Al di qua del faro
Antonio Capece Minutolo e Luigi de’ Medici |
Re
Ferdinando
volle ristabilire buone relazioni con il Papa, incrinate nel periodo
napoleonico dalla confisca di beni ecclesiastici in Sicilia e dalle
condanne inflitte ad alcuni preti. Il 25 febbraio del 1815 entrò in
vigore un nuovo concordato che ristabiliva gli antichi privilegi
della Chiesa. Il 12 giugno dello stesso anno fu firmato a Vienna il
trattato d’alleanza con l’Austria, che prevedeva un generale
austriaco come capo dell'esercito borbonico e 25.000 soldati a
disposizione dell'Austria. La
legge 8 dicembre 1816, stabilì l’annessione di fatto della Sicilia con la
proclamazione del
Regno delle Due Sicilie: uno stato nuovo, in precedenza mai esistito.
Il Ministero della Polizia era passato ad Antonio Capece Minutolo,
principe di Canosa
[4], nonostante l'opposizione di alcuni ministri, tra cui
il Medici
[5], di idee meno reazionarie e ben visto dall’Austria.
Spettò al Canosa occuparsi della condanna a morte di
Gioacchino
Murat dopo lo sbarco a Pizzo Calabro. Cominciò ad epurare la
Polizia dagli elementi assunti dal corso Saliceti sotto Giuseppe
Bonaparte, ed instaurò un rigido controllo per frenare l'azione
delle sette segrete, in particolare quella dei
carbonari. A sua volta creò ed organizzò la setta
legittimista dei «calderari», a cui distribuì 16.000 porti
d'armi, secondo l’accusa mossagli dal Medici, che arrivò a chiederne
l’arresto. La vicenda si concluse con la rimozione del Ministro di
Polizia
[6].
Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa
|
In attuazione al concordato con la Chiesa, fu disposta la
restituzione delle proprietà che erano state confiscate agli ordini
religiosi: a ciò si opposero Pietro Colletta e i
carbonari, che erano diventati piu baldanzosi dopo la
scomparsa dalla scena politica del principe di Canosa
[7].
All'inizio del 1800 a Napoli si era formato un folto stuolo di
carbonari, ingrossatosi dopo la concessione della
Costituzione a Palermo, fomentati per destabilizzare Murat e,
più in generale, in funzione anti-francese, dal plenipotenziario
inglese
Bentinck, vero “padrone” della Sicilia fino al 1814. La
Carboneria raccolse adepti nella borghesia, nell'esercito e anche
nel clero. Si prefiggeva il passaggio dall’assolutismo regio al
regime costituzionale. Rifiutava apparentemente il carattere
antireligioso di altre sette, e della massoneria da cui proveniva (e
che, in buona sostanza, continuò sempre a controllarla), e chiedeva
più libertà e potere per la borghesia.
Nel 1813 si ebbero i primi
tentativi insurrezionali a Cosenza, Teramo e Pescara, repressi dai
francesi di Murat, che misero a sacco Altilia, considerata centro
della setta. Si diffuse quindi anche nell'Italia settentrionale,
dove subì l'influsso di altre sette
[8].
Dopo la restaurazione borbonica, restava il problema rappresentato
dalla componente murattiana nell'esercito. Venne istituita una
commissione - presieduta dal gen. Guglielmo Pepe
[9] - per decidere le epurazioni. In effetti, lo stesso
Pepe era il “capo spirituale” della Carboneria, e questo spiega
perché i moti del 1820 si formarono proprio in seno all'esercito.
Dopo un tentativo fallito a causa di fuga delle notizie, la rivolta
ebbe inizio a Nola, nella notte fra il 1° e il 2 luglio, dove i
tenenti Morelli e Silvati presero il comando del reggimento Borbone
Cavalleria costituito da 145 uomini. Davanti alla caserma si
riunirono altri rivoltosi, al comando dell'abate Menichini, a
cavallo in abito talare e armato fino ai denti, e tutti insieme si
avviarono poi verso Avellino. Del capoluogo irpino il Morelli
proclamò la Costituzione di Spagna in nome del popolo, alla presenza
del vescovo.
Il gen. Pepe seguiva da Napoli l’andamento della rivolta,
agevolandola frenando l’intervento della gendarmeria. Il re,
all’oscuro dei tutto, si trovava a bordo della Galatea per andare
incontro ai duchi di Calabria che venivano dalla Sicilia. Tra il 5 e
il 6 la situazione precipitò: anche i reggimenti di cavalleria
Regina e Dragoni aderirono alla rivolta insieme a quello di fanteria
Re di Napoli: il Pepe raggiunse i rivoltosi ad Avellino e ne prese
il comando. Rientrato a Napoli, Ferdinando si convinse a concedere
quanto gli veniva chiesto: «il re di piena volontà prometteva di
pubblicare entro otto giorni le basi della Costituzione»
[10].
|
Guglielmo Pepe
|
Fu nominato anche un nuovo governo e, a causa dello stato di salute
del sovrano, il principe Francesco fu ancora una volta nominato
Vicario Generale. Il 7 luglio del 1820 fu promulgata la
Costituzione.
Le truppe in rivolta, con il Morelli a capo, giunsero davanti al
Palazzo Reale. Seguirono i generali Pepe e Napoletani ed il
colonnello De Concilj, nonché l'abate Menichini con circa 7.000
carbonari. Il gen. Pepe ottenne di essere ricevuto da Ferdinando,
che si impegnò ad osservare la Costituzione.
Il periodo costituzionale |
Le elezioni avvennero regolarmente e il Colletta riporta che i
«collegi elettorali furono affollati come in paesi di antica
libertà». Il 1° ottobre del 1820 ebbe luogo la seduta inaugurale del
Parlamento. Il Pepe, accompagnò il re all'assemblea e dopo che il
Vicario ebbe letto il discorso della corona, depose simbolicamente
«ai piedi del Re il comando supremo dell'esercito costituzionale».
Anche in Sicilia intanto avvenivano cruente rivolte, come riportato
nella parte “Al
di là del faro” della presente lettura. Il governatore
Naselli fu sostituito, e venne inviato l’esercito al comando del
generale Florestano Pepe [11].
Le potenze della Sacra Alleanza guardarono con sospetto agli
avvenimenti del Regno siculo-napoletano. L’Inghilterra inviò a
Napoli la flotta. Il 25 luglio 1820 Metternich manifestò la sua
riprovazione rifiutandosi di ricevere l'inviato del Regno, principe
Cariati. Fu convocata quindi una conferenza a Troppau ove si
discusse il modo di intervenire nel Regno. L'Austria era propensa ad
intervenire con le armi, ma prevalse la linea di Russia e Prussia di
convocare a Lubiana re Ferdinando per richiamarlo ai suoi doveri di
alleato.
|
Il ministro austriaco Metternich |
Ferdinando informò il Parlamento di questo invito, ed assicurò il
governo che a Lubiana avrebbe difeso la Costituzione, che ormai
faceva parte del patrimonio legislativo nazionale. Arrivò a Lubiana
il 18 gennaio del 1821, dove però gli fu imposto che le cose
ritornassero come prima della rivolta. Nello stesso momento gli
ambasciatori della Santa Alleanza a Napoli informarono il principe
Francesco dell’invio nel regno dell’esercito alleato. Il Parlamento
si dichiarò pronto alla guerra contro la Santa Alleanza e fu disposto
l’invio di un'armata alla difesa del Garigliano e di un'altra in
Abruzzo.
L'esercito austriaco non si fece attendere ed il generale Pepe diede
battaglia a Rieti, dove però fu sconfitto. Gli Austriaci entrarono a
Napoli il 23 marzo e la Costituzione venne annullata.
L’occupazione austriaca e la morte di Ferdinando |
Ferdinando, ormai settantenne, richiamò al Ministero di Polizia il
Capece Minutolo, principe di Canosa, dandogli mandato di punire i
responsabili della rivoluzione e di effettuare una severa
epurazione. Morelli e Silvati furono condannati a morte e
giustiziati, mentre ad altri 28 la pena capitale fu convertita in
reclusione. Gli Austriaci, che erano a Napoli come dominatori,
imposero nuovamente il ministro Medici come capo del governo, ed il
Canosa fu rimosso a causa delle vecchie ruggini.
Luigi de’ Medici, dei principi di Ottaviano
|
Ferdinando si recò quindi al Congresso di Vienna, dove ottenne che
l'armata di occupazione – che gravava interamente sulle casse del
Regno - fosse ridotta. Il re rientrò a Napoli il 6 agosto del 1823
dopo un'assenza di circa otto mesi. Ebbe modo di veder terminata la
chiesa di San Francesco di Paola, da lui voluta di fronte a Palazzo
Reale. Nei primi giorni del gennaio del 1825 re Ferdinando
incominciò a non sentirsi bene e chiese di essere dispensato dal
ricevere in udienza. Morì nella notte del 4 gennaio
[12].
Al di là
del faro
Come abbiamo già scritto in base al regio
decreto dell’8 dicembre 1816
sia la Sicilia che Napoli cessano di essere regni autonomi.
Ferdinando, che era IV di Napoli e III di Sicilia diviene I di un
regno unico dove entrambi i regni diventano “provincia” del Regno
delle Due Sicilie
con
capitale Napoli mentre Palermo diventa semplicemente “capovallo”.
|
Ferdinando I |
Non vogliamo in questa sede giudicare se sia stata una mossa
politicamente giusta o no, nata nell’ambito del Congresso di Vienna,
ma possiamo certamente valutare le conseguenze che l’abolizione
dell’articolo della
Costituzione del 1812 che proclamava la
separazione della Sicilia da Napoli: si venne a creare un movimento
antinapoletano poderoso che caratterizzò il periodo che dal 1816
arriverà al 1860 e che portò allo sfascio il Regno delle Due
Sicilie.
In questo stesso periodo tuttavia assistiamo anche al proseguire di
quel processo di modernizzazione avviato nell’isola nel Settecento
illuminista napoletano e proseguito durante il “protettorato”
inglese, in analogia, se non in sintonia, a quanto succedeva nella
penisola durante il periodo “murattiano”. Non dobbiamo però mai
dimenticare che il processo di modernizzazione, sia a Napoli che in
Sicilia fu “calato dall’alto”. Nel napoletano dall’influsso della
rivoluzione francese e nel siciliano dall’influsso del liberalismo
inglese. I processi di democratizzazione e modernizzazione vera,
hanno bisogno di secoli per maturare e, per essere duraturi, devono
essere intrinseci della storia di uno Stato. Nel momento in cui
vengono imposti dall’alto o si costringe a suon di decreti o di
bombe ad accettare una seppur più valida forma di governo si va
incontro a ciò cui stiamo assistendo oggi in Iraq e in Afganistan.
Nel caso delle Due Sicilie il codice murattiano venne esteso per
decreto anche alla Sicilia, che già stentava ad assorbire il
costituzionalismo inglese. In ogni caso il passaggio dal regime
feudale al regime borghese portò innegabili vantaggi al regno
borbonico da cui scaturirono i numerosi “primati”
e i fiori all’occhiello del Regno, ma non dobbiamo perdere d’occhio
che questa “positività” è fortemente inficiata dalla “negatività”
politica accumulata dai Borbone nel periodo della restaurazione
Allora come oggi l’apparente benessere di una piccola parte della
popolazione non significa che lo Stato stia bene. Senza considerare
che le maggiori industrie erano già fin da allora in mano a capitali
stranieri.
Ma torniamo a noi.
Già lord
Bentinck prospettava in una lettera del 1814 al principe
Francesco, nell’ipotesi di abolizione dell’indipendenza siciliana,
un “grande spargimento di sangue”
.
|
Lord William Bentinck |
La previsione di Lord Bentinck era politica, non astrologica.
All’indomani del proclama dell’8 dicembre 1816 i siciliani però rimasero stranamente
passivi perché, come racconta Paternò Castello, uno dei protagonisti
dell’epoca, riferendosi anche ad anni più tardi “Ma che far potea
la Sicilia scorgendo l’Europa tutta sotto il giogo della Santa
Alleanza compressa? E trentamila baionette austriache in Napoli
pronte a sostenere i ministri oppressori?”
.
E il sangue arrivò, nel 1820, nel 1848 ed infine nel 1860. E sempre
il “fil rouge” fu l’astio contro i Borbone per l’abolizione del
regno più antico d’Italia, quello di Sicilia, come ben si comprende
dall’appello dei profughi siciliani, redatto da Michele Amari ed
indirizzato a Lord Palmestron “Noi non domandiamo grazia,
amnistia, ritorno dall’esilio: espedienti inutili e inadeguati ai
mali della patria; non domandiamo nulla di nuovo né di esorbitante;
noi domandiamo nel 1856, quello che domandammo nel 1848, nel 1820,
nel 1821, nel 1648, nel 1282; domandiamo la ragione, il giusto, il
necessario; domandiamo di non perire.”
Non tutti i siciliani erano convinti della necessità
dell’indipendenza da Napoli: molti, la maggior parte, erano convinti
che la Sicilia non avesse le forze per reggersi da sola e che
sarebbe stata, staccandosi da Napoli, fagocitata o dall’Inghilterra
o dalla Francia o dalla Russia. A Napoli di contro non tutti erano
centralisti e molti auspicavano un ritorno a quel federalismo
felicemente sperimentato da
Carlo III.
Non vi era purtroppo nessuno che avesse l’autorità politica di
suggerire al sovrano questa semplice soluzione.
Sappiamo già dai capitoli precedenti che le due Sicilie espressero
durante il regno dei Borboni grandi
intellettuali, grandi santi, grandi eroi, ma mai espressero
un grande statista accanto ai suoi Re. Poi la guerra intestina tra
Napoli e Sicilia travolse ogni cosa, riducendo a provincia di uno
Stato straniero (quello di Sardegna) entrambi i contendenti.
|
Gaetano Filangieri |
È pur vero che un grande stato meridionale lo vollero le grandi
potenze riunite in Congresso a Vienna e lo volle pure re Ferdinando,
ma la creazione del nuovo Stato fu gestita da politici napoletani e
siciliani che si rivelarono incapaci. Il Medici aveva suggerito di
tornare al “federalismo” di Re Carlo che aveva creato, ricordiamolo,
uno Stato meridionale su basi unitarie centralizzate per gli affari
politici generali e su basi di autogoverno locale per gli affari
interni di ciascuno Stato. Ma il suo rimase solo un suggerimento,
certamente non si adoperò per realizzarlo. Le potenze del Congresso
di Vienna non erano contrarie a tale soluzione: ad esse interessava,
una volta scomparso il pericolo napoleonico, la restaurazione del
grande stato meridionale, tant’è che nel testo originale francese Re
Ferdinando era riconosciuto “Roi de Deux Siciles”. Nella
traduzione italiana, fatta dal ministro Alvaro Ruffo divenne “Re
del Regno delle due Sicilie”. L’errore di traduzione, non
sappiamo quanto in buona o malafede, non fu rilevato, per
convenienza da Metternich e per indifferenza da Castelraigh, con la
conseguenza che lo Stato meridionale unitario su base federale
divenne Stato unitario centralizzato
.
Senza considerare che i due stati durante il periodo napoleonico
avevano subito tipi di sviluppo diversi: Napoli si era sviluppata
sul modello francese-murattiano, la Sicilia sul modello inglese. A
Napoli i borbonici si erano ben amalgamati con i murattiani e tutti
si trovarono d’accordo sulla centralizzazione e l’unificazione dei
due Stati. Non così in Sicilia, che aveva applicato il modello
costituzionale inglese.
Per la Sicilia non si trattò quindi di accettare ciò che era stato
fatto durante il decennio inglese, come per i napoletani il periodo
murattiano, ma si trattò di rigettare le riforme ottenute e
sostituirle con quelle murattiane. Senza considerare che a Napoli
c’era un partito murattiano filofrancese che in Sicilia non era mai
esistito, dove c’erano costituzionalisti filoinglesi e democratici.
Senza alcuna forma di diplomazia fu deciso di imporre il modello
murattiano alla Sicilia tanto che storici del periodo come il
siciliano Paternò Castello
e il napoletano Luigi Blanch
parlarono di “conquista” e di distruzione dei due fra i più antichi
Stati italiani.
A causa della creazione di questo nuovo Regno e della sudditanza
politica di Ferdinando I all’Austria, in una Europa che cambiava
velocemente, il
Mezzogiorno cancellò la sua grande
tradizione statale normanna, sveva, angioina, aragonese e anche
quella borbonica di Carlo e di Ferdinando “ante Congresso” e finì
per confluire nell’unità nazionale italiana, realizzata dai
piemontesi, con una così clamorosa disfatta che lo condannò ad una
marginalità mai più riscattata.
Questo era il clima creatosi all’indomani dell’editto dell’8 dicembre 1816.
Si capisce bene che la fusione dei due Regni si basava su
presupposti fragilissimi e non poteva non sfociare in rivolta non
appena se ne fosse presentata l’occasione.
Questa si presentò nel 1820 quando, scoppiata la rivoluzione in
Spagna, questa deflagrò anche nel Regno delle due Sicilie e per di
più ebbe inizio nella parte continentale, quella ritenuta più salda,
per mano dei tenenti Morelli e Silvati che, come già riportato in
precedenza, a capo di un centinaio di militari della Reale
Cavalleria disertarono dai quartieri di Nola e iniziarono la loro
marcia reclutando altri disertori e popolani al grido di “Viva
Dio, Re e Costituzione”. Se solo il governo borbonico avesse
avuto un minimo di consistenza avrebbe represso facilmente questa
diserzione, ma era talmente debole che dopo appena quattro giorni il
re emise un editto con il quale prometteva al popolo la Costituzione
sulla falsariga di quella di Cadige. Quello che stiamo criticando
non è “il concedere la costituzione” ma “il come” concederla. Un
comportamento che mette a nudo la debolezza e l’inefficienza del
quinquennio amministrato dal ministro Medici.
Una settimana dopo anche in Sicilia, resisi consapevoli della
debolezza dello stato, scoppia la rivolta. Ma qui come al solito, ci
si divise: nella Sicilia orientale, Messina e Catania, la rivolta fu
di matrice costituzionale e in linea con i rivoltosi napoletani si
chiese la costituzione spagnola, nella Sicilia occidentale,
capeggiata da Palermo e Agrigento, la vicenda fu più travagliata;
inizialmente si chiese la costituzione del 1812 e successivamente si
accettò di aderire a quella spagnola a condizione però di aver
riconosciuto per la Sicilia governo e Parlamento propri. La Sicilia
non chiedeva l’indipendenza, tanto è vero che chiedeva al governo
rivoluzionario insediatosi a Napoli di riconoscere il Parlamento e
il governo siciliani [Colletta, Storia del Reame di Napoli].
Chiedeva il federalismo di Re Carlo e di Tanucci, ma a Napoli non
capirono o non vollero capire tanto che non solo rifiutarono di
riconoscere il parlamento siciliano ma inviarono le truppe col
compito di reprimere la sovversione.
A questo punto della storia è bene fare il quadro delle posizioni
nelle varie province del Regno: la Puglia, la Calabria, la Lucania,
il Molise e la stessa Campania, chiedevano una federazione delle
rispettive province, mentre le sette carbonare di Messina e Catania
erano d’accordo con il centralismo di Napoli. Palermo invece
chiedeva un Parlamento e un governo separati da Napoli. Come si vede
non esisteva uno spirito pubblico unitario meridionale. Né
nella penisola né nell’isola. Nell’isola poi l’assenza di una guida
politica e di una chiarezza programmatica portarono alla rivolta ben
120 comuni in molti dei quali furono compiute efferatezze e vendette
private. La frammentazione del movimento fu tale che
depoliticizzarlo fu estremamente facile e a nulla valsero le squadre
di popolani organizzate dal colonnello Requesenz e da Giovanni Aceto
con l’intento di difendere Palermo e i suoi dintorni dalle truppe
inviate da Napoli, da Catania e da Messina. Erano 25.000 gli uomini
agli ordini di Florestano Pepe appoggiati dalla flotta militare e
800 regolari più i guerriglieri guidati dal colonnello Gaetano Costa
da Siracusa.
La convenzione del 5 ottobre 1820: un'occasione persa |
Come si può capire ci troviamo nel bel mezzo di una doppia guerra
civile, quella di Palermo contro Napoli e quella tra le città della
Sicilia occidentale e orientale. Le truppe alleate del Costa e del
Pepe ebbero presto ragione dei guerriglieri urbani che difendevano
Palermo e, a detta dello stesso Pepe
,
fu solo la mediazione del principe di Paternò che impedì un massacro
fratricida firmando la convenzione del 5 ottobre.
Napoli, Messina e Catania non furono d’accordo, considerando tale
convenzione troppo generosa, tanto che a Napoli non si ebbe alcun
rispetto per quanto convenuto dal Pepe, che fu costretto a
dimettersi e sostituito dal generale Pietro Colletta cui fu ordinato
di mettere ordine nella città.
Il Pepe non aveva agito con leggerezza ma in base ai suggerimenti di
Carlo Filangieri e di altri membri della giunta di governo, propensi
a cercare un accordo duraturo per di salvare l’unità della nazione.
Lo stesso Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli.
Il Colletta, così come l’Aceto, parlano di Napoli e Sicilia come di
stati confederati
.
|
Pietro Colletta
|
In ogni caso l’annullamento della convenzione del 5 ottobre, frutto
del lavoro del fior fiore delle delegazioni delle province
continentali e isolane, fu un avvenimento determinante per le sorti
del Regno delle due Sicilie. Se il governo di Napoli avesse colto
quell’opportunità, non così facile gioco avrebbe avuto la politica
espansionistica cavouriana!
Anche l’invio del Colletta non si rivelò una buona mossa, il suo
autoritarismo militare servì solo ad esasperare gli animi e a
rafforzare sentimenti indipendentisti che esitarono in una
disobbedienza civile massiccia. Fiorirono opuscoli e giornali che
invocavano l’indipendenza ed i siciliani si dimisero in massa dalle
cariche pubbliche. Si viveva in stato di anarchia tanto che Colletta
scriveva, in una lettera del
7 dicembre 1820, ai ministri della
Marina e della Guerra “La Sicilia ha in se tutti i germi di uno
sconvolgimento generale (…). Non è in aperta insurrezione, ma non è
tranquilla; gli abitanti e fra questi li Palermitani, distintamente
non ci combattono, ma ci aborrono; le autorità sono piuttosto
sofferte che rispettate; e le leggi più tollerate che obbedite. Da
questo stato a quello di aperta rivolta il passaggio è brevissimo, e
perciò i rimedi parziali sono inefficaci.”
.
E lo stesso riferiva il Nunziante, che sostituì il Colletta
dimissionario. Il Colletta aveva istaurato un regime di occupazione
che compattò tutta la Sicilia nell’odio per Napoli, anche le città
orientali inizialmente favorevoli all’unità politica con Napoli.
Insomma in quegli anni il Re di Napoli, perché solo questo era
diventato per i siciliani e non più “Sa majesté sicilienne”,
e soprattutto il suo governo inanellarono una tal serie di errori di
cui ancora stiamo pagando le conseguenze.
La situazione era confusa, variabile, equivoca, incerta e fu in
questo clima che giunse la notizia (9 febbraio 1821) che veniva ritirata la Costituzione,
in conformità alle decisioni prese a Lubiana da un “vertice” europeo
manovrato dall’Austria. E a scanso equivoci, mentre Re Ferdinando
veniva trattenuto a Lubiana, un contingente austriaco forte di
50.000 uomini, al comando del generale Frimont, varcava il Po
diretto verso il Napoletano. I napoletani e i siciliani si resero
conto del pericolo di farsi trovare divisi e il
16 febbraio 1821
firmavano un accordo in cui si riconosceva la costituzione
presentata da una commissione di sette membri (uno per ogni
provincia) presieduta da Ruggero Settimo
,
in cui si riconosceva che l’unità politica non comporta di necessità
uniformità nei sistemi e nei metodi i amministrazione. Ma ormai era
troppo tardi, il 23 marzo gli austriaci entravano in Napoli e il 31
maggio entravano a Palermo. L’occupazione ebbe termine nell’aprile
del 1826. Fu in questa fase che in Sicilia proliferarono le
“vendite” carbonare con il relativo seguito di repressioni e
condanne esemplari.
|
Ruggero Settimo. Palermo, Museo del Risorgimento. |
La situazione sembrò avere una svolta positiva con l’ascesa al trono
del giovane Ferdinando II, l’8 novembre del 1830, ma di questo
parleremo in un altro capitolo.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
Febbraio 2007
continua ...
[1]
Quando tentò di riconquistare il Regno sbarcando con un pugno di uomini a Pizzo
Calabro, fu catturato e, dopo un processo sommario, fu fucilato. Un detto
popolare dell’epoca, diceva: «Giacchino facette 'a legge e Giacchino murette».
[2] La regina
Maria Carolina era morta a Vienna l’8 settembre del 1814.
Ferdinando portò il lutto per due mesi, quindi sposò la sua
amante, Lucia Migliaccio, nominandola duchessa della
Floridiana. Il matrimonio non piacque al principe ereditario
Francesco, che avanzò delle critiche sulla moralità della
Migliaccio. Re Ferdinando replicò, si racconta, con un
“pienz’a mammeta!”, alludendo agli amanti della defunta
Maria Carolina. Lucia Migliaccio rimase sempre in disparte,
senza ingerire negli affari di stato.
[3] Pietro
Colletta (Napoli 1775 - Firenze 1831), nel 1799 aveva
aderito alla Repubblica Partenopea. Napoletana. Ingegnere e
generale dell’esercito sotto Murat, fu riconfermato
nell’incarico dopo la restaurazione borbonica. Nel 1823 andò
volontariamente in esilio a Firenze, dove si dedicò agli
studi storici, pubblicando la Storia del Reame di Napoli dal
1734 al 1825.
Bibliografia
-
Colletta, P., Storia del Reame di Napoli, introduzione di
N. Cortese, L.S.E., 1969
-
Correnti, S., Storia della Sicilia, Periodici locali
Newton, 1997
-
Cortese, N., La prima rivoluzione separatista siciliana
(1820-1821) L.S.E., 1951
-
Paternò-Castello, F. Saggio storico e politico,
introduzione di Massimo Ganci, Edizioni della regione siciliana,
1969
-
Quatriglio, G., Mille anni in Sicilia, Marsilio, 1996
-
Renda, F., Storia della Sicilia, Sellerio, 2003
-
Gleijeses,
V., La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977
-
Gleijeses, V.,
La guida storica, artistica, monumentale, turistica della città
di Napoli e dei suoi dintorni, Società Editrice Napoletana, 1979.
|