L’epoca
delle rivoluzioni borghesi: i 4 leoni
1. Nel 1868, dopo l’unità
d’Italia, venne inaugurato, in Piazza dei Màrtiri a Napoli, il
monumento che tuttora vi si vede, consistente in una colonna
sormontata dalla dèa Vittoria alata, per ricordare appunto i
“màrtiri” napoletani delle rivoluzioni contro i Borboni.
2. Alla base della colonna, si
possono notare 4 leoni, in quattro diversi atteggiamenti: il
primo, un leone morente, rappresenta la sconfitta Repubblica
napoletana del 1799; il secondo, trafitto da una spada e che
però si volge per morderla, rappresenta i moti carbonari del
1820-21; il terzo, che si agita vinto ma non dòmo, rappresenta
la sommossa del 1848; ed infine il quarto, un leone che si èrge
vittorioso, rappresenta l’annessione al Regno d’Italia nel 1860
in cui consisterebbe la “Vittoria”.
3. In effetti, sono queste le
quattro successive tappe attraverso le quali, alla luce degli
ideali proclamati dalla rivoluzione francese (liberté-egalité-fraternité:
la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del
1789), la classe borghese meridionale, animata e guidata dalla
sua avanguardia intellettuale, condusse la lotta contro il
precedente regime aristocratico e feudale e per l’affermazione
di una società fatta a sua immagine, pervenendo in ultimo a
confluire nel Regno d’Italia, unito sotto la dinastia
Sabàuda, indipendente da altri Stati, e retto da
istituzioni di tipo liberale.
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La presa della Bastiglia |
4. Nell’Italia meridionale, a
condurre questa lotta fu anzitutto la borghesia agraria (i
“possidenti”), i professionisti, i commercianti più agiati: in
sostanza, “il medio ceto di professionisti nella capitale e di
nuovi proprietari nelle provincie”, per dirla con il Croce.
Quella borghesia, cioè, che “in tutti i concetti dei
riformatori, nella liquidazione della proprietà
ecclesiastica, nella liberazione dai vìncoli feudali, nella
divisione dei demàni, nella sostituzione dei tribunali règi ai
baronali, nella libertà dei commerci, ritrovava i propri
interessi”
.
5. Restavano però “fuori di
lei, intatti da lei, non solo l’immensa plebe della capitale e
il minuto popolo degli artigiani, e il numeroso sciame di
servitori e cortigiani che si moveva attorno ai patrizi e
baroni; ma la maggior parte della popolazione del regno, i
contadini e pastori...”
.
6. E’ ben vero che quelle masse
erano gravate da secoli di miseria e di ignoranza, e mancavano
di una vera e propria educazione politica, anche se questo non
aveva impedito loro di partecipare, ad esempio, alla rivolta di
Masaniello; ma è vero soprattutto che esse non trovavano,
nelle idee e nei programmi dei “rivoluzionari”, le loro esigenze
e le loro aspirazioni sociali più profonde, come poi ben si
vide quando (in parte, nel decennio francese e poi, in tutto,
nell’Italia unita) quelle idee e quei programmi furono
realizzati.
7. Ciò spiega, tra l’altro, il
fatto che anche il Casale della Barra, la cui popolazione era
appunto composta, nella quasi totalità, da contadini e da servi
ed artigiani economicamente dipendenti dalla nobiltà, non
partecipò attivamente al moto risorgimentale.
8. Solo poche persone,
appartenenti ad alcune famiglie borghesi, furono “militanti”
liberali, ma il Casale nel suo complesso tenne costantemente
per la parte borbonica: dall’inizio (1799), quando i Barresi
combatterono contro l’esercito della Repubblica ed a favore di
quello della “Santa Fede” del card. Ruffo, sino alla fine (1860)
quando la popolazione si rifiutò di partecipare al plebiscito
che doveva sancìre l’annessione del Regno delle due Sicilie al
Regno d’Italia.
La Repubblica napoletana (21
gennaio - 13 giugno 1799)
9. La
Repubblica napoletana ebbe nascita avventurosa, vita breve, fine
tragica
.
10. Essa si reggeva
sull’alleanza, peraltro conflittuale, fra le truppe francesi di
occupazione ed il piccolo gruppo dei “giacobini” napoletani e,
quando i Francesi abbandonarono la città, fu rapidamente
travolta dalle masse della “Santa Fede”: contadini e làzzari,
mobilitati dal card. Fabrizio Ruffo in nome del re e della
religione, che marciarono sulla capitale muovendo dalla
Calabria.
11. Non si presume certo, qui,
di narrare interamente la vicenda della Repubblica, sulla quale
peraltro esiste ampia e prestigiosa bibliografia
, bensì
semplicemente cercare di cogliere in qual modo, in quella
vicenda, anche Barra in particolare fu implicata.
12. E’ tuttavia indispensabile
premettere brevemente alcune notizie per inquadrare nel loro
contesto storico gli avvenimenti di quei 144 giorni.
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La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino |
L’esercito francese in Italia
(1796)
13. La vicenda inizia nel 1796,
quando la Francia, ormai post-rivoluzionaria, è guidata
dal Direttorio (un gruppo di 5 ricchi borghesi, politicamente
mediocri e notoriamente corrotti) e comincia a mettersi in luce
un giovane ed ambizioso generale, di nome Napoleone Bonaparte.
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Napoleone |
14. Nel marzo 1796, grazie ai
suoi meriti di ufficiale d’artiglieria (il mese di
ottobre dell’anno precedente, aveva represso nel sangue un
tentativo di insurrezione popolare realista a Parigi, sparando
con i cannoni ad alzo zero sulla folla) e grazie ai meriti di
alcòva della sua abile e spregiudicata neo-consorte,
Giuseppina vedova Beauharnais … il Direttorio diede mandato al
generale Bonaparte di invadere l’Italia del Nord.
15. Il fine strategico
della spedizione era quello di neutralizzare il Piemonte
(alleato dell’Austria) e costringere gli Austriaci a sgomberare
il più possibile l’Italia settentrionale, per liberare il
confine francese dalla costante minaccia di invasione.
16. Quanto al resto, le
istruzioni del Direttorio a Bonaparte erano abbastanza
trasparenti: primo, asportare dall’Italia tutto quello
che si poteva (opere d’arte, reperti archeologici, intere
biblioteche, manoscritti antichi, etc. etc.) nonché imporre
tassazioni di conquista, per mantenere l’esercito e ristorare le
esangui casse dello Stato francese (cosa che Napoleone eseguì
scrupolosamente: portò a Parigi perfino i “Cavalli di S.
Marco”); secondo, evitare in ogni caso che, nei territori
conquistati, nascessero repubbliche rivoluzionarie di tipo
giacobino, sul tipo di quella appena stroncata dal Direttorio in
Francia.
17. Non ostante ciò, un
piccolo gruppo di intellettuali borghesi della penisola, che
aveva seguito (da lontano) gli eventi della rivoluzione francese
e si era entusiasmato alla “Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo e del cittadino”, credette (volle
credere) alla propaganda francese che presentava Bonaparte come
“il liberatore dei popoli”.
18. Essi pensarono, in
sostanza, che l’egemonia francese fosse, al momento,
preferibile a quella austriaca al fine di introdurre anche
nella penisola istituzioni di tipo più liberale; ed i più
lungimiranti la videro anche come una possibile tappa verso una
futura unificazione nazionale italiana.
19. Il risultato fu non di meno
che, alla fine della sua prima “Campagna d’Italia”, Napoleone
firmò con l’Austria il Trattato di Campoformio (17 ottobre 1797)
con il quale, da una parte gli Austriaci si impadronivano
della pluri-secolare Repubblica veneta indipendente, cedendo in
cambio alla Francia i Paesi Bassi e la riva sinistra del Reno; e
dall’altra venivano costituite la Repubblica ligure e la
Repubblica cisalpina, ambedue sotto il controllo francese.
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La battaglia navale di Aboukir 1° agosto 1798 |
Il Papa prigioniero (1798-99)
20. Poco dopo, le truppe
francesi invadevano anche lo Stato pontificio: il 15 febbraio
1798 venne proclamata la Repubblica romana ed il papa Pio VI,
già ultra-ottantenne, condotto prigioniero prima a Siena, poi a
Firenze, poi a Bologna ed infine in Francia, nella fortezza di
Valence, dove morì, unico Papa dell’età moderna morto in esilio
ed in prigionìa, il 29 agosto del fatale 1799.
21. Il papa morì pregando
cristianamente: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che
fanno”. Ma il Municipio borghese post-rivoluzionario di
Valence si comportò in modo decisamente ignobile: la
salma del pontefice venne lasciata insepolta per 5 mesi, fino al
29 gennaio del 1800, quando venne deposto in una cassa di quelle
che il Municipio forniva gratuitamente agli indigenti, sulla
quale fu scritto: “Cittadino Giovanni Angelo Braschi – In arte:
papa”, e sepolto nel locale cimitero. Successivamente, il
Municipio inviò formale comunicazione a Parigi, aggiungendo la
derisoria ma fallace profezia che si era così sepolto “l’ultimo
papa della storia”.
La Campagna di Egitto (1798) e di Siria (1799)
22. Nel frattempo, conclusa
ufficialmente la “Campagna d’Italia” col Trattato di Campoformio,
il generale Bonaparte ottenne dal Direttorio il mandato per una
“Campagna d’Egitto”: l’idea era quella di dare un colpo mortale
all’Inghilterra, colpendola nelle sue colonie e nei suoi
traffici con l’Oriente, ma le cose non andarono come previsto.
23. Il 19 maggio 1798 la flotta
francese partì per l’Egitto.
Il 9 giugno conquistò l’isola
di Malta, violandone proditoriamente la neutralità e senza alcun
combattimento, anche perché i gloriosi Cavalieri tennero fede ai
voti religiosi che vietavano loro di combattere contro dei
cristiani battezzati, pur miscredenti come i Francesi.
Il 1°luglio Bonaparte sbarcò ad
Alessandria d’Egitto ed il 24 dello stesso mese entrò vincitore
al Cairo, ma il 1°agosto la flotta francese venne distrutta ad
Abukir dall’ammiraglio inglese Horatio Nelson.
Non dòmo, nel successivo anno
1799, il Bonaparte progettò una spedizione ancora più ad
oriente, “sulle orme di Alessandro Magno”, per conquistare la
Siria: il 25 febbraio entrò in Gaza ed il 19 marzo cinse
d’assedio la gloriosa rocca di S. Giovanni d’Acri ma dopo 8
inutili tentativi di assalto, abbandonò l’impresa e ritornò in
Francia, dove aveva cose più importanti da fare, e dove sbarcò
il 9 ottobre.
Il colpo di stato del 18 Brumaio
24. Poco dopo, il 9 novembre
1799 (18 Brumaio del calendario rivoluzionario), con un
colpo di stato militare, il generale Napoleone Bonaparte
rovesciò il Direttorio e si appropriò di tutto il potere,
con il titolo, per ora, di “Primo Cònsole”.
L’alta borghesia francese aveva
finalmente trovato il suo braccio armato, e la borghesia degli
altri paesi europei, il suo primo mito vincente; ma i popoli
avevano invece trovato un nuovo massacratore, e la storia un
nuovo tipo di tiranno: l’imperatore borghese.
Nel Regno di Napoli
25. Proprio in quello stesso
anno 1799 nel quale, in Francia, il Papa Pio VI muore
prigioniero (29 agosto) e Napoleone si impadronisce del potere
(9 novembre), Napoli vive la convulsa vicenda della sua
Repubblica (gennaio-giugno).
26. Dopo l’occupazione di Roma
da parte dei francesi (febbraio 1798), il Regno napoletano era
l’unico Stato della penisola rimasto ancora libero ed
indipendente: vedendosi chiaramente minacciato, affrettò la sua
adesione alla nuova (la seconda) coalizione anti-francese
che comprendeva l’Inghilterra, l’Austria, la Russia e l’Impero
Ottomano, con una serie di trattati bilaterali conclusi fra il
maggio e il dicembre del 1798.
27. Così, il 22 settembre di
quell’anno, l’ammiraglio inglese Horatio Nelson venne accolto a
Napoli da trionfatore, dopo la vittoriosa battaglia di Abukir.
L’infelice “marcia su Roma” di
Ferdinando di Borbone
28. Dopo di che, meno per
propria convinzione che sospinto dagli alleati, Ferdinando di
Borbone armò, con una “leva” di massa improvvisata ed
impopolare, ed un’altrettanto impopolare “colletta” di guerra,
un nuovo esercito che, sotto la guida del generale austriaco
Mack e fiancheggiato dal mare dalla flotta inglese di
Nelson, doveva liberare Roma e restituire la città al Papa.
29. Probabilmente, in quelle
circostanze, la scelta più saggia, suggerita peraltro da alcuni
ministri, sarebbe stata quella di adottare una strategia
difensiva: schierare perentoriamente l’esercito napoletano,
già esistente, lungo il confine con la nuova Repubblica romana,
allo scopo di scoraggiare eventuali attacchi francesi.
30. Purtroppo, prevalse invece
la scelta della strategia offensiva, caldeggiata dall’eroico
ammiraglio inglese Nelson e dalla regina consorte Maria
Carolina, su cui peraltro lo stesso Nelson aveva molta
influenza, grazie alla famosa Lady Hamilton, la quale era
contemporaneamente la moglie dell’ambasciatore inglese a Napoli
(Lord Hamilton), l’amante di Nelson e l’amica (sembra,
safficamente) della regina. Non è trascurabile, inoltre, il
fatto che
la regina di Napoli, Maria Carolina, era sorella della regina di
Francia, Maria Antonietta, ghigliottinata pochi anni prima dai
francesi.
31. Così, nel novembre 1798, le
forze napoletane entrarono nella Repubblica romana, e questo fu
“il princìpio dei guai”.
32. Il generale francese
Championnet lasciò un manipolo a presidiare Castel Sant’Angelo e
abbandonò Roma: il 29 novembre, senza incontrare alcuna
apprezzabile resistenza, Ferdinando entrò nella città eterna.
I Francesi invadono il Regno
33. Concesso però volutamente a
Mack questo effimero successo, i Francesi subito
contrattaccarono in campo aperto: il generale austriaco subì
gravi e ripetute sconfitte, ed il Re ripiegò precipitosamente
verso Napoli, giungendo alla reggia di Caserta la sera dell’11
dicembre, mentre l’armata francese cominciava ad invadere il
Regno.
34. Da questo
momento, ebbe però inizio anche la resistenza popolare
all’invasore ed i Francesi, vittoriosi in pochi giorni contro
l’esercito, impiegarono quasi due mesi per arrivare fino a
Napoli.
“I popoli si
armano; i preti, i frati, i più potenti delle città e dei
villaggi li menano alla guerra; e dove manca superiorità di
condizione, il più ardito è capo. I soldati fuggitivi, a quelle
viste fatti vergognosi, si uniscono ai volontari; le partite,
piccole in sul nascere, tosto ingrandiscono ed in pochi dì sono
masse e moltitudini …
Stupivano i
Francesi, stupivamo noi stessi del mutato animo: senza
esercito, senza re, senza Mack, uscivano i combattenti come
dalla terra, e le schiere francesi, non vinte da numerose
legioni di soldati, adesso menomavano di uomini e di ardimento
contro nemici quasi non visti ...
E’ debito della
storia investigare come i Napoletani, poco innanzi codardi e
fuggitivi, ricomparissero negli stessi campi, contro lo stesso
nemico, valorosi ed arditi …
Nella guerra poco innanzi combattuta, essi, coscritti
nuovi, scontenti della milizia e consapevoli della scontentezza
dei compagni, conoscitori della ignàvia dei capi e sospettosi
della loro fede, mal guidati, mal nutriti, miseri e perdenti,
nessuna qualità di esercito avevano in pregio e praticavano.
Ma non farà
meraviglia se i Napoletani, robusti e sciolti di persona,
abitatori la più parte dei monti, coperti di rozze lane,
nutrendosi di poco grossolano cibo, amanti e gelosi delle donne,
devoti alla chiesa, fedeli al re, allettati dai premi e dalle
prede, andassero vogliosi e fieri a quella guerra per
mantenere le patrie istituzioni e gli altari, ed avendo
libero il ritorno, proprio il consiglio di
combattere, proprio il guadagno, proprio e
bastevole il valore”
.
35. Il 23 dicembre 1798, il re
e la regina lasciarono Napoli: imbarcati sulla nave ammiraglia
della flotta inglese, che guidata da Nelson controllava il
Mediterraneo, giunsero a Palermo, la loro seconda capitale, dove
si insediarono in attesa degli eventi.
36. Il Vicario Generale
lasciato a Napoli, il principe Francesco Pignatelli di Stròngoli,
non riuscì a fronteggiare la situazione e concluse con
Championnet una tregua di due mesi, firmata a Sparanise il 12
gennaio del 1799, con la quale si cedeva ai Francesi la fortezza
di Capua e si garantiva il versamento di una contribuzione di
guerra, una vera e propria taglia, di 2 milioni e mezzo di
ducati.
La lotta dei “làzzari”
37. La notizia della tregua, e
della taglia da versare, scatenò le ire dei làzzari napoletani,
che si sentirono traditi nella loro strenua difesa della patria
napoletana, del trono e dell’altare, e presero direttamente
l’iniziativa: il Vicario Pignatelli fu costretto a fuggire a
Palermo; il Mack si consegnò ai Francesi.
38. Per circa 10 giorni, come
ai tempi di Masaniello, Napoli fu controllata dalla sola plebe,
che acclamò “generali” due giovani ufficiali aristocratici,
Moliterno e Roccaromana, considerati “eroi” della lotta contro i
Francesi, ma che aveva di fatto i propri dirigenti in
capi-popolo come Michele Marino, detto Michele ‘o pazzo
(1753-1799) e Giuseppe Paggio.
39. In quei giorni di egemonìa,
i làzzari trucidarono quanti erano visti come fautori dei
Francesi o troppo arrendevoli verso di essi, saccheggiando le
loro abitazioni, presero il controllo dei forti e dell’arsenale,
e si opposero con tenace resistenza, dal giorno 20 al giorno 23,
all’ingresso in città delle truppe francesi.
40. Frattanto, però, i
“patrioti” napoletani avevano preso contatto con Championnet. Il
giorno 21 gennaio 1799, un piccolo gruppo di essi si impadronì
con uno stratagemma di Castel Sant’Elmo, prendendo di sorpresa i
130 popolani, guidati da Luigi Brandi, che lo occupavano.
41. Subito dopo, proclamarono
la fine della monarchia borbonica ed issarono la bandiera della
Repubblica napoletana, che era il tricolore rosso, giallo
e blu: il rosso e il giallo erano i colori dello stemma del
Seggio del Popolo, e sono tuttora i colori dello stemma del
Comune di Napoli; il blu era tolto dalla bandiera francese.
42. Da quel momento, i cannoni
del Castello spararono contro i quartieri popolari,
favorendo quindi, dall’interno, l’assedio francese. La sera del
23 gennaio, tutta Napoli era occupata dalle truppe di
Championnet. Nella battaglia, perirono circa 1.000 soldati
Francesi ed un numero imprecisato di làzzari napoletani: furono
sepolti in fretta e furia e nessuno li contò, ma si stima che
fossero intorno alle 5.000 persone.
43. Nella sua relazione inviata al Direttorio, il generale
francese scrisse: “Mai combattimento fu più tenace: mai quadro
più spaventoso. I Lazzaroni, questi uomini stupendi (...)
sono degli eroi rinchiusi in Napoli. Ci si batte in tutte le
vie; si contende il terreno palmo a palmo. I Lazzaroni
sono comandati da capi intrepidi. Il Forte S. Elmo li
fulmina; la terribile baionetta li atterra; essi ripiegano
in ordine, ritornano alla carica, avanzano con audacia,
guadagnano spesso del terreno ...”
Il mese di Championnet (23 gennaio - 24
febbraio)
44. Dopo la vittoria,
Championnet non usò il pugno duro. Anzi. Con i làzzari insorti
usò un comportamento di rispetto e, per mostrare al popolo che
la spedizione francese a Napoli aveva anche l’approvazione
divina, entrò in Duomo per assistere ad un miracolo
“straordinario” di S. Gennaro.
45. I “patrioti” di Castel
Sant’Elmo avevano proclamato il 21 gennaio la Repubblica
napoletana: Championnet (ma contro il parere del Direttorio di
Parigi) la riconobbe ufficialmente due giorni dopo, il
23, con un proclama e un decreto.
46. Il primo governo
provvisorio della Repubblica, in attesa di una nuova
Costituzione, fu composto da 25 persone, tutti napoletani ma
scelti personalmente da Championnet e guidati da Carlo Lauberg,
“già chierico dell’Ordine degli Scolòpi, fuggitivo per libertà
in Francia, e tornato con l’esercito”, come riferisce il
Colletta.
Carlo
Lauberg (1752-1834)
47. Carlo Lauberg è un
personaggio forse poco conosciuto, ma certamente emblematico
della Repubblica napoletana: rivoluzionario e giacobino della
prima ora, fu il primo “presidente” di quella Repubblica ma fu
anche il primo a rimanerne profondamente deluso e ad
allontanarsene, quando la vide svolgersi troppo difforme dai
suoi ideali originari.
48. Era nato a Teano l’8
settembre 1752. Entrato nell’Ordine religioso degli “Scolòpi” e
conseguita una laurea in Medicina, era rimasto fortemente
impressionato dagli eventi della Rivoluzione francese e dalla
“Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789.
49. Abbandonata la vita
religiosa, si ascrisse alla Massoneria napoletana, che in quegli
anni iniziava a prendere contatti diretti con i Giacobini
francesi.
50. Insegnò a Chieti e poi al
Collegio Militare della Nunziatella in Napoli, fondando anche,
nel 1792, una Accademia di Chimica, che divenne una fucina di
idee rivoluzionarie e repubblicane.
51. Partecipò attivamente alla
preparazione di una rivolta armata contro i Borboni nel 1794 e,
dopo che il tentativo fu scoperto e sventato, riparò ad Oneglia,
in Liguria, che si trovava allora sotto controllo francese.
52. Proprio nell’Aprile 1794,
l’amministrazione di Oneglia era stata affidata, in qualità di
commissario rivoluzionario, all’ultra-giacobino Filippo
Buonarroti, il quale gestiva la città secondo il suo
orientamento “egualitario”: forte imposizione fiscale sui più
ricchi e distribuzione di grano a prezzo bloccato ai poveri;
sussidi ai più indigenti; esproprio dei beni mobili ed immobili
di coloro che si erano opposti alla Repubblica ed erano
emigrati; calmiere dei prezzi fissato per legge; scuola,
elementare e media, pubblica e gratuita per tutti.
53. In questo clima, il Lauberg
radicalizzò ulteriormente le sue convinzioni rivoluzionarie,
fece parte della amministrazione cittadina e poi si arruolò come
farmacista nel corpo della Sanità militare.
Nel 1795 si sposò ad Antibes
con Catherine Arnauld e si naturalizzò Francese assumendo il
nome di Charles Jean Laubert.
54. Quando rientrò a Napoli nel
1799, era dunque cittadino francese a tutti gli effetti, al
sèguito dell’esercito in qualità di farmacista: anche per queste
ragioni, evidentemente, Championnet lo volle come capo del
governo provvisorio della Repubblica.
55. Fu però contrastato fin
dall’inizio dagli altri membri del governo, per il suo
atteggiamento ritenuto troppo “intransigente”, e fu sostituito
da Ignazio Ciaia alla guida del governo (25 febbraio) non appena
lo Championnet venne richiamato in patria dal Direttorio
parigino (24 febbraio).
56. Poco dopo, non condividendo
più la strada che aveva preso “l’esperimento” repubblicano,
Lauberg lasciò anch’egli Napoli e ritornò in Francia, sua
seconda patria, laddove osservò da lontano la tragica fine di
quell’esperienza.
57. In definitiva, si può
ritenere che egli volesse introdurre, nel governo della città,
quelle misure di carattere “sociale” che aveva visto
sperimentate nel governo di Oneglia e che sarebbero state,
peraltro, anche le più idonee ad attrarre alla causa
repubblicana le grandi masse di làzzari urbani nonché di
contadini delle province.
Fu però contrastato, e
politicamente sconfitto, da repubblicani che erano
ultra-rivoluzionari “a parole” ma completamente astratti dalla
realtà e che, comunque, non intendevano minimamente la
egalité come re-distribuzione del reddito e riduzione delle
enormi disuguaglianze economico-sociali allora esistenti.
58. Si dedicò in seguito alla
professione di farmacista e all’attività di ricerca scientifica,
per la quale ottenne poi finanche la Legion d’Onore. Morì a
Parigi il 3 novembre 1834.
… e suo fratello Antonio
59. A Napoli rimase suo
fratello Antonio, anch’egli religioso, riguardo al quale un
interessante documento emerge dall’Archivio di Stato di Napoli
(Atti del Cappellano maggiore, Relazioni, 800, 40):
“Il Padre provinciale Girone …
propone (come suo assistente consultore) …. D. Antonio
Martino de Carles … ed ha assicurato inoltre che il D. Antonio
Martino de Carles, malgrado fosse fratello del ribelle
Lauber, si condusse da suddito fedele nelle passate sciagure de
lo Stato, come si rilevò dalla suprema Giunta di Stato, per cui
ha meritato di essere consultore del provinciale con
approvazione della Maestà Vostra, e con intelligenza de’ vostri
degni ministri ha voluto cambiarsi il vergognoso nome di
Lauber”.
L’organizzazione
60. Il primo governo
provvisorio della Repubblica unificava in sé il potere
legislativo e quello esecutivo ed era suddiviso in 6 Comitati
operativi. Vi erano inoltre 4 ministri: due francesi, Jacques
Arcambal e Jean Bassal, alla guerra e alle finanze; e due
napoletani, Francesco Conforti all’interno ed Emanuele
Mastellone alla giustizia ed alla polizia.
Tutte le decisioni dei ministri
erano, comunque, soggette alla dittatura del generale comandante
l’armata francese; e segretario del governo era il “commissario
di guerra” Marc-Antoine Jullien.
61. Fu anche creato un nuovo
governo della città di Napoli, affidato ad una “Municipalità
repubblicana” di 25 membri, fra i quali i capi-làzzari Antonio
D’Avella detto “Pagliuchella” (1739-1799), di mestiere
“oliandolo” e lo stesso Michele ‘o pazzo (vedi sopra,
n°38) che aveva in precedenza combattuto contro i Francesi ma
era stato poi co-optato da Championnet e nominato “colonnello”
della Repubblica.
62. Fiorì in quei giorni a
Napoli una vivace attività politica e culturale: sorsero molti
giornali, tra i quali il “Monitore napoletano” curato da
Eleonora Pimentel Fonseca, e si aprirono “Circoli” e “Sale
d’istruzione” per il popolo.
Il Direttorio di Parigi non vuole Repubbliche “giacobine”
63. La politica adottata da
Championnet non era però condivisa dal Direttorio che governava
a Parigi (vedi sopra, nn°13 e 16): il Direttorio concepiva la
conquista di Napoli solo come un mezzo per incamerare nuove
ricchezze; e poi Napoli avrebbe potuto servire come base navale
nel Mediterraneo.
Da Parigi, venne perciò inviato
a Napoli un commissario “straordinario”, un certo Faypoult, che
pretendeva la spoliazione completa dello Stato napoletano,
incamerando alla Francia tutti i beni pubblici dell’ex-Regno,
compresi monasteri e scavi archeologici.
64. Championnet, animo di
galantuomo, il 6 febbraio espulse dal regno di Napoli il
Faypoult, ma già il 24 febbraio fu a sua volta richiamato in
patria e processato dal Direttorio: venne assolto, ma morì poco
dopo in combattimento ad Antibes.
Anche il Bassal, ministro delle
finanze, ed il Jullien, “commissario di guerra”, furono tratti
in arresto in Francia.
Arriva MacDonald
65. A Napoli, al posto di
Championnet, arrivò (27 febbraio) il generale MacDonald che si
trovava a Roma, e con lui (7 marzo) rientrò il Faypoult.
La sostituzione di Championnet
addolorò i Napoletani e soprattutto il governo provvisorio, che
si opponeva alle pretese del Faypoult ora sostenuto anche da
MacDonald.
66. Così, alla fine di marzo,
il governo minacciò di dimettersi in massa, il 28 marzo arrivò
da Parigi un nuovo “commissario organizzatore” e il 2 aprile il
Faypoult venne definitivamente allontanato.
Il 14 aprile il “commissario
organizzatore” Abrial nominò un nuovo governo provvisorio.
Potere legislativo e potere esecutivo venivano stavolta separati
ed attribuiti a 2 distinte Commissioni, rispettivamente di 25 e
di 5 membri.
La situazione sembrava quindi
stabilizzarsi alquanto, ma … già il 7 febbraio il cardinale
Fabrizio Ruffo, a nome del Re, con soli 7 uomini ed una piccola
imbarcazione, era giunto a Pizzo di Calabria, ed aveva iniziato
la sua lunga marcia per la riconquista del Regno.
Barra al momento della proclamazione della Repubblica
67. Il règio
Casale della Barra, al momento della proclamazione della
Repubblica, contava circa 5.490 abitanti: contadini quasi
tutti, con una piccola minoranza di nobili, come
riportato nella classica “descrizione” del Galanti (vedi nn°29-30-31
del capitolo su “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”) e come
a nostra volta abbiamo cercato di descrivere nei nn°16-28 del
medesimo capitolo.
68. Di contro al gran numero di
contadini poveri, si attestava però su posizioni di privilegio
anche una sparuta borghesia: proprietari terrieri e
professionisti, che gareggiavano in lusso spesso con gli
aristocratici. Famiglie guida di questa particolare borghesia
erano i Sannino, i Minichino, i Magliano ...
69. Il clero, con
una folta rappresentanza, faceva vita indipendente. Era parroco,
all’epoca, don Michele Ràiola: conosceva probabilmente tutti i
suoi parrocchiani essendo stato in carica per ben 38 anni, a
partire dal luglio 1761, e morì nel settembre 1799, un paio di
mesi dopo la fine della Repubblica.
Alcuni sacerdoti
furono certamente attratti dalle idee provenienti d’oltralpe
anche se spesso, per motivi di convenienza, preferivano rimanere
nell’ombra.
Barra nella bufera
70. Il nostro Casale dovette
subire dapprima le conseguenze del passaggio dell’esercito
francese che, nel gennaio 1799, guidato dal generale Championnet,
avanzava verso la conquista di Napoli
[18].
71. Il Casale di Pomigliano
d’Arco, che aveva opposto resistenza, fu espugnato, saccheggiato
e raso al suolo dai Francesi
[19]; ma anche
gli altri Casali, fra cui il nostro, furono comunque trattati
come terre occupate: furti, violenze, abusi, etc. furono
largamente compiuti dai soldati francesi nel cammino verso la
città.
72. Entrato poi Championnet in
Napoli, dopo aver superato l’aspra ed eroica resistenza opposta
dai làzzari per tre giorni, il 20-21-22 gennaio, e proclamata
ufficialmente la Repubblica il giorno 23, non si videro nei
Casali miglioramenti significativi.
73. Anche i
più famosi storici di parte repubblicana sono molto critici nel
valutare ciò che venne fatto: “Con un proclama del nuovo
governo, si ordinò a tutte le antiche autorità costituite delle
provincie (e dei Casali) che rimanessero in
attività fino a nuova disposizione”
[20].
Nel
frattempo, vennero inviati in tutti i paesi i cosiddetti “democratizzatori”.
I
“democratizzatori”
74. Chi erano costoro? In linea
di principio, erano delle persone inviate dal nuovo governo con
lo scopo, per così dire, di “evangelizzare” le popolazioni
contadine, portando loro il nuovo credo rivoluzionario,
illustrando i vantaggi del nuovo regime ed infervorando gli
animi a sostenere la Repubblica.
75. In
realtà, le cose non andarono come si sperava. “Giovanetti
inesperti, che non aveano veruna pratica del mondo, inondarono
le provincie con una carta di democratizzazione, che Bisceglia,
allora membro del Comitato centrale, concedeva a chiunque la
dimandava.
Essi non erano accompagnati da
verun nome; fortunati, quando non erano preceduti da uno poco
decoroso!
Non aveano veruna istruzione
del governo; ciascuno operava nel suo paese secondo le proprie
idee; ciascuno credette che la riforma dovesse esser quella che
egli desiderava: chi fece la guerra ai pregiudizi; chi ai
semplici e severi costumi dei provinciali, che chiamò rozzezze.
S’incominciò dal disprezzare
quella stessa nazione che si dovea elevare all’energia
repubblicana, parlandole troppo altamente di una nazione
straniera (la Francia) che non ancora conosceva se non
perché era stata vincitrice; si urtò tutto ciò che i popoli
hanno di più sacro, i loro dèi, i loro costumi, il loro nome”
[9].
L’albero della libertà
76. Pure il
Casale della Barra vide, dunque, arrivare il suo
democratizzatore anche se il suo nome non emerge, almeno
finora, dai documenti (vedi però nn°219-221).
77. Come di solito tutti i
democratizzatori facevano, egli per prima cosa innalzò il
cosiddetto “albero della libertà”, che era il simbolo del nuovo
regime e doveva pertanto costituire il nuovo centro attorno al
quale si doveva svolgere la vita civile.
78. Il luogo dove l’albero
venne posto fu, quasi certamente, il Largo Parrocchia. Questo
per vari motivi: perché era il centro anche geografico del
paese; perché doveva fare da “contr-altare” laico alla chiesa
principale; ed infine, perché lì, proprio di fronte alla chiesa
parrocchiale, sorgeva Palazzo Magliano, che apparteneva ad una
famiglia borghese simpatizzante per la repubblica (vedi n°216).
79. Intorno all’albero, che
veniva innalzato fra vibranti discorsi, musiche travolgenti e
danze sfrenate, si tenevano poi le riunioni del “catechismo
repubblicano”, si criticavano in pubblico le idee, le
istituzioni (e le persone) del vecchio regime, si siglavano i
contratti, si facevano i giuramenti e si celebravano le nozze
secondo il nuovo rito civile; napoletanamente, si vendevano
anche “spassatiempi” e brodi di polpo.
Simpatia e
odio per i “giacobini”
80. Non sembra però che il
messaggio portato dai democratizzatori riuscisse a farsi
accettare e, a volte, neppure a farsi comprendere.
“Un patriota insegnava il nuovo calendario repubblicano a dei
popolani:
- Tu lo sai che mese è chisto?
- Febbraro.
- Nonsignore. Se dice Piovoso.
Marzo è Ventoso. Aprile è Germinale. E sai Luglio comme se
chiamma? Se chiamma Termidoro. Hai capito?
- Gnorsì, eccellenza. Luglio è
pommodòro: perchè è lo tiempo de li pommaròle”
[10].
81. Questa di voler cambiare il
calendario, abolendo fra l’altro la domenica e le feste dei
Santi, non era l’unica stranezza che il popolo contadino non
riusciva a digerire. I democratizzatori parlavano di
libertà anche nei rapporti fra i due sessi, di unioni
matrimoniali solamente civili; di divorzi; di nullità dei
testamenti lasciati dai defunti; dicevano che bisognava abolire
i conventi, che i preti avrebbero dovuto sposarsi; criticavano
il re, la Chiesa ed i “signori” nobili, ma non spiegavano come,
senza di questi, i contadini avrebbero potuto, in quel momento,
sopravvivere.
82. Alle orecchie
dei popolani, tutto ciò suonava inevitabilmente molto astratto
quando non addirittura scandaloso ed empio. I contadini
avrebbero ascoltato volentieri chi avesse parlato di riduzione
dei prelievi sui frutti del loro lavoro, di distribuzione delle
terre mettendo tutti in grado di lavorarle, di maggiore
giustizia nelle liti e magari anche di servizi religiosi a più
basso costo, ma che cos’erano queste “liberté” ed “egalité”?
83. L’unica cosa
chiara era che comunque, intanto, bisognava pagare nuove tasse,
per sostenere questa famosa “Repubblica” che era in difficoltà,
e mantenere l’esercito dei “liberatori” francesi che erano in
guerra e lontano da casa ...
84. Lo storico Giorgio
Candeloro, fra i tanti altri, ravvisa la morte dell’effimera
Repubblica proprio nella “... contraddittorietà tra la politica
di spoliazione effettivamente seguita in Italia dai
Francesi e i motivi correnti della propaganda repubblicana”.
85. Il popolo, fedele alla
dinastia borbonica e al cattolicesimo tradizionale dei padri,
avvertì questa presenza che invadeva più che liberare. La
situazione precipitò proprio quando il governo provvisorio
impose nuove tasse.
86. Slogans di protesta,
su improvvisate musiche, circolavano per le strade. Ci piace
citarne due, riportati da Giovanni Alagi
[11]:
“So’ venute li Francìse
aute tasse ‘nce hanno mise.
Liberté ... Egalité ...
Tu arruobbe a me, io arrobbo a ‘tte”.
e
“Li Francìse so’ arrivate,
ci hanno buono carusàte:
e vualà, e vualà,
càvece ‘nculo alla libertà”.
Analogie e differenze con i
Casali vicini
87. Nel vicino Casale di S. Giorgio a Cremano, fu proprio
qualche esponente del clero, oltre che della borghesia, ad
accendere la miccia della rivoluzione: il prete trentasettenne
don Domenico De Somma; i due fratelli sacerdoti, originari di
Resina, Antonio e Cristofaro Formisano; il notaio Scodes.
88. A Barra, invece, i
sacerdoti “giacobini”, se c’erano, non si esposero mai in prima
persona e, accanto alle famiglie borghesi parteggianti per la
Repubblica, come i Sannino, i Minichino e i Magliano, si schierò
solo qualche nobile “idealista” ma non troppo, come il giovane
Pignatelli di Monteleone (vedi nn°229-238).
Il clero Barrese, come quello
di Ponticelli, bandì nel complesso una vera e propria crociata
contro gli invasori francesi. Nelle prediche e nelle
confessioni, i Francesi venivano indicati come dissacratori,
eversori, pagani, diavoli … e le angherìe perpetrate
convalidavano quanto andava predicando il clero e spingevano
sempre più il popolo su sponde opposte.
89. “Non mancò qualche
malversazione; non mancò qualche abuso di novella autorità, che
risvegliava gli spiriti di partito, non mai estinguibili tra le
famiglie principali dei piccoli paesi. Gli animi si inasprirono
... Una popolazione scosse il giogo del democratizzatore;
le altre la seguirono; le popolazioni che eran repubblicane,
cioè che aveano avuto la fortuna di non aver democratizzatori
o di averli avuti savi, si armarono contro le insorgenti...”
[12]. E la
guerra civile iniziò.
La guerra civile
90. L’8 maggio 1799, la maggior
parte delle truppe francesi lasciò Napoli, a causa degli eventi
bellici nell’Italia del Nord, e da quel momento le sorti della
Repubblica poterono dirsi praticamente segnate.
91. Le masse della “Santa
Fede”, molto più numerose ed agguerrite delle esigue forze
repubblicane, avanzavano inarrestabilmente dal Sud, conquistando
paesi su paesi, che abbattevano l’“albero della libertà” e
suonavano le campane a stormo. Le “masse” erano guidate dal
card. Fabrizio Ruffo.
Il cardinale Fabrizio Ruffo (1744 - 1827)
92. Nacque a
S. Lucido di Calabria, il 16 settembre 1744, da Don Letterio
Ruffo dei duchi di Baranello, divenuti proprio nel ’99 duchi di
Bagnara per estinzione del ramo principale della famiglia, e da
Donna Giustiniana dei prìncipi Colonna.
|
Fabrizio Ruffo |
93.
Dieci anni dopo la sua morte, il suo segretario, l'Abate
Domenico Sacchinelli, nelle "Memorie storiche sulla vita
del Cardinale Fabrizio Ruffo", scriveva che (Fabrizio) non aveva
ancora compiuti quattro anni, quando fu portato a Roma per
essere ivi educato sotto gli auspici del Cardinale Tommaso Ruffo,
che era un suo pro-zio in quanto fratello di suo nonno Paolo, e
Decano in quel tempo del Sacro Collegio.
94. Si trovava allora, nella Corte di quel Porporato, in qualità
di uditore, anche il Prelato Giovanni Angelo Braschi di Cesena,
il quale prese a ben volere il piccolo Fabrizio: lo faceva
sedere sulle sue ginocchia e gli insegnava i primi rudimenti
dello scrivere e del leggere.
95. “Volea Fabrizio giocare con la bella chioma di Braschi:
tentò più volte di svolgerne gli inanellati capelli, ma venne
sempre con diligenza impedito; infastidito finalmente di
quell'ostacolo superiore alle sue forze, colla sua mano bambina
gli tirò una guanciata, della quale occorrerà parlare.
Le amorevoli cure del Cardinal Tommaso per l'educazione e gli
studi di Fabrizio, non furono senza grande effetto. Superò Egli
di molto l'aspettativa che si avea de’ suoi sublimi talenti; e
nell'età ancor giovanile, avea già acquistato fama di molto
sapere nelle scienze filosofiche, e specialmente nelle fisiche
ed in quelle di economia pubblica; e perciò gran nome lasciò di
sé nell'illustre Collegio Clementino, in cui passò più anni in
qualità di alunno, ugualmente che ve li aveva passati il di lui
zio Cardinal Tommaso.
Salito poi Giovanni Angelo Braschi alla Cattedra di S. Pietro
col nome di Pio VI, non si era dimenticato della guanciata
ricevuta, e spesso, in aria di benevolenza, ne faceva menzione a
Fabrizio”.
96. E così, tanto per i suoi meriti personali, quanto per la
gratitudine alla memoria del Cardinal Tommaso, il Santo Padre
Pio VI non tardò a nominarlo prima Chierico di Camera (1781), e
poi Tesoriere generale di Roma (1785), che era allora la carica
più importante dello Stato Pontificio, perché in Roma il
Tesoriere aveva quelle stesse attribuzioni, che negli altri
regni sono divise tra i ministri delle finanze, dell'interno,
della guerra, e della marina.
97. Un altro suo biografo, il von Helfert, scrive: “In quella
carica, il Ruffo non solamente attivò una quantità di
provvedimenti utili all'universale, ma rimise in ordine e
assetto tutto il sistema di finanze papali …
Non mancò senza dubbio d'attirargli disfavore la fermezza con la
quale quei provvedimenti recò ad effetto; una gran parte delle
classi privilegiate era sdegnata contro di lui per avere
diminuiti gli antichi diritti feudali; i contrabbandieri
l'odiavano e maledivano perché i nuovi ordinamenti doganali
sciupavano loro il mestiere …
Nessuno però poteva attaccarlo nella interezza del suo carattere
pubblico. Anche gli avversari dovevano rendergli giustizia, e
confessare, che tutto quello a cui metteva le mani sapeva, con
rara energia e con incontestata abilità, condurlo a fine.
L'avvedutezza e le capacità del Tesoriere Ruffo furono tali che
Papa Pio VI gli propose di trovar modo di potenziare e di
rendere economicamente attiva l'agricoltura nello Stato di
Castro e nel Ducato di Ronciglione. La riforma agraria attuata
dal Ruffo portò le rendite di quelle terre da 50.200 scudi, che
erano, a 67.200.
Ma furono avvantaggiati soprattutto i contadini, ai quali erano
state concesse le terre in enfitèusi perpetua a linea mascolina,
progressiva nei maschi dell'ultima femmina di ciascun enfitèuta.
Il Papa ne fu così contento che volle estendere quella riforma a
tutto lo Stato pontificio”.
98. Per contro, la riforma agraria e le possibilità di benessere
che permise ai contadini gli inimicarono ulteriormente la
nobiltà feudale ed i grandi proprietari terrieri, oltre ai
grandi appaltatori dello Stato già a lui ostili, fino al punto
che il Papa stesso dovette infine cedere alle pressioni e
rimuoverlo dall’incarico anche se, in compenso, volle innalzarlo
alla porpora cardinalizia.
Così, nel Concistoro del 29 settembre 1791, venne nominato
Cardinale: era una di quelle nomine che ancor oggi si
definiscono “in pectore” cioè destinate ad essere rese pubbliche
solo in seguito, perché il Papa intendeva mantenerlo il più
possibile nell’incarico di Tesoriere. La nomina venne quindi
pubblicata solo il 21 febbraio 1794 ed in quella data Ruffo
lasciò il suo incarico.
99. Quel posto di Tesoriere, che aveva consentito a molti suoi
predecessori di accumulare grandi ricchezze, egli lo lasciò con
le mani vuote, tanto che gli fu necessario addirittura contrarre
un prestito “per coprire le prime spese alla sua nuova dignità”.
100. Così pure, è forse calunnia dei suoi avversari per
ottenerne la rimozione, la dicerìa secondo la quale
egli, nel tempo in cui fu Tesoriere, si lasciò conquistare oltre
il lecito dalla facile bellezza della marchesa Girolama Sampieri
Lepri di Bologna ...
101. Comunque sia, il Re
Ferdinando, appena seppe il Ruffo libero da incarichi presso la
Corte Pontificia, lo invitò a trasferirsi a Napoli, offrendogli
l'Intendenza di Caserta e la ricca badia di Santa Sofia di
Benevento, dichiarata di règio patronato e per tale motivo
contestata dal governo pontificio.
102. Ottenuta l'autorizzazione
dal Papa, il Cardinale si trasferì a Caserta e si dedicò alle
fabbriche e manifatture di seta della colonia di San Lèucio,
portandole in pochi anni ad un livello produttivo mai raggiunto
prima.
103. Nel 1798, fu tra i pochissimi a sconsigliare il Re ad
abbandonare Napoli, ma seguì comunque la corte a Palermo, ed il
25 gennaio 1799 Ferdinando lo nominò suo Vicario Generale allo
scopo di riconquistare il Regno invaso dai Francesi.
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Anonimo, 1799, la presa di Ischia
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Fabrizio Ruffo e … Giuseppe Garibaldi
104. Il Ruffo, sbarcato in
Calabria con pochissimi uomini (meno dei famosi Mille!) e mezzi
ancor meno, riuscì nella difficilissima impresa di unificare
ed organizzare, per quanto possibile, la spontanea
rivolta di popolo contro i Francesi ed i “giacobini in ritardo”
napoletani.
105. Nello
svolgimento di quella impresa, egli si rivelò davvero un
“eminente” capo politico-militare e un autentico e
disinteressato eroe della indipendenza nazionale napoletana:
non fu certamente un santo, ma non fu nemmeno quella specie di
mostro sanguinario, avido e ignorante che gli storici liberali a
lui contemporanei (Colletta, Cuoco, etc.) vollero dipingere nei
loro scritti, quasi come postuma vendetta contro colui che li
aveva sconfitti.
106. Oggi praticamente tutti gli storici, anche quelli liberali
a lui più avversi, convengono sul fatto documentato che il
Cardinale Ruffo non fu un capo di briganti, non fu
il responsabile delle stragi di Napoli e il boia dei Patrioti,
non fu lui a venir meno ai patti di resa.
107. “Giunto a Napoli, desiderava di avere presto la resa dei
castelli per mettere termine alla lotta civile che infuriava.
Fra tanto sangue versato, il Ruffo non si ubbriacò di vendetta,
ma con mente politica pensò alla restaurazione della monarchia,
come opera di ricostruzione, e perciò fu consigliere di
clemenza. Prevalse la stolta e crudele azione di sovrani e di
ministri, sorretta dal Nelson. Il Ruffo, malvisto dai
sovrani, approfittò del Conclave per lasciare Napoli
nell'ottobre del 1799”
[1]-
108. Tornato infatti il Regno
nelle mani della famiglia Borbone, e della lobby inglese
che in quel momento la condizionava (vedi sopra, n°30), il Ruffo
fu del tutto allontanato dal potere e poco dopo dovette recarsi
a Venezia per partecipare al Conclave per l’elezione del nuovo
papa dopo la morte di Pio VI (vedi sopra, nn°20-21).
109. In definitiva, quello
strano Cardinale fu, per i Borbone nel 1799, l’equivalente di
ciò che Giuseppe Garibaldi fu per i Savoia nel 1860: un buon
servo di un cattivo padrone; un esecutore, abile ed
in buona fede, di un disegno politico non guidato da lui
e che, portato a termine il suo incarico, venne messo da parte
con grandi attestazioni di riconoscenza ma senza tanti
complimenti …
Dopo l’impresa
110. In seguito, continuò a
svolgere importanti còmpiti sia amministrativi sia diplomatici
al servizio dei pontefici Pio VII e Leone XII, fino a che, dopo
il 1815, si ritirò del tutto a vita privata e morì in Napoli il
13 dicembre del 1827.
111. E’ da
rilevare infine che il Ruffo era cardinale ma non prete (era
solo diacono: non poteva quindi dir Messa o confessare) e che,
ironia della storia, nel 1813 venne nominato, proprio
dall’imperatore francese Napoleone Bonaparte, “Ufficiale della
Legion d’onore”.
112. Lo
studioso lettore eviterà anche di confondere il nostro con il
suo omonimo contemporaneo Fabrizio Ruffo di Bagnara,
principe però di Castelcicala (1763-1832), che fu
ambasciatore, per Re Ferdinando, prima a Londra e poi a Parigi,
nonché Ministro degli Esteri e membro della Giunta di Stato per
la repressione anti-giacobina.
|
Eleonora Fonseca Pimentel
|
Gabriele Manthoné (1764 –
1799)
113. Capo supremo dell’esercito
repubblicano venne invece designato il capitano di artiglieria
Gabriele Manthoné, “buono in guerra, di cuor pietoso, eccellente
per animo ed arte nei duelli, d’ingegno non basso né sublime,
per natura eloquente” come scrive il Colletta.
114. Il Manthoné era nato a
Pescara il 23 ottobre 1764. Rappresentante, nella Repubblica,
del Governo provvisorio e Ministro della guerra e degli Affari
esteri, venne poi “afforcato” in seguito alla restaurazione
borbonica e “morì con intrepidezza nel pubblico mercato di
Napoli” il 24 settembre 1799.
115. Nello stesso giorno,
avrebbe dovuto essere impiccato anche il suo collega Francesco
Bassetti (vedi nn°132-141) che invece si salvò “denunciando
altri e mandando altri alla forca”, come attesta Diomede
Marinelli nei suoi “Giornali” di quel periodo.
116. Come capo dell’esercito
repubblicano, Manthoné, “inesperto delle rivoluzioni, misurando
dal valor proprio il valore dei commilitoni, magnanimo e giusto,
diceva che 10 repubblicani vincerebbero 1.000 contrari, che
non abbisognavano i Francesi, però che andrebbe Schipani
contro Sciarpa, Bassetti contro Mammone e Fra’ Diavolo, Spanò
contro de Cesare
[2], egli
medesimo contro Ruffo, e resterebbe in città ed in riserva il
generale Wirtz”
[3].
Ognuna,
però, di queste spedizioni si concluse con una sconfitta dei
repubblicani.
|
Michele Arcangelo Pezza detto Fra Diavolo |
Si combatte
alla Barra (domenica 2 giugno 1799)
117. In particolare, sia il
Colletta (di parte liberale) che il Carta (di parte borbonica)
riportano un episodio concernente Barra, il 2 giugno 1799:
”Manthoné, con 3.000 soldati,
giunse appena alla Barra e, dopo breve guerra, soperchiato da
numero infinito, percosso dai tetti delle case, menomato
d’uomini, tornò vinto” (Colletta).
“La cavalleria
retta da Manthoné, disertata, passò a far parte delle milizie
della Santa Fede ... Manthoné cercò scampo alla Barra ma quivi
assalito dagli abitanti fu costretto a fuggire” (Carta).
118. Al di là dei dettagli che
differenziano le due versioni, non sembra comunque dubbio
l’atteggiamento dei Barresi, che si batterono spontaneamente, e
con tutti i mezzi a loro disposizione, contro i Francesi ed i
“giacobini”, ed a favore del card. Ruffo e del re Borbone.
Si combatte alla Barra (giovedì 6
giugno 1799)
119. Si
stringeva pertanto la morsa intorno alla città. La guerriglia
intorno a Napoli cominciò ai primi di giugno: il 3 si ebbe uno
scontro a Capodimonte ... il 5 si combatté ad Afragola ed a
Casoria ...
120. Il giorno 6
giugno, il generale repubblicano Basset prese Barra; ecco come
lui stesso descrive l’episodio, nel suo rapporto al ministro,
scritto “a due ore dopo la mezza notte” e che fu pubblicato
sull’ultimo numero (il N°35: sabato 8 giugno 1799) del “Monitore
napoletano” di Eleonora Pimentel Fonseca:
121.
“Cittadino Ministro,
Il valore
de’ miei compagni d’arme fa trovarmi al possesso della
Barra, malgrado che più di 300 insorgenti con un fuoco
vivissimo ce lo avessero contrastato.
L’alboràto, ed i
grani molto alti, che circondavano il fronte d’attacco, mi
determinarono a questo colpo: molto più perché era prossima la
notte, la quale non ci permetteva di bivaccare in un luogo così
svantaggioso.
Io debbo
lodarmi in generale di tutti; ma con particolar modo del
Cittadino Alò, Capo di Battaglione, che alla testa de’ giovani
degl’Incurabili, di altri bravi Patrioti e de’ coraggiosi
Calabresi, han fatto prodigj di valore.
Jeri sera invitai gli abitanti della Barra a farci
un’illuminazione,
e nel tempo stesso si è fatta una perquisizione d’armi, ma non
ne abbiamo trovata alcuna.
Sono rimasti
feriti il Cittadino Francesco Braca degl’Incurabili, un Prete,
ed un Francese, che coraggiosamente ci avean seguiti, ed il
giovane figlio dell’ex-principe di Canneto, ferito nella spalla.
Tra i morti
è il Cittadino Giuseppe de Pascale, Calabrese, che fu ucciso
dai nostri medesimi per essersi incautamente troppo
avvanzato”.
122. Il giorno dopo, però, Bassetti fu sconfitto a Ponticelli e
dovette ripiegare verso il Vigliena.
123. La
Eleonora Pimentel Fonseca aggiunge poi di suo: “Questa
mattina una Deputazione Patriottica è andata a rappresentare
alla Commissione Legislativa che nelle spedizioni de' giorni
scorsi, e particolarmente in quella alla Barra, non
si era pensato di mandare né carro alcuno onde trasportare i
feriti, né chirurgo, o provvista di sfilacci, e pezze, onde
fasciarli, cosicché i feriti in quell'azione avean dovuto
ritornarsene a stento a piedi, senza ricever soccorso alcuno.
La Commissione Legislativa, prestando a tali querèle
l'attenzione che meritavano, ha spedito premuroso messaggio
all'Esecutiva, acciò dia le opportune providenze”.
124. Nello stesso numero del “Monitore” sopra citato, troviamo
anche il seguente episodio, il giudizio sul quale lasciamo allo
studioso lettore:
“Fatti
Repubblicani.
Un Cittadino ha Giovedì sera presentato alla Sala Patriottica,
un suo figlio di tredici anni, il quale nella mattina istessa
avea seguito il Gen. Bassette, e nell'affare di
Ponticello si era valorosamente battuto.
Alcuni Cittadini presenti contestarono il fatto
(evidentemente, non erano d’accordo a coinvolgere nella guerra
anche un ragazzino di 13 anni) …
Ma tutta la Sala si levò ad applaudire, ed abbracciar questo
virtuoso fanciullo, che si mostrò disposto a partire di bel
nuovo il giorno appresso. Qual è più ammirabile: il coraggio del
figlio, o quello del padre? Viva la Repubblica!”.
Si combatte alla Barra (sabato 8 giugno 1799)
125. Il
giorno seguente, alle ore 7 del mattino di sabato 8 giugno 1799,
di nuovo il generale Basset e lo stesso Gabriele Manthoné, capo
dell’esercito repubblicano, avanzarono dal Vigliena verso Barra;
ecco la descrizione “in diretta” del fatto, nel rapporto
stilato da Manthoné il 10 giugno:
126. “Alle
ore 7 di Francia … feci levare il bivacco avanti il Forte di
Vigliena, distribuendo la Truppa in due Colonne, delle quali la
sinistra veniva comandata dal Generale della Guardia Nazionale
Cittadino Basset, e la destra da me medesimo.
Dopo aver circondata la Barra, vi feci ripiantare
l’Albero della Libertà, feci fucilare i capi insurgenti,
perdonai in nome del Governo i sedotti, ai quali in presenza del
Popolo diedi il bacio fraterno.”
127. Ripresa dunque la Barra,
la colonna di Manthoné e l’altra guidata da Basset tentarono di
“marciare di concerto sopra Ponticello, sede principale degli
insurgenti”.
Questa manovra non ebbe però
successo, a causa della “massa degl’insurgenti, ch’erano corsi
in gran numero, dopo di aver sonate le campane a martello”.
128. Caricato dalla cavalleria
a tutto galoppo, “l’inimico … fuggì dentro Ponticello, ove
inseguito ed attaccato dai bravi repubblicani, cominciò a fare
un vivissimo fuoco, scaricando una grandine di palle e di
sassi dalle finestre. Resistenza così ostinata obbligò suo
malgrado il Generale Basset a far porre il fuoco ad un gran
numero di case del Paese … si ebbero diversi feriti, alcuni
de’ quali mortalmente. Dei nemici, in numero di sopra 800, ne
rimasero estinti oltre 50.
129. La massa de’ nemici,
battuti e sboscati dal General Basset, venne a piegar sulla
dritta da me comandata. Cinque volte la cavalleria caricò a
briglia sciolta l’Inimico, che sciabolò e pose in fuga. I
Fiancheggiatori, in mezzo a passi difficili, a strade tagliate
ed a campi coperti di grano, fecero il lor dovere e sostennero
il fuoco nemico. Ma arrivato alla destra di Ponticello, ove il
nemico si era concentrato ed occupato avea tutte le alture
contigue, non mi convenne entrare nel paese, donde già Basset si
era ritirato. Feci perciò un movimento sulla sinistra, fingendo
di prendere alle spalle l’Inimico, e mi ritirai”.
130. Nonostante i
metodi alquanto sbrigativi, oltre Ponticelli Bassetti e Manthoné
non riuscirono dunque ad andare e dovettero ritirarsi di nuovo
verso la città.
Il tenente svizzero Ruster
131. Nel suo
rapporto su questi fatti, Manthoné riporta anche il
significativo episodio della morte del tenente svizzero Ruster,
con queste parole:
“Fu anche ferito in una coscia
il bravo Tenente della Guardia Nazionale Ruster, Svizzero di
Nazione, che richiesto da un nostro Repubblicano qual motivo gli
facesse prendere un sì grande interesse per un Paese, che non
era sua patria, il bravo giovane gli rispose: quell’interesse
che un Cittadino deve prendere per la libertà del Mondo.
Questo virtuoso guerriero,
spossato di forze, si rifugiò in una masseria, ove una donna,
dopo averlo ricevuto, ebbe la barbarie d’indicarlo agl’insurgenti,
i quali avendogli tagliate le gambe posero la sua testa sopra
una picca; e così fu immolata questa vittima della libertà,
lasciando la sua famiglia nella massima indigenza. Salute, e
rispetto”.
Francesco Bassetti (1752–1808 ?)
132. Ma chi era invece il
“cittadino Generale della Guardia Nazionale” Basset, quello che
“suo malgrado” fece mettere a fuoco un gran numero di case del
paese di Ponticelli?
Notizie di lui abbiamo in
Ruggiero di Castiglione - “La massoneria nelle Due Sicilie e i
fratelli meridionali del Settecento”, Ed Cangemi, 2006 (vol.I)
e 2008 (vol. II).
133. Francois Basset
(italianizzato in Francesco Bassetti) era nato a Longueau in
Francia nel 1752. Come il padre e come il fratello maggiore
Louis aveva seguito la carriera militare nell’esercito francese,
ed aveva raggiunto il grado di sotto-tenente nel 1776.
134. Nel 1791 era “primo
tenente”, comandato presso la Reale Accademia Militare di Napoli
e nell’ottobre del 1796 venne promosso capitano: si era dunque
trasferito nel Regno meridionale, laddove fra il 1783 e il 1784
aveva aderito alla Massoneria ed era entrato nell’esercito
borbonico.
135. Con il grado di capitano,
partecipò nel 1798 all’infelice vicenda dell’esercito napoletano
sconfitto da Championnet (vedi sopra, nn°31-33).
136. Instaurata però la
Repubblica, le sue origini francesi e l’appartenenza alla
Massoneria gli propiziarono una fulminea carriera e divenne
Generale comandante la Guardia Nazionale repubblicana,
subentrando ad Agamennone Spanò. In tale veste, partecipò agli
scontri intorno a Barra e Ponticelli nel mese di giugno.
137. Nel giorno dell’attacco
finale, il 13 giugno, accorse con pochi uomini al poggio di
Capodichino per fermare l’ala destra dell’armata sanfedista che
“avanzava nei fertili giardini della Barra” ma, di fronte
“all’immensa torma”, si rifugiò, aprendosi un varco fra gli
avversari, in Castel Nuovo (= Maschio Angioino).
138. Dopo la capitolazione, si
imbarcò con altri patrioti su una nave destinata a salpare per
la Francia. Rinnegati però gli accordi dal re e dall’ammiraglio
Nelson, venne condotto in catene, il 28 giugno, prima su una
nave inglese e poi nelle segrete di Castel Nuovo.
139. Il 2 settembre venne
condannato a morte dalla Giunta di Stato, con esecuzione
stabilita per il 24 settembre, ma il 23 settembre per aver
salva la vita fece il nome di vari repubblicani della città e
delle province. In tal modo, ottenne che la condanna gli
fosse commutata e, nel successivo anno 1800, fu inviato al
carcere della Favignana (nell’arcipelago delle Egadi, Trapani).
Ivi stette, secondo alcuni,
nella “fossa di S. Caterina” della fortezza; secondo altri,
invece, nella “fossa di Punta Troia” della vicina isola di
Marèttimo.
140. Comunque, ritornò in
libertà a seguito dell’indulto previsto nel trattato di pace di
Firenze del 28 marzo 1801. Considerato però ormai un traditore
sia dai borbonici sia dai liberali, cercò miglior fortuna prima
a Costantinopoli e poi a Parigi, laddove risulta aver
beneficiato, nei primi mesi del 1806, di un sussidio governativo
a favore degli esuli provenienti dal Regno di Napoli e Sicilia.
141. Nel luglio dello stesso
anno 1806, chiedeva al governo francese di poter rientrare a
Napoli, che si trovava allora sotto il regno di Giuseppe
Bonaparte, ma non si conosce l’esito di tale richiesta.
Certamente non fece parte del nuovo esercito napoletano e morì
durante il decennio francese (1805-1815) prima del 1810.
L’attacco finale (giovedì 13 giugno 1799)
142. Il card. Ruffo si accampò
a Nola l’11 giugno ed il giorno 13 (festa di S. Antonio di
Padova, che era stato proclamato patrono dell’armata sanfedista)
ordinò l’attacco alla città, investendola proprio dalla zona
orientale.
143. I repubblicani erano
attestati al ponte della Maddalena, sul fiume Sebéto e nel
fortino del Vigliena presso l’edificio dei Granìli.
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Il fortino del Vigliena |
144. Le navi dell’ammiraglio
Francesco Caracciolo cannoneggiavano dal mare l’ala sinistra
dello schieramento di Ruffo, mentre “il generale Bassetti, con
piccola mano, correva il poggio di Capodichino, minacciando, per
le viste più che per l’armi, l’ala diritta dell’immensa torma
che avanzava ne’ fertili giardini della Barra”
[4].
145. Si combatté aspramente
tutto il giorno 13 giugno, con grande determinazione e sprezzo
della vita da entrambe le parti. “Ed incerta pendeva la
vittoria, stando sopra una sponda numero infinito e, su l’altra,
virtù estrema e maggior arte”
[5].
Il fortino
del Vigliena
146. I sanfedisti assalirono
dapprima il fortino del Vigliena “ma, per grandissima
resistenza, bisognò atterrare le mura con batteria continua di
cannoni” e quindi “entrati nel forte a combattere ad armi corte,
pativano, impediti e stretti dal troppo numero, le offese dei
nemici e dei compagni”
[6].
147. Molti dei repubblicani
erano morti. “Gli altri, feriti né bramosi di vivere; cosicché
il prete Toscano
[7], di
Cosenza, capo del presidio, reggendosi a fatica perché in più
parti trafitto, si avvicina alla polveriera e, invocando Dio e
la libertà, getta il fuoco nella polvere e, ad uno istante, con
iscoppio e scroscio terribile, muoiono quanti erano tra quelle
mura, oppressi dalle rovine o lanciati in aria o percossi dai
sassi: nemici, amici, orribilmente consorti”
[8].
148.
L’eroico episodio del Vigliena colpì il cuore e la fantasia di
più generazioni. Così lo racconta il generale calabrese
Guglielmo Pepe (1783-1855) nelle sue “Memorie”:
“A tali provvedimenti (il
card. Ruffo) un altro ne aggiunse, spiar facendo da un corpo
calabrese il forte di Vigliena, non già perché ne temesse il
debolissimo presidio, ma perché l’ammiraglio Caracciolo avrebbe
potuto ingrossarlo, sbarcandovi aiuti o da Napoli o dal campo di
Schipani … E qui cade in acconcio ch’io dica quale fu il fato
dell’immortale presidio di Vigliena.
149. Era esso forte di 150
valorosi, distaccati dalla Legione Càlabra, composta di studenti
ed altri giovani nativi delle Calabrie, ed ardenti amatori di
libertà, i quali trovavansi nella capitale all’entrar che vi
fece Championnet. Tutti i legionari appartenevano a famiglie più
o meno agiate, ed i 150 furono scelti tra i più destri
cacciatori.
150. Il forte di Vigliena altro non era se non una batteria
chiusa, costruita a solo oggetto di difendere la costa.
Allorché, nel giorno 13, il cardinale ebbe osservato le sue
schiere esposte a’ fuochi di quella, ordinò che fosse assaltata
da scelte bande calabresi, onde fu miseranda cosa il vedere
Calabresi contro Calabresi gareggiar in valor di fratricida
pugna. Gli assalitori ravvisavano i loro concittadini
all’ostinata difesa, da cui ridondò loro tanta perdita in feriti
e morti, che dovettero suonare a raccolta e chiedere aiuto.
continua