
L’apertura delle miniere, avviata al tempo dell’occupazione
inglese durante le guerre napoleoniche fece vivere alla Sicilia
una sua particolare rivoluzione industriale che cresceva al
crescere dell’industria inglese e francese. In Sicilia
l’attività mineraria fu tuttavia caratterizzata da uno
sfruttamento della manodopera a dir poco selvaggio. Gli operai
lavoravano in condizione disumane. Eppure furono tantissimi i
braccianti che preferirono lasciare i campi per lavorare nelle
miniere. Questo ci fa capire quanto drammatiche fossero le
condizioni dei lavoratori della terra. In miniera avevano per lo
meno la certezza del pane quotidiano. L’esodo dalla agricoltura
fu significativo e influì non poco nella diminuzione della
produzione cerealicola dei latifondi. Nonostante si fosse venuto
a creare un “proletariato industriale” enorme per quei tempi (le
prime statistiche, risalenti al 1860, registrano la presenza
nelle miniere di un’occupazione operaia di circa 16.000 unità)
le connotazioni dello “sfruttamento” delle zolfare era
prettamente coloniale. Tutto il prodotto era destinato
all’estero allo stato grezzo e la commercializzazione era
prevalentemente in mano ad operatori stranieri, per lo più
inglesi che si occupavano anche dell’aspetto creditizio
assicurando il pagamento anticipato sulle consegne. Il sistema
però accontentava tutti e cioè i proprietari delle miniere, che
erano i grandi proprietari terrieri, i gabelloti, a cui era
affidato lo “sfruttamento” cioè la gestione dei singoli
giacimenti e gli operatori commerciali che agivano sul mercato
estero. Da questa situazione scaturiva una cultura di rapina e
sfruttamento nei confronti degli operai. I metodi di estrazione,
per risparmiare, rimasero in uno stato quasi primitivo, tipico
delle industrie coloniali. Con il beneplacito al solito dei
baroni e dei gabelloti. Una tale corsa alla produzione a basso
costo portò spesso a crisi di sovrapproduzione e la situazione
era diventata talmente poco sopportabile per uno Stato che
aspirava a diventare moderno che il governo borbonico, nel 1838,
cercò di arginare questo stato di cose offrendo un accordo
vantaggioso alla società francese Taix-Aycard: i ministri di
Ferdinando II offrirono ai francesi il monopolio del commercio
degli zolfi, con un limite massimo di produzione annua, in
cambio della costruzione di una moderna raffineria e di un
impianto industriale per la produzione di acido solforico e soda
solforata e l’impegno di addestrare manodopera locale. L’idea
era di allentare la morsa del predominio economico inglese e
permettere lo sviluppo di un’industria chimica siciliana. Un
tale accordo avrebbe dovuto essere accettato con grande
entusiasmo e invece “il cartello” costituito dagli inglesi, dai
proprietari delle miniere e dai gabelloti lo osteggiarono
fortemente: questi ultimi videro nell’iniziativa del governo
soltanto una diminuzione del loro profitto individuale e non i
vantaggi generali ed a lungo termine per il Regno.
Contemporaneamente all’accordo con la Taix-Ajcard furono
promulgate le leggi per lo scioglimento delle promiscuità e la
censuazione dei beni ecclesiastici. Ciò colpì indistintamente
sia gli interessi liberali che quelli delle economie più
arretrate e parassitarie e quindi non ci fu una intesa tra
governo e forze borghesi in vista di uno sviluppo economico
autonomo. Nel contrasto con la Gran Bretagna il governo rimase
isolato e finì col trovarsi tra due fuochi. Da una parte gli
inglesi che minacciavano il ricorso alle armi, dall’altra i
fuoriusciti siciliani
. La diplomazia
borbonica cercò aiuto all’Austria e alla Francia e fece anche
delle pubbliche proteste contro gli Inglesi disponendo l’embargo
per le navi inglesi. Ferdinando si trasferì in Sicilia per
meglio gestire la questione ma non ebbe nessun aiuto sul piano
internazionale e l’appoggio locale non fu adeguato. Alla fine fu
praticamente costretto a revocare l’accordo con la Taix-Aycard.
Al danno si aggiunse la beffa perché il governo dovette
risarcire sia i francesi che gli inglesi.
Dobbiamo tuttavia osservare che fin dagli anni ’30 dell’800 si
era sviluppato un vivace dibattito tra protezionisti e
liberisti, tra agraristi e industrialisti per lo sviluppo
economico ma continuava a mancare un qualsiasi spirito di
associazione che avrebbe consentito di aumentare non solo il
capitale in denaro ma anche di macchine, di strumenti, di
materie grezze e soprattutto di operai e dirigenti
specializzati. Non dimentichiamo infatti che le nostre
università vantavano cattedre di teologia, di filosofia, di
economia, di lingue orientali, di astronomia ma mancavano di
cattedre di ingegneria e di qualsiasi materia inerente la
gestione dell’industria. Non si curava, in parole povere quell’”arte”
che oggi chiamiamo “gestione aziendale” né di preparare operai
qualificati.
La latitanza del capitale da
investimento |
Alla
base del mancato decollo dell’economia isolana, come bene
scriveva Lucchesi Palli (Effemeridi scientifiche e letterarie,
1834), c’era soprattutto la mancata crescita del
mercato
finanziario “La Sicilia non sarà mai né perfetta agricola, né
commerciale, né manifatturiera, se pria un’immissione di nuovi
capitali circolanti non ne vivifichi il suo stato.” Non si
reinvestivano i capitali nell’isola, come abbiamo già avuto modo
di osservare, e non solo per gli interessi della finanza
internazionale (in prima fila i Rothschild) ma soprattutto per
la mancanza di una cultura in tal senso degli operatori
siciliani. Pochi furono quelli che si scostarono da questo
andazzo: Vincenzo Florio e Camillo Camposanto ad esempio si
adoprarono per la nascita di stabilimenti per la lavorazione ed
il commercio dei tabacchi. I Florio in particolare, diedero
inizio alla loro spettacolare ascesa, intervenendo a 360°
nell’economia isolana, nell’industria del vino, nell’estrazione
e commercializzazione degli zolfi , nella produzione chimica ,
nella navigazione e nella cantieristica navale, nelle tonnare,
ecc. Erano la dimostrazione che in Sicilia si poteva crescere.
Bastava semplicemente investire capitali e formare mano d’opera
qualificata impedendo il mero sfruttamento del territorio e
della nostra forza lavoro da parte di operatori stranieri.
Nell’attività degli zolfi dimostrarono come fare impresa,
costituirono infatti società per azioni con i proprietari delle
miniere anziché contentarsi del solito rapporto di gabella e
anche nelle altre società si unirono ad altri validi operatori,
come i Riso, i Bordonaro o gli stessi Ingham, formando società
finanziarie con sede in Sicilia . Ad esempio, per ovviare alla
carenza dei trasporti per il commercio e non affidare le merci a
società estere, venne costituita, nel 1840 la società dei
battelli a vapore con un capitale di 35.000 onze diviso in 350
azioni che l’anno successivo fu in grado di assorbire la
Fonderia oretea che doveva essere una azienda di supporto a
quella di navigazione. La fonderia fu ampliata e fornita di
apparecchiature moderne adatte a costruire caldaie e motori per
nave e creando posti di lavoro.
Malgrado queste iniziative che si sviluppavano
contemporaneamente anche nell’area del messinese e del catanese
l’industria siciliana non riusciva a decollare. Anche se erano
presenti realtà aziendali in vari campi, le imprese erano in
massima parte troppo piccole, al massimo 5-10 dipendenti, a
carattere artigiano e familiare in grado di soddisfare soltanto
le esigenze del mercato locale, al massimo provinciale o
interprovinciale e raramente regionale.
Meno che nel settore minerario e in quello vinicolo non
esistevano aziende in grado trovare sbocco nel mercato estero o
in quello napoletano. Praticamente noi esportavamo quasi
esclusivamente derrate agricole pregiate e vino di alta qualità
(il Marsala), destinati però al consumo di lusso, sale marino e
zolfo in massima parte sotto forma di materie prime non lavorate
e quindi senza “indotto”. Da granaio d’Europa la Sicilia si era
trasformata nella zolfara e nella saliera d’Europa. Prima
serviva a sfamare le truppe che dominavano il continente e poi
servì ad alimentare le industrie che la soggiogavano
economicamente. Per tutto il periodo preunitario il numero delle
società per azioni si mantenne limitatissimo ed erano
praticamente assenti gli istituti finanziari, come le casse di
risparmio o le banche di emissione, deposito e sconto. Il
settore finanziario era completamente trascurato, a nessuno
venne mai in mente di fondare una banca o di modificare le
Tavole di Palermo e di Messina
che avevano ancora una struttura strettamente feudale, bastevole
solo a garantire le operazioni ordinarie dell’erario pubblico.
Il primo tentativo di fondare un Banco di Sicilia in senso
moderno fu ad opera del lombardo Giuseppe De Weltz e del
napoletano Francesco Fuoco
Ma non ebbero successo anzi furono criticati pesantemente
persino da studiosi come Nicolò Palmeri. Neanche dopo le rivolte
del ’48 riuscì a passare una proposta in tal senso. Erano
proprio teste di coccio! E mentre in Europa si sviluppava un
fitto intreccio capillare di banche, la borghesia siciliana
mostrava tutta la sua arretratezza culturale in campo
dell’economia e rimaneva subordinata alla concezione cattolica
dell’economia da sempre ostile allo sviluppo del moderno credito
bancario. Non tutte le colpe del mancato sviluppo moderno
dell’economia del Mezzogiorno ed in particolare i Sicilia sono,
ovviamente, della Chiesa controriformista ma è certo che essa ha
avuto una notevole influenza negativa ed i suoi veti furono da
noi osservati più che altrove in Italia. Anche negli anni
successivi, quando ormai non era più possibile contrastare lo
sviluppo del sistema bancario, il credito rimase in buona parte
sotto il controllo della Chiesa il che portò, oltre alla diffusa
pratica dello strozzinaggio, alla pratica caritativa ed
assistenziale del credito gestito dalla chiesa con i Monti di
pietà e i Monti frumentari
,
e dalle forze ad essa collegate in maniera spesso spregiudicata
e strumentale. Se durante l’alto Medioevo (con i Normanni e gli
Hoenstaufen) e nel periodo dei vicereami la presenza di
banchieri genovesi, Pisani, Veneziani, ecc era molto presente
sul territorio, durante il regno borbonico prevalse il capitale
commerciale d’oltralpe (svizzero, tedesco, francese, inglese,…)
per cui il capitale si concentrò quasi unicamente nelle piazze
di Palermo e Messina, trascurando le zone interne della Sicilia,
quella produttiva e agricola che rimasero saldamente in mano
alla Chiesa.
Non
ci sembra azzardato paragonare la situazione del Regno delle Due
Sicilie a quella dell’Italia di oggi: tante piccole imprese,
troppe forse, poche grandi industrie. Esportazione di merce
pregiata, destinata ad un mercato ristretto, e importazione di
beni di largo consumo.
La
popolazione si articolava in tre fasce a distribuzione
piramidale, un vertice costituito dall’aristocrazia
terriera che dilapidava i suoi patrimoni inseguendo lussi e
capricci, una borghesia di paglietta, tranne qualche rara
eccezione come i Florio, i Gallo o gli Orlando che investivano
nell’industria metallurgica ma che nel tentativo di imitare il
tenore di vita dei nobili e di entrare nella loro cerchia,
diedero il via a quel fenomeno descritto come “pietrificazione
dei profitti”, l’acquisizione cioè di sontuose dimore urbane e
suburbane con relativi parchi, e il popolo infine che
versava in uno stato di generale povertà e nella più nera
miseria se ci si spostava nelle zone interne dell’isola.
Era
proprio il basso tenore di vita della maggior parte della
popolazione e la penuria di denaro circolante che a lungo
termine non avrebbe assicurato sbocchi a qualsiasi attività
produttiva, dai manufatti metallurgici, ai tessili, dalle
ceramiche all’editoria.
La
situazione periferica rispetto ai principali mercati inoltre,
faceva sentire tutto il suo peso allora come ancora oggi. La
ricchezza del sovrano e delle classi egemoni non si rifletteva
nel resto del paese. Poche isole felici per lo più concentrate
nei centri marittimi più importanti come Messina, Palermo e
Marsala mentre il resto dell’isola versava in condizioni di
miseria, di ignoranza e di arretratezza.
Una
situazione simile troviamo nella parte continentale del Regno
dove, con l’abbattimento dei dazi doganali protezionistici e
l’introduzione, il 24 settembre del 1860, della tariffa
libero-scambista, la concorrenza dei prodotti del Nord ed esteri
mise in ginocchio l’industria e l'agricoltura. Con l’Unità
d’Italia, ci fu l’aumento istantaneo del prelievo fiscale,
accompagnato dal drenaggio del risparmio capitali, e la
progressiva diminuzione delle commesse statali alle imprese del
Sud. La frattura economica Nord-Sud si cominciò così a delineare
già dopo 20 anni d’unità, e “… segnatamente tra la fine degli
anni Ottanta e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale” [14].
Emblematica al riguardo è la lenta ma inesorabile agonia dello
stabilimento di Pietrarsa, consegnato dai Piemontesi ad uno
speculatore di dubbia fama, Jacopo Bozza. La situazione si
deteriorò rapidamente, con licenziamenti e riduzioni salariali
continue e, nell’agosto del 1863, lo sciopero delle maestranze
fu sedato dall’esercito piemontese, che sparò sulla folla
uccidendo sette operai e ferendone altri venti. L’officina fu in
seguito affidata alle Ferrovie dello Stato, che la ridussero a
inizio ‘900 a deposito (oggi è un museo).
Locomotiva (ricostruzione) esposta
nel museo di Pietrarsa |
Tale
stato di cose non poteva non provocare malumori, ribellioni,
tensioni e banditismo. Il Regno era troppo fragile e l’invasione
dei piemontesi non aveva fatto altro che dilaniare quel poco di
tessuto economico che si era formato, consentendo l’ascesa di
pochissimi speculatori economici, come i Florio che
approfittando del marasma creatosi si impadronirono di quanto
gli imprenditori stranieri andavano abbandonando e di moltissimi
“speculatori” politici che si impadronirono di quante più
cariche pubbliche locali e nazionali potevano. Ma anche per
costoro la vita non sarà facile: non mutando le condizioni della
maggior parte del popolo, anzi per certi versi peggiorando,
anche le loro ricchezze erano destinate a sfumare.
Lo
sviluppo del sud si può definire una norma programmatica cioè un
obiettivo che deve essere quotidianamente realizzato, oggi come
allora e sarà difficile uscire da questo “empasse” se il
Mediterraneo, USA ed EU permettendo, non torna ad essere un
centro commerciale di primario interesse.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
dicembre 2007
Bibliografia
[4]
Da qui il ritardo
nell’adeguarsi alla trasformazione da stato feudale in
stato moderno, anche se in Sicilia i germi del
cambiamento iniziarono a germogliare dopo il trattato di
Utrech con la venuta di
Vittorio Amedeo di Savoia e
ancor più rapidamente dopo il 1735 quando si venne a
creare
il regno di Carlo di Borbone. Il tessuto feudale
che nel sud d’Italia era più forte che altrove, ritardò
comunque in maniera evidente la modernizzazione dello
stato. Basta pensare che su 350 comuni siciliani ben 300
erano soggetti al mero e misto imperio. I baroni cioè
imponevano e riscuotevano tributi, nominavano i giudici
e gli amministratori locali, avevano le loro carceri e
la loro polizia privata. Dopo il 1812 tutto questo cessò
ed è indubbio che le ripercussioni furono evidenti e si
fecero passi avanti nel rinnovamento della società ma
certamente partendo da una situazione svantaggiata tali
cambiamenti sembrarono più lenti rispetto a quelli dei
paesi del nord Europa.