“Il governo d'Italia è stato vigliacco, col
Mezzogiorno. Sa di poter osare tutto quaggiù; e, nel fatto, può
tutto osare, e tutto osa quaggiù. Ormai il governo dispone del
Mezzogiorno elettorale. In venti anni lo ha, elettoralmente,
demoralizzato. [...] Povero Mezzogiorno! È Depretis al Governo?
Quaggiù comanda Grimaldi. È Rudinì? Quaggiù imperversa Nicotera. È
Giolitti? Quaggiù striscia Lacava. È Sonnino? Quaggiù impera Crispi.
È Pelloux? Quaggiù torna a strisciar Lacava. Sempre così,sempre. E
sarà sempre così, perché il Settentrione capitalista e militarista
fa i suoi affari, restando al timone dello Stato, grazie alla
degradazione politica del Mezzogiorno”.
|
“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che
ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole,
squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri
che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di
briganti.”
[2] |
“Sappiamo bene che c'era già una Questione
meridionale: ma sarebbe rimasta come una vaga "leggenda
nera" dello Stato italiano, senza l'apporto degli scrittori
meridionali.” [3] |
Alla vigilia del 1860, il Regno siculo-partenopeo si presentava
indebolito nelle sue stesse fondamenta. La forzata
annessione della Sicilia (1816) e le
rivolte del 1820 e del
1848-49 avevano compromesso gli
equilibri interni ed il rapporto tra la monarchia ed i ceti
liberali. Le relazioni internazionali erano segnate da un perdurante
stato di isolamento.
Francesco II,
succeduto l’anno precedente al padre
Ferdinando II, si rivelò il meno adatto a fronteggiare
l’evolversi della situazione. Il crollo avvenne in occasione
dell’invasione sarda-garibaldina di cui trattiamo in altre letture
del sito.
All'indomani
dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno sabaudo e della
frettolosa proclamazione del Regno d’Italia (ancora
mancavano infatti Roma e le Venezie) si evidenziarono,
con immediatezza, molti problemi che richiedevano interventi
urgenti. Ma uno su tutti
mise a rischio l'esistenza
stessa del neonato stato unitario, quello che fu definito dai Savoia
"brigantaggio meridionale" e che, più onestamente,
Aurelio Saffi definì la "sciagurata e ingloriosa guerra" che
contrappose per lunghi anni le truppe del nuovo Stato ai ribelli
meridionali.
Il fenomeno
fu devastante nella sua espressione e fu represso con particolare
durezza dai Savoia che necessitavano al più presto di una
legittimazione.
In tempi
recenti, il fenomeno fu più gentilmente definito "la guerra dei
contadini del Sud" e, a mio parere, sarebbe opportuno
inquadrarlo nell’ambito del “banditismo
sociale”,
un fenomeno ben conosciuto sia in Europa che in altri continenti e
che solitamente affonda le sue radici nella mala giustizia e diventa
esplosivo in caso di sovvertimento dello “status quo” che
viene a determinarsi all’indomani di un cambiamento repentino dei
sistemi sociali, siano essi positivi che negativi. Si diffonde
rapidamente tra le masse rurali o quanto meno tra le classi
subalterne, solitamente lontane dagli sconvolgimenti sociali ed
economici che inevitabilmente coinvolgono e sconvolgono la società.
Il fenomeno è
soprattutto tipico della classe rurale in quanto la più antica e la
più restia a mutare costumi, vuoi per una incapacità di
partecipazione ad uno stile di vita lontano dalla terra, vuoi per
una reale mancanza di aspirazioni che non siano quelle della
sopravvivenza, condizione atavicamente determinata dalla
sottomissione alla servitù e dall’assenza di una coscienza sociale.
Nelle terre
meridionali già avevamo assistito alla formazione di “bande
sociali” all’indomani della instaurazione della
Repubblica
Partenopea (1799) che, grazie alla sapiente guida del
Cardinale
Ruffo, riuscirono nell’impresa di restituire al Re lo Stato e
ripristinare le antiche consuetudini. Perché in realtà al mondo
contadino non importa di Costituzione e di libertà di stampa, ma
sente il bisogno di un paladino alla Robin Hood che non combatte i
potenti per abbatterli, ma si limita a frenare i loro eccessi. Il
cardinale Ruffo, uomo di grande carisma, riuscì a imporsi come capo
e a guidare le sue “bande” nella maniera migliore
ripristinando l’antico ordinamento che garantiva la sicurezza nella
continuità.
All’indomani
della conquista sabauda, dopo l’annessione e la disfatta
dell’esercito borbonico, nel meridione si erano create le stesse
condizioni del 1799 e
nell' “armata cafona” erano confluiti
nostalgici dei Borbone, cittadini feriti dai soprusi del nuovo
potere, pastori e braccianti senza terra che si ribellavano ai nuovi
assetti proprietari, criminali comuni. Il banditismo
toccò il culmine nella grande rivolta contadina (in Sicilia) e nella
guerriglia (nelle province napoletane). Una
guerriglia che impegnò nel Sud oltre centomila soldati del Regio
esercito. Ma non c’era più un cardinale Ruffo-Robin
Hood. In verità dopo la fuga a Gaeta, Re Francesco II, la sua
giovane regina Maria Sofia e lo stato maggiore borbonico avevano
pensato di organizzare in maniera efficiente le risorse militari del
brigantaggio, per concentrarle ed affidarle al comando più esperto
di generali legittimisti. È il caso, tra gli altri, del comandante
spagnolo Josè Borjès, inviato dai circoli borbonici in Calabria, con
la promessa, poi rivelatasi illusoria, di un gran seguito tra la
popolazione locale e di un’alleanza con le bande organizzate del
brigante Crocco. Ma come lo stesso Crocco racconta nella sua
autobiografia, l'incontro avvenuto a Lagopesole fra i due uomini fu
breve ma tale da far capire ad entrambi che al comando unico non si
sarebbe mai arrivati, sia perchè Borjes non era Ruffo, un
meridionale e un rappresentante della Chiesa, sia perché Crocco
diffidava di uno straniero inviato nella sua terra a sottrargli la
guida militare dei suoi uomini.
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Josè Borjès |
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Carmine Crocco |
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La reazione
popolare fu comunque assai diversa nelle due “province” del regno,
come vedremo in seguito, a riprova che mai c’era stata una unità
nazionale nel Regno del sud
.
In Sicilia si ebbe una catena di rivolte contadine, tipiche
sollevazioni popolari, nel continente invece divampò il banditismo e
la guerriglia per circa un decennio.
Il banditismo
esplode, come detto in precedenza, come reazione ad una situazione
di sfruttamento, è contro i padroni, è in difesa dei cafoni, dei
diseredati e degli ultimi, ma non propone nessun progetto di
rinnovamento né economico né politico. Dopo l’unità si limitò
infatti a propagandare l'immediato ritorno sul trono del sovrano
Francesco II, di cui, con il passar del tempo, ci si fidava sempre
di meno [Carmine Crocco, Autobiografia]
.
Era un modo di aggregazione di tutti quelli, ed erano tanti, che
condividevano la medesima sorte di emarginazione e di miseria, di
soprusi padronali e di angherie personali, li accomunava anche un
sincero attaccamento alla religione, spesso vissuta sotto forma di
fede cieca e di superstizione (il bandito portava sempre addosso
oggetti sacri, immagini di santi, e amuleti)
.
La religione era quella cattolica di Francesco II, che vantava
l'appoggio della Chiesa.
Quale ruolo
hanno i banditi nella trasformazione della società? Potremmo dire
che, di norma, sono individui che rifiutano di sottomettersi e
perciò si staccano dalla massa o, più semplicemente sono uomini che
si trovano esclusi dalle loro occupazioni abituali e pertanto sono
costretti a diventare fuorilegge e a darsi al crimine. Il banditismo
“endemico” è dovuto spesso a un reato compiuto per vendicare un
oltraggio, alla perdita della proprietà per disgrazia o per debiti,
a qualche evento che rientra nella sfera del privato. Quando ci
troviamo di fronte a un fenomeno “en masse”, come avvenne nel
meridione dopo la conquista piemontese, a causare il fenomeno sono
piuttosto i sintomi di crisi, di tensione interna alla società in
cui si vive, come sintomi di carestia, di pestilenza, di guerra o di
qualsiasi altro evento destabilizzante. “I banditi sociali -
scrive Hobsbawm
- sono fuorilegge rurali, considerati malfattori dal signore e
dall'autorità locale, ma che pure restano dentro la società
contadina sono considerati dalla propria gente eroi, campioni,
vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti
di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e
appoggio.
Il fenomeno del banditismo sociale esprime, in situazioni storiche
le più disparate, un intreccio significativo tra contadini e
ribelli, da non confondere con malavitosi professionali che fanno
delle scorrerie e delle rapine l'oggetto esclusivo della loro
attività delinquenziale. I delinquenti di professione vedono nel
contadino la preda naturale, lo aggrediscono e ne violentano le
donne, lo rapinano e fanno razzie. Un bandito sociale, al contrario,
non metterà mano sul raccolto del contadino, e se talvolta sarà
costretto a requisire merci e denari per esigenze logistiche,
attenderà il momento propizio per restituire il mal tolto. Il
banditismo sociale non ha senso al di fuori dei rispetto tacito di
questa norma”.
Di per se il
banditismo non è un programma della società contadina ma, come dice
Hobsbawn
,“una forma di autonomia per sottrarsi a
essa in circostanze particolari”.
“I banditi sociali sono, in questo senso, dei riformatori, non dei
rivoluzionari”. Ma se il brigantaggio diventa il simbolo di
resistenza dell'intero ordine tradizionale contro le forze rivali,
allora può apparire come una “rivoluzione sociale”, anche se opera a
favore di una causa reazionaria. I banditi e i contadini napoletani
insorti contro stranieri e giacobini in nome del papa, del re e
della fede, erano rivoluzionari, mentre il re e il papa non lo
erano.
“I
briganti non insorgevano a difesa del regno dei Borboni "reale"
- molti, anzi, pochi mesi prima avevano combattuto con Garibaldi -
ma per l'ideale della società dei buon tempo antico, simbolizzata
naturalmente dall'ideale del Trono e dell'Altare. In politica i
banditi tendono ad essere dei tradizionalisti rivoluzionari. L'altra
ragione per cui i banditi diventano dei rivoluzionari è inerente
alla società contadina. Anche chi accetta lo sfruttamento,
l'oppressione e la soggezione come norma di vita, sogna un mondo
dove essi non esistano: un mondo di uguaglianza, di fratellanza e di
libertà, un mondo totalmente nuovo, privo di male. Raramente esso è
qualcosa di più di un sogno”.
I banditi a
parte la voglia e la capacità di rifiutare la sottomissione, non
professano idee diverse da quelle della società a cui appartengono:
sono uomini d’azione non ideologi, sono capi con forte personalità e
innato talento militare, sono uomini duri e sicuri di sé ma non
sanno scoprire vie nuove sanno solo aprirsi un varco con la forza
(nel 1799, Ruffo, personalità fortissima, seppe indicare loro la via
da seguire). Alcuni capi briganti post unitari, come Crocco e Ninco
Nanco
o La Gala mostrarono ottime doti di comando ma per quanto gli anni
del brigantaggio costituirono un esempio di rivolta contadina
guidata da “banditi sociali”, i capi briganti non incitarono mai i
contadini a occupare le terre
né mai concepirono un disegno di “riforma”, si limitarono a
combattere, talvolta abbandonando al proprio destino, come nel caso
di Borjes, chi tentava di finalizzare la rivolta. Il programma dei
banditi, quando ne hanno uno, è quello di difendere o restaurare
l’ordine tradizionale, di rimettere le cose a posto.
Per un’analisi del primo periodo post-unitario, occorre partire
dalla constatazione della diversità che presentavano all’epoca le
due parti principali dell’ex-Reame, Sicilia e Continente, e quindi
di quelle esistenti all’interno della parte continentale stessa.
I
destini di Napoli e della Sicilia si erano definitivamente separati
fin dal 1282, con
il Vespro, cui
seguì circa un secolo di guerra per il possesso del titolo di Re di
Sicilia. Nel
1401 la Sicilia era
finita nell’orbita spagnola. Anche
Napoli
dal 1503 fu governata da viceré spagnoli, ma diversi da
quelli di Sicilia: le differenze e diffidenze permasero, così come
nel corso dei Regni di
Carlo e
Ferdinando di Borbone. Quest’ultimo
nel 1816, in ossequio alle decisioni delle potenze del
Congresso di Vienna, decretò
l’annessione a Napoli della Sicilia. Non era facile compito
unificare due Stati restati 6 secoli a guerreggiare ed a guardarsi
con sospetto, ancor meno facile era generare una nazione meridionale
cosciente di se stessa
.
Ed infatti, l’operazione si concluse nel modo più fallimentare per
entrambi, che furono annessi allo Stato sabaudo!
Esaminiamo quindi gli avvenimenti in Sicilia e nel Napoletano
per
cercare di capire il perché di tante ribellioni e delle tante
differenze che caratterizzarono gli anni dal ’60 in poi nelle due
parti del ex-Reame.
In Sicilia,
nel 1860, il ceto che appoggiò Garibaldi contro i Borbone e favorì i
Savoia fu il ceto della piccola borghesia nascente, quella costituta
dai gabelloti, dai compagni d’arme e dai campieri che man mano si
era arricchita alle spalle dei grandi proprietari e che aveva fatto
studiare i propri figli. Non una borghesia industriale o
imprenditoriale ma una borghesia frutto del furto che si era
impadronita di quella fascia sociale che possiamo definire “dei
professionisti” (notai, avvocati, medici, ecc, di quelli che furono
chiamati galantuomini) e aveva interesse a ridistribuire nei ruoli chiave del potere i
compagni d’arme, i campieri, i gabelloti e
soprattutto i loro figli. Fu il trionfo dei galantuomini.
Tutta quella genia di sopraffattori che per secoli avevano vessato
le classi subalterne dell’isola e avevano sfruttato le classi
aristocratiche arricchendosi a loro volta e che immediatamente si
misero a seguito delle scarne truppe garibaldine non tanto per
ideale di libertà ma per ideale di sfruttamento.
La Sicilia in
pieno secolo XIX, situata nella parte più colta del bacino del
Mediterraneo, rimaneva tuttavia succube delle angherie feudali. In
Sicilia arrivò ben poco dello spirito della Rivoluzione francese e
arrivò nulla della ventata riformatrice napoleonica. L’isola infatti
rimase fino al 1815 sotto la protezione della flotta e dei soldati
inglesi che difesero i Borbone ivi rifugiatisi. E’ vero che nel
1812
il Parlamento siciliano, ricostituito sotto la protezione inglese,
aveva abolito il feudalesimo ma l’abolizione si risolse in una vera
e propria truffa: le proprietà feudali che fino ad allora erano
state sottoposte agli usi civici, che favorivano in qualche
modo i lavoratori, furono trasformate in proprietà allodiali
e inoltre, in analogia alle Chiusure inglesi, una quarta
parte delle terre feudali venne a costituire il demanio comunale. Ma
nell’assegnazione avvennero tante di quelle truffe che costrinsero
il governo borbonico a legiferare, invano, contro questi abusi. Non
è certo una novità del nostro tempo l’elusione delle leggi con la
connivenza della corruzione. Da ciò nacquero una serie di
contestazioni giudiziarie che comportarono non poche rivolte agrarie
che si trascinarono ben oltre il 1860. I lavoratori furono spogliati
dell’uso delle proprietà feudali e rimasero servi; come ebbe a
riportare Sonnino, nel rapporto sulla sua inchiesta, “quella che era
stata fino ad allora potenza legale rimase come prepotenza di fatto
e il contadino dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo ed
oppresso”.
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Nino Bixio |
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Ferdinando Pinelli |
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Il contadino
o l’operaio era e rimase per il gabelloto e per il galantuomo un
animale inferiore di cui non ci si deve preoccupare più di tanto e
che non ha diritto a giustizia. Per vendicare un oltraggio, per
sfuggire al creditore, sono costretti a diventare fuorilegge e a
darsi al crimine al brigantaggio. Fu questo atteggiamento di
prevaricazione nei confronti dei deboli e delle classi subalterne
che favorì la nascita di quelle associazioni a delinquere che dopo
l’unità, furono chiamate mafiose ma che in verità erano ben presenti
nelle nostre campagne da parecchi anni e avevano un’origine più
complessa. Il governo borbonico, in seguito al rapporto di Calà
Ulloa
, si
era reso ben conto che in Sicilia era impossibile amministrare in
maniera “normale” la giustizia e fece ricorso ad un espediente in
puro stile americano: la sicurezza pubblica concernente i reati
contro la proprietà, nelle campagne, venne data in appalto
alle Compagnie d’armi, sotto il comando di un capitano
che versava una cauzione al governo e con essa rispondeva dei furti
e dei danni qualora non se ne scoprisse il colpevole. Ogni
provincia, ogni comune, aveva la sua compagnia d’arme ma fra loro
non c’era accordo; ogni compagnia infatti rispondeva solo dei
reati commessi nel proprio territorio. Come conseguenza si
assistette ad una sorta di alleanza tra Compagnia d’arme e i
malandrini del proprio distretto: questi sarebbero stati protetti e
lasciati in pace purché andassero a rubare o ammazzare in un altro
comune! Alle Compagnie d’arme poi poco importava della giustizia,
quello che più premeva era non risarcire il danno al malcapitato,
ciò comportava spesso un “patteggiamento” col malfattore e col
danneggiato che di solito si risolveva con la restituzione parziale
della refurtiva (a questo punto più o meno iniquamente divisa tra
Compagnia, danneggiato e malfattore) il tutto con l’atteggiamento di
chi elargisce un favore al malcapitato. Di quale specchiata onestà
dovevano rifulgere i Compagni d’armi! Ma non è finita qui
perché i grandi proprietari per combattere le Compagnie d’armi
altrui – sembra di raccontare una favola ma, purtroppo, è vero -
provvidero a difendersi con un corpo di guardie private: i
Campieri. I Campieri a loro volta non potevano che essere
reclutati che tra briganti e malandrini, perché dovevano saper usare
le armi e tenere testa alle Compagnie d’armi.
Credo che il
lettore si sia fatto un quadro chiaro di quale fosse la situazione
nelle campagne siciliane e in quale stato di soggezione vivessero i
contadini e i piccoli artigiani e quale odio verso galantuomini, i
gabelloti, i campieri, i nobili, il re, covasse tra le masse
contadine, e perché spalleggiarono sempre chi si dava alla macchia
per sfuggire alla “malagiustizia”, i briganti per necessità cioè,
che apparivano loro come difensori dei deboli, e furono pronte a
ribellarsi a fianco di chiunque prospettasse loro la liberazione
dalle vessazioni e un pezzo di terra da lavorare. Così fu nel 1820,
1837, 1848. E quando arrivò Garibaldi, nel 1860, con le sue idee
democratiche, con le sue promesse di spartizione delle terre furono
pronte ad affiancarlo.
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Francesco Crispi
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Scrive
Antonio Canepa nel suo famoso proclama “la Sicilia ai siciliani”
:
La Sicilia non si era mossa, nel 1860. O,
se si mosse, dove si mosse, non fu certo nel senso unitario voluto
dai piemontesi. Fu per proclamare una Sicilia indipendente,
repubblicana, nella quale la povera gente potesse vivere in pace
senza essere sfruttata da nessuno. Ma questi movimenti non potevano
piacere. E così, prima ancora che terminasse il 1860, Bixio, mandato
da Garibaldi, dovette correre a Bronte e in molti altri paesi, con
truppe non siciliane, per domare la vera, autentica rivoluzione
siciliana che incominciava. A Bronte fece fucilare cinque persone.
Altrove, di più. Impose taglie e multe alla popolazione, che cercò
di atterrire in tutti i modi. “Missione maledetta (confessò più
tardi lo stesso Bixio) alla quale un uomo della mia natura non
dovrebbe mai essere mandato!”. Poi gli italiani scesero in Sicilia.
Luogotenenti, Commissari civili, stati d’assedio e altre misure
eccezionali imperversarono in Sicilia a partire dall’unificazione.
Il primo stato d’assedio fu proclamato in Sicilia nel 1862; ed esso,
come disse Crispi, lasciò terribili tracce. Nell’anno seguente, si
ebbe di fatto il secondo stato d’assedio con la missione del
generale Govone il quale apertamente violò le leggi dello Stato.
Sotto il generale Govone, per combattere i renitenti alla leva, i
Comuni siciliani venivano cinti da cordoni militari o presi
addirittura d’assalto; senza mandato di cattura venivano arrestati
sindaci e consiglieri comunali; venivano presi ostaggi, comprese le
donne incinte, una delle quali (Benedetta Rini, di Alcamo), quasi al
termine della gravidanza, morì in carcere dopo quattro giorni di
convulsioni. Fu persino applicata la pena dell’acqua!
E quanti innocenti furono martoriati! Un disgraziato operaio,
Antonio Cappello, sordomuto dalla nascita, venne sottoposto alla
tortura nell’Ospedale Militare di Palermo, come se fingesse d’esser
muto e sordo per sottrarsi al servizio militare: sul suo cadavere si
poterono contare 154 bruciature fatte col ferro rovente!
Tutti questi sono fatti. Fatti documentati. Basta sfogliare il libro
di Zingali: “Liberalismo e fascismo nel Mezzogiorno d’Italia”,
volume primo, da pagina 232 in poi: ci troverete questo ed altro! E
non è un separatista che scrive, badate, ma un fascista il quale è
stato persino segretario federale!....”
Parole
condivisibili quelle di Canepa anche se adattate al
movimento
separatista da lui guidato. I siciliani che si mossero per
motivi ideologici furono ben pochi, molti invece furono i contadini
che già all’indomani del 4 aprile 1860
,
nonostante il fallimento dell’insurrezione palermitana, furono
organizzate squadre al comando di borghesi e galantuomini che
diedero inizio ad una guerriglia che tenne occupato l’esercito
borbonico fino all’arrivo di Garibaldi. Molte di queste rivolte si
conclusero con la distruzione di municipi, edifici pubblici e
privati, devastazioni, saccheggi e uccisione di ufficiali borbonici
e proprietari terrieri. Si accrebbe notevolmente anche il banditismo
non politico, uscirono infatti dalle carceri oltre 12.000 detenuti
che si diedero allegramente al saccheggio e alle vendette private,
alla grassazione, alla rapina e alla violenza a scopo di lucro.
Questa era la situazione nelle campagne siciliane al momento dello
sbarco di Garibaldi. Uno stato di guerriglia che destabilizzava le
truppe borboniche proteggendo l’avanzata di Garibaldi a cui si
unirono, fiutando l’affare, i Compagni d’arme, i campieri e i loro
picciotti, il tutto col beneplacito dei galantuomini e dei loro
servi, spinti da motivi assai poco idealistici e che speravano nella
suddivisione dei grandi feudi solo per impadronirsene o in una
carriera politica che li portasse a legiferare nel parlamento
italiano così come avevano sempre fatto nel parlamento siciliano
.
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Enrico Cialdini |
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Giuseppe Govone |
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6La massa
contadina invece aveva solo sete di giustizia e sperava
nell’emancipazione dalla servitù. E il contentino lo ebbero:
l’abolizione del dazio sul macinato, l’abolizione del saluto feudale
“baciamo le mani a voscienza”, …. e nulla più! In breve i tentativi
dell’ala più radicale e socialista di introdurre la
questione
sociale e la questione agraria in particolare, vennero rintuzzati.
Si arrivò così al 2 giugno, data del famoso proclama in cui il
“dittatore” Garibaldi prometteva le terre ai combattenti e data in
cui avrebbe iniziato ad usufruire della collaborazione di 6 ministri
e di un segretario di stato (Francesco Crispi), tutti siciliani. La
promessa delle terre spiega il grande seguito che Garibaldi ebbe tra
gli umili e tra i contadini. Ma il peggio doveva ancora venire
perché sulla testa di tutti avrebbero pesato i profondi dissapori
tra Garibaldi e Cavour. Il primo, rappresentante della sinistra
europea il secondo della destra moderata, il primo desiderava che
Vittorio Emanuele da re di Sardegna diventasse re degli italiani
proclamato da una grande costituente nazionale da tenersi a Roma, il
secondo invece preferiva mantenere il parlamento a Torino e
annettere al Piemonte gli altri Stati. Tra i due, Vittorio Emanuele
seppe giocare bene le sue carte, illudendo Garibaldi da un lato e
appoggiando Cavour dall’altro, il tutto “sottobanco”. Si servì di
Garibaldi per la conquista militare e di Cavour per la conquista
politica. E poiché più passava il tempo e più prestigio acquistava
il nizzardo, Cavour spedì in Sicilia e in tutta fretta, ancor prima
della decisiva battaglia di Milazzo, il messinese Giuseppe La
Farina, con il compito di far approvare immediatamente l’annessione
dell’isola al regno sabaudo. La Farina arrivò il 6 giugno e
immediatamente si mise al lavoro riunendo tutti i moderati e tutti
quanti non vedevano di buon occhio i successi di Garibaldi e le sue
promesse di riforma agraria. Bisognava fermare non solo Garibaldi ma
anche Crispi che non voleva l’annessione immediata, sperando in una
sorta di autonomia dell’isola. La Farina però esagerò e organizzò
una manifestazione al grido di “Viva Garibaldi, abbasso Crispi“,
tanto che, il 7 luglio, fu espulso dalla Sicilia dallo stesso
Garibaldi che però fu costretto ad accettare come prodittatore il
lombardo Agostino Depretis.
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Giuseppe La Farina |
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Agostino Depretis |
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Ma il nuovo
stato mancò completamente alla sua missione e non si conquistò la
fiducia della collettività ma lasciò che una borghesia avida e
gretta e una aristocrazia asfittica e indebitata, che avevano tutte
le brame del capitalismo senza possederne i mezzi e le capacità di
realizzarlo come invece stava avvenendo nel resto del mondo, nord
Italia compreso, si accaparrasse e spartisse i latifondi e i posti
di potere.
La mancata
distribuzione delle terre ai contadini diede luogo a tumulti di
piazza e a gravi fatti di sangue in parecchi comuni dell’isola come
Corleone, Cinisi, Vicari, Caltanissetta, Cerami, Caronia, Acireale,
ecc. Tutta la Sicilia era in rivolta. I fatti più gravi e più noti
si ebbero a Bronte, il 7 agosto. Non erano trascorsi neanche tre
mesi dallo sbarco di Garibaldi e già la rivolta divampava. Mentre
nelle piazze si combatteva e si moriva per mano dei “liberatori” e
dei loro alleati locali, nei palazzi si discuteva: non più
l’annessione che ormai era divenuta inevitabile ma le modalità della
stessa: la corrente rappresentata da Crispi e dalle frazioni
autonomistiche guidate da Ferrara, Amari, Cordova ed altri
invocavano “Casa Savoia ma con massima autonomia e parlamento
separato” e premevano per ritardare il plebiscito allo scopo di
ottenere garanzie in tal senso. Intanto l’ ”escalation” delle
ribellioni e il pressante intervento del console inglese nel caso di
Bronte convinsero Depretis al ricorso a dure misure repressive. La
prodittatura Depretis, che avrebbe potuto rispondere alle rivolte semplicemente dando luogo
all’attuazione del decreto del 2 giugno sulla terra, preferì invece
la mano forte per screditare gli esponenti della sinistra
garibaldina e per limitare il potere di Garibaldi, temuto da Cavour,
e usò l’esercito e la guardia nazionale con compiti di polizia
interna. La “maledetta missione a Bronte” - parole dello
stesso Bixio - fu una fredda e agghiacciante rappresaglia, tesa a
seminare il panico e il terrore, un monito per i nemici e per gli
amici …. Alla scelta dura di Depretis cercò di rimediare il suo
successore, Mordini, che il 18 di ottobre promulgò il decreto per la
censuazione dei beni ecclesiastici. Ma attenzione, censire i beni non
significava dividerli. Fu solo una manciata di polvere negli occhi.
Si arrivò così al plebiscito per l’annessione indetto per il 21
ottobre secondo la formula “Italia e Vittorio Emanuele”. Una
annessione incondizionata!
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Cassetta e locandina del film "Bronte, cronaca di un
massacro che i libri di storia non hanno raccontato" di Florestano
Vancini, 1972 |
Che ingenui
questi siciliani! Pensavano di trattare con i sabaudi come con gli
Aragonesi o gli Spagnoli. Pensavano di cambiare sovrano e rimanere
autonomi. Pensavano di cambiare per non cambiare. Quello che invece
rimase ben saldo e si rafforzò con l’aiuto del governo piemontese fu
il potere mafioso. Illuminante in tal senso il caso dei Pugnalatori
di Palermo:
nella notte del primo di ottobre dell'anno 1862, tredici persone, in
altrettanti punti di Palermo, vengono pugnalate da misteriosi
assalitori. Uno di essi viene inseguito e catturato e durante gli
interrogatori, confessa la "orribile macchinazione" che ha sconvolto
Palermo [e Roma], fa i nomi dei complici e del mandante: Romualdo
Trigona, principe di Sant'Elia e senatore del Regno, "forse l'uomo
più ricco, rispettato e potente di Palermo". Gli inquirenti non
credono al sicario. E sulle prime non gli crede neppure Guido Giacosa, il magistrato piemontese, padre del poeta Giuseppe, da
pochi mesi a Palermo.
Poi, una
serie di successivi attentati lo costringe a riaprire l'inchiesta:
con risultati clamorosi e il "caso Sant'Elia" diventa un vero e
proprio "affare di Stato che nessuno ha interesse a svelare". Un
esempio di “strategia della tensione” con attentati e processi
insabbiati e soprattutto il disprezzo della legalità e
l’inquinamento delle istituzioni per giustificare lo stato
d’assedio. [cfr.
Le Renitenti di Favarotta come esempio di disprezzo della
legalità e di arroganza del potere]
Al termine
del processo, dove nessun mandante viene citato in giudizio,
vengono condannati ai lavori forzati o eseguiti per decapitazione
solo gli esecutori. Guido Giacosa, preferì le dimissioni alla
“traslocazione” e tornò a fare l’avvocato in Piemonte.
A un certo
punto dei Pugnalatori, Sciascia scrive: "All'epoca dei
Pugnalatori [siamo nel 1862], si cercava di piemontizzare, se non
italianizzare, la Sicilia sulla spinta degli ideali del
Risorgimento, non fosse altro per dare un senso alla spedizione dei
Mille, al più consistente Regno d'Italia savoiardo. E dunque il
processo di sicilianizzazione dell'Italia non era ancora cominciato.
Ma la sconfitta di Giacosa, il giudice piemontese alla caccia dei
pugnalatori, si doveva a una classe dirigente italiana che ancora
annaspava a trovare la chiave del dominio, di tipo coloniale, sulla
Sicilia, e credeva di poterla trovare nei Gattopardi...".
Questa classe dirigente, che annaspa a trovare
la chiave del dominio e la gestisce con i Gattopardi o meglio con i
Galantuomini non mi pare sia scomparsa, almeno in Sicilia.
Ma torniamo
alle rivolte. L’isola era una polveriera: il neonato stato muoveva
guerra e fucilava i garibaldini, i banditi, i popolari
rivoluzionari, i notabili. Tutti erano tra loro nemici. In meno di
sei mesi furono circondati, depredati, perquisiti , umiliati, talvolta
incendiati 154 comuni, catturati oltre 4000 “renitenti” e 1200
“malviventi” e controllati altri 8000 cittadini. Fucilazioni di
volontari garibaldini si ebbero a Racalmuto, a Siculiana, ad Alcamo,
a Bagheria, a Fantinae in tanti altri centri
[Di Matteo, Storia
della Sicilia, p 486] e alle fucilazioni seguivano incendi e morte
di poveri “civili”.
Il malcontento sfociò alla fine
nella quarta rivolta del secolo scoppiata nella notte tra il 15 e il
16 settembre del 1866, il
“sette e mezzo”,
e repressa violentemente dal generale Cadorna . Non c’era
alternativa: o briganti o rivoluzionari (estremisti sia della destra
legittimista che di sinistra e popolani delle città). L’insurrezione
fu un fatto estremamente grave, sintomo di una situazione malsana, e
non solo in Sicilia. Fu allora che, su proposta di Mordini, fu
ordinata la prima inchiesta parlamentare della storia d’Italia. Si
accertò che la situazione era critica e che l’unità nazionale, da
poco raggiunta era in pericolo. Malgrado ciò non si tentarono
miglioramenti, si continuò a reprimere e a soffocare nel sangue, si
andò avanti così e si costruì uno stato sul fango. Ancora oggi ne
raccogliamo i frutti …
Si
è molto discusso sui motivi che scatenarono nel Mezzogiorno la più
grande rivolta armata della storia d’Italia. Si è scritto di
motivazioni sociali, storiche, patriottiche. Certamente ciascuno di
questi fattori ebbe un peso nello scatenare la reazione, ma c’è un
dato che resta incontrovertibile: a prescindere da quali fossero le
condizioni del Meridione alla vigilia dell’annessione al Piemonte, tale avvenimento le peggiorò, minacciando la
sopravvivenza stessa delle classi contadine.
Il
periodo post-unitario si aprì con l’estensione delle leggi,
regolamenti, codici e sistemi amministrativi del Piemonte
.
Al governo vi era la Destra, in cui militava la maggioranza di
deputati eletti nel Meridione. È questo un dato da non dimenticare
quando si analizzano le cause del fenomeno in argomento, quantomeno
per non giungere alla consolante, ma vittimistica e comoda,
conclusione che l’annessione fu un mero attacco del Nord al Sud, che
il Piemonte ci avrebbe privato, occupandoci, del nostro bel Reame.
Vennero abbattute le barriere doganali esistenti tra gli Stati
preunitari, con ripercussioni negative sulle produzioni industriali
meridionali – concentrate soprattutto nel Napoletano – che
precedentemente avevano goduto di un sistema protezionistico. Il
Mezzogiorno si ritrovò gravato dell’ingente debito pubblico
piemontese, accumulatosi durante la spericolata gestione
cavourriana. Le terre feudali, ecclesiastiche e demaniali furono
messe all’asta, con un ricavo di 2,5 miliardi di lire dell’epoca (25
miliardi di euro di oggi, all’incirca poiché non è possibile
effettuare una esatta comparazione), usati per pagare i debiti
contratti da Cavour, soprattutto negli Stati Uniti. I contadini
meridionali che per secoli avevano goduto dell’usufrutto di questi terreni
si ritrovarono improvvisamente in mal partito. L'esportazione di
prodotti agricoli, vietata dai Borbone, appesantì le condizioni di
miseria del popolo. La moneta circolante del ex-Reame, tutta in oro,
argento e metalli pregiati – frutto di secoli di accumulo - fu
ritirata e sostituita da banconote
.
Venne esteso al Sud il gravoso sistema fiscale piemontese,
assolutamente insopportabile per l’economia meridionale. Fu
introdotta anche l’odiosa tassa sul macinato. Le eccellenze ed i
dati delle condizioni finanziarie ed economiche del Sud prima e dopo
l’Unità sono riportati rispettivamente nelle letture
“I records delle due Sicilie” e
“il
benessere nel Regno delle Due Sicilie”.
Sarebbe però antistorico parlare dell’ex-Regno come di un “paradiso
perduto” per colpa del nord e dell’Unità. Nell’ex-Reame c’erano solo
tre strade statali (postali) e circa 100 km di ferrovie
(quest’ultime concentrate nel napoletano), cartina di tornasole di
una concezione statica della società e dell’economia. I contadini
sopravvivevano, ma non avevano alcun incentivo a migliorare. La
nobiltà, il clero e la borghesia godevano di rendite meramente
parassitarie. L’istruzione era del
tutto insufficiente. Per approfondire la concezione statale
borbonica si consiglia la lettura, tra le altre, delle monografia
dedicata a
Ferdinando II e quella
della
Questione Sociale.
Niente “paradiso perduto” quindi, ma resta il fatto è che dopo
l’Unità, le cose peggiorarono! Ma non soltanto per colpe altrui,
bensì per responsabilità degli stessi meridionali, come vedremo.
Con l’Unità, venne inoltre introdotta una lunga leva obbligatoria
[26].
Peggiorò nel Mezzogiorno la piaga della corruzione, alimentata dalle
opportunità offerte dal cambiamento in atto. Le associazioni
malavitose ebbero un grande impulso e, di fatto, godettero di vasta
impunità, non solo per i “meriti” acquisiti durante la campagna
militare di annessione, ma anche per la loro utilità nel controllo
di un territorio dove era crescente il malumore delle popolazioni.
Nei primi anni post-unitari, vi furono le proteste nelle sedi
istituzionali, presentate da parlamentari. Si diffusero malcontenti
nella magistratura e nei dipendenti pubblici che dovevano applicare
leggi e procedure ritenute peggiori delle precedenti. La Chiesa
cattolica duramente colpita nei suoi interessi, continuò a tramare
contro il neo-Stato. Dal suo canto, la Destra governativa, tentò
inizialmente di minimizzare l’entità della protesta, temendo che
discutendo alla Camera delle condizioni delle province meridionali
emergessero le sue responsabilità politiche e morali per il
malgoverno con cui queste province erano state amministrate dopo la
loro annessione al Piemonte e, soprattutto, per i metodi con cui
venne condotta la lotta al brigantaggio.
La
reazione nel Sud continentale fu la resistenza armata, che in questa
lettura abbiamo voluto chiamare “banditismo sociale”, in luogo di
Brigantaggio, termine di cui da più parti si è abusato,
svuotandolo di significato, e riempiendolo di mera retorica
.
Come ci rileva Giustino Fortunato, il banditismo nacque in una
società in cui con la caduta dei Borboni vennero al dunque gli
antichi sospetti ed odii, che dividevano la borghesia dal popolo: il
1860 fu rivoluzione politica della borghesia, il brigantaggio la
reazione sociale del popolo
.
|
Briganti della banda Romano
|
Le
proporzioni assunte e la durata furono tali da configurarlo come la
più grave minaccia all’esistenza stessa del Regno d’Italia. Resta
anche da spiegare come mai i “briganti” non vinsero. La repressione
sabauda fu tanto dura, da compromettere la stessa identità e memoria
storica di intere regioni.
Le
prime sollevazioni contadine ebbero luogo in Basilicata e in
Calabria, a seguito della “usurpazione” delle terre demaniali e
della rivendicazione degli usi civici soppressi. Reparti composti da
soldati regolari dell’ex-esercito di Francesco II, guidati dal
colonnello franco-tedesco, barone Teodoro Klitsche de La Grange,
appoggiarono le iniziative, restaurando le municipalità borboniche.
La “rete” di collegamenti e rifornimenti era egregiamente
gestita dal clero. Il brigantaggio fu all’inizio contrastato con la
Guardia Nazionale, e con milizie armate dai notabili liberali e dai
possidenti, a cui si affiancavano reparti dell'esercito
“piemontese”.
Come già accennato nella parte introduttiva di questo
lavoro,
nei primi mesi del 1861, affluirono nelle bande migliaia di uomini:
soldati dell’ex-armata reale, garibaldini delusi, anarchici,
repubblicani, semplici renitenti alla leva, persone che si erano
fatte dei nemici o contadini colpiti dalla carestia, pastori e,
ovviamente, anche criminali comuni. Nella primavera del 1861 la
reazione divampa in tutto il sud. La figura di maggior spicco fu
Carmine Donatelli Crocco di Rionero in Vulture, il cui esercito
raggiunse le quattromila unità, riuscendo ad impossessarsi di
Melfi, Venosa e molti altri comuni. Il controllo del territorio da
parte degli unitari divenne sempre più precario. I filo-borbonici
tentarono perciò di dare un comando unico a tutte le bande, per
ottenere un grande schieramento con centro nella valle dell’Ofanto,
fra l’Irpinia e la Basilicata. Ottennero dal re di Spagna solo un
generale, senza esercito, José Borjes. Nel 1861, lo spagnolo fu
costretto ad allontanarsi per l’antagonismo con Crocco. Fu fucilato
dai Piemontesi a Tagliacozzo
.
Nel fallimento dell’operazione “Borjes”,
cioè del comando unico di un esercito volto alla restaurazione di
Francesco II, sta la risposta alla domanda: “ma come fecero a non
vincere, i briganti?”. Era stato il partito filo-borbonico a
fallire l’obbiettivo fondamentale di riportare la dinastia sul
trono.
Continuavano intanto ad agire circa 500 gruppi armati. Nell’aprile
1861 venne sventata a Napoli una cospirazione antiunitaria: furono
arrestate circa 600 persone, fra cui 466 militari dell’ex-esercito
napoletano. In agosto fu inviato nel sud il modenese gen. Enrico
Cialdini, con pieni poteri. Le forze militari d’occupazione
raggiunsero le 50.000 unità nel mese di dicembre. Il governo, nelle
mani della destra, fece approvare la legge preparata dal
parlamentare meridionale Pica, che privava il Sud dei diritti
costituzionali ed autorizzava le esecuzioni sommarie
.
Fu inviato nel Sud un esercito di 120.000 uomini, che ebbe più
perdite che in tutte le guerre di indipendenza messe insieme
,
al comando del genovese gen. Trivulzio Pallavicini
.
Per fini militari, venne stesa e protetta una linea telegrafica
lucana. I campi dei sospetti manutengoli
vennero dati sistematicamente alle fiamme dai bersaglieri
piemontesi.
|
Trivulzio Pallavicini
|
Più di 50 paesi furono distrutti, e la popolazione
superstite abbandonata alla fame
.
Il 13 marzo 1864 veniva fucilato presso Avigliano il comandante
Ninco Nanco. Nella stessa primavera del 1863, vennero catturati e
fucilati dagli italiani il comandanti leggimisti Kalckreuth e de
Namour, che operavano negli Abruzzi. Nel mese di giugno venne
arrestato a Roma l’altro ufficiale legittimista Rafael Tristany. Il
25 luglio dello stesso anno, grazie al tradimento del brigante
Giuseppe Caruso, il Pallavicini riuscì ad annientare sull'Ofanto le
forze di Crocco. Questi riuscì a fuggire ed a raggiungere lo Stato
Pontificio.
|
La "brigantessa" Michelina De Cesare
|
Il
clima politico stava cambiando. Il Vaticano, cercando di tenersi
stretto quello che restava dello Stato Pontificio, ridotto più o
meno al solo Lazio, abbandonò i “briganti” al loro destino. È
interessante a tale proposito confrontare gli articoli di Civiltà
Cattolica tra il
1861 ed il
1870 per rendersi conto che
già a partire
dal 1865 il Vaticano, di fatto, cominciò a collaborare con lo Stato.
Lo stesso Crocco non ottenne l’impunità, ma fu catturato dalle
truppe pontificie a Veroli, e quindi rinchiuso nelle carceri nuove
di Roma. Dopo la presa di Roma del 1870, Crocco fu condannato a
morte a Potenza l'11 settembre del 1872, pena commutata
nell’ergastolo, scontato a Portoferraio. Lì scrisse la propria
autobiografia.
Dall’autunno del 1863 all’autunno del 1864, le grandi bande a
cavallo vennero annientate ed i migliori comandanti uccisi o
imprigionati. Gli anni più accesi della lotta erano terminati, anche
se bande sempre più di delinquenti comuni, continuarono ad agire
fino ai primissimi anni ‘70 (sec. XIX). La guerra degenerò in
scontri senza regole né obbiettivi e soprattutto senza nessuna
ideologia precisa. Quando le ultime bande furono eliminate, gli
ideali legittimisti erano stati totalmente dimenticati.
Nel 1866, Francesco II si rifiutò di incitare alla sollevazione il
Mezzogiorno mentre l’esercito italiano combatteva nel Veneto contro
l’Impero Austriaco. L’anno successivo sciolse il governo in esilio.
Nel gennaio 1870, vennero soppresse le zone militari nelle province
meridionali.
|
Francesco II |
La guerra imperversata in quel primo decennio unitario,
determinò un declino sociale ed economico del Meridione a cui la
borghesia del sud rispose diventando ancor più, se possibile, avida
di privilegi e di rendite.
Le reazioni
pertanto nei due ex-regni di Sicilia ebbero motivazioni diverse, ma
la repressione fu durissima in entrambi i casi: migliaia di morti,
distruzione di interi paesi, l’economia allo sfacelo ed il
depauperamento a lungo termine provocarono gli stessi danni che oggi
appaiono irreversibili.
Fara Misuraca
Alfonso
Grasso
Settembre
2007
|
Giustino Fortunato |
Crocco
Carmine,
La mia vita da brigante, ed. Adda, 2005
Carmine Donatelli Crocco, era un
bracciante e mandriano. Dopo una serie di vicissitudini finì
con l’arruolarsi nell’esercito borbonico ma dopo l’uccisione
di un compagno in una rissa disertò, pare per vendicare
l’onore della sorella, e si diede alla macchia per dieci
anni. Nel 1860 si unì ai rivoluzionari sperando in una
amnistia, non avendola ottenuta divenne il più temibile capo
guerrigliero degli insorti anti-piemontesi. Fu lui che in un
certo senso abbandonò Borjes al suo destino forse per
invidia e per tema che costui sminuisse il suo prestigio di
fronte ai “suoi” uomini. Per maggiori informazioni sulla
vita e le imprese di Crocco si consiglia la lettura di La
mia vita da brigante, ed. Adda, 2005, autobiografia dello
stesso.
L’insurrezione della Gancia.
Il "comitato rivoluzionario", costituito da mazziniani e
liberali, aveva fissato per il 4 aprile una sollevazione che
contemporaneamente doveva avvenire nelle tre principali
città dell'isola. A Palermo, base d'operazione doveva essere
il Convento della Gancia. All'alba del 4 aprile la campana
della Gancia doveva dare il segnale ma il direttore della
polizia, Maniscalco, ebbe una soffiata e i rivoltosi furono
sopraffatti. Ma insorsero Catania, Noto, Caltanissetta,
Termini, Piana dei Greci, Carini, Trapani e il 13 nuovamente
la popolazione di Palermo.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
settembre 2007
Bibliografia
-
Calà Ulloa Pietro, Unione non unità d’Italia, Ed. Argo 1998 (prima edizione 1867)
-
Calà Ulloa Pietro, Considerazioni
sullo stato economico e politico della Sicilia, 1838,
in “Contributi per un bilancio del Regno Borbonico”, edito dalla
Fondazione Lauro Chiazzese, 1990.
-
Colajanni
Napoleone, Nel regno della mafia (dai Borboni ai Sabaudi),
Ed. Rubettino, 1984. Ristampa anastatica della prima edizione del
1900
-
-
Croce Benedetto, Storia del Regno di Napoli, 1924, Laterza,
Bari 1980
-
-
Digilio Vincenzo Giustino Fortunato. Gli scritti dal 1870 al 1932,
Alfredo Guida Editore 2007
-
Di Matteo
Salvo, Storia della Sicilia, Ed. Arbor, 2007
-
Fortunato Giustino, Il
Mezzogiorno e lo
Stato italiano,
Firenze, Vallecchi, 1973.
-
Fortunato Giustino, Galantuomini e cafoni prima e dopo l'Unità,
Reggio Calabria, Casa del Libro, 1982
-
Galasso Giuseppe Il
Mezzogiorno da
“questione” a “problema aperto”,
Piero Lacaita editore 2005
-
Ghirelli
Antonio, L’eccidio di Fantina, Sellerio, 1986
-
Gramsci Antonio, La questione meridionale, Editori Riuniti
2005
-
Gramsci Antonio, L'Ordine Nuovo, Giulio Einaudi editore 1987
-
Molfese
Franco Storia del brigantaggio dopo l’unità” ed
Feltrinelli 1966
-
Nania
Gioacchino, San Giuseppe e la mafia, ed. Della Battaglia,
2000
-
Pappalardo Francesco, Cristianità n. 223 (1993) - n. 299
(2000)
-
Renda
Francesco, Storia della Sicilia dalle origini ai nostri giorni,
Ed Sellerio 2003,
-
Sciascia
Leonardo, I pugnalatori, ed. Sellerio
Molte
delle immagini di briganti presenti nella pagina sono del
cap. Alessandro Romano
|