Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
Bisogna risalire ai tempi dell’imperatore romano d’oriente Giustiniano per trovare, in Italia, uno Stato unitario; dopo l’invasione dei Longobardi del 568 si ruppe l’unità politica e ci furono 1300 anni di divisioni che generarono nazioni diverse, almeno nel comune sentire del popolo, ognuna delle quali ebbe storia, cultura, usi e costumi propri, questi ultimi erano molto diversi tra le vari Stati preunitari italiani, persino l’alimentazione prevedeva, al Sud, cibi di cui il Nord ignorava persino l’esistenza e viceversa. Questo processo si esaltò nel Mezzogiorno perchè esso “rimase in parte estraneo alla penetrazione longobarda sia per le persistenze bizantine sia per la costituzione subito dopo l‘anno Mille, grazie ai Normanni, del primo stato unitario dell’Italia postromana …una “nazione napoletana”, ossia meridionale, comprendente tutte le genti dal fiume Tronto allo stretto di Messina”.
Per questi motivi, a livello popolare, l’idea di un Stato Italiano unitario come Patria comune, era completamente assente, tanto che, per esempio, la popolazione delle Due Sicilie chiamava “forestieri” gli altri abitanti d’Italia e i piemontesi, quando si spostavano dal loro stato, affermavano che andavano “in Italia“; il popolo includeva nel suo concetto di “patria” lo stato italiano d’appartenenza e questo gli bastava.
A metà del 1800 ce n’erano ben 7 di cui solo 3 erano pienamente indipendenti: Regno delle Due Sicilie, che era il più esteso e il più ricco, il Regno di Sardegna e lo Stato della Chiesa; gli altri 4 erano sotto il dominio diretto o indiretto dell’Austria: regno Lombardo Veneto; ducati di Parma e Modena; granducato di Toscana (alla fine del Settecento gli stati italiani erano addirittura 12, ridotti a 9 dal Congresso di Vienna del 1815). Afferma Giorgio Rumi, professore ordinario di storia contemporanea: “Queste Italie diverse, che c’erano prima dell’unità, erano nazioni che avevano ciascuna una propria dignità, esistevano indipendentemente dall’esito risorgimentale e la cui rispettabilità non può essere certo misurata solo secondo la loro adesione al progetto risorgimentale.” Ben diversa la realtà degli altri stati europei che da tempo avevano raggiunto la loro unità politica statale: la Spagna nel 1469; la Francia dal 1492; l’Inghilterra nel 1066; la Russia nel 1580; la Svezia dal 1632.
La lingua “ufficiale” di Stato era l’italiano in tutti i regni italiani, tranne che nel Piemonte (dove era il francese), ma in realtà nella Penisola non esisteva una lingua comune parlata e gli italiani italofoni nel 1861 erano solo una sparuta minoranza, il 2.5% secondo T. De Mauro, il 9.5% secondo A. Castellani e, di questi, i toscani erano la massima parte; tutti si esprimevano nel proprio dialetto; ancora a metà degli anni Cinquanta del 1900 il 60% degli italiani parlava solo il dialetto locale. In Piemonte si parlava, si scriveva e si pensava in francese, il poeta Giacomo Leopardi scriveva che: “i francesi fossero considerati dai piemontesi come veri compatrioti”; i ricchi mandavano i figli studiare in Francia, questi giovani, una volta adulti, leggevano giornali francesi e s’interessavano dei fatti d’Oltralpe, lo stesso Statuto Albertino fu scritto prima in francese e poi tradotto in italiano; tutto questo faceva dire che “se tra le varie contrade italiane vi è più e meno d’italianità è indubitato che il Piemonte è il meno italiano di tutte, ed ha a capo un principe che men di tutti ha in bocca l’idioma del sì.” “I Savoia si erano italianizzati scendendo con i secoli e con il Po, come dice beffardo Carlo Cattaneo, ma a Corte, abbandonata ogni formalità, il re e i suoi ministri parlavano più volentieri il dialetto…nelle scuole piemontesi era obbligatorio parlare in dialetto. Cavour e, dopo di lui la regina Margherita, consorte di Umberto I, secondo re d’Italia, non si trovarono mai a completo agio con l’italiano, Margherita [e Cavour] teneva la sua corrispondenza in francese; quando si cimentava con l’italiano sbagliava tutti i verbi e non riusciva a scrivere una semplice lettera senza infarcirla di errori di sintassi e di ortografia, come un bambino delle elementari”.
L’analisi genetica degli italiani (dallo studio di 40 frequenze geniche del DNA) mostra come ancora oggi il nostro paese sia un mosaico di gruppi etnici ben differenziati che coincide con la distribuzione delle lingue parlate in Italia nel VI secolo avanti Cristo, questo suggerisce che la romanizzazione dell’Italia non abbia inciso in maniera sostanziale dal punto di vista genetico né tanto meno dal punto di vista linguistico se è vero che, anche oggi, ciascuna regione della penisola parla un dialetto diverso in cui si ritrovano “relitti” delle lingue usate dalle popolazioni pre-romaniche le quali erano distinte in più di 10 gruppi diversi .
Non c’era, ai tempi dell’unità d’Italia, un’economia integrata tanto che solo il 20% dei commerci degli stati preunitari erano diretti verso le altre regioni della penisola. Alla fine possiamo dire che solo la religione era patrimonio comune di tutti gli abitanti della Penisola, quest’ultima, in sostanza, era come un condominio, si viveva sotto uno stesso tetto (le Alpi) ma ci si ignorava e spesso si litigava. La composizione sociale della popolazione italiana complessiva era: 55-60% contadini; addetti al settore manifatturiero 18% al Sud, 15 % al Nord; al commercio e alla navigazione 20% (quest’ultimo settore quasi a totale carico delle Due Sicilie); il rimanente 10% era composto da professionisti, ecclesiastici e persone che vivevano di rendita. |
Carta dell'Italia del 1770 |
Prima di parlare dei progetti politici unitari italiani dobbiamo distinguere due concetti: quello di Stato e quello di Nazione e per questo trascriviamo le definizioni del Dizionario della Lingua Italiana Zingarelli: “Stato” è “persona giuridica territoriale sovrana, costituita dalla organizzazione politica di un gruppo sociale stanziato stabilmente su un territorio” mentre “Nazione” è “il complesso di individui legati da una stessa lingua, storia, civiltà, interessi, aspirazioni, specie quando hanno coscienza di questo patrimonio comune”; da questo ne deriva che possa esserci uno stato costituito da più nazioni come possa anche esistere una nazione senza stato (come esempi dei giorni nostri possiamo pensare nel primo caso alla Gran Bretagna, nel secondo ai Curdi). Il 1800 fu il secolo in cui si sviluppò, a livello di ristrette elites, il “principio di nazionalità” che reclamava, inizialmente, il diritto all’autodeterminazione, cioè autonomia amministrativa e culturale (come l’insegnamento della propria lingua nelle scuole) dei gruppi definiti come nazioni; nella seconda parte del secolo, invece, qualsiasi gruppo che si autodefiniva “nazione” si sentì giustificato a reclamare non solo una semplice autodeterminazione ma uno Stato indipendente politicamente: si passò, così, dalle dodici entità nazionali che Giuseppe Mazzini vedeva destinate, a metà dell’ottocento, alla costituzione dell’ “Europa dei popoli” ai ben 27 stati nati alla fine della prima guerra mondiale, che vide il dissolvimento dello stato multinazionale per eccellenza, quello asburgico, che conteneva ben 11 gruppi etnici ed era diventato incompatibile, ormai, con questa nuova visione “nazionale”, non più autonomistica ma indipendentistica.
Questo principio di nazionalità era sentito, almeno nei primi due terzi del secolo, solo dalle classi dominanti, culturali ed economiche, delle singole nazioni nelle quali, al contrario, la maggioranza degli individui, da sempre, si sentiva legata solo alla propria comunità di appartenenza (villaggi, borghi, piccole città) dove era nata e dove, nella massima parte dei casi, trascorreva quasi totalmente la propria esistenza. Solo pochi privilegiati, infatti, si potevano concedere il lusso di un viaggio che poteva anche aprir loro piu’ vasti orizzonti mentali e che, peraltro, si conduceva con mezzi di trasporto simili a quelli dei tempi degli antichi romani: cavallo e navi; il treno cominciava a muovere i primi passi, non esisteva il telefono, gli unici mezzi di comunicazione a distanza erano la posta e il telegrafo (ancora rudimentale).
Questi milioni di persone senza il senso di appartenenza a una “nazionalità” furono plasmate, dalle classi dominanti degli stati nazionali, a sentirsi parte degli stessi perché lo Stato, per mantenersi coeso, aveva bisogno di creare un sentimento comune di nazione che diventò, la nuova “religione civica”, nacque, così, il “patriottismo”. La scuola fu il più formidabile mezzo di propaganda laico che formava, fin dalle elementari, il nuovo cittadino “statale”. Persino i monarchi europei, i quali appartenevano molto di più alla loro grande famiglia aristocratica (essendo tutti apparentati tra loro), che alle entità nazionali dei propri sudditi, dovettero cedere al principio di nazionalità, trasformandosi in britanni (come la regina Vittoria) o in greci (come Ottone di Baviera) o imparando la lingua (che spesso parlavano con un accento goffamente straniero) della nazione della quale erano a capo, nella veste di sovrani o coniugi degli stessi. Fu questa la premessa da cui si scivolò, quasi fatalmente, nella seconda parte del 1800, dal “principio di nazionalità” al “culto della nazionalità” cioè i “nazionalismi” in cui le singole nazioni non si consideravano più “alla pari” delle altre ma “migliori”; si autodefinivano, infatti, a seconda dei casi, più “civili”, più “libere”, più abili a mantenere l’ “ordine” o la “legge”. Le decine di milioni di persone che imbracciarono il fucile, e che morirono, nei due conflitti mondiali del 1900, non erano andate alla guerra per il gusto di combattere, per amore della violenza e di eroismo; al contrario, la propaganda interna dei singoli stati nazionali “nazionalisti” dimostra che il punto da mettere in risalto non era la gloria e la conquista ma il fatto che “noi” eravamo vittime dell’aggressione, dell’accerchiamento di nazioni ostili che rappresentavano una minaccia per la civiltà incarnata da “noi”; il mondo sarebbe diventato migliore grazie alla “nostra” vittoria, così, ad esempio, i Tedeschi venivano chiamati, nella prima guerra mondiale, gli “Unni”, anche dal fante semplice di trincea. [13] . La “logica” del nazionalismo offuscò la mente anche di personaggi culturalmente superiori, e quindi poco “manipolabili” dalla propaganda, essi si aggregarono entusiasticamente al comune sentire delle masse popolari le quali rimasero in gran parte insensibili ai richiami dell’Internazionale socialista che affermava la guerra non essere nei loro interessi di proletari ma solo delle classi dominanti, e che si recarono entusiasticamente nei luoghi di raduno delle truppe in partenza per i vari fronti di guerra, lanciando fiori e proclamando ad alta voce “Sarete presto a Berlino”, “Sarete presto a Parigi!”.
Giuseppe Ressa |