Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa

Il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità

L’esperimento costituzionale ed il suo fallimento, il Re Bomba

Medaglia in bronzo del 1849 per la campagna di Sicilia (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sulle immagini per ingrandire

Testo di Giuseppe Ressa

Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

Il 29 gennaio del 1848, Ferdinando II fu il primo sovrano italiano a concedere la Costituzione (promulgata il 10 febbraio), pressato, com’era, da una grave rivolta indipendentistica siciliana, iniziata alla fine del 1847, e dalle istanze sempre più incessanti dei liberali napoletani (sempre nel 1847 era stata scritta la “Protesta del popolo delle Due Sicilie” di Luigi Settembrini, (giudicata, a posteriori, strumentale e esagerata sia dall’autore sia da altri liberali).

Luigi Settembrini (1813-1876)

Non era, però, un caso, come molti pensano, che le Due Sicilie fossero il primo stato italiano che ottenesse la Costituzione, abbiamo già visto che il Sud d’Italia era assolutamente all’avanguardia nel pensiero liberale italiano e non solo, prova ne sono le Costituzioni del 1812 e del 1820, le prime in Italia. Tutta la stampa liberale italiana applaudì Ferdinando II, come pure gli invitati al ricevimento di gala al teatro San Carlo. A Torino duemila persone con torce e bandiere si recarono davanti alla residenza del Console delle Due Sicilie per congratularsi con lui; la pensava diversamente il loro re, Carlo Alberto, il quale dichiarò che “mica sono come quel Borbone che ha accettato il diktat degli insorti, facendo la cosa più deleteria che si potesse immaginare[1].

Fu formato un primo ministero che comprendeva Francesco Paolo Bozzelli, autore del testo della Costituzione, con essa il “suddito” diventava “cittadino”, con la definitiva sanzione della inviolabilità della libertà personale, di stampa, di associazione, della proprietà; oltre a questa “cittadinanza civile” veniva decretata una “cittadinanza politica” perchè al Re si affiancava un Parlamento composto da due camere: una di 164 Deputati eletti dal popolo su una base censitaria (25 ducati per gli elettori, 240 per gli eleggibili); l’altra camera di 50 “Pari” era nominata dal sovrano. Il 18 marzo fu apposto l’aggettivo “costituzionale” al Giornale delle Due Sicilie, quotidiano ufficiale.

In aprile fu formato un nuovo governo che incluse i nomi migliori della liberalità del regno: Troya, Poerio, Dragonetti, Scialoja, Ferrara, i fratelli Amari, Imbriani, Conforti, Settembrini: fu decretata un’amnistia politica, abolito il Ministero della Polizia, tolta l’istruzione popolare al clero e si istituirono scuole anche nei più piccoli villaggi; in un primo tempo fu equiparato il minimo di censo tra gli eleggibili e gli elettori, poi fu abolito per cui poteva bastare il possesso della “pubblica stima” per poter essere eletto deputato. In questa fase re Ferdinando era considerato, dai componenti della classe dirigente, perfettamente in grado di svolgere il compito di reggitore della monarchia costituzionale che era l’istituzione preferita dalla maggior parte di loro, infatti solo una frangia era di sentimenti repubblicani.

Il 3 aprile la bandiera delle Due Sicilie (bianca con lo stemma dei Borbone al centro) aggiunge sui bordi dei quattro lati una cornice verde e rossa. Ma “la rumorosa e quasi bambinesca festosità dei napoletani provocò lo sconquasso. Le strade di Napoli …furono percorse e ripercorse da cortei quasi quotidiani e sempre più infiammati. Fu un pullulare di giornali e giornalucoli, redatti spesso da uomini ancora incerti nel mestiere, che spingevano l’opinione pubblica sino al parossismo. Giorno e notte si discuteva sui perfezionamenti da apportare all’appena ottenuta Costituzione, quasi che teoria e pratica fossero in politica due campi totalmente separati. Si disquisiva, si declamava, nell’incessante ricerca di eleganti distinguo dialettici. La vanità della minutaglia intellettuale straripava. I “paglietti”, come Ferdinando chiamava gli avvocati, i greculi, gli azzeccagarbugli, infervoravano il popolo, denunciando macchinazioni anche quando non era il caso sicchè, come disse il liberale Nicola Nisco, “invece di procacciare amici al libero reggimento, lo facevano prendere in odio e dispetto anche da quelli che l’amavano[2]

Le elezioni si tennero il 18 aprile, l’affluenza alle urne fu scarsa; lunedì 15 maggio, in coincidenza con l’apertura del primo Parlamento, nel palazzo comunale di Monteoliveto di Napoli, un gruppo di deputati rivoluzionari, con a capo Giovanni La Cecilia e Pietro Mileti, dichiarò di considerare insoddisfacente la Costituzione appena proclamata, propose delle modifiche come l’abolizione della camera dei Pari e rifiutò di prestare giuramento alla persona del Re; in realtà voleva rovesciare la monarchia proclamando la repubblica. Ferdinando II, sebbene obiettasse che i deputati non avevano diritto di mutare la Costituzione prima che si aprisse il Parlamento, accettò persino il mancato giuramento alla sua persona pur di far partire i lavori dell’assemblea e fece molti tentativi di conciliazione con i ribelli tramite degli emissari mandati a trattare: furono momenti che misero a dura prova l’autocontrollo del Re, nato ed educato secondo i principi della regalità “per diritto divino”, ma egli non cedette alle provocazioni.

Nicola Nisco, uno dei promotori della rivolta

Malgrado i suoi tentativi di accomodamento, gli animi dei rivoltosi non si placarono ed essi proclamarono, nell’aula del Parlamento, che le truppe del Re stavano marciando verso l’Assemblea, questo era completamente falso e gli stessi emissari del sovrano dichiararono di essere disposti a condurre una delegazione dei deputati a verificare l’inconsistenza di queste accuse, dato che le truppe erano consegnate, per ordine del Re, nelle caserme, ma non servì a nulla: vennero erette per le strade decine di barricate (circa 90) e furono sparati alcuni colpi all’indirizzo dei militari in servizio fuori al palazzo reale facendo morti e feriti.

Solo a quel punto, la mattina del 16 maggio, il Re diede ordine di reagire, ci furono scontri, devastazioni e vittime; a un comandante che prometteva di ridurre “la canaglia” alla ragione, Ferdinando rispose bruscamente “State calmo, signore e non chiamate canaglia il popolo. Sono napoletani…sono i miei compaesani, miei sudditi. Qualche cattivo elemento li ha fuorviati, ma si tratta sempre del mio popolo!…se vi lasciate travolgere dalle passioni ci sarà un massacro, ed è quello che voglio evitare ad ogni costo. Fate prigionieri ma non uccidete ! Nelle strade c’è molta gente che domani si sarà pentita del suo errore”[3]. Nonostante ciò ci furono molte vittime (le cifre più attendibili parlano complessivamente di un migliaio) e devastazioni; i deputati, malgrado il loro proclami insurrezionali antimonarchici, non subirono violenze.

“Non facciamo i nomi dei sostenitori delle varie spiegazioni [dei fatti del maggio napoletano] perché ne ha fatto un esame accuratissimo il Paladino usando pubblicazioni rare, atti processuali…..Ruggero Moscati, ai giorni nostri, ha finito sostanzialmente con l’accettare, a proposito della giornata del 15 maggio, la tesi di Giuseppe Paladino, cioè che esso fu “un’esplosione imprevista e impreveduta di poche centinaia di persone in gran parte non napoletani, che scimmiottando i casi parigini del febbraio, e stoltamente illudendosi di ottenere aiuti dalla squadra francese nella rada, oppure di trascinare gli Svizzeri [che formavano la milizia scelta del Re] e le truppe napoletane a far causa comune con loro, eressero prima delle barricate contro un pericolo immaginario, si rifiutarono poi di disfarle perché sospettavano e diffidavano del re, del governo, di tutto e di tutti, ed infine si dispersero per le case vicine da dove aprirono il fuoco contro le truppe. Moto anarchico ed inconsulto”. E tale giudizio fu la conclusione di un movimento culturale iniziatosi dopo il 1860 da parte di un illustre storico tedesco (il Reumont) e di due onesti patrioti come il Settembrini e Vittorio Imbriani”[4]

Questi luttuosi avvenimenti impressionarono moltissimo il re meridionale e non poteva essere altrimenti, lasciandogli nel cuore una ferita inguaribile e condizionando tutti i suoi comportamenti fino alla fine del suo regno, nel 1859: la frattura del 15 maggio non si ricompose più e questa, alla fine, fu fatale per la sopravvivenza del regno meridionale; il re si convinse, infatti, che “Costituzione eguale Rivoluzione”, convincimento che espresse più volte e da quale non rescisse più.

Sta di fatto che, malgrado i luttuosissimi fatti del 15 maggio che avrebbero ben giustificato la soppressione della Costituzione, Ferdinando la confermò perchè “Ho giurato la Costituzione e la manterrò, se io non voleva darla, non l’avrei data”. Piuttosto si ha la sensazione che ci fossero molte ipocrisie nel campo liberale come ben dimostra il colloquio avvenuto nel 1848 fra tre suoi rappresentanti e il Re, “Sire, noi vogliamo il progresso” essi affermarono “Lo voglio anch’io” soggiunse il Re; “ma, spieghiamoci, che intendete voi per progresso?” e Il Pisanelli [uno dei liberali] “Sire, il progresso è un gladio, che incalza i popoli e re..”. Ferdinando lo interruppe, e volgendosi al duca d’Ascoli, che gli stava vicino ”Nè Ascoli, stu progresso fete [puzza] nu poco de curtiello[5]

Furono indette nuove elezioni per il 15 giugno, con una nuova soglia censitaria (120 ducati per gli eleggibili e 12 per gli elettori) che furono liberissime ma con scarsa affluenza, la libertà di stampa subì delle disposizioni restrittive con Decreto del 25 maggio.

La stampa progressista e democratica si mostra ardente sostenitrice delle prerogative e dell’attività parlamentare; sempre più antiparlamentari i giornali reazionari. L’interesse per al seduta inaugurale del 1° luglio, per le dichiarazioni del sovrano e per il programma dei lavori, era pertanto, vivissima e vivissima fu la delusione alla lettura del discorso della Corona, accolto con profondo silenzio[6], approvato, comunque, il 1° agosto dalla Camera dei Deputati ed il 5 da quella dei Pari).

Un gruppo di deputati ricominciò subito un duro ostruzionismo verso il sovrano rimproverandogli lo scioglimento della precedente Camera, a causa dei fatti del 15 maggio; essi ribadirono anche la loro volontà di far continuare alle Due Sicilie la guerra contro l’Austria contro l’opinione del Re. “Le due camere svolsero una modesta attività…non formularono alcun progetto di legge…il 6 febbraio 1849 il Ministro delle Finanze fece un discorso sul bilancio dello Stato con le relative tasse, alcuni deputati si opposero affermando che per esigere imposte occorreva un voto del parlamento e che il governo in carica [nominato, come la Costituzione prevedeva, dal Re] non riscuoteva la loro fiducia, inoltre si censurò la politica interna del sovrano; i contrasti non si appianarono e il conflitto governo-Re da una parte e deputati dall’altra fu risolto il 12 marzo da Ferdinando II il quale sciolse la Camera stabilendo nuove elezioni che mai si tennero[7].

la bandiera costituzionale (1848 - 1849)

Alla fine del marzo 1849 il Re offrì alla Sicilia un parlamento proprio, un vicerè, amministrazione separata con abolizione della promiscuità di impiego tra siciliani e napoletani, riconoscimento dei debiti fatti dal governo rivoluzionario, amnistia. Questo non bastò ai siciliani che, per bocca del loro capo Ruggiero Settimo, respinsero le proposte del sovrano. Alla Camera dei Comuni di Palermo echeggiò il grido “Guerra, guerra!” ma il 15 maggio 1849 le truppe napoletane, dopo numerosi successi, entrarono in Palermo spegnendo definitivamente la rivolta indipendentista della Sicilia e sottraendo anche l’isola alle brame degli inglesi, che la avevano sostenuta nella lotta sperando in un futuro protettorato britannico. Ferdinando II, già nel settembre del 1848, aveva inviato in Sicilia parte della sua flotta da guerra (all’epoca la terza del mondo) al comando del generale Carlo Filangieri; essa aveva cominciato a bombardare Messina dal 3 settembre, coprendo lo sbarco delle milizie in essa imbarcate e continuando a martellare le postazioni degli indipendentisti per cinque giorni. I combattimenti furono molto accaniti tanto che le truppe borboniche ebbero 1500 morti, non si è mai fatto un consuntivo di quelle siciliane.

In seguito a questi cruenti avvenimenti e alla repressione dei moti repubblicani del 15 maggio 1848, Ferdinando II, già osannato precedentemente dai liberali con gli appellativi di “novello Tito” o “pacifico Giove”, collezionò diversi nuovi soprannomi: “Mostro coronato”, “Nerone del Sebeto”,“Tigre borbonica”,“Caligola di Napoli”, ma soprattutto “Re Bomba”. C’è da dire, però, che reprimere le insurrezioni all’interno dei loro domini, era il comportamento “usuale e normale” di tutti i sovrani dell’epoca che le consideravano opera di “sudditi ribelli”; l’ipocrisia generale volle che solo a Ferdinando, per motivazioni politiche molto lontane da altre “umanitarie”, fosse appioppato il soprannome di Re Bomba, gli altri suoi pari rimasero indenni da simili appellativi tanto che nessun liberale chiamò Vittorio Emanuele II in modo diverso da “re galantuomo” anche se quest’ultimo poté impunemente cannoneggiare, causando migliaia di morti: Genova (1849), Ancona (1860), Gaeta (1860-’61) e Palermo (1866).

Il 19 maggio 1849 tornò in uso la tradizionale bandiera bianca con lo stemma dei Borbone; il 7 agosto 1849 fu nominato presidente del Consiglio e delle Finanze il lucano Giustino Fortunato, ex aderente alla Repubblica Napoletana e al governo di Murat. Lo statuto fu sospeso, ma non abrogato: così fallì il primo esperimento costituzionale d’Italia.

Le interpretazioni, formulate dai fautori della Costituzione, sulle cause dell’insuccesso furono essenzialmente due: i più accesi accusavano il Re di spergiuro e addebitavano solo a lui la colpa, viceversa i più moderati affermavano esattamente il contrario: “la rivoluzione era “politicamente immatura” principalmente per responsabilità proprio dei democratici più estremisti con le loro “balorde utopie repubblicane”, progetti astratti, insensati e rischiosi.”[8]; 1559 municipi mandarono delle petizioni per invitare il Re a sospendere la Costituzione[9]. In realtà nessuno sa con certezza cosa pensasse Ferdinando circa la Costituzione; gli storici affermano, in grande maggioranza, che nel suo intimo la avversasse (come del resto tutti i sovrani dell’epoca, convinti che il loro potere derivasse direttamente da Dio) e che il suo modello fosse quello della monarchia amministrativa del regime napoleonico, ma non c’è dubbio che l’atteggiamento massimalista di molti liberali napoletani lo spinse a nutrire per la monarchia rappresentativa un’avversione crescente, tanto più che, successivamente, essi aderirono al movimento unitario italiano a guida piemontese e poi curiosamente accettarono un nuovo monarca e lo Statuto Albertino che s’ispirava agli stessi principi della Costituzione Napoletana del 1848, che avevano precedentemente avversato con la violenza.

Il sovrano rimase solo con il suo potere assoluto e “non si rese conto che i pennaruli avevano bisogno di una camera di compensazione per sfogare la loro libidine politica e per sentirsi protagonisti, cittadini, del progresso civile ed economico del paese … non per altri motivi le rivoluzioni che colpirono tutta l’Europa nel 1848, lasciarono indenne unicamente la terra della Regina Vittoria, segno questo che la via inglese “riformare per non dover innovare” era una carta vincente “[10].

I liberali meridionali esuli si rifugiarono in tutta Europa sviluppando negli anni diversi sentimenti: all’inizio profonda malinconia, struggente nostalgia della Patria e noia per la vita intellettuale degli altri stati giudicata poca cosa rispetto a quella vivacissima di Napoli, poi critica spietata della monarchia meridionale risparmiando la popolazione del regno, in seguito toni accesi anche nei confronti del popolo che non dimostrava alcuna aspirazione alla rivolta né tanto meno all’ideale unitario, infine l’auspicio che un atto di forza esterno costringesse i napoletani ad unirsi al costituendo regno d’Italia perchè essi “si sono così abituati a considerare la loro città come un mondo a sé” e che il nuovo governo unitario dovesse basarsi nel Mezzogiornosulla forza, almeno per lungo tempo[11]

La massima parte del popolo meridionale, invece, non desiderava evoluzioni politiche, anzi le osteggiava considerandole una lesione alle prerogative assolute del sovrano; il monarca era amatissimo e ne aveva prova nelle innumerevoli manifestazioni di affetto esternate dai sudditi nei suoi numerosi viaggi di ispezione nelle province nel regno; egli veniva infatti considerato “il nostro padre” cioè il garante supremo dei diritti del popolo contro le pretese dei baroni, del clero e della emergente borghesia. Le masse, insieme ai loro sovrani, consideravano i loquacissimi intellettuali liberali come dei demagoghi, pescatori nel torbido ed infatti tutte le volte che dovettero scegliere tra monarchia napoletana o straniera, tra il Re e i liberali hanno scelto sempre il proprio sovrano come ben dimostrano i fatti del 1799, del 1820, del 1848 e infine la reazione postunitaria. D’altra parte l’ideale monarchico era ancora molto vivo nei popoli di in tutt’Europa, a dispetto delle idee costituzionali o repubblicane e i fratelli Goncourt facevano notare, nei primi decenni del 1900, che “Le menti mediocri che giudicano l’ieri da quello che è l’oggi, si stupiscono della grandezza e della magia della parola Re…essi credono che fosse solo servilismo, ma il Re rappresentava la religione popolare di allora, coma la patria è la religione di oggi[12].

Il popolo provava affetto per Ferdinando II anche per la sua “meridionalità” tanto simile alla propria che egli, pur nella profonda consapevolezza della regalità, manifestava negli atti della sua vita: dal senso della famiglia alla religiosità (che lo spingeva ad assistere quotidianamente alla Messa ed alla recita serale del rosario), dall’uso abituale del dialetto ai gusti alimentari, fino ad arrivare ai panni stesi ad asciugare nelle sale della reggia di Caserta. I suoi svaghi preferiti erano le parate militari e una corsa in carrozza, che guidava personalmente, assieme ai suoi cari; le cerimonie ufficiali della Corte annoiavano lui e la sua consorte, l’austriaca Maria Teresa, “Tetella[13]. Nemmeno i più accessi oppositori poterono muovere critiche riguardo la sua assoluta integrità come marito e padre, virtù non molto diffusa nei sovrani del suo tempo, basti pensare, solo per rimanere in Italia, a Vittorio Emanuele II che dilapidò somme enormi per le sue innumerevoli amanti con i relativi figli illegittimi.

Dopo la fine del regno borbonico la fedeltà all’ideale monarchico rimase intatta e cominciò ad esternarsi persino nei confronti dei nuovi sovrani, i Savoia, nonostante la loro pessima condotta nei confronti del Sud. A chi gli ricordava il perdurante affetto del popolo meridionale, l’esiliato Francesco II (ultimo re delle Due Sicilie) rispondeva amaramente: “Sì, è vero i Napolitani sono fedeli al Re, ma a qualunque Re del tempo, non alla mia persona”, parole profetiche tanto che nel referendum repubblica-monarchia del giugno 1946, il Sud votò massicciamente per quest’ultima. Scrisse, all’epoca, nel suo diario, il ministro degli Interni Romita “nella notte tra il 3 e il 4 giunsero, però, improvvisamente i dati di un nutrito gruppo di sezioni meridionali e la Monarchia passò in vantaggio. Fu la notte più terribile: intorno alle ventiquattro sembrò che ogni speranza fosse perduta …mi accasciai sulla poltrona, gli occhi fissi verso l’alto soffitto in ombra …il telefono squillò più volte… proprio a me, repubblicano da sempre, sarebbe spettato dire ai lavoratori che l’ultimo rappresentante della più inetta casa regnante d’Europa sarebbe restato al proprio posto ed enormemente rafforzato dalla riconferma popolare? E che cosa avrei detto a Nenni, a Togliatti, a tutti gli altri, che non volevano l’avventura del referendum?”[14]. Quando Umberto II, ultimo re sabaudo, si imbarcò all’aeroporto di Campino di Roma per l’esilio in Portogallo “un vicebrigadiere dei carabinieri lo saluta, egli si ferma a stringergli la mano: “Vi aspettiamo sempre, Maestà!”, dice il giovane con accento napoletano[15].

Re Ferdinando II, restaurando la monarchia assoluta, assunse verso i liberali un atteggiamento sprezzante, chiamandoli “pennaruli[16], iniziò una politica repressiva con le liste degli “attendibili” (cioè dei sospetti) compilate da un corpo speciale di polizia i cui membri erano chiamati “i feroci”. Il 18 marzo 1850 sparì l’aggettivo “costituzionale” dal Giornale delle Due Sicilie “fra la generale indifferenza”[17]

La repressione fu dura, come in altri paesi europei [che avevano sperimentato i moti del 1848], ma poco sanguinosa…come se il suo scopo fosse lo sradicamento più che la vendetta…più che feroce, fu una repressione pervicace e capillare, protrattasi per un tempo lunghissimo. Per più di un decennio continuarono tanto i processi politici che la caccia ai latitanti…i beni degli esuli furono sequestrati e le famiglie sistematicamente perseguitate. Tanto le corti che il governo fecero un ampio ricorso a varie forme di espulsione, dalla condanna all’esilio alla deportazione, alla tolleranza verso le fughe. La censura, tanto governativa quanto ecclesiastica, imperversò…nel 1850 fu ufficialmente abolita la libertà di stampa [legge del 13 agosto], addirittura nel 1859 per pubblicare un libro fu necessaria anche l’autorizzazione preventiva del Vescovo; l’insegnamento fu riconsegnato alla Chiesa cattolica, il reclutamento dei maestri affidato al clero, l’ispezione scolastica ai vescovi e l’esame di catechismo reso obbligatorio per tutti gli insegnanti.

Il regno si trasformò in uno stato di polizia [anche se il pubblicista Giacinto dè Sivo faceva notare che “chi non aderiva alle sette godeva di amplissima libertà di fare quello che voleva”[18]], il Ministero della Polizia, che era stato abolito nel 1848, fu ristabilito nel 1852, esso disponeva di una rete immensa di collaboratori e spie. I licenziamenti [per motivi politici] colpirono praticamente tutta l’intellighentia del regno, dagli impiegati di banca al direttore del museo di Napoli e degli scavi di Pompei; i progetti di riforme, persino i più cauti, furono abbandonati….la metafora della “muraglia della Cina” rende bene il leitmotif della politica post-quarantottesca, cioè la reclusione[19]. L’allontanamento dal regno di molti esponenti di spicco delle scienze e delle arti, tutti sbrigativamente bollati dal Re come “liberali”, portò ad un indebolimento complessivo delle Due Sicilie privandole dei cervelli migliori.

Ferdinando II incarnò sempre più la figura di un autocrate con ministri che erano dei semplici esecutori dei suoi ordini e quindi non responsabili personalmente dei loro atti; egli voleva essere tenuto personalmente al corrente di tutto quello che succedeva nel suo regno e questo lo costrinse ad un impegno massacrante diviso tra lavoro a tavolino e lunghe udienze nelle quali ascoltava pazientemente i numerosi interlocutori che potevano arrivare anche a più di cento in una sola giornata; molto temute le sue improvvise ispezioni nelle varie province in cui chiedeva conto agli intendenti del loro operato. L’autocrazia di Ferdinando II impedì la maturazione di una classe politica dirigente responsabile, il Sud legò il proprio destino alla sopravvivenza della persona del Re e lo si vide alla sua prematura scomparsa quando il figlio, Francesco II, si poté valere, nell’esercizio del potere, quasi solo di personaggi di settanta e più anni, figli di altre epoche ed incapaci ad affrontare i problemi dei tempi nuovi. “Temuti gli uomini di testa, [Ferdinando II] s’andò cercando la mediocrità, perchè più mogia; non si volle o non si seppe cercare i migliori e porli ai primi seggi….e per non fidarsi di nessuno, e non aver bisogno d’intelletti, fu ridotta a macchina l’amministrazione ed il governo…..la nave dello Stato non provveduta di piloti andò in tempo di calma più anni barcollando; poi al primo buffo, non trovandosi mano esperta al timone, senza guida affondò[20]. Frequenti le sue incursioni a sorpresa nelle varie province del regno per verificare di persona lo stato delle cose, il suo senso del dovere come monarca era così spiccato che lo portò a lasciare la famiglia con un figlio in fin di vita pur di soccorrere le popolazioni lucane sofferenti per un violento terremoto.

Ma bisogna rimarcare il fatto che la difesa ad oltranza dell’istituto monarchico assoluto, da parte di Ferdinando II, non solo era politicamente debole nei confronti delle istanze liberali delle “intellighentiae” interne ed internazionali (pur essendo queste ultime asservite ad interessi non ideali ma di supremazia economica) ma gli inimicò soprattutto i ceti borghesi meridionali i quali, rafforzatisi proprio grazie alla grande politica di sviluppo economico del Re, reclamavano anche una partecipazione politica.

In conclusione, nei momenti della crisi decisiva del 1860, la monarchia borbonica si trovò alleato solo il popolo minuto e nemiche tutte le altre componenti della società: gli intellettuali, la borghesia e i latifondisti che essa, a vario titolo, aveva avversato (mancato progresso delle istituzioni in senso costituzionale e provvedimenti antifeudali); per questi motivi, dopo l’annessione del regno meridionale, furono i contadini e pastori che reagirono alla nuova realtà col fenomeno del brigantaggio, le altre componenti della società furono ben liete della caduta dei Borbone.

Giuseppe Ressa


Note

[1] riportato da Lorenzo Del Boca, “Indietro Savoia”, Piemme, 2003

[2] Mario Costa Cardol, “Venga a Napoli, signor conte”, Mursia, 1996, pag. 124

[3] Harold Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Giunti, 1997, pagg. 274-275

[4] Federico Curato, Il regno delle Due Sicilie nella politica estera europea, Società siciliana per la storia patria, 1995, pagg.85-86.

[5] Raffaele de Cesare, La fine di un regno, vol I , pag. 194

[6] Alfredo Zazo, Il giornalismo a Napoli, Procaccino, 1985, pag.176

[7] tratto da Giuseppe Coniglio, “ I Borboni di Napoli”, Corbaccio, 1999, modif.

[8] Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione, Rubbettino, 1998, pag. 111

[9] A.Insogna, Francesco II Re di Napoli, ristampa Forni, 1980, pag. 27

[10] Umberto Pontone, Due Sicilie, numero 2\2002, modif.

[11] Marta Petrusewicz, op. cit. , pag 158

[12] Harold Acton, I Borboni di Napoli, Giunti, 1997, pag.718

[13] seconda moglie; la prima, Maria Cristina di Savoja, era morta di febbre puerperale pochi giorni dopo aver dato alla luce il futuro re Francesco II.

[14] riportato in Falcone Lucifero, L’ultimo re, Mondadori, 2002, pag. XXX dell’introduzione a cura di Francesco Perfetti

[15] ibidem, pag.556

[16] cioè perditempo, grafomani e simili

[17] Alfredo Zazo, Il giornalismo a Napoli, Procaccino, 1985, pag. 203

[18] op.cit. pag.481

[19] Marta Petrusewicz, Come il meridione divenne una questione, Rubbettino, 1998, pag. 113 e seg.

[20] Giacinto de' Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Berisio


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