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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

10.2 Il Periodo Borbonico (1790-1860)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

L’epoca delle rivoluzioni borghesi: i 4 leoni

1. Nel 1868, dopo l’unità d’Italia, venne inaugurato, in Piazza dei Màrtiri a Napoli, il monumento che tuttora vi si vede, consistente in una colonna sormontata dalla dèa Vittoria alata, per ricordare appunto i “màrtiri” napoletani delle rivoluzioni contro i Borboni.

2. Alla base della colonna, si possono notare 4 leoni, in quattro diversi atteggiamenti: il primo, un leone morente, rappresenta la sconfitta Repubblica napoletana del 1799; il secondo, trafitto da una spada e che però si volge per morderla, rappresenta i moti carbonari del 1820-21; il terzo, che si agita vinto ma non dòmo, rappresenta la sommossa del 1848; ed infine il quarto, un leone che si èrge vittorioso, rappresenta l’annessione al Regno d’Italia nel 1860 in cui consisterebbe la “Vittoria”.

3. In effetti, sono queste le quattro successive tappe attraverso le quali, alla luce degli ideali proclamati dalla rivoluzione francese (liberté-egalité-fraternité: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789), la classe borghese meridionale, animata e guidata dalla sua avanguardia intellettuale, condusse la lotta contro il precedente regime aristocratico e feudale e per l’affermazione di una società fatta a sua immagine, pervenendo in ultimo a confluire nel Regno d’Italia, unito sotto la dinastia Sabàuda, indipendente da altri Stati, e retto da istituzioni di tipo liberale.

La presa della Bastiglia

4. Nell’Italia meridionale, a condurre questa lotta fu anzitutto la borghesia agraria (i “possidenti”), i professionisti, i commercianti più agiati: in sostanza, “il medio ceto di professionisti nella capitale e di nuovi proprietari nelle provincie”, per dirla con il Croce. Quella borghesia, cioè, che “in tutti i concetti dei riformatori, nella liquidazione della proprietà ecclesiastica, nella liberazione dai vìncoli feudali, nella divisione dei demàni, nella sostituzione dei tribunali règi ai baronali, nella libertà dei commerci, ritrovava i propri interessi [13].

5. Restavano però “fuori di lei, intatti da lei, non solo l’immensa plebe della capitale e il minuto popolo degli artigiani, e il numeroso sciame di servitori e cortigiani che si moveva attorno ai patrizi e baroni; ma la maggior parte della popolazione del regno, i contadini e pastori...” [14].

6. E’ ben vero che quelle masse erano gravate da secoli di miseria e di ignoranza, e mancavano di una vera e propria educazione politica, anche se questo non aveva impedito loro di partecipare, ad esempio, alla rivolta di Masaniello; ma è vero soprattutto che esse non trovavano, nelle idee e nei programmi dei “rivoluzionari”, le loro esigenze e le loro aspirazioni sociali più profonde, come poi ben si vide quando (in parte, nel decennio francese e poi, in tutto, nell’Italia unita) quelle idee e quei programmi furono realizzati.

7. Ciò spiega, tra l’altro, il fatto che anche il Casale della Barra, la cui popolazione era appunto composta, nella quasi totalità, da contadini e da servi ed artigiani economicamente dipendenti dalla nobiltà, non partecipò attivamente al moto risorgimentale.

8. Solo poche persone, appartenenti ad alcune famiglie borghesi, furono “militanti” liberali, ma il Casale nel suo complesso tenne costantemente per la parte borbonica: dall’inizio (1799), quando i Barresi combatterono contro l’esercito della Repubblica ed a favore di quello della “Santa Fede” del card. Ruffo, sino alla fine (1860) quando la popolazione si rifiutò di partecipare al plebiscito che doveva sancìre l’annessione del Regno delle due Sicilie al Regno d’Italia.

La Repubblica napoletana (21 gennaio - 13 giugno 1799)

9. La Repubblica napoletana ebbe nascita avventurosa, vita breve, fine tragica [15].

10. Essa si reggeva sull’alleanza, peraltro conflittuale, fra le truppe francesi di occupazione ed il piccolo gruppo dei “giacobini” napoletani e, quando i Francesi abbandonarono la città, fu rapidamente travolta dalle masse della “Santa Fede”: contadini e làzzari, mobilitati dal card. Fabrizio Ruffo in nome del re e della religione, che marciarono sulla capitale muovendo dalla Calabria.

11. Non si presume certo, qui, di narrare interamente la vicenda della Repubblica, sulla quale peraltro esiste ampia e prestigiosa bibliografia [16], bensì semplicemente cercare di cogliere in qual modo, in quella vicenda, anche Barra in particolare fu implicata.

12. E’ tuttavia indispensabile premettere brevemente alcune notizie per inquadrare nel loro contesto storico gli avvenimenti di quei 144 giorni.

La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino

L’esercito francese in Italia (1796)

13. La vicenda inizia nel 1796, quando la Francia, ormai post-rivoluzionaria, è guidata dal Direttorio (un gruppo di 5 ricchi borghesi, politicamente mediocri e notoriamente corrotti) e comincia a mettersi in luce un giovane ed ambizioso generale, di nome Napoleone Bonaparte.

Napoleone

14. Nel marzo 1796, grazie ai suoi meriti di ufficiale d’artiglieria (il mese di ottobre dell’anno precedente, aveva represso nel sangue un tentativo di insurrezione popolare realista a Parigi, sparando con i cannoni ad alzo zero sulla folla) e grazie ai meriti di alcòva della sua abile e spregiudicata neo-consorte, Giuseppina vedova Beauharnais … il Direttorio diede mandato al generale Bonaparte di invadere l’Italia del Nord.

15. Il fine strategico della spedizione era quello di neutralizzare il Piemonte (alleato dell’Austria) e costringere gli Austriaci a sgomberare il più possibile l’Italia settentrionale, per liberare il confine francese dalla costante minaccia di invasione.

16. Quanto al resto, le istruzioni del Direttorio a Bonaparte erano abbastanza trasparenti: primo, asportare dall’Italia tutto quello che si poteva (opere d’arte, reperti archeologici, intere biblioteche, manoscritti antichi, etc. etc.) nonché imporre tassazioni di conquista, per mantenere l’esercito e ristorare le esangui casse dello Stato francese (cosa che Napoleone eseguì scrupolosamente: portò a Parigi perfino i “Cavalli di S. Marco”); secondo, evitare in ogni caso che, nei territori conquistati, nascessero repubbliche rivoluzionarie di tipo giacobino, sul tipo di quella appena stroncata dal Direttorio in Francia.

17. Non ostante ciò, un piccolo gruppo di intellettuali borghesi della penisola, che aveva seguito (da lontano) gli eventi della rivoluzione francese e si era entusiasmato alla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino”, credette (volle credere) alla propaganda francese che presentava Bonaparte come “il liberatore dei popoli”.

18. Essi pensarono, in sostanza, che l’egemonia francese fosse, al momento, preferibile a quella austriaca al fine di introdurre anche nella penisola istituzioni di tipo più liberale; ed i più lungimiranti la videro anche come una possibile tappa verso una futura unificazione nazionale italiana. 

19. Il risultato fu non di meno che, alla fine della sua prima “Campagna d’Italia”, Napoleone firmò con l’Austria il Trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) con il quale, da una parte gli Austriaci si impadronivano della pluri-secolare Repubblica veneta indipendente, cedendo in cambio alla Francia i Paesi Bassi e la riva sinistra del Reno; e dall’altra venivano costituite la Repubblica ligure e la Repubblica cisalpina, ambedue sotto il controllo francese.

La battaglia navale di Aboukir 1° agosto 1798

Il Papa prigioniero (1798-99)

20. Poco dopo, le truppe francesi invadevano anche lo Stato pontificio: il 15 febbraio 1798 venne proclamata la Repubblica romana ed il papa Pio VI, già ultra-ottantenne, condotto prigioniero prima a Siena, poi a Firenze, poi a Bologna ed infine in Francia, nella fortezza di Valence, dove morì, unico Papa dell’età moderna morto in esilio ed in prigionìa, il 29 agosto del fatale 1799.

21. Il papa morì pregando cristianamente: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Ma il Municipio borghese post-rivoluzionario di Valence si comportò in modo decisamente ignobile: la salma del pontefice venne lasciata insepolta per 5 mesi, fino al 29 gennaio del 1800, quando venne deposto in una cassa di quelle che il Municipio forniva gratuitamente agli indigenti, sulla quale fu scritto: “Cittadino Giovanni Angelo Braschi – In arte: papa”, e sepolto nel locale cimitero. Successivamente, il Municipio inviò formale comunicazione a Parigi, aggiungendo la derisoria ma fallace profezia che si era così sepolto “l’ultimo papa della storia”.

La Campagna di Egitto (1798) e di Siria (1799)

22. Nel frattempo, conclusa ufficialmente la “Campagna d’Italia” col Trattato di Campoformio, il generale Bonaparte ottenne dal Direttorio il mandato per una “Campagna d’Egitto”: l’idea era quella di dare un colpo mortale all’Inghilterra, colpendola nelle sue colonie e nei suoi traffici con l’Oriente, ma le cose non andarono come previsto.

23. Il 19 maggio 1798 la flotta francese partì per l’Egitto.

Il 9 giugno conquistò l’isola di Malta, violandone proditoriamente la neutralità e senza alcun combattimento, anche perché i gloriosi Cavalieri tennero fede ai voti religiosi che vietavano loro di combattere contro dei cristiani battezzati, pur miscredenti come i Francesi.

Il 1°luglio Bonaparte sbarcò ad Alessandria d’Egitto ed il 24 dello stesso mese entrò vincitore al Cairo, ma il 1°agosto la flotta francese venne distrutta ad Abukir dall’ammiraglio inglese Horatio Nelson.

Non dòmo, nel successivo anno 1799, il Bonaparte progettò una spedizione ancora più ad oriente, “sulle orme di Alessandro Magno”, per conquistare la Siria: il 25 febbraio entrò in Gaza ed il 19 marzo cinse d’assedio la gloriosa rocca di S. Giovanni d’Acri ma dopo 8 inutili tentativi di assalto, abbandonò l’impresa e ritornò in Francia, dove aveva cose più importanti da fare, e dove sbarcò il 9 ottobre.

Il colpo di stato del 18 Brumaio

24. Poco dopo, il 9 novembre 1799 (18 Brumaio del calendario rivoluzionario), con un colpo di stato militare, il generale Napoleone Bonaparte rovesciò il Direttorio e si appropriò di tutto il potere, con il titolo, per ora, di “Primo Cònsole”.

L’alta borghesia francese aveva finalmente trovato il suo braccio armato, e la borghesia degli altri paesi europei, il suo primo mito vincente; ma i popoli avevano invece trovato un nuovo massacratore, e la storia un nuovo tipo di tiranno: l’imperatore borghese.

Nel Regno di Napoli

25. Proprio in quello stesso anno 1799 nel quale, in Francia, il Papa Pio VI muore prigioniero (29 agosto) e Napoleone si impadronisce del potere (9 novembre), Napoli vive la convulsa vicenda della sua Repubblica (gennaio-giugno).  

26. Dopo l’occupazione di Roma da parte dei francesi (febbraio 1798), il Regno napoletano era l’unico Stato della penisola rimasto ancora libero ed indipendente: vedendosi chiaramente minacciato, affrettò la sua adesione alla nuova (la seconda) coalizione anti-francese che comprendeva l’Inghilterra, l’Austria, la Russia e l’Impero Ottomano, con una serie di trattati bilaterali conclusi fra il maggio e il dicembre del 1798.

27. Così, il 22 settembre di quell’anno, l’ammiraglio inglese Horatio Nelson venne accolto a Napoli da trionfatore, dopo la vittoriosa battaglia di Abukir.

L’infelice “marcia su Roma” di Ferdinando di Borbone

28. Dopo di che, meno per propria convinzione che sospinto dagli alleati, Ferdinando di Borbone armò, con una “leva” di massa improvvisata ed impopolare, ed un’altrettanto impopolare “colletta” di guerra, un nuovo esercito che, sotto la guida del generale austriaco Mack e fiancheggiato dal mare dalla flotta inglese di Nelson, doveva liberare Roma e restituire la città al Papa.

29. Probabilmente, in quelle circostanze, la scelta più saggia, suggerita peraltro da alcuni ministri, sarebbe stata quella di adottare una strategia difensiva: schierare perentoriamente l’esercito napoletano, già esistente, lungo il confine con la nuova Repubblica romana, allo scopo di scoraggiare eventuali attacchi francesi.

30. Purtroppo, prevalse invece la scelta della strategia offensiva, caldeggiata dall’eroico ammiraglio inglese Nelson e dalla regina consorte Maria Carolina, su cui peraltro lo stesso Nelson aveva molta influenza, grazie alla famosa Lady Hamilton, la quale era contemporaneamente la moglie dell’ambasciatore inglese a Napoli (Lord Hamilton), l’amante di Nelson e l’amica (sembra, safficamente) della regina. Non è trascurabile, inoltre, il fatto che la regina di Napoli, Maria Carolina, era sorella della regina di Francia, Maria Antonietta, ghigliottinata pochi anni prima dai francesi.

31. Così, nel novembre 1798, le forze napoletane entrarono nella Repubblica romana, e questo fu “il princìpio dei guai”.

32. Il generale francese Championnet lasciò un manipolo a presidiare Castel Sant’Angelo e abbandonò Roma: il 29 novembre, senza incontrare alcuna apprezzabile resistenza, Ferdinando entrò nella città eterna.

I Francesi invadono il Regno

33. Concesso però volutamente a Mack questo effimero successo, i Francesi subito contrattaccarono in campo aperto: il generale austriaco subì gravi e ripetute sconfitte, ed il Re ripiegò precipitosamente verso Napoli, giungendo alla reggia di Caserta la sera dell’11 dicembre, mentre l’armata francese cominciava ad invadere il Regno.   

34. Da questo momento, ebbe però inizio anche la resistenza popolare all’invasore ed i Francesi, vittoriosi in pochi giorni contro l’esercito, impiegarono quasi due mesi per arrivare fino a Napoli.

“I popoli si armano; i preti, i frati, i più potenti delle città e dei villaggi li menano alla guerra; e dove manca superiorità di condizione, il più ardito è capo. I soldati fuggitivi, a quelle viste fatti vergognosi, si uniscono ai volontari; le partite, piccole in sul nascere, tosto ingrandiscono ed in pochi dì sono masse e moltitudini … 

Stupivano i Francesi, stupivamo noi stessi del mutato animo: senza esercito, senza re, senza Mack, uscivano i combattenti come dalla terra, e le schiere francesi, non vinte da numerose legioni di soldati, adesso menomavano di uomini e di ardimento contro nemici quasi non visti ...

E’ debito della storia investigare come i Napoletani, poco innanzi codardi e fuggitivi, ricomparissero negli stessi campi, contro lo stesso nemico, valorosi ed arditi …

Nella guerra poco innanzi combattuta, essi, coscritti nuovi, scontenti della milizia e consapevoli della scontentezza dei compagni, conoscitori della ignàvia dei capi e sospettosi della loro fede, mal guidati, mal nutriti, miseri e perdenti, nessuna qualità di esercito avevano in pregio e praticavano.

Ma non farà meraviglia se i Napoletani, robusti e sciolti di persona, abitatori la più parte dei monti, coperti di rozze lane, nutrendosi di poco grossolano cibo, amanti e gelosi delle donne, devoti alla chiesa, fedeli al re, allettati dai premi e dalle prede, andassero vogliosi e fieri a quella guerra per mantenere le patrie istituzioni e gli altari, ed avendo libero il ritorno, proprio il consiglio di combattere, proprio il guadagno, proprio e bastevole il valore” [17].

35. Il 23 dicembre 1798, il re e la regina lasciarono Napoli: imbarcati sulla nave ammiraglia della flotta inglese, che guidata da Nelson controllava il Mediterraneo, giunsero a Palermo, la loro seconda capitale, dove si insediarono in attesa degli eventi.

36. Il Vicario Generale lasciato a Napoli, il principe Francesco Pignatelli di Stròngoli, non riuscì a fronteggiare la situazione e concluse con Championnet una tregua di due mesi, firmata a Sparanise il 12 gennaio del 1799, con la quale si cedeva ai Francesi la fortezza di Capua e si garantiva il versamento di una contribuzione di guerra, una vera e propria taglia, di 2 milioni e mezzo di ducati.

La lotta dei “làzzari”

37. La notizia della tregua, e della taglia da versare, scatenò le ire dei làzzari napoletani, che si sentirono traditi nella loro strenua difesa della patria napoletana, del trono e dell’altare, e presero direttamente l’iniziativa: il Vicario Pignatelli fu costretto a fuggire a Palermo; il Mack si consegnò ai Francesi.

38. Per circa 10 giorni, come ai tempi di Masaniello, Napoli fu controllata dalla sola plebe, che acclamò “generali” due giovani ufficiali aristocratici, Moliterno e Roccaromana, considerati “eroi” della lotta contro i Francesi, ma che aveva di fatto i propri dirigenti in capi-popolo come Michele Marino, detto Michele ‘o pazzo (1753-1799) e Giuseppe Paggio.

39. In quei giorni di egemonìa, i làzzari trucidarono quanti erano visti come fautori dei Francesi o troppo arrendevoli verso di essi, saccheggiando le loro abitazioni, presero il controllo dei forti e dell’arsenale, e si opposero con tenace resistenza, dal giorno 20 al giorno 23, all’ingresso in città delle truppe francesi.

40. Frattanto, però, i “patrioti” napoletani avevano preso contatto con Championnet. Il giorno 21 gennaio 1799, un piccolo gruppo di essi si impadronì con uno stratagemma di Castel Sant’Elmo, prendendo di sorpresa i 130 popolani, guidati da Luigi Brandi, che lo occupavano.

41. Subito dopo, proclamarono la fine della monarchia borbonica ed issarono la bandiera della Repubblica napoletana, che era il tricolore rosso, giallo e blu: il rosso e il giallo erano i colori dello stemma del Seggio del Popolo, e sono tuttora i colori dello stemma del Comune di Napoli; il blu era tolto dalla bandiera francese.

42. Da quel momento, i cannoni del Castello spararono contro i quartieri popolari, favorendo quindi, dall’interno, l’assedio francese. La sera del 23 gennaio, tutta Napoli era occupata dalle truppe di Championnet. Nella battaglia, perirono circa 1.000 soldati Francesi ed un numero imprecisato di làzzari napoletani: furono sepolti in fretta e furia e nessuno li contò, ma si stima che fossero intorno alle 5.000 persone.

43. Nella sua relazione inviata al Direttorio, il generale francese scrisse: “Mai combattimento fu più tenace: mai quadro più spaventoso. I Lazzaroni, questi uomini stupendi (...) sono degli eroi rinchiusi in Napoli. Ci si batte in tutte le vie; si contende il terreno palmo a palmo.  I Lazzaroni sono comandati da capi intrepidi.  Il Forte S. Elmo li fulmina; la terribile baionetta li atterra; essi ripiegano in ordine, ritornano alla carica, avanzano con audacia, guadagnano spesso del terreno ...” 

Il mese di Championnet (23 gennaio - 24 febbraio)

44. Dopo la vittoria, Championnet non usò il pugno duro. Anzi. Con i làzzari insorti usò un comportamento di rispetto e, per mostrare al popolo che la spedizione francese a Napoli aveva anche l’approvazione divina, entrò in Duomo per assistere ad un miracolo “straordinario” di S. Gennaro.

45. I “patrioti” di Castel Sant’Elmo avevano proclamato il 21 gennaio la Repubblica napoletana: Championnet (ma contro il parere del Direttorio di Parigi) la riconobbe ufficialmente due giorni dopo, il 23, con un proclama e un decreto.

46. Il primo governo provvisorio della Repubblica, in attesa di una nuova Costituzione, fu composto da 25 persone, tutti napoletani ma scelti personalmente da Championnet e guidati da Carlo Lauberg, “già chierico dell’Ordine degli Scolòpi, fuggitivo per libertà in Francia, e tornato con l’esercito”, come riferisce il Colletta.

Carlo Lauberg (1752-1834)

47. Carlo Lauberg è un personaggio forse poco conosciuto, ma certamente emblematico della Repubblica napoletana: rivoluzionario e giacobino della prima ora, fu il primo “presidente” di quella Repubblica ma fu anche il primo a rimanerne profondamente deluso e ad allontanarsene, quando la vide svolgersi troppo difforme dai suoi ideali originari.

48. Era nato a Teano l’8 settembre 1752. Entrato nell’Ordine religioso degli “Scolòpi” e conseguita una laurea in Medicina, era rimasto fortemente impressionato dagli eventi della Rivoluzione francese e dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789.

49. Abbandonata la vita religiosa, si ascrisse alla Massoneria napoletana, che in quegli anni iniziava a prendere contatti diretti con i Giacobini francesi.

50. Insegnò a Chieti e poi al Collegio Militare della Nunziatella in Napoli, fondando anche, nel 1792, una Accademia di Chimica, che divenne una fucina di idee rivoluzionarie e repubblicane.

51. Partecipò attivamente alla preparazione di una rivolta armata contro i Borboni nel 1794 e, dopo che il tentativo fu scoperto e sventato, riparò ad Oneglia, in Liguria, che si trovava allora sotto controllo francese.

52. Proprio nell’Aprile 1794, l’amministrazione di Oneglia era stata affidata, in qualità di commissario rivoluzionario, all’ultra-giacobino Filippo Buonarroti, il quale gestiva la città secondo il suo orientamento “egualitario”: forte imposizione fiscale sui più ricchi e distribuzione di grano a prezzo bloccato ai poveri; sussidi ai più indigenti; esproprio dei beni mobili ed immobili di coloro che si erano opposti alla Repubblica ed erano emigrati; calmiere dei prezzi fissato per legge; scuola, elementare e media, pubblica e gratuita per tutti.

53. In questo clima, il Lauberg radicalizzò ulteriormente le sue convinzioni rivoluzionarie, fece parte della amministrazione cittadina e poi si arruolò come farmacista nel corpo della Sanità militare.  

Nel 1795 si sposò ad Antibes con Catherine Arnauld e si naturalizzò Francese assumendo il nome di Charles Jean Laubert.     

54. Quando rientrò a Napoli nel 1799, era dunque cittadino francese a tutti gli effetti, al sèguito dell’esercito in qualità di farmacista: anche per queste ragioni, evidentemente, Championnet lo volle come capo del governo provvisorio della Repubblica.

55. Fu però contrastato fin dall’inizio dagli altri membri del governo, per il suo atteggiamento ritenuto troppo “intransigente”, e fu sostituito da Ignazio Ciaia alla guida del governo (25 febbraio) non appena lo Championnet venne richiamato in patria dal Direttorio parigino (24 febbraio).

56. Poco dopo, non condividendo più la strada che aveva preso “l’esperimento” repubblicano, Lauberg lasciò anch’egli Napoli e ritornò in Francia, sua seconda patria, laddove osservò da lontano la tragica fine di quell’esperienza.

57. In definitiva, si può ritenere che egli volesse introdurre, nel governo della città, quelle misure di carattere “sociale” che aveva visto sperimentate nel governo di Oneglia e che sarebbero state, peraltro, anche le più idonee ad attrarre alla causa repubblicana le grandi masse di làzzari urbani nonché di contadini delle province.

Fu però contrastato, e politicamente sconfitto, da repubblicani che erano ultra-rivoluzionari “a parole” ma completamente astratti dalla realtà e che, comunque, non intendevano minimamente la egalité come re-distribuzione del reddito e riduzione delle enormi disuguaglianze economico-sociali allora esistenti.

58. Si dedicò in seguito alla professione di farmacista e all’attività di ricerca scientifica, per la quale ottenne poi finanche la Legion d’Onore. Morì a Parigi il 3 novembre 1834.

… e suo fratello Antonio

59. A Napoli rimase suo fratello Antonio, anch’egli religioso, riguardo al quale un interessante documento emerge dall’Archivio di Stato di Napoli (Atti del Cappellano maggiore, Relazioni, 800, 40):

“Il Padre provinciale Girone … propone (come suo assistente consultore) ….  D. Antonio Martino de Carles … ed ha assicurato inoltre che il D. Antonio Martino de Carles, malgrado fosse fratello del ribelle Lauber, si condusse da suddito fedele nelle passate sciagure de lo Stato, come si rilevò dalla suprema Giunta di Stato, per cui ha meritato di essere consultore del provinciale con approvazione della Maestà Vostra, e con intelligenza de’ vostri degni ministri ha voluto cambiarsi il vergognoso nome di Lauber”.

L’organizzazione

60. Il primo governo provvisorio della Repubblica unificava in sé il potere legislativo e quello esecutivo ed era suddiviso in 6 Comitati operativi. Vi erano inoltre 4 ministri: due francesi, Jacques Arcambal e Jean Bassal, alla guerra e alle finanze; e due napoletani, Francesco Conforti all’interno ed Emanuele Mastellone alla giustizia ed alla polizia.

Tutte le decisioni dei ministri erano, comunque, soggette alla dittatura del generale comandante l’armata francese; e segretario del governo era il “commissario di guerra” Marc-Antoine Jullien.

61. Fu anche creato un nuovo governo della città di Napoli, affidato ad una “Municipalità repubblicana” di 25 membri, fra i quali i capi-làzzari Antonio D’Avella detto “Pagliuchella” (1739-1799), di mestiere “oliandolo” e lo stesso Michele ‘o pazzo (vedi sopra, n°38) che aveva in precedenza combattuto contro i Francesi ma era stato poi co-optato da Championnet e nominato “colonnello” della Repubblica.

62. Fiorì in quei giorni a Napoli una vivace attività politica e culturale: sorsero molti giornali, tra i quali il “Monitore napoletano” curato da Eleonora Pimentel Fonseca, e si aprirono “Circoli” e “Sale d’istruzione” per il popolo.

Il Direttorio di Parigi non vuole Repubbliche “giacobine”

63. La politica adottata da Championnet non era però condivisa dal Direttorio che governava a Parigi (vedi sopra, nn°13 e 16): il Direttorio concepiva la conquista di Napoli solo come un mezzo per incamerare nuove ricchezze; e poi Napoli avrebbe potuto servire come base navale nel Mediterraneo.

Da Parigi, venne perciò inviato a Napoli un commissario “straordinario”, un certo Faypoult, che pretendeva la spoliazione completa dello Stato napoletano, incamerando alla Francia tutti i beni pubblici dell’ex-Regno, compresi monasteri e scavi archeologici.

64. Championnet, animo di galantuomo, il 6 febbraio espulse dal regno di Napoli il Faypoult, ma già il 24 febbraio fu a sua volta richiamato in patria e processato dal Direttorio: venne assolto, ma morì poco dopo in combattimento ad Antibes.

Anche il Bassal, ministro delle finanze, ed il Jullien, “commissario di guerra”, furono tratti in arresto in Francia.

Arriva MacDonald

65. A Napoli, al posto di Championnet, arrivò (27 febbraio) il generale MacDonald che si trovava a Roma, e con lui (7 marzo) rientrò il Faypoult.

La sostituzione di Championnet addolorò i Napoletani e soprattutto il governo provvisorio, che si opponeva alle pretese del Faypoult ora sostenuto anche da MacDonald.

66. Così, alla fine di marzo, il governo minacciò di dimettersi in massa, il 28 marzo arrivò da Parigi un nuovo “commissario organizzatore” e il 2 aprile il Faypoult venne definitivamente allontanato.

Il 14 aprile il “commissario organizzatore” Abrial nominò un nuovo governo provvisorio. Potere legislativo e potere esecutivo venivano stavolta separati ed attribuiti a 2 distinte Commissioni, rispettivamente di 25 e di 5 membri.

La situazione sembrava quindi stabilizzarsi alquanto, ma … già il 7 febbraio il cardinale Fabrizio Ruffo, a nome del Re, con soli 7 uomini ed una piccola imbarcazione, era giunto a Pizzo di Calabria, ed aveva iniziato la sua lunga marcia per la riconquista del Regno.   

Barra al momento della proclamazione della Repubblica

67. Il règio Casale della Barra, al momento della proclamazione della Repubblica, contava circa 5.490 abitanti: contadini quasi tutti, con una piccola minoranza di nobili, come riportato nella classica “descrizione” del Galanti (vedi nn°29-30-31 del capitolo su “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”) e come a nostra volta abbiamo cercato di descrivere nei nn°16-28 del medesimo capitolo.  

68. Di contro al gran numero di contadini poveri, si attestava però su posizioni di privilegio anche una sparuta borghesia: proprietari terrieri e professionisti, che gareggiavano in lusso spesso con gli aristocratici. Famiglie guida di questa particolare borghesia erano i Sannino, i Minichino, i Magliano ...

69. Il clero, con una folta rappresentanza, faceva vita indipendente. Era parroco, all’epoca, don Michele Ràiola: conosceva probabilmente tutti i suoi parrocchiani essendo stato in carica per ben 38 anni, a partire dal luglio 1761, e morì nel settembre 1799, un paio di mesi dopo la fine della Repubblica.

Alcuni sacerdoti furono certamente attratti dalle idee provenienti d’oltralpe anche se spesso, per motivi di convenienza, preferivano rimanere nell’ombra.

Barra nella bufera

70. Il nostro Casale dovette subire dapprima le conseguenze del passaggio dell’esercito francese che, nel gennaio 1799, guidato dal generale Championnet, avanzava verso la conquista di Napoli [18].

71. Il Casale di Pomigliano d’Arco, che aveva opposto resistenza, fu espugnato, saccheggiato e raso al suolo dai Francesi [19]; ma anche gli altri Casali, fra cui il nostro, furono comunque trattati come terre occupate: furti, violenze, abusi, etc. furono largamente compiuti dai soldati francesi nel cammino verso la città.

72. Entrato poi Championnet in Napoli, dopo aver superato l’aspra ed eroica resistenza opposta dai làzzari per tre giorni, il 20-21-22 gennaio, e proclamata ufficialmente la Repubblica il giorno 23, non si videro nei Casali miglioramenti significativi.

73. Anche i più famosi storici di parte repubblicana sono molto critici nel valutare ciò che venne fatto:  “Con un proclama del nuovo governo, si ordinò a tutte le antiche autorità costituite delle provincie (e dei Casali) che rimanessero in attività fino a nuova disposizione” [20].

Nel frattempo, vennero inviati in tutti i paesi i cosiddetti “democratizzatori”.

I  “democratizzatori”

74. Chi erano costoro? In linea di principio, erano delle persone inviate dal nuovo governo con lo scopo, per così dire, di “evangelizzare” le popolazioni contadine, portando loro il nuovo credo rivoluzionario, illustrando i vantaggi del nuovo regime ed infervorando gli animi a sostenere la Repubblica.

75. In realtà, le cose non andarono come si sperava. “Giovanetti inesperti, che non aveano veruna pratica del mondo, inondarono le provincie con una carta di democratizzazione, che Bisceglia, allora membro del Comitato centrale, concedeva a chiunque la dimandava.

Essi non erano accompagnati da verun nome; fortunati, quando non erano preceduti da uno poco decoroso!

Non aveano veruna istruzione del governo; ciascuno operava nel suo paese secondo le proprie idee; ciascuno credette che la riforma dovesse esser quella che egli desiderava: chi fece la guerra ai pregiudizi; chi ai semplici e severi costumi dei provinciali, che chiamò rozzezze.

S’incominciò dal disprezzare quella stessa nazione che si dovea elevare all’energia repubblicana, parlandole troppo altamente di una nazione straniera (la Francia) che non ancora conosceva se non perché era stata vincitrice; si urtò tutto ciò che i popoli hanno di più sacro, i loro dèi, i loro costumi, il loro nome” [9].

L’albero della libertà

76. Pure il Casale della Barra vide, dunque, arrivare il suo democratizzatore anche se il suo nome non emerge, almeno finora, dai documenti (vedi però nn°219-221). 

77. Come di solito tutti i democratizzatori facevano, egli per prima cosa innalzò il cosiddetto “albero della libertà”, che era il simbolo del nuovo regime e doveva pertanto costituire il nuovo centro attorno al quale si doveva svolgere la vita civile.

78. Il luogo dove l’albero venne posto fu, quasi certamente, il Largo Parrocchia. Questo per vari motivi: perché era il centro anche geografico del paese; perché doveva fare da “contr-altare” laico alla chiesa principale; ed infine, perché lì, proprio di fronte alla chiesa parrocchiale, sorgeva Palazzo Magliano, che apparteneva ad una famiglia borghese simpatizzante per la repubblica (vedi n°216).

79. Intorno all’albero, che veniva innalzato fra vibranti discorsi, musiche travolgenti e danze sfrenate, si tenevano poi le riunioni del “catechismo repubblicano”, si criticavano in pubblico le idee, le istituzioni (e le persone) del vecchio regime, si siglavano i contratti, si facevano i giuramenti e si celebravano le nozze secondo il nuovo rito civile; napoletanamente, si vendevano anche “spassatiempi” e brodi di polpo.

Simpatia e odio per i “giacobini”

80. Non sembra però che il messaggio portato dai democratizzatori riuscisse a farsi accettare e, a volte, neppure a farsi comprendere.

“Un patriota insegnava il nuovo calendario repubblicano a dei popolani:

- Tu lo sai che mese è chisto?

- Febbraro.

- Nonsignore. Se dice Piovoso. Marzo è Ventoso. Aprile è Germinale. E sai Luglio comme se chiamma? Se chiamma Termidoro. Hai capito?

- Gnorsì, eccellenza. Luglio è pommodòro: perchè è lo tiempo de li pommaròle” [10].

81. Questa di voler cambiare il calendario, abolendo fra l’altro la domenica e le feste dei Santi, non era l’unica stranezza che il popolo contadino non riusciva a digerire. I democratizzatori parlavano di libertà anche nei rapporti fra i due sessi, di unioni matrimoniali solamente civili; di divorzi; di nullità dei testamenti lasciati dai defunti; dicevano che bisognava abolire i conventi, che i preti avrebbero dovuto sposarsi; criticavano il re, la Chiesa ed i “signori” nobili, ma non spiegavano come, senza di questi, i contadini avrebbero potuto, in quel momento, sopravvivere.

82. Alle orecchie dei popolani, tutto ciò suonava inevitabilmente molto astratto quando non addirittura scandaloso ed empio. I contadini avrebbero ascoltato volentieri chi avesse parlato di riduzione dei prelievi sui frutti del loro lavoro, di distribuzione delle terre mettendo tutti in grado di lavorarle, di maggiore giustizia nelle liti e magari anche di servizi religiosi a più basso costo, ma che cos’erano queste “liberté” ed “egalité”?

83. L’unica cosa chiara era che comunque, intanto, bisognava pagare nuove tasse, per sostenere questa famosa “Repubblica” che era in difficoltà, e mantenere l’esercito dei “liberatori” francesi che erano in guerra e lontano da casa ...

84. Lo storico Giorgio Candeloro, fra i tanti altri, ravvisa la morte dell’effimera Repubblica proprio nella “... contraddittorietà tra la politica di spoliazione effettivamente seguita in Italia dai Francesi e i motivi correnti della propaganda repubblicana”.

85. Il popolo, fedele alla dinastia borbonica e al cattolicesimo tradizionale dei padri, avvertì questa presenza che invadeva più che liberare. La situazione precipitò proprio quando il governo provvisorio impose nuove tasse.

86. Slogans di protesta, su improvvisate musiche, circolavano per le strade. Ci piace citarne due, riportati da Giovanni Alagi [11]:

“So’ venute  li  Francìse
aute  tasse  ‘nce  hanno  mise.
Liberté ... Egalité ...
Tu arruobbe a me, io arrobbo a  ‘tte”.

e

“Li Francìse so’ arrivate,
ci hanno buono carusàte:
e vualà, e vualà,
càvece  ‘nculo  alla  libertà”.

Analogie e differenze con i Casali vicini

87. Nel vicino Casale di S. Giorgio a Cremano, fu proprio qualche esponente del clero, oltre che della borghesia, ad accendere la miccia della rivoluzione: il prete trentasettenne don Domenico De Somma; i due fratelli sacerdoti, originari di Resina, Antonio e Cristofaro Formisano; il notaio Scodes.

88. A Barra, invece, i sacerdoti “giacobini”, se c’erano, non si esposero mai in prima persona e, accanto alle famiglie borghesi parteggianti per la Repubblica, come i Sannino, i Minichino e i Magliano, si schierò solo qualche nobile “idealista” ma non troppo, come il giovane Pignatelli di Monteleone (vedi nn°229-238).

Il clero Barrese, come quello di Ponticelli, bandì nel complesso una vera e propria crociata contro gli invasori francesi. Nelle prediche e nelle confessioni, i Francesi venivano indicati come dissacratori, eversori, pagani, diavoli … e le angherìe perpetrate convalidavano quanto andava predicando il clero e spingevano sempre più il popolo su sponde opposte.

89. “Non mancò qualche malversazione; non mancò qualche abuso di novella autorità, che risvegliava gli spiriti di partito, non mai estinguibili tra le famiglie principali dei piccoli paesi. Gli animi si inasprirono ... Una popolazione scosse il giogo del democratizzatore; le altre la seguirono; le popolazioni che eran repubblicane, cioè che aveano avuto la fortuna di non aver democratizzatori o di averli avuti savi, si armarono contro le insorgenti...” [12]. E la guerra civile iniziò.

La guerra civile

90. L’8 maggio 1799, la maggior parte delle truppe francesi lasciò Napoli, a causa degli eventi bellici nell’Italia del Nord, e da quel momento le sorti della Repubblica poterono dirsi praticamente segnate.

91. Le masse della “Santa Fede”, molto più numerose ed agguerrite delle esigue forze repubblicane, avanzavano inarrestabilmente dal Sud, conquistando paesi su paesi, che abbattevano l’“albero della libertà” e suonavano le campane a stormo. Le “masse” erano guidate dal card. Fabrizio Ruffo.

Il cardinale Fabrizio Ruffo (1744 - 1827)

92. Nacque a S. Lucido di Calabria, il 16 settembre 1744, da Don Letterio Ruffo dei duchi di Baranello, divenuti proprio nel ’99 duchi di Bagnara per estinzione del ramo principale della famiglia, e da Donna Giustiniana dei prìncipi Colonna.

Fabrizio Ruffo

93. Dieci anni dopo la sua morte, il suo segretario, l'Abate Domenico Sacchinelli, nelle "Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo", scriveva che (Fabrizio) non aveva ancora compiuti quattro anni, quando fu portato a Roma per essere ivi educato sotto gli auspici del Cardinale Tommaso Ruffo, che era un suo pro-zio in quanto fratello di suo nonno Paolo, e Decano in quel tempo del Sacro Collegio.

94. Si trovava allora, nella Corte di quel Porporato, in qualità di uditore, anche il Prelato Giovanni Angelo Braschi di Cesena, il quale prese a ben volere il piccolo Fabrizio: lo faceva sedere sulle sue ginocchia e gli insegnava i primi rudimenti dello scrivere e del leggere.

95. “Volea Fabrizio giocare con la bella chioma di Braschi: tentò più volte di svolgerne gli inanellati capelli, ma venne sempre con diligenza impedito; infastidito finalmente di quell'ostacolo superiore alle sue forze, colla sua mano bambina gli tirò una guanciata, della quale occorrerà parlare.

Le amorevoli cure del Cardinal Tommaso per l'educazione e gli studi di Fabrizio, non furono senza grande effetto. Superò Egli di molto l'aspettativa che si avea de’ suoi sublimi talenti; e nell'età ancor giovanile, avea già acquistato fama di molto sapere nelle scienze filosofiche, e specialmente nelle fisiche ed in quelle di economia pubblica; e perciò gran nome lasciò di sé nell'illustre Collegio Clementino, in cui passò più anni in qualità di alunno, ugualmente che ve li aveva passati il di lui zio Cardinal Tommaso.

Salito poi Giovanni Angelo Braschi alla Cattedra di S. Pietro col nome di Pio VI, non si era dimenticato della guanciata ricevuta, e spesso, in aria di benevolenza, ne faceva menzione a Fabrizio”.

96. E così, tanto per i suoi meriti personali, quanto per la gratitudine alla memoria del Cardinal Tommaso, il Santo Padre Pio VI non tardò a nominarlo prima Chierico di Camera (1781), e poi Tesoriere generale di Roma (1785), che era allora la carica più importante dello Stato Pontificio, perché in Roma il Tesoriere aveva quelle stesse attribuzioni, che negli altri regni sono divise tra i ministri delle finanze, dell'interno, della guerra, e della marina.

97. Un altro suo biografo, il von Helfert, scrive: “In quella carica, il Ruffo non solamente attivò una quantità di provvedimenti utili all'universale, ma rimise in ordine e assetto tutto il sistema di finanze papali …

Non mancò senza dubbio d'attirargli disfavore la fermezza con la quale quei provvedimenti recò ad effetto; una gran parte delle classi privilegiate era sdegnata contro di lui per avere diminuiti gli antichi diritti feudali; i contrabbandieri l'odiavano e maledivano perché i nuovi ordinamenti doganali sciupavano loro il mestiere …

Nessuno però poteva attaccarlo nella interezza del suo carattere pubblico. Anche gli avversari dovevano rendergli giustizia, e confessare, che tutto quello a cui metteva le mani sapeva, con rara energia e con incontestata abilità, condurlo a fine.

L'avvedutezza e le capacità del Tesoriere Ruffo furono tali che Papa Pio VI gli propose di trovar modo di potenziare e di rendere economicamente attiva l'agricoltura nello Stato di Castro e nel Ducato di Ronciglione. La riforma agraria attuata dal Ruffo portò le rendite di quelle terre da 50.200 scudi, che erano, a 67.200.

Ma furono avvantaggiati soprattutto i contadini, ai quali erano state concesse le terre in enfitèusi perpetua a linea mascolina, progressiva nei maschi dell'ultima femmina di ciascun enfitèuta. Il Papa ne fu così contento che volle estendere quella riforma a tutto lo Stato pontificio”.

98. Per contro, la riforma agraria e le possibilità di benessere che permise ai contadini gli inimicarono ulteriormente la nobiltà feudale ed i grandi proprietari terrieri, oltre ai grandi appaltatori dello Stato già a lui ostili, fino al punto che il Papa stesso dovette infine cedere alle pressioni e rimuoverlo dall’incarico anche se, in compenso, volle innalzarlo alla  porpora cardinalizia.

Così, nel Concistoro del 29 settembre 1791, venne nominato Cardinale: era una di quelle nomine che ancor oggi si definiscono “in pectore” cioè destinate ad essere rese pubbliche solo in seguito, perché il Papa intendeva mantenerlo il più possibile nell’incarico di Tesoriere. La nomina venne quindi pubblicata solo il 21 febbraio 1794 ed in quella data Ruffo lasciò il suo incarico.  

99. Quel posto di Tesoriere, che aveva consentito a molti suoi predecessori di accumulare grandi ricchezze, egli lo lasciò con le mani vuote, tanto che gli fu necessario addirittura contrarre un prestito “per coprire le prime spese alla sua nuova dignità”.

100. Così pure, è forse calunnia dei suoi avversari per ottenerne la rimozione, la dicerìa secondo la quale egli, nel tempo in cui fu Tesoriere, si lasciò conquistare oltre il lecito dalla facile bellezza della marchesa Girolama Sampieri Lepri di Bologna ...

101. Comunque sia, il Re Ferdinando, appena seppe il Ruffo libero da incarichi presso la Corte Pontificia, lo invitò a trasferirsi a Napoli, offrendogli l'Intendenza di Caserta e la ricca badia di Santa Sofia di Benevento, dichiarata di règio patronato e per tale motivo contestata dal governo pontificio.

102. Ottenuta l'autorizzazione dal Papa, il Cardinale si trasferì a Caserta e si dedicò alle fabbriche e manifatture di seta della colonia di San Lèucio, portandole in pochi anni ad un livello produttivo mai raggiunto prima.

103. Nel 1798, fu tra i pochissimi a sconsigliare il Re ad abbandonare Napoli, ma seguì comunque la corte a Palermo, ed il 25 gennaio 1799 Ferdinando lo nominò suo Vicario Generale allo scopo di riconquistare il Regno invaso dai Francesi.

Anonimo, 1799, la presa di Ischia

Fabrizio Ruffo e … Giuseppe Garibaldi

104. Il Ruffo, sbarcato in Calabria con pochissimi uomini (meno dei famosi Mille!) e mezzi ancor meno, riuscì nella difficilissima impresa di unificare ed organizzare, per quanto possibile, la spontanea rivolta di popolo contro i Francesi ed i “giacobini in ritardo” napoletani.

105. Nello svolgimento di quella impresa, egli si rivelò davvero un “eminente” capo politico-militare e un autentico e disinteressato eroe della indipendenza nazionale napoletana: non fu certamente un santo, ma non fu nemmeno quella specie di mostro sanguinario, avido e ignorante che gli storici liberali a lui contemporanei (Colletta, Cuoco, etc.) vollero dipingere nei loro scritti, quasi come postuma vendetta contro colui che li aveva sconfitti.

106. Oggi praticamente tutti gli storici, anche quelli liberali a lui più avversi, convengono sul fatto documentato che il Cardinale Ruffo non fu un capo di briganti, non fu il responsabile delle stragi di Napoli e il boia dei Patrioti, non fu lui a venir meno ai patti di resa.

107. “Giunto a Napoli, desiderava di avere presto la resa dei castelli per mettere termine alla lotta civile che infuriava. Fra tanto sangue versato, il Ruffo non si ubbriacò di vendetta, ma con mente politica pensò alla restaurazione della monarchia, come opera di ricostruzione, e perciò fu consigliere di clemenza. Prevalse la stolta e crudele azione di sovrani e di ministri, sorretta dal Nelson. Il Ruffo, malvisto dai sovrani, approfittò del Conclave per lasciare Napoli nell'ottobre del 1799” [1]-

108. Tornato infatti il Regno nelle mani della famiglia Borbone, e della lobby inglese che in quel momento la condizionava (vedi sopra, n°30), il Ruffo fu del tutto allontanato dal potere e poco dopo dovette recarsi a Venezia per partecipare al Conclave per l’elezione del nuovo papa dopo la morte di Pio VI (vedi sopra, nn°20-21).

109. In definitiva, quello strano Cardinale fu, per i Borbone nel 1799, l’equivalente di ciò che Giuseppe Garibaldi fu per i Savoia nel 1860: un buon servo di un cattivo padrone; un esecutore, abile ed in buona fede, di un disegno politico non guidato da lui e che, portato a termine il suo incarico, venne messo da parte con grandi attestazioni di riconoscenza ma senza tanti complimenti …

Dopo l’impresa

110. In seguito, continuò a svolgere importanti còmpiti sia amministrativi sia diplomatici al servizio dei pontefici Pio VII e Leone XII, fino a che, dopo il 1815, si ritirò del tutto a vita privata e morì in Napoli il 13 dicembre del 1827.

111. E’ da rilevare infine che il Ruffo era cardinale ma non prete (era solo diacono: non poteva quindi dir Messa o confessare) e che, ironia della storia, nel 1813 venne nominato, proprio dall’imperatore francese Napoleone Bonaparte, “Ufficiale della Legion d’onore”.

112. Lo studioso lettore eviterà anche di confondere il nostro con il suo omonimo contemporaneo Fabrizio Ruffo di Bagnara, principe però di Castelcicala (1763-1832), che fu ambasciatore, per Re Ferdinando, prima a Londra e poi a Parigi, nonché Ministro degli Esteri e membro della Giunta di Stato per la repressione anti-giacobina.

Eleonora Fonseca Pimentel

Gabriele Manthoné (1764 – 1799)

113. Capo supremo dell’esercito repubblicano venne invece designato il capitano di artiglieria Gabriele Manthoné, “buono in guerra, di cuor pietoso, eccellente per animo ed arte nei duelli, d’ingegno non basso né sublime, per natura eloquente” come scrive il Colletta.

114. Il Manthoné era nato a Pescara il 23 ottobre 1764. Rappresentante, nella Repubblica, del Governo provvisorio e Ministro della guerra e degli Affari esteri, venne poi “afforcato” in seguito alla restaurazione borbonica e “morì con intrepidezza nel pubblico mercato di Napoli” il 24 settembre 1799.

115. Nello stesso giorno, avrebbe dovuto essere impiccato anche il suo collega Francesco Bassetti (vedi nn°132-141) che invece si salvò “denunciando altri e mandando altri alla forca”, come attesta Diomede Marinelli nei suoi “Giornali” di quel periodo.

116. Come capo dell’esercito repubblicano, Manthoné, “inesperto delle rivoluzioni, misurando dal valor proprio il valore dei commilitoni, magnanimo e giusto, diceva che 10 repubblicani vincerebbero 1.000 contrari, che non abbisognavano i Francesi, però che andrebbe Schipani contro Sciarpa, Bassetti contro Mammone e Fra’ Diavolo, Spanò contro de Cesare [2], egli medesimo contro Ruffo, e resterebbe in città ed in riserva il generale Wirtz” [3].

Ognuna, però, di queste spedizioni si concluse con una sconfitta dei repubblicani.

Michele Arcangelo Pezza detto Fra Diavolo

Si combatte alla Barra (domenica 2 giugno 1799)

117. In particolare, sia il Colletta (di parte liberale) che il Carta (di parte borbonica) riportano un episodio concernente Barra, il 2 giugno 1799:

”Manthoné, con 3.000 soldati, giunse appena alla Barra e, dopo breve guerra, soperchiato da numero infinito, percosso dai tetti delle case, menomato d’uomini, tornò vinto” (Colletta).

“La cavalleria retta da Manthoné, disertata, passò a far parte delle milizie della Santa Fede ... Manthoné cercò scampo alla Barra ma quivi assalito dagli abitanti fu costretto a fuggire” (Carta).

118. Al di là dei dettagli che differenziano le due versioni, non sembra comunque dubbio l’atteggiamento dei Barresi, che si batterono spontaneamente, e con tutti i mezzi a loro disposizione, contro i Francesi ed i “giacobini”, ed a favore del card. Ruffo e del re Borbone.

Si combatte alla Barra (giovedì 6 giugno 1799)

119. Si stringeva pertanto la morsa intorno alla città. La guerriglia intorno a Napoli cominciò ai primi di giugno: il 3 si ebbe uno scontro a Capodimonte ... il 5 si combatté ad Afragola ed a Casoria ...

120. Il giorno 6 giugno, il generale repubblicano Basset prese Barra; ecco come lui stesso descrive l’episodio, nel suo rapporto al ministro, scritto “a due ore dopo la mezza notte” e che fu pubblicato sull’ultimo numero (il N°35: sabato 8 giugno 1799) del “Monitore napoletano” di Eleonora Pimentel Fonseca:

121. “Cittadino Ministro,

Il valore de’ miei compagni d’arme fa trovarmi al possesso  della Barra,  malgrado che più di 300 insorgenti con un fuoco vivissimo ce lo avessero contrastato.

L’alboràto, ed i grani molto alti, che circondavano il fronte d’attacco, mi determinarono a questo colpo: molto più perché era prossima la notte, la quale non ci permetteva di bivaccare in un luogo così svantaggioso.

Io debbo lodarmi in generale di tutti; ma con particolar modo del Cittadino Alò, Capo di Battaglione, che alla testa de’ giovani degl’Incurabili, di altri bravi Patrioti e de’ coraggiosi Calabresi, han fatto prodigj di valore.

Jeri sera invitai gli abitanti della Barra a farci un’illuminazione, e nel tempo stesso si è fatta una perquisizione d’armi, ma non ne abbiamo trovata alcuna.

Sono rimasti feriti il Cittadino Francesco Braca degl’Incurabili, un Prete, ed un Francese, che coraggiosamente ci avean seguiti, ed il giovane figlio dell’ex-principe di Canneto, ferito nella spalla.

Tra i morti è il Cittadino Giuseppe de Pascale, Calabrese, che fu ucciso dai nostri medesimi per essersi incautamente troppo avvanzato”.

122. Il giorno dopo, però, Bassetti fu sconfitto a Ponticelli e dovette ripiegare verso il Vigliena.

123. La Eleonora Pimentel Fonseca aggiunge poi di suo: “Questa mattina una Deputazione Patriottica è andata a rappresentare alla Commissione Legislativa che nelle spedizioni de' giorni scorsi, e particolarmente in quella alla Barra, non si era pensato di mandare né carro alcuno onde trasportare i feriti, né chirurgo, o provvista di sfilacci, e pezze, onde fasciarli, cosicché i feriti in quell'azione avean dovuto ritornarsene a stento a piedi, senza ricever soccorso alcuno. La Commissione Legislativa, prestando a tali querèle l'attenzione che meritavano, ha spedito premuroso messaggio all'Esecutiva, acciò dia le opportune providenze”.

124. Nello stesso numero del “Monitore” sopra citato, troviamo anche il seguente episodio, il giudizio sul quale lasciamo allo studioso lettore:

“Fatti Repubblicani.

Un Cittadino ha Giovedì sera presentato alla Sala Patriottica, un suo figlio di tredici anni, il quale nella mattina istessa avea seguito il Gen. Bassette, e nell'affare di Ponticello si era valorosamente battuto.

Alcuni Cittadini presenti contestarono il fatto (evidentemente, non erano d’accordo a coinvolgere nella guerra anche un ragazzino di 13 anni) …

Ma tutta la Sala si levò ad applaudire, ed abbracciar questo virtuoso fanciullo, che si mostrò disposto a partire di bel nuovo il giorno appresso. Qual è più ammirabile: il coraggio del figlio, o quello del padre? Viva la Repubblica!”.

Si combatte alla Barra (sabato 8 giugno 1799)

125. Il giorno seguente, alle ore 7 del mattino di sabato 8 giugno 1799, di nuovo il generale Basset e lo stesso Gabriele Manthoné, capo dell’esercito repubblicano, avanzarono dal Vigliena verso Barra; ecco la descrizione “in diretta” del fatto, nel rapporto stilato da Manthoné il 10 giugno:

126. “Alle ore 7 di Francia … feci levare il bivacco avanti il Forte di Vigliena, distribuendo la Truppa in due Colonne, delle quali la sinistra veniva comandata dal Generale della Guardia Nazionale Cittadino Basset, e la destra da me medesimo.

Dopo aver circondata la Barra, vi feci ripiantare l’Albero della Libertà, feci fucilare i capi insurgenti, perdonai in nome del Governo i sedotti, ai quali in presenza del Popolo diedi il bacio fraterno.”  

127. Ripresa dunque la Barra, la colonna di Manthoné e l’altra guidata da Basset tentarono di “marciare di concerto sopra Ponticello, sede principale degli insurgenti”.

Questa manovra non ebbe però successo, a causa della “massa degl’insurgenti, ch’erano corsi in gran numero, dopo di aver sonate le campane a martello”.

128. Caricato dalla cavalleria a tutto galoppo, “l’inimico … fuggì dentro Ponticello, ove inseguito ed attaccato dai bravi repubblicani, cominciò a fare un vivissimo fuoco, scaricando una grandine di palle e di sassi dalle finestre. Resistenza così ostinata obbligò suo malgrado il Generale Basset a far porre il fuoco ad un gran numero di case del Paese … si ebbero diversi feriti, alcuni de’ quali mortalmente. Dei nemici, in numero di sopra 800, ne rimasero estinti oltre 50.

129. La massa de’ nemici, battuti e sboscati dal General Basset, venne a piegar sulla dritta da me comandata. Cinque volte la cavalleria caricò a briglia sciolta l’Inimico, che sciabolò e pose in fuga. I Fiancheggiatori, in mezzo a passi difficili, a strade tagliate ed a campi coperti di grano, fecero il lor dovere e sostennero il fuoco nemico. Ma arrivato alla destra di Ponticello, ove il nemico si era concentrato ed occupato avea tutte le alture contigue, non mi convenne entrare nel paese, donde già Basset si era ritirato. Feci perciò un movimento sulla sinistra, fingendo di prendere alle spalle l’Inimico, e mi ritirai”.

130. Nonostante i metodi alquanto sbrigativi, oltre Ponticelli Bassetti e Manthoné non riuscirono dunque ad andare e dovettero ritirarsi di nuovo verso la città. 

Il tenente svizzero Ruster

131. Nel suo rapporto su questi fatti, Manthoné riporta anche il significativo episodio della morte del tenente svizzero Ruster, con queste parole:

“Fu anche ferito in una coscia il bravo Tenente della Guardia Nazionale Ruster, Svizzero di Nazione, che richiesto da un nostro Repubblicano qual motivo gli facesse prendere un sì grande interesse per un Paese, che non era sua patria, il bravo giovane gli rispose: quell’interesse che un Cittadino deve prendere per la libertà del Mondo.

Questo virtuoso guerriero, spossato di forze, si rifugiò in una masseria, ove una donna, dopo averlo ricevuto, ebbe la barbarie d’indicarlo agl’insurgenti, i quali avendogli tagliate le gambe posero la sua testa sopra una picca; e così fu immolata questa vittima della libertà, lasciando la sua famiglia nella massima indigenza. Salute, e rispetto”.

Francesco Bassetti (1752–1808 ?)

132. Ma chi era invece il “cittadino Generale della Guardia Nazionale” Basset, quello che “suo malgrado” fece mettere a fuoco un gran numero di case del paese di Ponticelli?

Notizie di lui abbiamo in Ruggiero di Castiglione - “La massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli meridionali del Settecento”, Ed Cangemi, 2006 (vol.I) e 2008 (vol. II).

133. Francois Basset (italianizzato in Francesco Bassetti) era nato a Longueau in Francia nel 1752. Come il padre e come il fratello maggiore Louis aveva seguito la carriera militare nell’esercito francese, ed aveva raggiunto il grado di sotto-tenente nel 1776.

134. Nel 1791 era “primo tenente”, comandato presso la Reale Accademia Militare di Napoli e nell’ottobre del 1796 venne promosso capitano: si era dunque trasferito nel Regno meridionale, laddove fra il 1783 e il 1784 aveva aderito alla Massoneria ed era entrato nell’esercito borbonico.   

135. Con il grado di capitano, partecipò nel 1798 all’infelice vicenda dell’esercito napoletano sconfitto da Championnet (vedi sopra, nn°31-33).

136. Instaurata però la Repubblica, le sue origini francesi e l’appartenenza alla Massoneria gli propiziarono una fulminea carriera e divenne Generale comandante la Guardia Nazionale repubblicana, subentrando ad Agamennone Spanò. In tale veste, partecipò agli scontri intorno a Barra e Ponticelli nel mese di giugno.

137. Nel giorno dell’attacco finale, il 13 giugno, accorse con pochi uomini al poggio di Capodichino per fermare l’ala destra dell’armata sanfedista che “avanzava nei fertili giardini della Barra” ma, di fronte “all’immensa torma”, si rifugiò, aprendosi un varco fra gli avversari, in Castel Nuovo (= Maschio Angioino).

138. Dopo la capitolazione, si imbarcò con altri patrioti su una nave destinata a salpare per la Francia. Rinnegati però gli accordi dal re e dall’ammiraglio Nelson, venne condotto in catene, il 28 giugno, prima su una nave inglese e poi nelle segrete di Castel Nuovo.

139. Il 2 settembre venne condannato a morte dalla Giunta di Stato, con esecuzione stabilita per il 24 settembre, ma il 23 settembre per aver salva la vita fece il nome di vari repubblicani della città e delle province. In tal modo, ottenne che la condanna gli fosse commutata e, nel successivo anno 1800, fu inviato al carcere della Favignana (nell’arcipelago delle Egadi, Trapani).

Ivi stette, secondo alcuni, nella “fossa di S. Caterina” della fortezza; secondo altri, invece, nella “fossa di Punta Troia” della vicina isola di Marèttimo.

140. Comunque, ritornò in libertà a seguito dell’indulto previsto nel trattato di pace di Firenze del 28 marzo 1801. Considerato però ormai un traditore sia dai borbonici sia dai liberali, cercò miglior fortuna prima a Costantinopoli e poi a Parigi, laddove risulta aver beneficiato, nei primi mesi del 1806, di un sussidio governativo a favore degli esuli provenienti dal Regno di Napoli e Sicilia.

141. Nel luglio dello stesso anno 1806, chiedeva al governo francese di poter rientrare a Napoli, che si trovava allora sotto il regno di Giuseppe Bonaparte, ma non si conosce l’esito di tale richiesta. Certamente non fece parte del nuovo esercito napoletano e morì durante il decennio francese (1805-1815) prima del 1810.

L’attacco finale (giovedì 13 giugno 1799)

142. Il card. Ruffo si accampò a Nola l’11 giugno ed il giorno 13 (festa di S. Antonio di Padova, che era stato proclamato patrono dell’armata sanfedista) ordinò l’attacco alla città, investendola proprio dalla zona orientale.

143. I repubblicani erano attestati al ponte della Maddalena, sul fiume Sebéto e nel fortino del Vigliena presso l’edificio dei Granìli.

Il fortino del Vigliena

144. Le navi dell’ammiraglio Francesco Caracciolo cannoneggiavano dal mare l’ala sinistra dello schieramento di Ruffo, mentre “il generale Bassetti, con piccola mano, correva il poggio di Capodichino, minacciando, per le viste più che per l’armi, l’ala diritta dell’immensa torma che avanzava ne’ fertili giardini della Barra” [4].

145. Si combatté aspramente tutto il giorno 13 giugno, con grande determinazione e sprezzo della vita da entrambe le parti.  “Ed incerta pendeva la vittoria, stando sopra una sponda numero infinito e, su l’altra, virtù estrema e maggior arte” [5].

Il fortino del Vigliena

146. I sanfedisti assalirono dapprima il fortino del Vigliena “ma, per grandissima resistenza, bisognò atterrare le mura con batteria continua di cannoni” e quindi “entrati nel forte a combattere ad armi corte, pativano, impediti e stretti dal troppo numero, le offese dei nemici e dei compagni” [6].

147. Molti dei repubblicani erano morti. “Gli altri, feriti né bramosi di vivere; cosicché il prete Toscano [7], di Cosenza, capo del presidio, reggendosi a fatica perché in più parti trafitto, si avvicina alla polveriera e, invocando Dio e la libertà, getta il fuoco nella polvere e, ad uno istante, con iscoppio e scroscio terribile, muoiono quanti erano tra quelle mura, oppressi dalle rovine o lanciati in aria o percossi dai sassi: nemici, amici, orribilmente consorti” [8].

148. L’eroico episodio del Vigliena colpì il cuore e la fantasia di più generazioni. Così lo racconta il generale calabrese Guglielmo Pepe (1783-1855) nelle sue “Memorie”:

“A tali provvedimenti (il card. Ruffo) un altro ne aggiunse, spiar facendo da un corpo calabrese il forte di Vigliena, non già perché ne temesse il debolissimo presidio, ma perché l’ammiraglio Caracciolo avrebbe potuto ingrossarlo, sbarcandovi aiuti o da Napoli o dal campo di Schipani … E qui cade in acconcio ch’io dica quale fu il fato dell’immortale presidio di Vigliena.

149. Era esso forte di 150 valorosi, distaccati dalla Legione Càlabra, composta di studenti ed altri giovani nativi delle Calabrie, ed ardenti amatori di libertà, i quali trovavansi nella capitale all’entrar che vi fece Championnet. Tutti i legionari appartenevano a famiglie più o meno agiate, ed i 150 furono scelti tra i più destri cacciatori.

150. Il forte di Vigliena altro non era se non una batteria chiusa, costruita a solo oggetto di difendere la costa. Allorché, nel giorno 13, il cardinale ebbe osservato le sue schiere esposte a’ fuochi di quella, ordinò che fosse assaltata da scelte bande calabresi, onde fu miseranda cosa il vedere Calabresi contro Calabresi gareggiar in valor di fratricida pugna. Gli assalitori ravvisavano i loro concittadini all’ostinata difesa, da cui ridondò loro tanta perdita in feriti e morti, che dovettero suonare a raccolta e chiedere aiuto.

continua


Note

[1] Benedetto Croce - “Storia del Regno di Napoli”, 1924 - Ed. Adelphi, 1992.

[2] Croce, op. cit.

[3] Per quanto segue, si ripercorre, con alcune varianti ed approfondimenti, il testo di Pompeo Centanni e Angelo Renzi “La Repubblica napoletana del 1799 e il Casale della Barra”, Ed. Magna Graecia, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1999.

[4] Di seguito si citeranno soprattutto i “classici” (nelle edizioni riportate): Pietro Colletta - “Storia del reame di Napoli”, con introduzione e note di Nino Cortese - Ed. LSE, Napoli, 1957; Vincenzo Cuoco - “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799” - Ed. Procaccini, Napoli 1995.

[5] Pietro Colletta, op.cit.

[6] “La città fu investita (dai francesi) dalla parte orientale”: Alberto Consiglio - “Lazzari e Santa Fede” - Napoli, 1936.

[7] Consiglio, op. cit.

[8] Cuoco, op. cit.

[9] Cuoco, op. cit.

[10] Enzo Striano -”Il resto di niente”- Ed. Loffredo, Napoli- III edizione, 1986.

[11] Giovanni Alagi - “S. Giorgio a Cremano: vicende e luoghi” - Ed. Parrocchia S. Maria del Principio, S. Giorgio a Cremano, 1981.

[12] Cuoco, op. cit.

[13] Niccolò Rodolico, in Enciclopedia italiana, 1936.

[14] Sciarpa, Mammone, Fra Diavolo e de Cesare erano capi-popolo, che combattevano per il cardinale e per il re. Schipani, Bassetti, Spanò e Wirtz erano, naturalmente, comandanti dell’esercito repubblicano. In particolare: Giuseppe Schipani ed Agamennone Spanò, ex ufficiali dell’esercito borbonico, furono poi giustiziati insieme, ad Ischia, il 19 luglio 1799; per Francesco Bassetti, vedi di seguito nn°132-141.

[15] Colletta, op. cit.

[16] Colletta, op. cit.

[17] Colletta, op. cit.

[18] Colletta, op. cit.

[19] Antonio Toscano era un prete di Corigliano Calabro (Cosenza) ed era a capo del gruppo di volontari della “legione càlabra” repubblicana che presidiavano il fortino del Vigliena.

[20] Colletta, op. cit.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, ottobre 2016

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