Tratto dal saggio di GIOVANNI RAFFAELE, “Istruzione ed educazione nell'ultimo cinquantennio borbonico”, in “Contributi per un bilancio del Regno Borbonico”, edito dalla Fondazione Lauro Chiazzese, 1990.
Adattamento a cura di Fara Misuraca e Alfonso Grasso
Le statistiche
Le statistiche di cui disponiamo ci rimandano abbastanza fedelmente questa immagine di un complesso farraginoso e confuso. I dati non sono precisi né sempre attendibili le fonti, sicché gli studiosi non sempre concordano sulle cifre [1].
Secondo Vigo, nel 1818 nel Regno delle due Sicilie la situazione scolastica era la seguente: | comunali | private | totale | % | scuole primarie maschili | 2.498 | 2.754 | 5.252 | 79% | scuole primarie femminili | 830 | 566 | 1.396 | 21% |
totale |
3.328 |
3.320 |
6.648 |
|
% |
50% |
50% |
|
|
Rapporto maestri/alunni |
|
|
8 su 10.000 abitanti |
|
Sempre con riferimento al 1818, ma relativamente alla sola parte continentale del regno, Bonetta rileva un tasso di alfabetismo del 12% tra i ragazzi dai sei ai dodici anni e la presenza di un maestro ogni 97 alunni: percentuale che peggiora negli anni successivi (il rapporto era di 1 a 635 in Terra di Lavoro e di 1 a 1609 a Bari).
In ogni caso, sembrerebbe appurato che la stretta reazionaria successiva ai moti del 1820-21 si riflette anche sull'istruzione pubblica. Così, secondo Bertoni Jovine, nel 1820 si deve registrare una netta flessione: | totale | precedenti 1814 | scuole primarie maschili |
2.642 | | scuole primarie femminili |
833 | |
totale |
3.475 |
| alunni |
54.226 | 100.000 | alunne |
21.000 | 25.000 |
Dai dati elaborati da Bonetta per gli anni Venti e Trenta, risultano invece in Sicilia le seguenti scuole primarie: | n° scuole primarie | Caltanissetta | 25 | Catania (escluso il capoluogo) | 58 | Girgenti | 46 | Messina | 81 | Palermo (escluso il capoluogo) | 67 | Trapani | 17 | Siracusa (con l'esclusione del circondario di Noto) | 34 | totale scuole primarie | 328 | comuni dotati di scuola (%) | 80% | comuni privi di scuola (%) | 20% | comuni privi di scuola (numero) | 40 |
Esistevano inoltre le seguenti scuole secondarie: | n° scuole secondarie | Caltanissetta | 17 | Catania (escluso il capoluogo) | 3 | Girgenti | 12 | Messina | 26 | Palermo (escluso il capoluogo) | 26 | Trapani | 2 | Siracusa | 15 |
totale scuole secondarie |
101 |
Il condizionale è d'obbligo, perché spesso la scuola esisteva solo sulla carta, ma in realtà non veniva attivata perché mancavano i docenti o pressoché nulla era la frequenza degli alunni [2].
Intorno a metà degli anni Cinquanta la situazione non è gran che mutata. È ancora Bonetta a fornirci le seguenti cifre significative. |
anno |
comuni totali |
n° scuole primarie normali |
n° scuole lancasteriane | Caltanissetta |
1856 |
29 |
22 |
10 | Catania |
1856 |
61 |
61 |
16 | Girgenti |
1855 |
43 |
42 |
17 | Messina |
1858 |
94 |
82 |
24 | Palermo |
1856 |
73 |
63 |
20 | Trapani |
1857 |
21 |
20 |
6 | Siracusa |
1856 |
32 |
32 |
13 |
totale |
|
353 |
322 |
106 |
Cifre simili, relativamente agli anni Cinquanta, fornisce Crimi: | comuni totali | forniti di scuole primarie | n° scuole primarie normali | n° scuole lancasteriane | Caltanissetta | 29 | 27 | 10 | 12 | Catania | 61 | 61 | 16 | 13 | Girgenti | 43 | 40 | 17 | 17 | Messina | 94 | 85 | 24 | 24 | Palermo | 73 | 60 | 20 | 20 | Trapani | 21 | 20 | 6 | 16 | Siracusa | 32 | 32 | 13 | 14 |
totale |
353 |
322 |
106 |
106 |
Nel 1859, infine, operavano in tutto il regno 14 licei con 233 cattedre (nel numero rientrano anche i collegi) [3].
Complessivamente basso restava comunque il tasso di alfabetismo, ristretto al 10% circa della popolazione. Più dettagliatamente, il tasso relativo ai coscritti era il seguente: classe |
tasso [4] | nati nel 1843 | 12,90% | nati nel 1848 | 17,73% | nati nel 1853 | 24,95% |
"Alla vigilia dell'unità - commenta Bonetta -, quindi, la scuola elementare siciliana aveva fatto dei lievi progressi, anche se la precarietà istituzionale era notevole, così come basso continuava a essere il tasso di scolarità"[5]. Si aggiunga che anche la fioritura di gabinetti di lettura, accademie, laboratori, ecc., pur non irrilevante, non aveva lasciato tracce consistenti se non all'interno di ristrette élites, così come fallimentare era stato il tentativo di aprire scuole serali e scuole tecniche [6].
Non c'è dunque da stupirsi dello stato disastrato dell'istruzione nel regno borbonico nella prima metà dell'Ottocento. Un'indagine, coordinata da Settembrini a pochi mesi dall'annessione e riassunta in una relazione presentata il 10 giugno 1861, conferma questo stato di cose: "Su 3094 comuni e borgate obbligate dalle leggi borboniche a provvedere all'istruzione popolare, ben 1.084 mancavano di ogni insegnamento, 920 mancavano di scuola femminile, 21 della maschile, così che solo 999 erano i comuni e borgate in regola con la legge. Gli alunni, maschi e femmine, erano appena 67.431" [7].
Ma già scrittori e funzionari borbonici più avvertiti avevano denunciato la precarietà della pubblica istruzione e offerto suggerimenti di riforme amministrative e didattiche, scontrandosi però quasi sempre con ostilità, indifferenza, inerzia. Cosi, per esempio, Serristori, nella sua indagine del 1832-33, osservando che il rapporto tra numero degli studenti universitari e popolazione complessiva era più favorevole in Sicilia (600 frequentanti a Palermo, 500 a Catania) che nella parte continentale del regno (1.525 frequentanti a Napoli), ne individuava le ragioni in un meccanismo che favoriva il parassitismo dei ceti superiori e condannava quelli inferiori all'ignoranza e alla miseria: "Si eccitavano alla cultura le prime classi e una frazione delle medie, mentre nel tempo stesso il sistema feudale vi condannava le infime classi alla servitù, all'ignoranza e alla degradazione" [8].
Indubbiamente esistevano differenziazioni sia geografiche che classiste. Le notizie ricavate da Crimi negli archivi provinciali e comunali fotografano una situazione verosimilmente peggiore al di qua dal Faro. Ciò si desume da un Rapporto al consiglio dei ministri, in cui si denunciava la scarsa frequenza scolastica e l'inettitudine del corpo docente e, in generale, negli anni Quaranta e Cinquanta, un complessivo deterioramento dello stato dell'istruzione, cui parzialmente si sottraeva la Sicilia, sia per la fioritura del mutuo insegnamento (si contano in questi anni un centinaio di scuole lancasteriane), sia per un atteggiamento più aperto da parte di alcuni settori del clero, di cui le vicende dei gesuiti palermitani e del padre Taparelli D'Azeglio sono significativa espressione. Ma anche in Sicilia la situazione si era deteriorata: "La tutela tecnica e disciplinare dei vescovi e la sorveglianza dei parroci potevano sciogliere, come sciolsero, talune situazioni locali: non potevano risolvere, però, il grosso problema dell'incremento generale dell'istruzione del popolo, che richiedeva l'intervento dello Stato nella doppia direzione dell'ampliamento delle strutture scolastiche e della eliminazione totale delle “viziose istituzioni” e dei “vincolanti sistemi”, che, ancora nel 1844, facevano poveri molti comuni e miserabili le classi popolari"[9].
Gli ostacoli
Il progresso della scuola pubblica era insomma frenato da un duplice ordine di cause: da un lato, la riluttanza dell'aristocrazia a mandarvi i propri rampolli, lasciati nell'ignoranza o affidati a privati istitutori e collegi religiosi; dall'altro, la sostanziale impermeabilità dei ceti subalterni, specialmente rurali, al proselitismo educativo, insieme con la persistente necessità del lavoro minorile, causa non ultima della scarsa frequenza scolastica. In definitiva, chi più usufruiva del servizio pubblico erano i figli della borghesia colta cittadina, di quella delle professioni e dell'impiego pubblico, ma anche dei ceti più agiati delle campagne, che l'alternavano al ricorso agli studi privati[10].
In queste condizioni non può destare meraviglia se molto non fosse cambiato nel corso dei decenni. Se, intorno al 1780, durante il vicereame di Caracciolo, una "Memoria ragionata in favore dei baroni del Regno di Sicilia" lamentava che "in un luogo per esempio di mille, duemila ed anche tremila anime, che sono per lo più le popolazioni baronali, vi saranno appena dodeci o quindeci persone nel ceto secolare, che scarsamente san leggere, e scrivere" [11], ancora sessant'anni dopo, nel 1845, Balsamo doveva constatare che nella stragrande maggioranza dei comuni le cariche municipali erano ricoperte da "spiantati e poveri ciabattini o sarti" [12].
Certamente le cose non erano migliorate dalle condizioni logistiche delle scuole: "Le lezioni - annotava nel 1855 il consultore di Stato, Capomazza - si svolgevano spesso nella casa del maestro, in mezzo all'andirivieni dei familiari, dei servi, dei lavoratori di campagna... Mancavano gli oggetti scolastici: libri, lapis, fogli di carta; peggio: in non poche scuole mancavano gli scanni ove sedere e le tabelle necessario al metodo normale" [13].
Né, d'altronde, Ferdinando II appariva scosso dalle notizie che i suoi funzionari gli trasmettevano, che, anzi, in una replica tra il rassegnato, l'autoritario e il bigotto, prendeva atto che le scuole primarie erano dappertutto in decadimento, e aggiungeva: "Molte di esse sono chiuse per gran parte dell'anno. Un gran numero è frequentato da pochi scolari come luoghi di trastullo; poche sono ben dirette... Per migliorare questo primo ramo di Pubblica Istruzione, queste scuole saranno stabilite nelle case religiose. Intanto perché in molti comuni piccoli e miserabili si potrà fare a meno di queste scuole perché inutili e sovente dannose, i vescovi daranno il loro parere sul dove istituirsi, e istituite, starebbero sotto la diretta sorveglianza del vescovo con facoltà di sospendere i maestri che venissero meno ai loro doveri" [14].
Anche osservatori stranieri disinteressati smentivano, d'altro canto, le conclamate conquiste di cui si faceva vanto il sovrano. È il caso, per esempio, di Orloff, rappresentante dello zar a Napoli, il quale sottolineava che "ci si sbaglierebbe se si pensasse, come assicurano i rapporti ufficiali, che il governo incoraggi e favorisca il progresso dell'istruzione nella nazione... Parecchie scuole sono state soppresse soprattutto nelle provincie dove erano più utili" [15].
Al di là di rare eccezioni, anche la scuola secondaria è deficitaria. Abortisce il progetto, elaborato dal Cuoco, di una scuola media unica preparatoria, all'interno di una tripartizione tra una scuola per tutti, una per molti, una per pochi, da calibrare sulle esigenze dei diversi ceti e degli interessi generali della società; ne ha seguito il progetto Mazzetti (1837) di una scuola secondaria duplice, umanistica e tecnica. I metodi erano arretrati: "L'insegnamento medio - scrive Romeo – praticato specialmente nei molti seminari vescovili, fra i quali vanno ricordati quelli di Patti, Monreale, Girgenti, Noto, per gran parte si esauriva nello studio delle lingue classiche, ed era ancora dominato da metodi meccanici e mnemonici, e assai spesso arretratissimo come indirizzo culturale"[16].
Alla deficienza di scuole pubbliche si opponeva inevitabilmente l'alternativa di un'istruzione clericale e arretrata. Valga per tutte la testimonianza del curriculum scolastico di Felice Bisazza, uno dei più rinomati intellettuali siciliani del primo Ottocento, così come lo ricostruisce Tosti. Bisazza nel 1818 fu iscritto al Collegio Carolino delle Scuole Pie del Calasanzio, "unico collegio che allora avesse vita in Messina, ed al quale erano soltanto ammessi ragazzetti appartenenti alle più cospicue famiglie della città". In questo collegio il piccolo Felice trascorse quasi sei anni, e ne uscì quindicenne, "con la mente ingombra di quella farragine indigesta di lettere latine, che formava allora la parte fondamentale di quell'educazione pretesca e nobilesca, ritenuta la più opportuna a coloro che si dovessero preparare a qualche elevata professione". Ancora trent'anni dopo "mancavano scuole pubbliche: per quella istruzione che oggi si direbbe media, aggregata all'Università, eravi una misera scuola di retorica che dicevasi umanità, e il Collegio Carolino, dove era stato il Bisazza, per giovanotti di famiglie privilegiate e benestanti: la coltura secondaria, di preparazione all'Università, i giovani se la dovevano provvedere presso privati insegnanti, che invero non mancavano" [17].
L’istruzione universitaria
Quanto all'istruzione superiore, l'università di Palermo venne attivata solo nel 1805 e quella di Messina nel 1838. Generalmente comprendevano le facoltà di teologia, giurisprudenza, filosofia, scienze matematiche; ma quasi sempre le cattedre erano incomplete e affidate a docenti impreparati quando non addirittura improvvisati [18]. Mal pagati [19] e poco impegnati sul piano didattico, ricorrevano spesso al doppio lavoro, con ovvie conseguenze sui livelli di preparazione e sui rapporti con gli studenti. Quanto a questi, pochi erano gli iscritti e scarsa la loro frequenza, quando non scoraggiata apertamente, osteggiata e in mille modi resa difficile dai sospetti e dalle inquisizioni della polizia.
Disponiamo di pochi e frammentari dati statistici sul numero degli studenti universitari siciliani, cui per legge, tra l'altro, era vietato di iscriversi all'università di Napoli. La maggiore aggregazione era a Palermo (407 iscritti nel 1853-54 e 364 nel 1854-55), che serviva anche la parte occidentale dell'isola; a Catania affluivano giovani anche da Siracusa; Messina era abilitata ad accettare soltanto giovani residenti nel capoluogo (192 nel 1843, 160 nel 1860).
La sorveglianza poliziesca
La frequenza non era scoraggiata tanto dal livello delle tasse, relativamente basso per l'epoca, né dalle pastoie burocratiche, che potevano essere aggirate attraverso veniali forme di corruzione pecuniaria della famelica burocrazia universitaria. Indubbiamente incidevano negativamente le pessime condizioni logistiche, l’incompletezza delle cattedre, il disimpegno dei docenti. Ma l’impedimento principale era costituito dall'azione governativa che si manifestava sia attraverso il controllo clericale sull'amministrazione, i contenuti delle materie, la disciplina universitaria, sia - soprattutto - attraverso una soffocante sorveglianza poliziesca. Si cercava di impedire l'agglomerazione di popolazione studentesca in città: era previsto un permesso di soggiorno breve in corrispondenza del periodo degli esami e l'obbligo del rapido ritorno in provincia, onde non incorrere nell'accusa di vagabondaggio. Per i privilegiati che avevano ottenuto il permesso di soggiorno e per i residenti erano obbligatori attestati mensili di studio e di morale; le loro misere condizioni di vita e di coabitazione erano "allietate" da frequenti perquisizioni poliziesche e intimidazioni di ogni tipo e da un ferreo controllo clericale. Il real rescritto del 5 marzo 1856, per esempio, prescriveva "che ogni studente nei quindici giorni del suo arrivo a Napoli dovesse presentarsi a una speciale Commissione di vigilanza per dichiarare il suo nome, la patria, l'età, gli studi, l'abilità, la congregazione di spirito a cui egli era ascritto e così via. Gli studenti delle provincie poi, erano divisi per quartiere e sorvegliati dai parrochi, da' commissari di polizia, da ispettori di pubblica istruzione e tutti costoro dovevano informare se lo studente coabitasse con altri suoi compagni, quali case fosse solito frequentare, e prender nota dei libri che egli leggeva e dell'ora in cui rincasava" [20]
La stretta poliziesca, per quanto meno rigida, si faceva sentire anche nelle università siciliane, specialmente in quella di Catania, tradizionalmente più ricettiva ai fermenti liberali e democratici. A Catania, "gli studenti non potevano presentarsi agli esami senza il certificato della comunione di pasqua. Erano perciò condotti in settimana santa nella chiesa dei gesuiti per farvi gli esercizi; e se si manifestava qualche scatto di ribellione, la polizia ricorreva al carcere, allo sfratto e qualche volta al bastone. La parte disciplinare dell'università relativamente alla religione e alla politica era affidata specialmente a un ecclesiastico" [21].
La censura, del resto, non si applicava solamente agli studenti, ma a tutta la produzione intellettuale e a coloro che vi erano, in qualche misura e per aspetti disparati, coinvolti. Leggiamo in un decreto del 1794: "Giacché si ordinò il previo esame ed approvazione non solo pei libri di testo da stamparsi, ma anco per le lezioni da recitarsi sia nelle università che nelle scuole secondarie, tanto pubbliche quanto private, non esclusi i seminari e i chiostri". Simile è il tono categorico e intollerante del più tardo decreto di Ferdinando I nel 1821, in cui si predisponeva un controllo ancora più accurato e articolato. "Le più gravi ferite alla pubblica morale - si legge nel prologo - sono state prodotte dalla lettura dei libri perniciosi: perciò quelli proibiti ed osceni, contrari alla religione e alla morale, provenienti dall'estero, saranno arrestati malgrado qualunque pretesto di transito; la giunta di scrutinio per la pubblica istruzione, intesi revisori approvati dal re, ne riferirà al medesimo; i tipografi mandino alla giunta l'autografo ed un esemplare stampato di tutte le pubblicazioni del 1815 in poi: si vieta lo spaccio per mezzo dei venditori a mano o di quelli che hanno botteghino nelle pubbliche strade, a meno che non ottengano un permesso dalla giunta, la quale non può concederlo se non con la malleveria di un libraio noto: tutti i librai e direttori di gabinetti di lettura presentino fra otto giorni il catalogo dei loro volumi, la giunta formerà un indice dei libri degni del fuoco, oltre a quelli notoriamente perniciosi; e potrà ordinare delle visite domiciliari: e riservato al re di permettere la lettura di opere proibite, a chi voglia confutarle" [22].
I Borbone
L'atteggiamento complessivo dei Borboni fu dunque contraddittorio. Se, da un lato, poco si fa per l'istruzione pubblica e, in ogni caso, se ne temono le ricadute sul piano sociale e sui livelli di coscienza delle masse popolari, dall'altro, si deve prendere atto che la tendenza all'alfabetizzazione in tutta Europa è un processo irreversibile, che non può dunque essere semplicemente rigettato o rimosso, ma che va piuttosto seguito e controllato.
Questa interpretazione riceve ampie conferme da un esame dei contenuti dell'insegnamento. Le sporadiche e altalenanti aperture riformistiche dei Borboni rispondono infatti a una duplice esigenza. Innanzitutto la politica di accentramento e di riduzione del potere baronale necessita di un corpo di funzionari fedeli ma anche professionalmente più preparati [23]; secondariamente, e per le necessità produttive e per la conservazione dell'egemonia - anche se non scompagnata dalla repressione -, anche ai ceti subalterni va impartita un'istruzione specifica che, accanto al leggere, allo scrivere e al far di conto, contempli l'assimilazione di principi sani, che non compromettano e anzi rafforzino la religione e il paternalismo regio e non mettano in discussione gli equilibri economici e sociali consolidati: un'istruzione che sia, insomma, anche e soprattutto educazione del cuore e della mente.
Sono questi i criteri di fondo che emergono dalle indicazioni espresse dalla già ricordata Commissione Suprema di pubblica istruzione, formata da Ferdinando I nel 1816 e imposta nel 1818 anche in Sicilia. La Commissione, com'è noto, predisponeva l'istituzione di scuole per ambo i sessi, gratuite e obbligatorie, in ogni comune; decretava l'adozione del metodo normale e decideva incondizionatamente sui libri di testo. Il programma contemplava il leggere e scrivere correttamente; l'istruzione morale - che non andava disgiunta dai contenuti tecnici – comprendeva il catechismo di religione e i doveri sociali del cittadino: "I maestri avrebbero dovuto “togliere e bandire dalla novella gioventù i vecchi pregiudizi popolari” e “insinuare il rispetto ai genitori, l'amore e la carità verso i simili, l'obbedienza al sovrano, alle sue leggi, ai suoi magistrati e il culto e la venerazione per la Santa Religione" [24].
Da questa impostazione non si discostano, nella sostanza, intellettuali, pedagoghi, maestri, anche quando appaiono critici delle direttive generali del governo. In sintonia con le posizioni dei liberali moderati del resto d'Italia [25], intendono l'istruzione come fatto squisitamente educativo: ricavare dal suddito bruto il cittadino onesto, operoso e obbediente alle leggi (del Borbone oggi, dei Savoia in un vicino futuro) e renderlo più adatto alle esigenze produttive, fornendogli adeguate e limitate cognizioni e insinuandogli amore del lavoro.
L'intreccio di queste due finalità era ben radicato negli scrittori che si adoperavano in favore di un'istruzione pubblica mirata e ben regolata. Già in pieno rigoglio illuministico Filangieri nel 1785 sottolineava che “l'ignoranza produce l'imperfezione delle leggi; e la loro imperfezione cagiona i vizi dei popoli. Gli errori corrompono l'opinione, cioè corrompono ciò che è più forte del sovrano e delle leggi... In un popolo corrotto il passaggio dal vizio alla virtù suppone il passaggio dall'ignoranza all’istruzione, dall’errore alla verità” [26]. Negli stessi anni (1788), fidando nelle intenzioni riformistiche di Ferdinando IV (che lo aveva mandato in Lombardia per impadronirsi del metodo normale, onde diffonderlo poi nelle scuole del Regno), Vuoli propugnava un educazione che combinasse presa di coscienza e amore e rispetto verso l'ordine e il sovrano: “La pubblica educazione è incontrastabilmente la base della pubblica felicità ... L'ignoranza e i errore si impadroniscono fin dall'infanzia dei teneri cuori li addomesticano col vizio, li trascinano nei delitti, e li gettano nella miseria... La pubblica educazione... dee formare il cittadino avvezzandolo all'amore dell'ordine, delle leggi, della patria, e della fedeltà dovuta al Principe: dee formare il cristiano, ispirandogli il rispetto alla religione, che innalza l'uomo fino al suo autore” [27].
Anche in piena Restaurazione molti intellettuali ritenevano possibile un progresso generale ed equilibrato solo confidando nella benevolenza del sovrano e attraverso un'acconcia istruzione stimolata dall'alto. Le finalità educative non cambiavano; anzi, le intraviste potenzialità eversive dei moti popolari finivano con il consolidare la linea - individuata come la più opportuna - della combinazione tra ordine e progresso. Minolfi, per esempio, nel 1837, inneggiando alla lungimiranza di Ferdinando II e alla sua ricerca di collaborazione con gli intellettuali, che aveva, a suo dire, prodotto risultati eccellenti, come il Gabinetto letterario di Palermo, le "Effemeridi", il "Giornale di scienze lettere arti" (ma la breve e prudente stagione riformistica del sovrano in realtà volgeva ormai al termine), insisteva sul nesso imprescindibile tra istruzione, ricchezza e benessere generale: “Gli è certo, è evidente, che il centro, il perno su cui si aggirano le operazioni tutte della pubblica utilità si riducono al sapere, all'industria, e che con essi si consegue lume, bontà e sapienza. L'istruzione fa nascere l'industria, perché l'uomo tanto fa quanto sa; dall'industria poi come la sua radice prende vita la Morale, ed è principio di altri beni, cioè a dire di lealtà, di buona fede, e di bontà. Il lavoro fu sempre e sarà sempre considerato il più potente rimedio a distogliere dall'ozio, dai delitti e dall'infingardaggine che sempre accascia i corpi e i cuori, e sovente spinge a turpitudini e frenature” [28]. Castiglia negli stessi anni (1838) predicava un'educazione che fosse al passo con i tempi moderni: “Oggidì, con la stampa, sì facile, colle poste tanto rapide, col vapore che ha reso vicine le genti fra loro più remote, e fra nazioni gigantesche, ove pochi presiedono al Governo, e tutti vogliono commodi, ricchezze, industrie e commerci, le lettere rabbelliscono, è vero, la società, ma la sostengono e la migliorano, e l'invigoriscono quell'istruzione che accresce le idee e i mezzi di arricchirsi del popolo, quelle scienze che aumentano la facilità e gli istrumenti dell'industria, quelle arti e quelle costruzioni, che agevolano e rendon rapidi i commerci; e nazione ignorante, e senza esperimenti, che le svelino i tesori della terra su cui posa, e senza strade che faccian rapidi, di lieve opera e sicura gli scambi, durerà sempre inetta, misera e ingiustamente vilipesa”[29].
Altri scrittori, pur non sottovalutando le potenzialità economiche dell'istruzione, ne accentuavano i vantaggi sul piano della formazione civica, ribattendo ai reazionari, sfavorevoli pregiudizialmente a ogni forma di educazione e di essa timorosi, sul loro stesso terreno e con armi, a loro parere, più affilate. E interessante e curioso notare come due personaggi, illuminati e ottimi riformatori, ma tra loro opposti quanto a scelte metodologico-didattiche, l'abate Scovazzo, antesignano del mutuo insegnamento, e il messinese Bartolomeo che, di contro, ne sottolineava i limiti e gli svantaggi, concordassero però sulle finalità ultime del processo educativo. Per Bartolomeo l'educazione - da favorire con ogni mezzo - è necessaria perché svolge una funzione preventiva, giungendo là dove la legge non può arrivare. Essa “adopera e discorsi, ed azioni, ed esempi per istruirlo [il fanciullo] della verità, dei doveri del proprio stato, delle virtù private e pubbliche, dell'amore dovuto agli uomini di qualunque altra nazione e credenza religiosa, fa che queste lezioni s'imprimano colla pratica ne' suoi costumi, lo rende per sentimento, per principii, per attitudine, ottimo, pacifico ed utile cittadino … Accrescete gli stabilimenti di pubblica educazione, in cui egli venga istruito nella vera morale, nelle arti, nell'agricoltura, e con risparmio grandissimo delle spese dello stato vedrete diminuito il numero dele prigioni, de' bagni, degli ergastoli. Moltiplicate i benefici educatori, e la nostra vista di raro sarà turbata da' brutti ceffi degli sgherri, de' carcerieri, de' carnefici; e lo stesso codice penale diverrà un libro di sterile ornamento alla biblioteca di pochi, ed oziosi, jurisperiti. Datemi insomma de' popoli bene educati, e l'indocile, e spesso feroce idiotaggine, l'improba poltroneria, l'oppressione, l'ingiustizia, la prepotenza spariranno dal mondo” [30].
È evidente il contrasto con quanti temevano che l'istruzione producesse inevitabilmente sbandati, scontenti del proprio stato, turbolenti e pericolosi per l'ordine sociale. Un'istruzione adeguatamente impartita, secondo l'analisi di Bartolomeo, bloccherebbe sul nascere questi rischi e svolgerebbe anzi un'efficace azione profilattica. È quanto sosteneva, pur da opposti versanti pedagogici, l'abate Scovazzo a Palermo. Attraverso l'applicazione diffusa del mutuo insegnamento si giungerà a "vedere un popolo intero illuminato, industrioso, di costumi doci e pacifici, che conosca le ragioni delle leggi e le ubbidisca, e che per convinzione e non per timore, lasci l'ordine delle cose come sta, e dia minori difficoltà ai moderatori della scuola pubblica nel reggerlo e nel governarlo". L'acquisizione di cognizioni utili sarebbe monca senza un'ispirazione etica che la modelli e la informi, così come quest'ultima rischierebbe di restare astratto ideale senza il contributo vivificatore dell'istruzione: "La morale sola - concludeva Scovazzo, trattando, nel 1836, dell'educazione femminile - raffrena la cupidità e da la misura del giusto e dell'onesto, siccome la sola istruzione intellettuale la misura dell'utile e del vero. Senza di esse le leggi sono eluse e calpestate, le industrie un permanente monopolio, l'agricoltura una stupida e vecchia usanza, il commercio una pirateria, l'ordine politico una violenza, la religione medesima una superstizione ed una ipocrisia. Istruite e moralizzate il vostro popolo, se vero foco di carità di patria vi scalda il petto" [31].
Ma neanche queste assicurazioni, che attraversano un po’ tutta la produzione intellettuale del tempo, sembrano confortare l'animo sospettoso dei sovrani. Essi, pur con qualche sprazzo innovatore, restano profondamente diffidenti verso l'istruzione. Se proprio i tempi non permettono di ignorare tranquillamente il problema e impongono una qualche rudimentale forma di alfabetizzazione, allora, accettato, ob torto collo, il principio, è bene affidarla alla supervisione di chi meglio di tutti sa indagare e indirizzare la coscienza, individuale e di massa: la chiesa. Viene così progressivamente meno la tradizione giurisdizionalistica e anticuriale del Settecento borbonico, che cede il posto a una stretta, per quanto non lineare, alleanza tra il trono e l'altare, di cui le alterne vicende dei gesuiti rappresentano un caso illuminante [32].
Note
[1] Le cifre non sempre forniscono un quadro omogeneo, sia per la difficoltà di reperire dei dati precisi, sia per la tendenza del governo borbonico a gonfiarle per ovvii motivi di propaganda. C'è da aggiungere che anche le statistiche più curate non tengono conto del fatto che spesso scuole, costituite sulla carta, non risultavano poi effettivamente operanti nelle concrete situazioni locali. Per queste ultime disponiamo di dati più attendibili (relativi a numero di scuole, docenti e alunni; frequenza scolastica; metodi didattici, ecc.), ricavati da alcuni studiosi attraverso certosine e preziose ricerche archivistiche. Valgano per tutti gli studi di A. CRIMI, Contributo all'istruzione pubblica in Acireale..., cit.; L'istruzione pubblica nell'epoca borbonica in Sicilia, in "Nuovi quaderni del meridione", n. 41, 1973; L'istruzione pubblica in Gualtieri Sicaminò prima del 1860, Messina, 1983; L'istruzione pubblica in Centuripe prima del 1860, Edigraf, Catania 1984; L'istruzione pubblica in Adrano prima del 1860, in "Nuovi quaderni del meridione" (XIII), 1975; L'istruzione pubblica in Caltagirone prima del 1860, in "Nuovi quaderni del meridione" (XIX), 1981; L'istruzione pubblica in Giarre nella prima metà del secolo XIX, Acireale, 1976; L'istruzione popolare in provincia di Catania nella prima metà del secolo XIX, in "Problemi della Pedagogia" (XXII), 1976; L'istruzione popolare e superiore in Siracusa nel tempo dei Borboni, in "Problemi della Pedagogia" (XXV), 1979.
[2] Cfr. G. Vico, op. cit.; D. BERTONI JOVINE, Storia della scuola popolare in Italia, Einaudi, Torino 1954; G. BONETTA, op. cit.
[3] Cfr. G. BONETTA, op. cit.; A. CRIMI, I primordi della scuola popolare in Sicilia nel tempo dei Borboni e il metodo lancasteriano, Cedam, Padova 1968; A. SANTONI RUGIU, Il professore nella scuola italiana, La Nuova Italia, Firenze 1959.
[4] Rapporto tra gli analfabeti ed il totale costritti di una determinata classe (nota del Portale del Sud)
[5] G. BONETTA, op. cit., p. 52.
[6] "Ma questi istituti - commenta Romeo - o non furono mai realizzati, o si spensero dopo brevissima vita, non senza colpa, secondo gli scrittori liberali, dell'ostilità governativa". R. ROMEO, op. cit., p. 276.
[7] La relazione Settembrini del 10.6.1861 è citata in I. ZAMBALDI, Storia della scuola elementare in Italia, LAS, Roma 1975, p. 100.
[8] E questo il commento di L. Serristori, a conclusione della sua indagine del 1832-33, riportata in G. C. MARINO, op. cit., p. 300.
[9] A. GRIMI, I primordi..., cit., p. 149.
[10] Scrive, a riguardo, G. Bonetta: "Nelle scuole pubbliche c'è sempre stata una netta prevalenza degli alunni di “condizione civile” su quelli di “altra condizione”, sia aristocratica che popolare; tale rapporto, invece, si ribalta nelle scuole private, specie femminili. Segno ciò, da una parte, di una discreta posizione dei ceti medio-alti e borghesi ad usufruire dei servizi scolastici pubblici, dall'altra, della preferenza naturale “accordata” alla scuola privata dai ceti ancor più abbienti e dalla 'inevitabile' frequenza in taluni istituti religiosi delle fanciulle più povere. Le difficoltà che spesso i fanciulli incontravano nel frequentare la scuola in età “prescritta”, sia normativamente che pedagogicamente, sono rappresentate dalla consistente presenza di alunni da 10 a 15 anni e più. Cioè non potendo soddisfare nell'età ideale il bisogno di istruzione, o per il diffuso lavoro minorile o per la distanza dalle sedi scolastiche, in attesa di circostanze migliori, oppure a prolungare, in caso di frequenza saltuaria, la permanenza a scuola, fino a ottenere un'istruzione adeguata". G. BONETTA, op. cit., p. 52.
[11] La Memoria è citata in V. TITONE, Economia e politica nella Sicilia del Sette eOttocento, Palermo 1946, p. 149.
[12] P. BALSAMO, Memorie inedite di pubblica economia ed agricoltura, vol. I, Palermo 1845, p. 117.
[13] II rapporto è riportato in I. ZAMBALDI, op. cit., p. 97.
[14] Le parole di Ferdinando in A. ZAZO, L'istruzione pubblica e privata a Napoli dal 1767 al 1860, Città di Castello 1927, p. 219.
[15] ORLOFF, Storia del Regno delle Due Sicilie (1819), citato in G. Vico, op. cit., p. 71.
[16] R. ROMEO, op. cit., p. 273.
[17] M. TOSTI, Felice Bisazza e il movimento intellettuale in Messina nella prima metà del XIX secolo, Messina 1921, pp. 72 e 100.
[18] R. De Cesare ricorda che nel periodo 1830-1859 nelle tre università siciliane tutte le cattedre furono affidate a supplenti ad interim e mai messe a concorso. R. DE CESARE, La fine di un regno, Lapi, Città di Castello 1909, p. 390.
[19] I professori universitari avevano stipendio meschino, anche quelli tra loro che godevano maggior fama, ma in generale la meschinità dello stipendio corrispondeva al poco lavoro, perché allora, anche più di oggi, l'insegnamento era limitato a sette mesi dell’anno, e le feste maggiori. Ricevevano inoltre frequenti propine, che gli scolari chiamavano rapine, e i professori erano quasi tutti professionisti esercenti; ovvero cumulavano altri uffici, perché nel regno di Napoli, come nello Stato del Papa, i cumuli erano permessi fino allo scandalo". R. DE CESARE, op. cit., p. 409.
[20] A. ZAZO, L'ultimo periodo borbonico, in AA.VV., Storia della Università di Napoli, Ricciardi, Napoli 1924, p. 583.
[21] R. DE CESARE, op. cit., p. 407.
[22] I due decreti sono riportati in F. SCADUTO, Stato e Chiesa nelle due Sicilie (Palermo, 1887), Edizioni della Regione Siciliana, Palermo 1969, p. 357.
[23] Commenta Moscati che il programma di Ferdinando II mirava "a fare delle due Sicilie un regno economicamente e socialmente tranquillo e fiorente, con un'amministrazione sana, ma ben difeso dalla penetrazione di ideologie straniere ed in compenso reverente di fronte alla tradizionale cultura napoletana, indipendente politicamente dallo straniero e anzi quanto più possibile estraneo al gioco della politica europea ed ignaro completamente dell'Italia e dei suoi problemi. Insomma un programma riformistico settecentesco che si voleva attuare in pieno ottocento e destinato naturalmente a far leva non sui giovani, ma su coloro che erano stati giovani un tempo". R. MOSCATI, op. cit., p. 95.
[24] II testo della Commissione è in A. CRIMI, I primordi..., cit., p. 72.
[25] Centrale e esemplificativa appare la figura di Lambruschini, il quale scriverà nel 1861: “Vi fu un tempo in che non si amava molto l'istruzione del popolo, si temeva forse. Grande e pernicioso errore! Si poteva e si doveva temere e impedire l'istruzione disadatta, e mal data; ma l’istruzione conveniente, l’istruzione che coltivi ad un tempo l’intelletto ed il cuore, che renda il popolo più amante del lavoro, più ammaestrato ne’ propri doveri, più curante della propria dignità, miglior padre di famiglia, miglior cittadino, miglior cristiano; l’istruzione così intesa e così impartita, è il dono più prezioso che possa farsi al popolo. E oggi l’istruzione popolana s'intende in questa guisa; perciò si tiene in gran pregio; e si onorano le persone che ne sono i ministri". R. LAMBRUSCHINI, Guida pei direttori delle conferenze co’ maestri, Viesseux, Firenze 1867, p. 51.
[26] G. FILANGIERI, Scienza della legislazione, Libro IV. Delle leggi che riguardano l’educazione e i costumi e l'istruzione pubblica. Bocca, Torino 1922, p 281
[27] G.VUOLI, Metodo d’insegnare a leggere ad uso delle scuole normali ne’ domini di S.M. Siciliana, Napoli 1788, pp.3-4.
[28] F. MINOLFI, Intorno ai giornali e alla odierna cultura siciliana, Palermo 1837, pp. 171-172.
[29] B. CASTIGLIA, op. cit., p. 63n.
[30] F. BARTOLOMEO, I difetti del sistema d'educazione dei due inglesi Bell e Lancaster, Messina 1839, p.13.
[31] G. SCOVAZZO, Discorso sopra il metodo di mutuo insegnamento, Palermo 1835; IDEM, Della necessità d'istruzione morale ed intellettuale per le donne del popolo, e del modo di provvedervi in Palermo, Palermo, 1836. Le citazioni dai due testi di Scorazzo sono riportate in F. CANGEMI, Le scuole di mutuo insegnamento in Sicilia nella prima metà del XIX secolo, in "Nuovi quaderni del meridione", n. 4, 1963, pp. 439 e 441.
[32] Nel 1804 Ferdinando IV riammette nel regno i gesuiti, espulsi nel 1767. "Avendo però conosciuto - scrive il nostalgico Butta -, che dopo l'abolizione di que' benemeriti padri, si erano moltiplicati i liberi pensatori ed i scapestrati, che attentavano a dissolvere la civile società, si argomentò rimettere nel suo Regno gli zelanti figli di S. Ignazio Loyola, per istruire la gioventù ne' buoni e severi studii, ed istillare nella stessa que' principi di santissima morale evangelica, che sono il fondamento del vivere sociale ed onesto". G. BUTTA, op. cit., pp. 337-338.
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