Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
Il 20 aprile del 1818 Ferdinando I emanò una direttiva che
uniformava il sistema monetario della parte continentale ed insulare
del regno delle Due Sicilie; l’unità di riferimento teorico della
moneta meridionale, la più solida d’Italia, era il ducato,
presente in circolazione come conio di 10 carlini, un carlino
equivaleva a sua volta a 10 grana, per cui il grano era un centesimo
del ducato; gli “spiccioli” erano rappresentati dal tornese (2
tornesi equivalevano a un grano) e infine dal cavallo (6 cavalli
equivalevano ad un tornese) o in Sicilia per l'appunto il picciolo;
caddero in disuso l’oncia ed il tarì siciliano
.
Usando apposite tabelle di conversione che valutano il potere di
acquisto (1 lira del 1861 equivalente a 7.302,1732 lire del 2001),
considerato che un ducato corrispondeva a 4 lire e 25 centesimi
piemontesi possiamo stabilire che il valore del ducato,
rapportato ai giorni nostri, era di circa 16 € per cui un grano (che
ne era il centesimo) valeva
0.16 €.
Le monete erano coniate in oro, argento e rame; esistevano tagli da
3, 6, 15, 30 ducati e multipli del grano e del tornese; i maestri
incisori della Regia Zecca a S. Agostino Maggiore erano così
rinomati in Europa, per la bellezza delle realizzazioni, che i saggi
di conio dell’istituto d’emissione inglese erano spesso inviati a
Napoli per un parere tecnico. Tutto il sistema, nel suo
complesso, era garantito in oro nel rapporto uno ad uno; la
storia numismatica delle Due Sicilie risaliva a 2500 anni prima con
le zecche della Magna Grecia, quando in molte parti d’Italia e del
mondo era in uso il baratto in natura; ci pensò Garibaldi con il
decreto del
17 agosto 1860
a sopprimere il plurimillenario sistema monetario siciliano e
successivamente il governo unitario mise fuori corso il ducato con
la legge del
24 agosto 1862
.
Le banche (“i banchi”) nel 1700 erano sette (S.Giacomo,
del Salvatore, S.Eligio, del Popolo, dello Spirito Santo, della
Pietà e dei Poveri) e le loro condizioni si mantennero floridissime
fino alla fine del secolo; nel 1803 ci fu il primo accorpamento che
fu completato il 12 dicembre del 1816 con la creazione del “Banco
delle Due Sicilie” che successivamente si chiamò “Banco di Napoli”
nella parte continentale del regno e “Banco di Sicilia” nell’isola
. In questi
istituti si aprivano conti correnti (la quantità di denaro
depositato era enorme) e si concedevano prestiti a mutuo o su pegni,
come negli antichi banchi, ma a tasso troppo elevato, “in certe
province non si trova denaro sopra ipoteca neppure al 12% o al 15%”
per cui si
può affermare che il sistema creditizio era imbalsamato rispetto
alle potenzialità economiche meridionali, per questo motivo Carano
Donvito bolla il Banco di Napoli come “una meschina istituzione di
deposito”
.
Il costo della vita era basso rispetto agli altri stati preunitari
e lo si può dimostrare paragonando i salari, che pure non erano
certo elevati, con il costo dei generi di prima necessità; la
giornata di lavoro di un contadino era pagata 15-20 grana, quella
degli operai generici dai 20 ai 40 grana, 55 per quelli
specializzati; 80 grana spettavano ai maestri d’opera; a tali
retribuzioni veniva aggiunto un soprassoldo giornaliero di 10-15
grana per il vitto; un impiegato statale percepiva 15 ducati al
mese, un tenente di fanteria 23 ducati, un colonnello di fanteria
105 ducati
;
di contro, un rotolo di pane (890
grammi)
costava 6 grana , un equivalente di maccheroni 8 grana, di carne
bovina 16 grana; un litro di vino 3 grana, tre pizze 2 grana.
Il livello impositivo era il più mite di tutti gli Stati Italiani;
per quanto riguarda la contribuzione diretta era in pratica basato
solo sull’imposta fondiaria , le ritenute fiscali partecipavano solo per il 3.2%.
Tav.1 – Il prelievo fiscale diretto nelle Due Sicilie
Imposta fondiaria |
Ducati |
6.150.000 |
Addizionali per il debito
pubblico |
Ducati |
615.000 |
Addizionali per le Province |
Ducati |
307.500 |
Esazione |
Ducati |
282.900 |
Totale |
Ducati |
7.355.400 |
Le tasse indirette erano solo quattro.
Tav.2 – Gli strumenti fiscali indiretti nelle Due Sicilie
Dazi (dogane e monopoli). |
Imposta del Registro e bollo. |
Tassa postale. |
Imposta sulla Lotteria. |
Sulla tomba di Tanucci, ministro delle finanze per 40 anni, troviamo
scritto che non impose nuovi balzelli
, viceversa
nel periodo
1848-1860 il governo piemontese impone ben 22 nuovi tributi.
Le entrate totali dello Stato erano percentualmente
divise in queste proporzioni: ”la fondiaria partecipava per il 30%
del totale complessivo; i dazi per il 40%; del rimanente 30% , il 12
era assicurato dalla Sicilia come contributo alle spese generali
dello Stato ed il 18% era diviso tra 17 altri capitoli, che
concorrevano con percentuali irrisorie”.
“Il bilancio del regno delle Due Sicilie nasce storicamente con un
debito pubblico di 20 milioni di ducati ereditato dal governo
francese di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat, un peso notevole
che era pari ad oltre un’annata di entrate fiscali; l’Austria impose
di estinguerlo a breve distanza e le scadenze furono previste sino
al 1819; per fare ciò il governo dovette ricorrere al prestito ma
non si trovarono banche internazionali disponibili, per cui, ad
accollarsi il compito, fu la debole struttura napoletana del credito
che, come in molti altri paesi, era frammista a quella mercantile.
Sfortunatamente il costo
del denaro nel
Mezzogiorno oscillava dal 20 al 30% (a Parigi
era del 6%)
per cui per avere un prestito 1.000.000 di ducati invece di
essercene 60mila di interessi, si arrivava almeno a 200.000. Per
pagarli lo Stato pensò di aumentare le entrate ma questo non fu
possibile perchè gli agricoltori erano già oberati dall’imposta
fondiaria e l’industria, appena nascente, non poteva sopportare un
carico fiscale; a questo bisogna aggiungere la necessità, per
permettere alla classe mercantile-bancaria di finanziare il debito
pubblico, di confermare l’abolizione dell’imposta personale, già
eliminata da Murat; furono anche soppresse le patenti per i
professionisti in modo da incentivare il loro contributo al
finanziamento del debito pubblico tramite l’acquisto dei titoli di
stato (una specie di BOT); da allora queste categorie non furono più
colpite dal fisco e la borghesia meridionale cominciò così la sua
ascesa economica.
Impossibilitato, quindi, ad aumentare le entrate, il governo decise,
per incrementare i mezzi finanziari, di razionalizzare la
spesa pubblica: l’85 % di essa fu dirottata sui ministeri delle
Finanze, della Guerra (l’odierno ministero della Difesa) e della
Marina, dovendo questi provvedere agli stipendi degli impiegati, al
debito pubblico e alle forze armate, tre tipi di spese ritenute
inderogabili; agli altri ministeri rimase solo il 15%, a quello dei
Lavori Pubblici andava un pò più del 5% del totale delle uscite.
Nel 1820 il regno era ormai sull’orlo della bancarotta col debito
pubblico salito a 30 milioni di ducati, un colpo quasi mortale fu il
costo del mantenimento dell’esercito austriaco venuto a reprimere la
svolta costituzionale di quell’anno; esso rimase nelle Due Sicilie
fino al 1827 gravando il bilancio per l’astronomica cifra di 50
milioni di ducati e portando il debito a 80 nel 1825 e poi 110
milioni nel 1827. A correre in soccorso del regno arrivarono gli
onnipresenti banchieri Rothschild che permisero allo stato di
riprendere fiato ma la mancata estensione della base dei
contribuenti impedì che si potesse diminuire il debito pubblico;
solo una accuratissima politica di gestione delle spese impedì che
questo salisse ancora per cui, nel 1860, era agli stessi livelli del
1827: 110 milioni di ducati.”.
Giovanni Carano-Donvito, autore del testo fondamentale “L’economia
meridionale prima e dopo il Risorgimento”
fa un analisi piu’ severa, egli afferma che la politica finanziaria
delle Due Sicilie era stata strutturata
per scelta
sul contenimento della spesa pubblica “pur di contenere al massimo
le pubbliche entrate”, addossando “il carico tributario alla classi
meno querule, piu’ docili”. Ammette, pero’, che “prima dell’avvento
delle moderne forme costituzionali di Governo, fu politica generale
di quasi tutti gli stati di ricorrere il meno possibile ad entrate
tributarie, spesso piu’ per ragioni politiche che economiche” [per
ingraziarsi il popolo]. L’autore critica la equità della imposta
fondiaria che si basava su rilevamenti catastali, iniziati nel
1807-8 nella parte continentale del regno e terminati in Sicilia
solo nel 1853, che egli giudica non precisi, per l’esistenza di
favoritismi e arbitri che si verificarono nelle ricognizioni dei
terreni: “il tributo fondiario dovea riuscire grave e molesto più
per lo eccesso delle valutazioni, per la non equa ripartizione di
esso”.
Per quanto riguarda le
imposte indirette il Carano-Donvito conferma la grande mitezza di
quella sugli Atti, Registro e Bolli “per questo lato le condizioni
furono eccezionalmente favorevoli ai contribuenti dell’ex Regno.
Inoltre non è a dimenticare che le imposte successorie, cosi’
gravose in tutti gli Stati, furono completamente sconosciute ai
napoletani”
Giuseppe Ressa
l'Oncia, circolante in coni da 1 e da 2, e valeva 3
Ducati. Era suddivisa in 30 Tarì, ovvero in 300
Baiocchi. Il Grano (pari a mezzo Baiocco,
o a 6 Piccioli) valeva quindi 2 Grana napoletani.
[2] Michele Vocino,
“Primati del regno di Napoli”,
Mele editore
[3]
A. Scialoja,
“I Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati sardi”,
Torino, Guidoni, 1857, pag.28
[4]
“L’economia meridionale prima e dopo il Risorgimento”,
Vallecchi, Firenze, 1928, pag.106
[5] Boeri, Crociati, Fiorentino
“L’esercito borbonico dal 1830 al 1861“,
Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 1998
[6]
l’unità di peso era il cantaro o cantaio ed
equivaleva a 89,100 chili; il rotolo era la centesima
parte del cantaro.
[7] Decreto del 10 agosto
1815.
[9]
Vincenzo Gulì,
“Il saccheggio del Sud”,
Campania Bella editore.
[11]
Nicola Ostuni,
Napoli Comune Napoli Capitale, Liguori, 1999,
pag.178
[12]
Nicola Ostuni,
Napoli Comune Napoli Capitale, Liguori, 1999,
in prefazione e conclusione, modif.
[13]
“L’economia meridionale prima e dopo il Risorgimento”,Vallecchi, Firenze, 1928, pag. 27 e successive.
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