Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
Dopo la disfatta della prima guerra del Piemonte contro
l’Austria (1848-49), quest’ultima continuava a tenere
saldamente in mano la penisola sia con domini diretti
sia con stati alleati ma la politica di Napoleone III
mirava a subentrare in Italia agli Asburgo favorendo,
strumentalmente, le mire espansionistiche del Piemonte.
Si sarebbe creato un nuovo e primo ampio stato italiano
vassallo, primo anello di una catena che voleva fare del
Mediterraneo un lago francese, l’occupazione
dell’Algeria (1830) faceva parte di questo piano; anche
l’Inghilterra, perse da tempo le colonie americane,
mirava al controllo del commercio marittimo nel
Mediterraneo e temeva, oltre all’aumento della sfera
d’influenza di Napoleone III in Italia, le mire
espansionistiche transalpine in Egitto dove era in
costruzione, da parte di un’impresa francese, il canale
di Suez, prossima via d’accesso rapido all’India che era
un dominio inglese; quest’ultima era minacciata
contemporaneamente anche dalla Russia che,
impadronendosi del Mar Nero, mirava a portare l’impero
ottomano alla dissoluzione.
La storia unitaria italiana si inserì in questo contesto
geopolitico europeo ed è assurdo attribuire i suoi
sviluppi esclusivamente ai fermenti rivoluzionari come
se si fosse potuta sviluppare “sotto vuoto” senza il
benestare di Francia e Inghilterra, le due superpotenze
che avevano rispettivamente l’esercito e la marina
più potenti del mondo (l’Inghilterra con il suo
impero controllava addirittura un quinto delle terre
emerse): l’Italia era politicamente zero, gli altri
erano in sella da secoli.
Camillo Benso, conte di Cavour, “uocchie ‘e cane e
vocca ‘e lupo”
andò al potere nel 1852 e cominciò l’opera di
“grande tessitore” tentando di rompere l’isolamento
internazionale del piccolo Piemonte con lo scopo di
trovare appoggi stranieri al suo obiettivo politico:
l’espansione territoriale del suo Stato. Egli cercava
l’alleanza di Francia ed Inghilterra, le uniche potenze
che potevano essere disposte ad appoggiarlo allo scopo
di ridimensionare l’influenza dell’Austria sulla
penisola, queste nel marzo 1854 entravano in guerra
contro la Russia a fianco dell’Impero Ottomano per
opporsi alla politica espansionistica dello Zar il quale
aveva occupato due principati danubiani che erano sotto
il dominio turco (guerra di Crimea del 1854-56).
Quando gli inglesi chiesero al Piemonte di inviare
truppe di rinforzo, Cavour accettò malgrado la dura
opposizione interna: 18mila piemontesi partirono
inalberando il vessillo tricolore con lo stemma sabaudo
nel mezzo, le spese di guerra (50 milioni di lire
dell’epoca) furono coperte con un prestito al 3%,
concesso naturalmente dall’Inghilterra; l’accordo non
prevedeva nessuna contropartita a favore del Piemonte.
All’opposto Ferdinando dichiarò la sua neutralità nel
conflitto in corso, respingendo le profferte di alleanza
Francia e Gran Bretagna (chiedevano 40 mila uomini e tre
navi)
alle cui flotte rifiutò di concedere l’uso dei porti
meridionali come scalo per le operazioni di guerra;
inutile dire che questo fermo atteggiamento gli attirò
ulteriormente le ire delle due superpotenze che
reagirono con azioni diplomatiche e propagandistiche
aizzando la stampa “liberale” dei loro due stati contro
il re meridionale. Viceversa Cavour se ne era ingraziato
i favori anche se l’apporto sul campo del suo esercito
fu molto modesto: “I morti erano stati duemila ma quasi
tutti per malattia, di modo che anche quel contributo
non fu tale da pesare molto sul piano politico,
dovendosi necessariamente commisurare ai 14 caduti nel
combattimento e ai 15 morti a seguito delle ferite
riportate: quanto a dire a perdite non superiori a
quelle che le forze alleate subivano ogni notte nelle
operazioni davanti a Sebastopoli.”
C’è da aggiungere che anche oppositori acerrimi del
Borbone, come Luigi Settembrini, pur se costretti al
carcere, plausero la decisione del Re il quale, in
questo modo, riaffermava la sua autonomia perché “è
forse il regno infeudato alla Francia o ad Inghilterra?”;
quelli, invece, costretti all’esilio si espressero per
una partecipazione delle Due Sicilie alla guerra.
La Grande Trama piemontese di espansione territoriale,
ben mascherata dall’ideale unitario, si sviluppò
ulteriormente al congresso di Parigi (14
febbraio-16 aprile 1856) seguito alla guerra di
Crimea. Già il 28 dicembre del 1855 Cavour aveva inviato
agli ambasciatori a Torino di Francia e Inghilterra una
nota nella quale si chiedeva di parlare, nel prossimo
consesso europeo, anche della situazione italiana; poi
si era recato a Parigi a conferire con Napoleone III al
quale consegnò un memoriale nel quale si pregava
l’Imperatore di “obbligare l’Austria a rendere giustizia
al Piemonte e sollevare le condizioni di Veneti e
Lombardi, di sforzare il Re di Napoli a non più
scandalizzare l’Europa (sic!), di far allontanare le
truppe austriache dalla Romagna”.
Così l’8 aprile, in una seduta suppletiva del Congresso,
a pace oramai firmata da dieci giorni, prese la parola
il ministro degli esteri francese Walewskj il quale,
congiuntamente al successivo intervento del
rappresentante inglese Lord Carendon (entrambi
precedentemente catechizzati da Cavour), sollevò la
questione politica italiana puntando l’indice contro lo
Stato della Chiesa e il regno delle Due Sicilie
accusati, col loro malgoverno, di fomentare spinte
rivoluzionarie che potevano mettere in serio pericolo
l’assetto europeo se fossero esplose, si invitò quindi
questi stati a concedere amnistie generali per i
condannati per reati politici e avviare profonde
riforme. Poi parlò Cavour che si scagliò contro
l’Austria affermando che teneva oppressa con le sue
truppe mezza Italia; i delegati austriaci e prussiano
fecero delle obiezioni, rimarcando il fatto che il
Congresso non si era riunito per deliberare sulla
situazione italiana e che, quindi, questi interventi
erano fuori tema; quello russo non spese una parola a
favore di Ferdinando II, malgrado questi avesse impedito
che le flotte alleate, in navigazione per il fronte,
facessero scalo nei porti delle Due Sicilie, disse che
le istruzioni avute dal suo governo riguardavano
esclusivamente le questioni inerenti al trattato di
pace. Dietro le quinte Cavour ebbe colloqui privati con
gli altri inviati diplomatici, esplicitando le sue mire
sui ducati padani e sulle Due Sicilie: la cosa non era
nei patti prebellici e i suoi colleghi ne ricavarono una
pessima impressione, salvo dargli dei “contentini” con
vaghe promesse, come accadde in un incontro ufficiale
con il rappresentante del governo inglese Lord Clarendon:
il piemontese disse: “Milord, Ella vede che non vi è
nulla da sperare dalla diplomazia; sarebbe tempo di
ricorrere ad altri mezzi, almeno per quanto riguarda il
re di Napoli” e l’inglese, di rimando: “Bisogna
occuparsi di Napoli”. “Verrò a trovarvi e ne
parleremo insieme”
rispose il Cavour
che nella stessa sede sondava, col Palmerston, primo
ministro inglese, la possibilità di acquisire la
Sicilia. In realtà egli tornò a Torino a mani vuote, la
sua missione fu un fallimento, come anche egli ammise
nella corrispondenza col suo ministro degli esteri,
nonostante ciò non si può sminuire la circostanza che il
problema politico italiano era stato ufficialmente
sollevato per la prima volta in un consesso europeo,
questo fatto ebbe una grossa risonanza a livello dei
liberali italiani.
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Ferdinando II di Borbone |
Successivamente ai pronunciamenti avversi manifestati al
congresso di Parigi, Ferdinando fece pervenire una nota
di protesta alla Francia rimarcando il fatto che “Aver
egli la coscienza di governare i popoli secondo
giustizia, né l’altrui licenza poterlo spingere a mutar
la sua via ... Egli non transigerebbe mai sul diritto di
sua indipendenza, pronto a soffrir qualunque abuso di
forza, ed alla forza opporre la ragione”.
Il 19 e 21 maggio i rappresentanti diplomatici,
accreditati a Napoli, di Francia e Inghilterra
presentarono delle note ufficiali di biasimo che
Ferdinando rispedì ai mittenti interpretandole come una
lesione alle sue prerogative di sovrano di uno stato
indipendente e affermando che “Se il Congresso stabilì
che nessuno Stato aver diritto di ingerirsi nello Stato
altrui [il principio del non intervento] i
proposti consigli son derogazioni a tale principio … da
ultimo egli mai non essendo entrato nelle cose altrui,
credesi del pari essere egli solo giudice dè bisogni del
suo Regno”;
il 24 maggio l’Austria si ritira dalla Toscana.
Nell’ottobre del 1856, la Francia e l’Inghilterra
ruppero le relazioni diplomatiche con le Due Sicilie
e minacciarono anche l’invio di una spedizione navale
punitiva nel porto di Napoli che però non ebbe luogo.
Persino Luigi Settembrini, dal carcere di Santo Stefano,
affermò con orgoglio: “Io fui condannato a morte, io
sono nell’ergastolo per causa dello Stato, ma io darei
il mio sangue e la mia vita a Ferdinando, se lo
straniero volesse insultare lo Stato, occuparlo,
invaderlo, impadronirsene”.
Il 20 ottobre apparve sul “Moniteur”, il giornale
governativo francese, un articolo in cui si affermava
che “Gli Stati d’Italia ammettono la opportunità di
clemenza e di riforme. Solo Napoli rigetta con alterigia
i consigli…il rigore napoletano agita l’Italia e
compromette l’Europa”. Era fumo negli occhi e, in
realtà, queste parole mostravano chiaramente quali
fossero le pretese egemoniche delle superpotenze
dell’epoca verso gli stati più piccoli, il principio del
“non intervento”, da esse tanto solennemente
proclamato in più occasioni, rimaneva sulla carta tanto
che lo stesso ministro degli esteri francese Walewsky
ebbe a dichiarare all’ambasciatore delle Due Sicilie
Antonini che “Napoli deve sottostare o a Francia
o ad Inghilterra, e deve impedire che esse si
congiungano a suo danno”; Ferdinando II, che difendeva
con orgoglio e con le sue sole forze l’indipendenza del
Sud dell’Italia, stava diventando sempre più scomodo e
inviso a tutti. Il 15 novembre Cavour convocava il
rappresentante diplomatico delle Due Sicilie a Torino,
Canofari, complimentandosi della brillante figura fatta
da Ferdinando II e proponendo un riavvicinamento col
Piemonte, la proposta fu rigettata adducendo come motivo
l’ospitalità che il regno di Sardegna dava agli esuli
politici meridionali che tramavano contro il governo
legittimo, molti di essi volevano collocare sul trono
meridionale Luciano Murat, discendente di Gioacchino.
I liberali continuavano l’opposizione a Ferdinando II e
ci fu anche un tentativo di assassinarlo: l’8
dicembre 1856, durante l’annuale sfilata militare
nel Campo di Marte di Napoli (zona Capodichino), il
mazziniano Agesilao Milano, arruolatosi nella milizia
borbonica nel terzo battaglione cacciatori, allorché
venne a trovarsi a pochi passi dal Re, esce dalle righe
e tenta di ucciderlo con la baionetta, riuscendo solo a
ferirlo leggermente, mentre stava per provarci una
seconda volta fu fermato dal tenente colonnello delle
Ussari La Tour. Il contegno del sovrano fu impeccabile,
non perse la calma e rimase al suo posto, continuando a
osservare il resto dei reparti che sfilavano davanti
alla sua persona, l’azione fu fulminea e pochissimi si
accorsero dell’accaduto, l’attentatore fu immediatamente
condotto in Gendarmeria dopo l’opposizione del re ad una
esecuzione immediata. Alcuni affermano che il Milano
fosse un attentatore isolato e non la mano armata di un
complotto, altri pensano il contrario e chiamano in
causa addirittura la persona di Alessandro Nunziante,
aiutante di Campo di Ferdinando II, prediletto dal Re
che lo colmava di benefici e al quale dava addirittura
del “tu”; non ci sono ovviamente prove definitive ma
indizi: Milano fu arruolato malgrado il suo nome fosse
nella lista degli “attendibili”, cioè dei sospetti
politici, e questo poteva essere possibile solo per
l’azione di un alto ufficiale dell’esercito in combutta
con altri complici, fu proprio Nunziante a insistere
perché il re non commutasse la pena di morte stabilita
nel processo [in modo da evitare eventuali accuse di
complicità da parte dell’attentatore], ci fu un
colloquio in carcere a quattr’occhi tra i due, il
generale dispose che nessuno potesse parlare con Milano
e lo fece sorvegliare strettamente. Ferdinando II
ricevette le felicitazioni, per lo scampato pericolo, da
parte di tutti i rappresentanti diplomatici accreditati
a Napoli eccetto quelli degli Stati Uniti, Svezia e
Regno di Sardegna che inviò una nota solo il 29
dicembre, su sollecitazione pressante del suo
rappresentante nella capitale del Sud, il quale
manifestò il suo grande imbarazzo per questa grave
omissione.
Il 17 dicembre, salta in aria un deposito di munizioni
vicino alla reggia, con 17 morti; il 4 gennaio del
1857 tocca la stessa fine alla fregata a vapore
Carlo III carica di armi e munizioni dirette a Palermo,
ci furono trentotto vittime; non ci sono prove certe che
questi altri due avvenimenti fossero dovuti ad
attentati, ma, comunque sia, impressionarono,
ovviamente, il Re e scossero la sua fede nelle forze
armate di terra
e di mare. Il 25 giugno parte la spedizione di Pisacane
con il “Cagliari”, un battello della società genovese
Rubattino (la stessa che successivamente fornì le navi
per la spedizione dei Mille), essa fu esecrata
ufficialmente da Cavour e repressa nel sangue a Sapri,
in Calabria. Ai comandi dell’imbarcazione c’erano dei
macchinisti inglesi (perchè il Piemonte non ne aveva di
suoi, contrariamente alle Due Sicilie), furono
incarcerati e ne seguì un contenzioso con l’Inghilterra
a cui Ferdinando II dovette cedere con la loro
liberazione e con un indennizzo in denaro, non prima di
aver protestato che faceva ciò “restando tutto alla
volontà assoluta della Gran Bretagna”.
Cavour, all’opposto di Ferdinando, non era isolato
diplomaticamente e giocò spregiudicatamente su due
tavoli sfruttando a suo vantaggio l’appoggio sia della
Francia che dell’Inghilterra: accettò, in tutta
segretezza, la proposta di alleanza della prima, ponendo
le basi per una seconda guerra contro l’Austria,
contemporaneamente si tenne amica la seconda con intensi
contatti diplomatici; il suo obiettivo immediato era
l’unificazione dell’Italia settentrionale e centrale
sotto i Savoia.
Napoleone III
aveva superato indenne l’attentato del mazziniano Felice
Orsini del 14 gennaio 1858 e ricominciò a brigare con
Cavour riproponendo un programma già esplicitato nel
1840 quando “il ministro degli Esteri francese Thiers
andava proponendo all’ambasciatore sardo a Parigi…
un’alleanza militare franco piemontese contro
l’Austria…Unitevi a noi e vi daremo Milano in cambio
della cessione di Nizza e della Savoia, in modo che la
Francia raggiunga i suoi confini naturali e voi
possiatevi finalmente espandervi nella pianura del
Po…nulla trapelava dal chiuso delle cancellerie ma la
Francia continuava ad accarezzare il progetto formulato
per la prima volta nel 1610 da Enrico IV di Borbone col
duca Carlo Emanuele”.
L’imperatore fece sapere a Cavour che avrebbero potuto
vedersi segretamente a Plombiers, una località
termale, il primo ministro piemontese si presentò il
21 luglio 1858, munito di passaporto falso, il
colloquio durò otto ore, come precisa lo statista
piemontese, che il giorno 24 scrive al suo Re una
lunghissima lettera dalla quale si possono ricavare
particolari illuminanti “Appena fui introdotto nel
Gabinetto l’Imperatore mise la conversazione
sull’oggetto che aveva motivato il mio viaggio, cominciò
a dirmi che era pronto ad aiutare la Sardegna con tutte
le sue forze per una guerra contro l’Austria, purché
questa guerra fosse intrapresa per una causa non
rivoluzionaria, la quale potesse giustificarsi agli
occhi della diplomazia e avanti l’opinione pubblica
della Francia e dell’Europa. La ricerca di questa causa
presentando la principale difficoltà……la mia posizione
diveniva imbarazzante perchè non avevo niente altro a
proporre……l’Imperatore mi venne in aiuto e ci mettemmo a
percorrere insieme tutti gli stati d’Italia per cercarvi
questa causa di guerra tanto difficile a trovare……
passammo alla seconda questione: ”Quale sarebbe lo scopo
della guerra?” l’Imperatore mi concesse senza difficoltà
che bisognava cacciare gli Austriaci dall’Italia, e non
lasciare loro un pollice di terreno al di là delle Alpi
e dell’Isonzo. Ma in seguito come si organizzerebbe l’
Italia?”
Su quest’ultimo punto essi siglarono un pre-accordo, che
rimase segreto a tutte le altre potenze europee per
lungo tempo, che stabiliva un ampliamento del regno di
Sardegna con i territori strappati al nemico austriaco
in caso di vittoria, l’incorporazione dei ducati di
Parma, Piacenza e Modena, nonché le Legazioni pontificie
(Bologna e Ferrara) e la Romagna con la creazione di un
Regno dell’Alta Italia; prevedeva, inoltre, la
creazione di un Regno dell’Italia Centrale
comprendente Toscana, Marche, Umbria e parte del Lazio,
dato al cugino Gerolamo Napoleone che aveva anche in
“dote” la figlia di Vittorio Emanuele, Clotilde; questi
4 stati (regno dell’Alta Italia, dell’Italia
centrale, Stato della Chiesa e Regno delle Due Sicilie)
sarebbero stati riuniti in una confederazione sotto la
presidenza onoraria del Papa ma che, di fatto, sarebbe
stata sotto l’influenza francese. In cambio
dell’appoggio alla guerra la Francia avrebbe ottenuto,
oltre al risarcimento delle spese militari, i territori
di Nizza e la Savoia. Le Due Sicilie, nel progetto,
venivano lasciate a Ferdinando II, anche se Napoleone
III non faceva mistero del suo desiderio di rovesciarlo
per metterne a capo suo cugino Luciano Murat (figlio di
Gioacchino, già re francese di Napoli) il quale lanciò
anche un proclama ai popoli delle Due Sicilie,
invitandoli a rovesciare “l’odioso mostro” [Ferdinando
II]. Nel gennaio 1859 ci fu la stesura definitiva in cui
non si parlava più specificatamente di quali territori
da annettere al Piemonte ma solo di quelli che la
Francia avrebbe ottenuto, cioè Nizza e la Savoia.
Rosario Romeo afferma che il convegno di Plombiers “fu
un singolare intreccio di franchezza e di ipocrisia, la
guerra di aggressione progettatavi sarebbe stata
condannata da qualunque tribunale chiamato a giudicare
secondo il diritto internazionale vigente“.
Il 10 gennaio 1859, nel discorso della
Corona del Parlamento piemontese, fu concordato con
Napoleone III, che Vittorio Emanuele pronunciasse la
famosa frase, bellicosa ma non compromettente, per la
quale “Non possiamo restare insensibili alle grida di
dolore che vengono fino a noi da tante parti d’Italia”.
Gli rispose sarcasticamente l’ “Armonia” organo dei
gesuiti che “E il Piemonte che si duole che dopo dieci
anni di libertà non si è potuto ottenere un bilancio
normale e si dispera per l’avvenire, mentre i Napoletani
non invidiano la libertà piemontese, i Toscani di nulla
si dolgono e da Roma non partono che benedizioni”.
Contemporaneamente si irretiva l’Austria con
l’accoglienza data in Piemonte ad alcuni renitenti di
leva lombardi e con il progressivo potenziamento
dell’esercito piemontese che veniva provocatoriamente
schierato nel pressi del fiume Ticino (al confine con il
regno Lombardo Veneto austriaco): “Nel parlamento di
Torino è approvata una legge per la sottoscrizione di un
prestito di cinquanta milioni di lire “per difendersi
dalle mire espansionistiche dell’Austria”. Nella
discussione del 9 febbraio 1859 il marchese Costa di
Beauregard denuncia: “Il Conte di Cavour vuole la
guerra e farà gli estremi sforzi per provocarla. Nella
pericolosa condizione in cui ci ha collocati la sua
politica, la guerra si presenta al suo pensiero come
l’unico mezzo per liberarsi onorevolmente dal debito
spaventoso che ci schiaccia, e di rispondere agli
impegni che ha preso”, il bilancio del regno di
Sardegna di quell’anno “ha un deficit di 24 milioni
di lire che porta il debito pubblico complessivo ad un
totale spaventoso di 750 milioni di lire“
. Era quindi sull’orlo della bancarotta sia a causa
della bilancia commerciale, da anni in passivo, sia
soprattutto per la costosissima politica estera, in
questa situazione l’unica possibilità per evitare il
tracollo finanziario era la conquista di nuovi territori
e come disse l’influente deputato sabaudo Boggio: “Ecco
a dunque il bivio: o la guerra o la bancarotta”. Nel
marzo del 1859, Cavour era oramai divenuto a
pieno titolo “dittatore parlamentare” visto che
assommava sulla sua persona gli incarichi di presidente
del Consiglio, ministro degli Interni, ministro degli
Esteri e, dopo l’inizio delle ostilità, anche ministro
della Guerra e in quel frangente si fece addirittura
sistemare il letto al ministero della Guerra.
La cosiddetta seconda guerra d’indipendenza, in
realtà una vera e propria guerra franco-austriaca,
iniziò il 29 aprile 1859: l’Austria aveva lanciato
al Piemonte, il 23 aprile, un ultimatum di 3 giorni, con
la richiesta di disarmo; esso venne respinto dal Cavour
il quale, tramite la sua politica provocatoria e
sfruttando l’inesperienza dell’Imperatore austriaco
Francesco Giuseppe, riuscì a far apparire, agli occhi
dell’Europa, il suo stato come vittima e gli Asburgo
come aggressori, scattava così la clausola degli accordi
di Plombiers e la Francia doveva scendere in campo. In
realtà questo era già avvenuto nei mesi precedenti con
la mobilitazione dell’esercito francese che era,
all’epoca dei fatti, pienamente operativo, prova ne sia
che esso fu trasferito verso Piemonte via terra (con un
ordine di Napoleone III del 21 aprile, quindi prima che
gli avvenimenti precipitassero) e via mare (il 26,
quindi il giorno stesso della scadenza dell’ultimatum),
una guerra non si prepara in poche ore; per questi
motivi, molti storici affermano che l’Austria fu
costretta ad entrare in guerra, giocando d’anticipo, per
cercare di battere gli avversari sul tempo prima che
organizzassero le loro forze alleate; questo, però, non
fu possibile per la pessima conduzione dell’esercito,
nella fase iniziale del conflitto, da parte
dell’irresoluto comandante Giulay, succeduto al
leggendario maresciallo Radetsky, morto l’anno
precedente. Aggiungiamo, infine, che nei rapporti
diplomatici, gia dall’inizio della primavera si faceva
menzione di un prossimo attacco della Francia
all’Austria.
Contemporaneamente cominciò l’opera di destabilizzazione
interna di alcuni stati preunitari con “spontanee
insurrezioni unitarie” da parte d’agenti sabaudi
infiltrati (spesso carabinieri travestiti), che avevano
provocato la fuga dei sovrani regnanti (il 27 aprile del
Granduca di Toscana, il 9 giugno della duchessa di
Parma, l’11 giugno del duca di Modena; tutti e tre si
rifugiarono nelle braccia dell’Austria; sempre l’11
giugno scoppiano, con le stesse modalità, dei moti in
Emilia Romagna e in Umbria, possedimenti del Papa). Vi
fu la costituzione di governi provvisori con a capo dei
rapacissimi “commissari” piemontesi che misero le mani
sulle casse pubbliche, saccheggiandole, “per sostenere
la causa unitaria”. “La destabilizzazione interna
[dei piccoli stati italiani fu] condotta dagli agenti
cavouriani con le tecniche abitualmente usate dalle
potenze europee in un contesto coloniale: invio di
agenti provocatori, acquisto dei notabili locali,
promesse di carriera ai quadri militari”.
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