Carlo Alberto di Carignano (Torino 1798 - Oporto 1849), figlio di Carlo Emanuele sesto principe di Carignano, e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, lontano nipote del re Carlo Felice, l'ultimo dei Savoia.
Per ritrovare la comune matrice di parentela bisogna risalire di circa 200 anni: se si fosse trattato di gente comune, non sarebbe sopravvissuto il ricordo!
All'epoca della dominazione napoleonica in Piemonte, seguì corsi di studio a Parigi ed a Ginevra; nel 1814 Napoleone in persona lo nominò sottotenente del Reggimento Dragoni; caduto l'Impero, fece ritorno a Torino nella corte tradizionale e assolutistica di Vittorio Emanuele I. Le sue simpatie per la Francia gli procurarono grandi inimicizie e molti contrasti con il fratello del re, Carlo Felice, uomo rigido e conservatore come lo era tutta casa Savoia. I tentativi di ribellione di Carlo erano noti e suscitarono nei liberali rivoluzionari l'illusione che egli fosse un alleato.
In realtà Carlo Alberto era in crisi, in profonda contraddizione con se stesso. Aveva esperienza di due mondi incompatibili fra di loro, ma non riusciva ad appartenere né all'uno né all'altro. Nel 1821 ebbe una parte non chiara nei moti carbonari. Certamente egli era stato in contatto con i rivoltosi, ma all'ultimo momento si ritrasse mentre i congiurati continuarono a proclamare il suo appoggio. Dopo lo scoppio della rivolta, il re Vittorio Emanuele I abdicò in favore del fratello Carlo Felice, senza prole, che in quei giorni si trovava a Modena.
La reggenza fu assunta da Carlo Alberto poco più che ventenne che, entrato subito nella parte, ne approfittò per concedere una costituzione. Se non fu un colpo di stato ma era molto simile, anche se Carlo ora sembra certo che si trattò di una mossa di carattere dimostrativa, sapendo molto bene quale sarebbe stata la reazione del re. Carlo Felice infatti rientrò prontamente a Torino e sconfessò l'operato del reggente. Chiamò gli Austriaci in Piemonte affinché reprimessero ogni possibile rivolta e ordinò a Carlo Alberto di recarsi agli arresti a Novara tra le truppe fedeli, con l'obbligo di rimanerci per non nuocere al regno.
Carlo fu molto ubbidiente e rientrò subito nell'ambito dinastico - reazionario, tenendo un comportamento che dai liberali fu bollato come un tradimento. Anche per la stessa monarchia era ormai da ritenersi inaffidabile. Per questo, dopo gli arresti, venne costretto all'esilio presso il suocero, Ferdinando III di Toscana. Dalla Toscana si diresse in Spagna dove si schierò contro i ribelli, prendendo parte alla repressione dei liberali, combattendo al Trocadero.
Così riabilitato, alla morte di Carlo Felice nel 1831, salì al trono e subito dimostrò grande energia e rigore nel reprimere qualunque tentativo di riforma liberale. È l'anno delle insurrezioni d'élite, ma è anche l'anno del fallimento definitivo dei moti carbonari, e del rifiuto di Ferdinando II di Napoli alla corona di re d'Italia. La sede vacante del soglio pontificio, dopo il lungo conclave iniziato a dicembre che proseguirà nell'intero gennaio, e il maldestro tentativo di cospirazione a Modena di Ciro Menotti, accendono la miccia della rivolta nel ducato di Parma e nello Stato Pontificio: Ferrara, Bologna, Rimini, Faenza, Ancona, in Umbria e nelle Marche. Non mancano episodi pure in Sicilia. Infine una cospirazione di esuli italiani viene scoperta sul nascere anche in Piemonte.
Il fallimento e la durissima reazione di Carlo Alberto, succeduto il 27 aprile a Carlo Felice, é tale da togliere ogni speranza a Mazzini nella Carboneria e nel Carignano stesso. Questi in gioventù si era dimostrato debole nel difendere la causa dei liberali, ma nei successivi 27 anni (dal 1821 al 1848) della sua vita si dimostrò un mero conservatore, e con lo scettro e il potere in mano dal 1831 in un despota, commettendo moltissimi errori, peraltro dovuti a un'intelligenza a dir poco mediocre. In lui erano certamente assenti le qualità e il valore e l'adesione totale alla tradizione dinastica gli stroncò qualsiasi virtù.
Nel nome di una dinastia cui apparteneva molto alla lontana, e che da otto secoli bramava conquiste e regni più grandi, Carlo proseguì l'atavica tradizione dell'ingrandimento territoriale del piccolo Piemonte. Questa caparbia ambizione la coltiverà dall'inizio fino al suo ultimo giorno di regno, quando inutilmente tenterà il 29 giugno del '48 di annettersi la Lombardia, destando sconforto in quegli ambienti democratici che si erano distinti, con sacrifici e immolazioni, nel portare avanti un progetto più "nobile": realizzare l'unione d'Italia nella libera scelta dei Popoli. Invece Carlo, fino all'ultimo giorno di regno, rimase totalmente indifferente ai problemi dell'Italia del suo tempo; e rimase inoltre sempre insensibile agli incitamenti di mettersi a capo del movimento nazionale.
Un progetto questo che Mazzini, appena Carlo era salito sul trono, gli aveva inutilmente manifestato con una lettera aperta. Quello che non riuscì a Carlo Alberto, cioè di ingrandire il dominio, fu comunque portato a termine dal figlio Vittorio Emanuele qualche anno più tardi, con gli stessi sistemi ed intenti del padre, ma con l'aiuto della mente di Cavour. Tornando al 1831, Mazzini, in esilio a Marsiglia, costituisce in agosto una nuova associazione segreta, con programma repubblicano e unitario: la Giovine Italia, con il simbolo della bandiera bianca rossa e verde. Carlo Alberto intanto si dedicava al riordino dello Stato, delle finanze e riorganizzando l'esercito: da segnalare l'istituzione del Consiglio di Stato e la promulgazione di un nuovo codice civile, tratto da quello della Due Sicilie.
La lingua di corte e di governo restò quella francese. In politica estera si distinse per il sostegno dato al legittimismo (ovvero la monarchia assoluta) parteggiando in Portogallo ed in Spagna per i reazionari e aiutando a reprimere i movimenti dei liberali. Pur nemico dell'Austria, si alleò con essa nel 1831 per timore della Francia "riformista" di Luigi Filippo. Il movimento internazionale liberal - borghese, sorretto dai "liberi muratori" e dall'Inghilterra, lo sollecitò ad un'azione più incisiva in difesa degli interessi capitalistici, e vennero concessi al Piemonte appoggi, nonché prestiti che, per dimensione economica, non avrebbe mai potuto restituire. Anno fondamentale è il 1846 con l'elezione di Pio IX a papa, che infatti sembrò dar credito alla concezione giobertiana di un papato conscio di una missione politica all'interno della penisola italiana, per garantirne l'unità nella pluralità.
Questo andava contro alle fondamentali teorie politiche di Carlo Alberto, che prevedevano il riconoscimento di due soli poteri legittimi: quello temporale di casa Savoia e quello spirituale del Pontefice Ma andava soprattutto contro il pensiero massonico che aveva visto sempre nella dogmatica Chiesa cattolica il principale ultimo baluardo del tradizionalismo e da cui era stata bollata con la scomunica. Ecco che l'Inghilterra individua nel piccolo ma ambizioso regno sardo lo strumento per contrastare il pericolo di un Papa riformista, che avrebbe potuto convogliare su di sé le forze sinceramente volte ad avere un'Italia confederata, con al centro i tradizionali valori comuni dei popoli italiani, in primo luogo la fede cattolica. Gli stati tradizionalmente vicini alla Santa Sede, cioè l'Austria ed il Regno di Napoli divennero bersagli della lotta per il progresso.
Molteplici furono gli strumenti utilizzati in questa battaglia che si può definire epocale: soldi, cospirazione, armi. Ma, soprattutto e per la prima volta in così vasta scala, la comunicazione. La massoneria era un grande contenitore con ramificazioni ovunque. Al di là delle idee che professava, peraltro di stampo squisitamente borghese, era il grande network, l'Internet di allora, con in più i giuramenti di sangue, il segreto, i cappucci ed i riti misteriosi. Fu introdotto il "pensiero di moda", secondo uno schema più formale che ideale, con l'abbinamento riuscito del pensiero liberista alla modernità ed al progresso, mentre la tradizione si conformava come reazione, oppressione retrograda.
Questa mistificazione fu portata a livelli manichei di lotta tra il Bene ed Il Male, senza esclusione di colpi e con larghezza di mezzi, raggiungendo verso metà secolo ad ottenere una sufficiente sintesi convenzionale del pensiero elitario, prima sconfitto perché troppo imperniato sui valori e frazionato. Il fine era naturalmente solo economico, come è dimostrato dai fatti: unire l'Italia per trasformarla in un ampio mercato, dove fu possibile far lavorare in fabbrica i bambini per 14 - 16 ore al giorno.
Per il resto nulla di sostanziale mutò: nel 1861 furono estesi a tutta l'Italia "sic et simpliciter": lo statuto piemontese, un quarto del quale era dedicato alla persona del re, sacra ed inviolabile, costituzionale ma non parlamentare; e così leggi, codici, burocrazia, tasse piemontesi. Questo avvenne anche a dispetto dei tanti che sapevano che la legislazione sarda non era certo la più avanzata in tutti i campi tra gli Stati italiani.
Ma torniamo al nostro uomo nel momento dell'azione: cominciò appoggiando il Papa nel conflitto che questi ebbe nell'estate del 1847 con l'Austria per l'occupazione di Ferrara. Intervenne quindi nell'autunno del 1847 nella controversia tra Toscana e il Duca di Modena, che era appoggiato da Vienna. All'interno, accordò nel marzo del 1848, non senza crisi di coscienza ed ondeggiamenti (non fu detto "re tentenna" per niente), lo Statuto albertino.
La costituzione era ricalcata sulla carta francese del '30 e non instaurava il governo parlamentare ma quello costituzionale, responsabile quindi davanti al re ma non davanti alle camere. Questo documento resterà in vigore fino al 1946, in quella specie di Piemonte allargato cui era stata costretta l'Italia. Due giorni dopo la creazione del ministero "costituzionale", affidato al moderato Balbo, scoppiava a Milano il moto rivoluzionario noto con il nome di Cinque Giornate. Sotto la pressione degli avvenimenti e dopo nuove incertezze, Carlo Alberto decise l'intervento armato contro l'Austria.
La guerra, condotta personalmente dal re, dopo alcuni successi iniziali, finì con la grave sconfitta di Custoza cui seguì la battaglia di Milano ed il rientro dei piemontesi nelle terre del regno sardo. La guerra evidenziò gli errori e le ambiguità di Carlo Alberto, nelle strategie, nelle manovre inutili, negli attacchi, nelle ritirate sconsiderate, nell'abbandono di Milano, o mettendo al comando generali imbelli; la sconfitta mise a nudo l'incapacità del re come comandante supremo e originò gravi dubbi sulla sua lealtà. Alcuni, memori del 1821, arrivarono a pensare che Carlo Alberto si fosse fatto battere apposta dagli Austriaci, per essere "costretto" a riprendere la sua politica assolutistica, e per boicottare l'alleanza costituitasi con gli altri Stati della Penisola, Regno delle Due Sicilie in testa. Il governo fu intanto assunto da Vincenzo Gioberti.
Ma presto sorsero contrasti tra il re e il ministro che si risolsero con il licenziamento del Gioberti. Ripresa proditoriamente la guerra, Carlo Alberto pose a capo dell'esercito un esule polacco, Wojciech Chrzanowski, moderato ma di posizione politica stabile e dalle riconosciute capacità militari. La breve campagna si risolse in tre giorni con la disastrosa battaglia di Novara del 23 marzo 1849 contro l'ottantaduenne Radezcky: la notte stessa Carlo Alberto partì per l'esilio a Oporto, che si rivelerà luogo prediletto d'esilio dei re Carignano.
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Johann Radetzky |
Aveva appena compiuto cinquant'anni e abdicò il giorno stesso in favore del figlio Vittorio Emanuele II, sperando così di rendere meno dure le condizioni di pace. Morì pochi mesi dopo, il 28 luglio 1849, sia per malattia sia per la fatica del viaggio. Era salito sul trono tradendo una causa, e scendeva dal trono a Novara, dando la netta impressione di aver compiuto un altro tradimento, in una vittoria ritenuta da tutti gli storici facile, a portata di mano. Ma la sua rapida fine e la storiografia sabauda suscitarono attorno a lui un alone di benevola simpatia di cui non aveva mai goduto quand'era in vita. Molti suoi atteggiamenti gli valsero però odi inestinguibili e appellativi sprezzanti come il carducciano "italo Amleto" o "re tentenna" . |