Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
Il 29 gennaio del 1848,
Ferdinando II fu il primo sovrano italiano a concedere la Costituzione (promulgata il 10 febbraio),
pressato, com’era, da una grave rivolta indipendentistica siciliana,
iniziata alla fine del 1847, e dalle istanze sempre più incessanti dei
liberali napoletani (sempre nel 1847 era stata scritta la “Protesta
del popolo delle Due Sicilie” di Luigi Settembrini, (giudicata, a
posteriori, strumentale e esagerata sia dall’autore sia da altri
liberali).
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Luigi Settembrini (1813-1876)
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Non era, però, un caso, come molti pensano, che le Due Sicilie fossero
il primo stato italiano che ottenesse la Costituzione, abbiamo già visto che il Sud
d’Italia era assolutamente all’avanguardia nel pensiero liberale
italiano e non solo, prova ne sono le Costituzioni del 1812 e del 1820,
le prime in Italia. Tutta la stampa liberale italiana applaudì
Ferdinando II, come pure gli invitati al ricevimento di gala al teatro
San Carlo. A Torino duemila persone con torce e bandiere si recarono
davanti alla residenza del Console delle Due Sicilie per congratularsi
con lui; la pensava diversamente il loro re, Carlo Alberto, il quale
dichiarò che “mica sono come quel Borbone che ha accettato il diktat
degli insorti, facendo la cosa più deleteria che si potesse immaginare”.
Fu formato un primo ministero che comprendeva Francesco Paolo Bozzelli,
autore del testo della Costituzione, con essa il “suddito”
diventava “cittadino”, con la definitiva sanzione della
inviolabilità della libertà personale, di stampa, di associazione, della
proprietà; oltre a questa “cittadinanza civile” veniva decretata
una “cittadinanza politica” perchè al Re si affiancava un
Parlamento composto da due camere: una di 164 Deputati eletti dal popolo
su una base censitaria (25 ducati per gli elettori, 240 per gli
eleggibili); l’altra camera di 50 “Pari” era nominata dal sovrano. Il 18
marzo fu apposto l’aggettivo “costituzionale” al Giornale delle Due
Sicilie, quotidiano ufficiale.
In aprile fu formato un nuovo governo che incluse i nomi migliori della
liberalità del regno: Troya, Poerio, Dragonetti, Scialoja, Ferrara, i
fratelli Amari, Imbriani, Conforti, Settembrini: fu decretata
un’amnistia politica, abolito il Ministero della Polizia, tolta
l’istruzione popolare al clero e si istituirono scuole anche nei più
piccoli villaggi; in un primo tempo fu equiparato il minimo di censo tra
gli eleggibili e gli elettori, poi fu abolito per cui poteva bastare il
possesso della “pubblica stima” per poter essere eletto deputato. In
questa fase re Ferdinando era considerato, dai componenti della classe
dirigente, perfettamente in grado di svolgere il compito di reggitore
della monarchia costituzionale che era l’istituzione preferita dalla
maggior parte di loro, infatti solo una frangia era di sentimenti
repubblicani.
Il 3 aprile la bandiera delle Due Sicilie (bianca con lo stemma
dei Borbone al centro) aggiunge sui bordi dei quattro lati una cornice
verde e rossa. Ma “la rumorosa e quasi bambinesca festosità dei
napoletani provocò lo sconquasso. Le strade di Napoli …furono percorse e
ripercorse da cortei quasi quotidiani e sempre più infiammati. Fu un
pullulare di giornali e giornalucoli, redatti spesso da uomini ancora
incerti nel mestiere, che spingevano l’opinione pubblica sino al
parossismo. Giorno e notte si discuteva sui perfezionamenti da
apportare all’appena ottenuta Costituzione, quasi che teoria e pratica
fossero in politica due campi totalmente separati. Si disquisiva, si
declamava, nell’incessante ricerca di eleganti distinguo dialettici. La
vanità della minutaglia intellettuale straripava. I “paglietti”,
come Ferdinando chiamava gli avvocati, i greculi, gli azzeccagarbugli,
infervoravano il popolo, denunciando macchinazioni anche quando non era
il caso sicchè, come disse il liberale Nicola Nisco, “invece di
procacciare amici al libero reggimento, lo facevano prendere in odio e
dispetto anche da quelli che l’amavano”
Le elezioni si tennero il 18 aprile, l’affluenza alle urne fu scarsa;
lunedì 15 maggio, in coincidenza con l’apertura del primo
Parlamento, nel palazzo comunale di Monteoliveto di Napoli, un gruppo di
deputati rivoluzionari, con a capo Giovanni La Cecilia e Pietro Mileti, dichiarò di considerare
insoddisfacente
la Costituzione appena proclamata, propose delle
modifiche come l’abolizione della camera dei Pari e rifiutò di prestare
giuramento alla persona del Re; in realtà voleva rovesciare la monarchia
proclamando la repubblica. Ferdinando II, sebbene obiettasse che i
deputati non avevano diritto di mutare
la Costituzione prima che si aprisse il Parlamento,
accettò persino il mancato giuramento alla sua persona pur di far
partire i lavori dell’assemblea e fece molti tentativi di conciliazione
con i ribelli tramite degli emissari mandati a trattare: furono momenti
che misero a dura prova l’autocontrollo del Re, nato ed educato secondo
i principi della regalità “per diritto divino”, ma egli non
cedette alle provocazioni.
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Nicola Nisco, uno dei promotori della rivolta
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Malgrado i suoi tentativi di accomodamento, gli animi dei rivoltosi non
si placarono ed essi proclamarono, nell’aula del Parlamento, che le
truppe del Re stavano marciando verso l’Assemblea, questo era
completamente falso e gli stessi emissari del sovrano dichiararono di
essere disposti a condurre una delegazione dei deputati a verificare
l’inconsistenza di queste accuse, dato che le truppe erano consegnate,
per ordine del Re, nelle caserme, ma non servì a nulla: vennero erette
per le strade decine di barricate (circa 90) e furono sparati alcuni
colpi all’indirizzo dei militari in servizio fuori al palazzo reale
facendo morti e feriti.
Solo a quel punto, la mattina del 16 maggio, il Re diede ordine di
reagire, ci furono scontri, devastazioni e vittime; a un comandante che
prometteva di ridurre “la canaglia” alla ragione, Ferdinando rispose
bruscamente “State calmo, signore e non chiamate canaglia il popolo.
Sono napoletani…sono i miei compaesani, miei sudditi. Qualche cattivo
elemento li ha fuorviati, ma si tratta sempre del mio popolo!…se vi
lasciate travolgere dalle passioni ci sarà un massacro, ed è quello che
voglio evitare ad ogni costo. Fate prigionieri ma non uccidete ! Nelle
strade c’è molta gente che domani si sarà pentita del suo errore”.
Nonostante ciò ci furono molte vittime (le cifre più attendibili parlano
complessivamente di un migliaio) e devastazioni; i deputati, malgrado il
loro proclami insurrezionali antimonarchici, non subirono violenze.
“Non facciamo i nomi dei sostenitori delle varie spiegazioni [dei fatti
del maggio napoletano] perché ne ha fatto un esame accuratissimo il
Paladino usando pubblicazioni rare, atti processuali…..Ruggero Moscati,
ai giorni nostri, ha finito sostanzialmente con l’accettare, a proposito
della giornata del 15 maggio, la tesi di Giuseppe Paladino, cioè che
esso fu “un’esplosione imprevista e impreveduta di poche centinaia di
persone in gran parte non napoletani, che scimmiottando i casi parigini
del febbraio, e stoltamente illudendosi di ottenere aiuti dalla squadra
francese nella rada, oppure di trascinare gli Svizzeri [che formavano la
milizia scelta del Re] e le truppe napoletane a far causa comune con
loro, eressero prima delle barricate contro un pericolo immaginario, si
rifiutarono poi di disfarle perché sospettavano e diffidavano del re,
del governo, di tutto e di tutti, ed infine si dispersero per le case
vicine da dove aprirono il fuoco contro le truppe. Moto anarchico ed
inconsulto”. E tale giudizio fu la conclusione di un movimento culturale
iniziatosi dopo il 1860 da parte di un illustre storico tedesco (il
Reumont) e di due onesti patrioti come il Settembrini e Vittorio
Imbriani”
Questi luttuosi avvenimenti impressionarono moltissimo il re meridionale
e non poteva essere altrimenti, lasciandogli nel cuore una ferita
inguaribile e condizionando tutti i suoi comportamenti fino alla fine
del suo regno, nel 1859: la frattura del 15 maggio non si ricompose più
e questa, alla fine, fu fatale per la sopravvivenza del regno
meridionale; il re si convinse, infatti, che “Costituzione eguale
Rivoluzione”, convincimento che espresse più volte e da quale non
rescisse più.
Sta di fatto che, malgrado i luttuosissimi fatti del 15 maggio che
avrebbero ben giustificato la soppressione della Costituzione,
Ferdinando la confermò perchè “Ho giurato la Costituzione e la manterrò, se io non voleva
darla, non l’avrei data”. Piuttosto si ha la sensazione che ci fossero
molte ipocrisie nel campo liberale come ben dimostra il colloquio
avvenuto nel 1848 fra tre suoi rappresentanti e il Re, “Sire, noi
vogliamo il progresso” essi affermarono “Lo voglio anch’io” soggiunse il
Re; “ma, spieghiamoci, che intendete voi per progresso?” e Il Pisanelli
[uno dei liberali] “Sire, il progresso è un gladio, che incalza i popoli
e re..”. Ferdinando lo interruppe, e volgendosi al duca d’Ascoli, che
gli stava vicino ”Nè Ascoli, stu progresso fete [puzza]
nu poco de curtiello”
Furono indette nuove elezioni per il 15 giugno, con una nuova soglia
censitaria (120 ducati per gli eleggibili e 12 per gli elettori) che
furono liberissime ma con scarsa affluenza, la libertà di stampa subì
delle disposizioni restrittive con Decreto del 25 maggio.
“La stampa progressista e democratica si mostra ardente sostenitrice
delle prerogative e dell’attività parlamentare; sempre più
antiparlamentari i giornali reazionari. L’interesse per al seduta
inaugurale del 1° luglio, per le dichiarazioni del sovrano e per il
programma dei lavori, era pertanto, vivissima e vivissima fu la
delusione alla lettura del discorso della Corona, accolto con profondo
silenzio”,
approvato, comunque, il 1° agosto dalla Camera dei Deputati ed il 5 da
quella dei Pari).
Un gruppo di deputati ricominciò subito un duro ostruzionismo verso il
sovrano rimproverandogli lo scioglimento della precedente Camera, a
causa dei fatti del 15 maggio; essi ribadirono anche la loro volontà di
far continuare alle Due Sicilie la guerra contro l’Austria contro
l’opinione del Re. “Le due camere svolsero una modesta attività…non
formularono alcun progetto di legge…il
6 febbraio 1849
il Ministro delle Finanze fece un discorso sul bilancio dello Stato con
le relative tasse, alcuni deputati si opposero affermando che per
esigere imposte occorreva un voto del parlamento e che il governo in
carica
[nominato, come
la Costituzione
prevedeva, dal Re] non riscuoteva la loro fiducia, inoltre si censurò
la politica interna del sovrano; i contrasti non si appianarono e il
conflitto governo-Re da una parte e deputati dall’altra fu risolto il 12
marzo da Ferdinando II il quale sciolse
la Camera stabilendo nuove elezioni che mai si tennero”.
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la bandiera costituzionale (1848 - 1849) |
Alla fine del marzo 1849 il Re offrì alla Sicilia un parlamento proprio,
un vicerè, amministrazione separata con abolizione della promiscuità di
impiego tra siciliani e napoletani, riconoscimento dei debiti fatti dal
governo rivoluzionario, amnistia. Questo non bastò ai siciliani che, per
bocca del loro capo Ruggiero Settimo, respinsero le proposte del
sovrano. Alla Camera dei Comuni di Palermo echeggiò il grido “Guerra,
guerra!” ma il
15 maggio 1849
le truppe napoletane, dopo numerosi successi, entrarono in Palermo
spegnendo definitivamente la rivolta indipendentista della Sicilia e
sottraendo anche l’isola alle brame degli inglesi, che la avevano
sostenuta nella lotta sperando in un futuro protettorato britannico.
Ferdinando II, già nel settembre del 1848, aveva inviato in Sicilia
parte della sua flotta da guerra (all’epoca la terza del mondo) al
comando del generale Carlo Filangieri; essa aveva cominciato a
bombardare Messina dal 3 settembre, coprendo lo sbarco delle milizie in
essa imbarcate e continuando a martellare le postazioni degli
indipendentisti per cinque giorni. I combattimenti furono molto accaniti
tanto che le truppe borboniche ebbero 1500 morti, non si è mai fatto un
consuntivo di quelle siciliane.
In seguito a questi cruenti avvenimenti e alla repressione dei moti
repubblicani del 15 maggio 1848, Ferdinando II, già osannato precedentemente dai
liberali con gli appellativi di “novello Tito” o “pacifico
Giove”, collezionò diversi nuovi soprannomi: “Mostro coronato”,
“Nerone del Sebeto”,“Tigre borbonica”,“Caligola di Napoli”, ma
soprattutto “Re Bomba”. C’è da dire, però, che reprimere le insurrezioni
all’interno dei loro domini, era il comportamento “usuale e normale” di
tutti i sovrani dell’epoca che le consideravano opera di “sudditi
ribelli”; l’ipocrisia generale volle che solo a Ferdinando, per
motivazioni politiche molto lontane da altre “umanitarie”, fosse
appioppato il soprannome di Re Bomba, gli altri suoi pari rimasero
indenni da simili appellativi tanto che nessun liberale chiamò Vittorio
Emanuele II in modo diverso da “re galantuomo” anche se quest’ultimo
poté impunemente cannoneggiare, causando migliaia di morti: Genova
(1849), Ancona (1860), Gaeta (1860-’61) e Palermo (1866).
Il 19 maggio 1849 tornò in uso la tradizionale bandiera bianca con lo
stemma dei Borbone; il
7 agosto 1849 fu nominato presidente del Consiglio e delle
Finanze il lucano Giustino Fortunato, ex aderente alla Repubblica
Napoletana e al governo di Murat. Lo statuto fu sospeso, ma non
abrogato: così fallì il primo esperimento costituzionale d’Italia.
Le interpretazioni, formulate dai fautori della Costituzione, sulle
cause dell’insuccesso furono essenzialmente due: i più accesi accusavano
il Re di spergiuro e addebitavano solo a lui la colpa, viceversa i più
moderati affermavano esattamente il contrario: “la rivoluzione era
“politicamente immatura” principalmente per responsabilità proprio
dei democratici più estremisti con le loro “balorde utopie
repubblicane”, progetti astratti, insensati e rischiosi.”;
1559 municipi mandarono delle petizioni per invitare il Re a sospendere
la Costituzione.
In realtà nessuno sa con certezza cosa pensasse Ferdinando circa
la Costituzione;
gli storici affermano, in grande maggioranza, che nel suo intimo la
avversasse (come del resto tutti i sovrani dell’epoca, convinti che il
loro potere derivasse direttamente da Dio) e che il suo modello fosse
quello della monarchia amministrativa del regime napoleonico, ma non c’è
dubbio che l’atteggiamento massimalista di molti liberali napoletani lo
spinse a nutrire per la monarchia rappresentativa un’avversione
crescente, tanto più che, successivamente, essi aderirono al movimento
unitario italiano a guida piemontese e poi curiosamente accettarono un
nuovo monarca e lo Statuto Albertino che s’ispirava agli stessi principi
della Costituzione Napoletana del 1848, che avevano precedentemente
avversato con la violenza.
Il sovrano rimase solo con il suo potere assoluto e “non si rese conto
che i pennaruli avevano bisogno di una camera di compensazione
per sfogare la loro libidine politica e per sentirsi protagonisti,
cittadini, del progresso civile ed economico del paese … non per altri
motivi le rivoluzioni che colpirono tutta l’Europa nel 1848, lasciarono
indenne unicamente la terra della Regina Vittoria, segno questo che la
via inglese “riformare per non dover innovare” era una carta
vincente “.
I liberali meridionali esuli si rifugiarono in tutta Europa sviluppando
negli anni diversi sentimenti: all’inizio profonda malinconia,
struggente nostalgia della Patria e noia per la vita intellettuale degli
altri stati giudicata poca cosa rispetto a quella vivacissima di Napoli,
poi critica spietata della monarchia meridionale risparmiando la
popolazione del regno, in seguito toni accesi anche nei confronti del
popolo che non dimostrava alcuna aspirazione alla rivolta né tanto meno
all’ideale unitario, infine l’auspicio che un atto di forza esterno
costringesse i napoletani ad unirsi al costituendo regno d’Italia perchè
essi “si sono così abituati a considerare la loro città come un mondo
a sé” e che il nuovo governo unitario dovesse basarsi nel
Mezzogiorno “sulla forza, almeno
per lungo tempo”
La massima parte del popolo meridionale, invece, non desiderava
evoluzioni politiche, anzi le osteggiava considerandole una lesione alle
prerogative assolute del sovrano; il monarca era amatissimo e ne aveva
prova nelle innumerevoli manifestazioni di affetto esternate dai sudditi
nei suoi numerosi viaggi di ispezione nelle province nel regno; egli
veniva infatti considerato “il nostro padre” cioè il garante
supremo dei diritti del popolo contro le pretese dei baroni, del clero e
della emergente borghesia. Le masse, insieme ai loro sovrani,
consideravano i loquacissimi intellettuali liberali come dei demagoghi,
pescatori nel torbido ed infatti tutte le volte che dovettero scegliere
tra monarchia napoletana o straniera, tra il Re e i liberali hanno
scelto sempre il proprio sovrano come ben dimostrano i fatti del 1799,
del 1820, del 1848 e infine la reazione postunitaria. D’altra parte
l’ideale monarchico era ancora molto vivo nei popoli di in tutt’Europa,
a dispetto delle idee costituzionali o repubblicane e i fratelli
Goncourt facevano notare, nei primi decenni del 1900, che “Le menti
mediocri che giudicano l’ieri da quello che è l’oggi, si stupiscono
della grandezza e della magia della parola Re…essi credono che fosse
solo servilismo, ma il Re rappresentava la religione popolare di allora,
coma la patria è la religione di oggi “.
Il popolo provava affetto per Ferdinando II anche per la sua “meridionalità”
tanto simile alla propria che egli, pur nella profonda consapevolezza
della regalità, manifestava negli atti della sua vita: dal senso della
famiglia alla religiosità (che lo spingeva ad assistere quotidianamente
alla Messa ed alla recita serale del rosario), dall’uso abituale del
dialetto ai gusti alimentari, fino ad arrivare ai panni stesi ad
asciugare nelle sale della reggia di Caserta. I suoi svaghi preferiti
erano le parate militari e una corsa in carrozza, che guidava
personalmente, assieme ai suoi cari; le cerimonie ufficiali della Corte
annoiavano lui e la sua consorte, l’austriaca Maria Teresa, “Tetella”.
Nemmeno i più accessi oppositori poterono muovere critiche riguardo la
sua assoluta integrità come marito e padre, virtù non molto diffusa nei
sovrani del suo tempo, basti pensare, solo per rimanere in Italia, a
Vittorio Emanuele II che dilapidò somme enormi per le sue innumerevoli
amanti con i relativi figli illegittimi.
Dopo la fine del regno borbonico la fedeltà all’ideale monarchico rimase
intatta e cominciò ad esternarsi persino nei confronti dei nuovi
sovrani, i Savoia, nonostante la loro pessima condotta nei confronti del
Sud. A chi gli ricordava il perdurante affetto del popolo meridionale,
l’esiliato Francesco II (ultimo re delle Due Sicilie) rispondeva
amaramente: “Sì, è vero i Napolitani sono fedeli al Re, ma a
qualunque Re del tempo, non alla mia persona”, parole profetiche
tanto che nel referendum repubblica-monarchia del giugno 1946, il Sud
votò massicciamente per quest’ultima. Scrisse, all’epoca, nel suo
diario, il ministro degli Interni Romita “nella notte tra il 3 e il 4
giunsero, però, improvvisamente i dati di un nutrito gruppo di sezioni
meridionali e
la Monarchia
passò in vantaggio. Fu la notte più terribile: intorno alle ventiquattro
sembrò che ogni speranza fosse perduta …mi accasciai sulla poltrona, gli
occhi fissi verso l’alto soffitto in ombra …il telefono squillò più
volte… proprio a me, repubblicano da sempre, sarebbe spettato dire ai
lavoratori che l’ultimo rappresentante della più inetta casa regnante
d’Europa sarebbe restato al proprio posto ed enormemente rafforzato
dalla riconferma popolare? E che cosa avrei detto a Nenni, a Togliatti,
a tutti gli altri, che non volevano l’avventura del referendum?”.
Quando Umberto II, ultimo re sabaudo, si imbarcò all’aeroporto di
Campino di Roma per l’esilio in Portogallo “un vicebrigadiere dei
carabinieri lo saluta, egli si ferma a stringergli la mano: “Vi
aspettiamo sempre, Maestà!”, dice il giovane con accento napoletano”.
Re Ferdinando II, restaurando la monarchia assoluta, assunse verso i
liberali un atteggiamento sprezzante, chiamandoli “pennaruli”,
iniziò una politica repressiva con le liste degli “attendibili”
(cioè dei sospetti) compilate da un corpo speciale di polizia i cui
membri erano chiamati “i feroci”.
Il
18 marzo 1850
sparì l’aggettivo “costituzionale” dal Giornale delle Due Sicilie
“fra la generale indifferenza”
“La repressione fu dura, come in altri paesi europei [che avevano
sperimentato i moti del 1848], ma poco sanguinosa…come se il suo
scopo fosse lo sradicamento più che la vendetta…più che feroce, fu una
repressione pervicace e capillare, protrattasi per un tempo lunghissimo.
Per più di un decennio continuarono tanto i processi politici che la
caccia ai latitanti…i beni degli esuli furono sequestrati e le famiglie
sistematicamente perseguitate. Tanto le corti che il governo fecero un
ampio ricorso a varie forme di espulsione, dalla condanna all’esilio
alla deportazione, alla tolleranza verso le fughe. La censura,
tanto governativa quanto ecclesiastica, imperversò…nel 1850 fu
ufficialmente abolita la libertà di stampa [legge del 13 agosto],
addirittura nel 1859 per pubblicare un libro fu necessaria anche
l’autorizzazione preventiva del Vescovo; l’insegnamento fu riconsegnato
alla Chiesa cattolica, il reclutamento dei maestri affidato al clero,
l’ispezione scolastica ai vescovi e l’esame di catechismo reso
obbligatorio per tutti gli insegnanti.
Il regno si trasformò in uno stato di polizia [anche se il
pubblicista Giacinto dè Sivo faceva notare che “chi non aderiva alle
sette godeva di amplissima libertà di fare quello che voleva”],
il Ministero della Polizia, che era stato abolito nel 1848, fu
ristabilito nel 1852, esso disponeva di una rete immensa di
collaboratori e spie. I licenziamenti [per motivi politici]
colpirono praticamente tutta l’intellighentia del regno, dagli
impiegati di banca al direttore del museo di Napoli e degli scavi di
Pompei; i progetti di riforme, persino i più cauti, furono
abbandonati….la metafora della “muraglia della Cina” rende bene il
leitmotif della politica post-quarantottesca, cioè la reclusione”.
L’allontanamento dal regno di molti esponenti di spicco delle scienze e
delle arti, tutti sbrigativamente bollati dal Re come “liberali”,
portò ad un indebolimento complessivo delle Due Sicilie privandole dei
cervelli migliori.
Ferdinando II incarnò sempre più la figura di un autocrate con ministri
che erano dei semplici esecutori dei suoi ordini e quindi non
responsabili personalmente dei loro atti; egli voleva essere tenuto
personalmente al corrente di tutto quello che succedeva nel suo regno e
questo lo costrinse ad un impegno massacrante diviso tra lavoro a
tavolino e lunghe udienze nelle quali ascoltava pazientemente i numerosi
interlocutori che potevano arrivare anche a più di cento in una sola
giornata; molto temute le sue improvvise ispezioni nelle varie province
in cui chiedeva conto agli intendenti del loro operato. L’autocrazia di
Ferdinando II impedì la maturazione di una classe politica dirigente
responsabile, il Sud legò il proprio destino alla sopravvivenza della
persona del Re e lo si vide alla sua prematura scomparsa quando il
figlio, Francesco II, si poté valere, nell’esercizio del potere, quasi
solo di personaggi di settanta e più anni, figli di altre epoche ed
incapaci ad affrontare i problemi dei tempi nuovi. “Temuti gli uomini
di testa, [Ferdinando II] s’andò cercando la mediocrità, perchè
più mogia; non si volle o non si seppe cercare i migliori e porli ai
primi seggi….e per non fidarsi di nessuno, e non aver bisogno
d’intelletti, fu ridotta a macchina l’amministrazione ed il governo…..la
nave dello Stato non provveduta di piloti andò in tempo di calma più
anni barcollando; poi al primo buffo, non trovandosi mano esperta al
timone, senza guida affondò”.
Frequenti le sue incursioni a sorpresa nelle varie province del regno
per verificare di persona lo stato delle cose, il suo senso del dovere
come monarca era così spiccato che lo portò a lasciare la famiglia con
un figlio in fin di vita pur di soccorrere le popolazioni lucane
sofferenti per un violento terremoto.
Ma bisogna rimarcare il fatto che la difesa ad oltranza dell’istituto
monarchico assoluto, da parte di Ferdinando II, non solo era
politicamente debole nei confronti delle istanze liberali delle “intellighentiae”
interne ed internazionali (pur essendo queste ultime asservite ad
interessi non ideali ma di supremazia economica) ma gli inimicò
soprattutto i ceti borghesi meridionali i quali, rafforzatisi proprio
grazie alla grande politica di sviluppo economico del Re, reclamavano
anche una partecipazione politica.
In conclusione, nei momenti della crisi decisiva del 1860, la monarchia
borbonica si trovò alleato solo il popolo minuto e nemiche tutte le
altre componenti della società: gli intellettuali, la borghesia e i
latifondisti che essa, a vario titolo, aveva avversato (mancato
progresso delle istituzioni in senso costituzionale e provvedimenti
antifeudali); per questi motivi, dopo l’annessione del regno
meridionale, furono i contadini e pastori che reagirono alla nuova
realtà col fenomeno del brigantaggio, le altre componenti della società
furono ben liete della caduta dei Borbone.
Giuseppe Ressa
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