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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

6. Il Periodo Angioino (1266-1442)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Documenti e dati

1. Nel periodo angioìno, sopra il territorio già precedentemente detto Tresàno, nasce, intorno ad una o più ville signorili, il “loco qui dicitur Barra de’ Coczi”.

Il grande “Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli”, compilato con operosa passione da Lorenzo Giustiniani ed uscito a stampa nel 1797, riporta, alla voce “Barra”, la documentazione fondamentale esistente in materia:

2. “Di questo casale (Barra) se ne fa menzione nelle carte Angioine, e dalle medesime si rileva, che appellavasi Barra de Cozi, de li Cocze, de Coczi, e de Coczis, e che era nel territorio detto Trasano, o Tresani.

3. In un diploma dunque di Carlo II d’Angiò del 1294, col quale concedè a Giovanni de Blasio parecchi poderi, tra quelli vi fu petia terre una arbustata sita in loco qui dicitur Barra de Coczis de territorio Tresani (Regest. sig.1294 M.fol.67 at.).

4. In un altro della Regina Giovanna I, col quale concedè a Catarina Galasso domicelle et fideli nostre alcuni altri poderi, si legge: petias terre cum domibus et fundo sitas in pertinentiis Neapolis in loco ubi dicitur la Barra deli Cocze (Regest.1345 B.fol.133).

5. A questi due diplomi, accennati pure dal nostro Chiarito (nel “Comento sulla Costituzione di Federico II” part.3, cap.2, pag.146), io aggiungo il terzo del suddivisato Carlo II, il quale tra le molte donazioni fatte a’ PP. Predicatori per la costruzione della chiesa di S. Domenico maggiore di Napoli, vi si legge questa: Item pecia una terre arbustata sita in loco qui dicitur Barra de Coczi de territorio tresano coniuncto ab una parte terre S.Gregorio ecc. (Regest.Caroli II sig.1302 E.fol.6). Questo diploma porta la data del dì 24 dicembre 1301, XV ind. e XVII di esso Carlo.”

6. Il Cozzolino menziona inoltre “un altro precedente diploma di Carlo II, quando era ancora principe ereditario (Registro segnato 1324 A. fol. 108)” nel quale si parla di quondam petiam terre in Civitate Neapolis foris fluveum in loco ubi Gignonum et Villa de Coczis dicitur positam.

7. Va però notato che, in nessuno dei documenti citati, Barra de Coczi è definita “Casale”: essa è semplicemente un “loco qui dicitur...”; occorrerà attendere il successivo periodo aragonese per trovarla documentata come “Casale”.

8. “Invece, in un cedolare di anno incerto, ma indubbiamente di epoca angioìna, troviamo l’elenco di tutti i Casali esistenti in quel tempo: accanto ai nomi dei Casali è notata la rispettiva tassa ad essi imposta, ed i nomi dei collettori deputati alla riscossione” [1].

L’elenco, riportato dal Chiarito [2], comprende 43 Casali e, tra essi, troviamo:

·         Casavaleria (tassato per 2 once; il “collector” incaricato di esigere le tasse era un certo Stefanus Azapotus)

·         Sirinum (tassato solo per tari X e grana XVIII; il collettore si chiamava Benedictus de Aprano [3])

·         Tertium (tassato per 2 once, tari V e grana VIII; collettore: Giovanni Sicardo il vecchio)

Non troviamo invece Barra, che non era considerata ancora, evidentemente, un Casale.

9. Dal suddetto elenco, è possibile anche ricavare approssimativamente la popolazione dei Casali riportati.

Occorre considerare che la moneta adoperata era l’ “oncia” e che ogni oncia si divideva in quattro “augustali”. Le tasse, secondo il Capasso [4], si imponevano in ragione di mezzo augustale per ogni “fuoco”, dove per “fuoco” si intendeva il “nucleo familiare”, corrispondente a cinque o sei persone circa.

10. Quindi, Casavaleria, che era tassato per due once, doveva avere una popolazione formata da sedici fuochi (sedici famiglie), cioè circa 96 abitanti!

Bisogna però considerare che i nobili, gli ecclesiastici e gli eventuali studenti erano per legge esenti dalle tasse, e quindi il numero dovrebbe essere leggermente più alto; d’altra parte, ovviamente, non tutti i nuclei familiari erano composti da sei persone (forse le famiglie erano più numerose, ma potevano esserlo anche di meno), per cui si può solo concludere che la popolazione di Casavaleria era approssimativamente, in epoca angioina, intorno ai 100 abitanti.

11. Per avere un termine di paragone, si consideri che i Casali più popolosi, riportati nell’elenco suddetto, sono Turris Octava, Sanctus Anellus de Cambrano e Posilipum, che pagavano sei once ed avevano quindi, più o meno, 300 abitanti.

12. Casavaleria era dunque abbastanza importante, mentre il povero Sirinum non raggiungeva nemmeno un’ oncia di tassazione e quindi doveva avere sicuramente meno di 48 abitanti (in pratica, erano circa sei o sette famiglie)!

13. Per quanto piccolo, Sirinum non era tuttavia il Casale minore, che era invece (all’occhiuto sistema fiscale angioino non sfuggiva davvero nulla...) il microscopico Casale di Pollanella, che pagava un solo tareno (praticamente, doveva essere una sola famiglia) seguito a ruota da S. Ciprianus, che ne pagava due!

14. Complessivamente, la città di Napoli ed i suoi Casali pagavano annualmente 692 once d’oro, di cui 506 a carico della città e 186 a carico dei Casali; se ne può dedurre che la popolazione di Napoli era, in epoca angioina, di circa 25-30 mila persone, mentre quella complessiva dei Casali era di circa 9-10 mila.

15. Ci chiediamo ora: dal punto di vista della popolazione dei Casali, quali furono i cambiamenti più significativi nel passaggio dalla dinastia sveva a quella angioina? e come mai proprio in questo periodo inizia a formarsi la Barra de’ Coczis? e perchè questo nome? e che ne era, nel frattempo, dei già esistenti Casali di Sirinum e di Casavaleria?

Clemente IV incorona Carlo I d'Angiò, Ginevra, Galleria Pubblica e Universitaria

La politica fiscale: suoi effetti

16. Per la povera popolazione dei Casali “foris flubeum”, il cambiamento più avvertito, soprattutto all’inizio, fu senza dubbio proprio il vessatorio aumento della tassazione.

17. Abbiamo già visto come la “collecta” per Napoli ed i suoi Casali passò, quasi all’improvviso, da 170 a 692 once d’oro ed inoltre, da occasionale che era, divenne annuale.

Vi erano poi, naturalmente, la gabella sul pane, quelle sulla farina, sul vino, sul pesce, sul bestiame, sui cavalli, sul sale, sulla vendemmia, etc. etc.

18. Venne altresì introdotto il cosiddetto “quartatico”, cioè una specie di pedaggio che si doveva pagare ogni qual volta si entrava o usciva dalla città trasportando delle merci; per il pagamento di questo pedaggio, furono poste delle sbarre nei principali punti di accesso alla città e, fra queste, vi fu la sbarra sul vecchio “ponte delle paludi” (in epoca angioina detto “ponte Guizzardo”) che era la via per la quale i nostri contadini di “Foris flubeum” portavano in Napoli, per la vendita, i frutti della terra.

Nessuna meraviglia, naturalmente, per il fatto che il “quartatico” (che il popolo, però, disse subito “la gabella delle sbarre”) risultasse particolarmente odioso ai contadini dei Casali!

19. Si cominciò anche a manomettere gli antichi “usi civici”, instaurando con la forza nuove abitudini che, essendo contrarie alla tradizione, furono giustamente dette dal popolo “ab-usi”: le terre del demanio non erano più sostanzialmente libere, come sotto gli Svevi, ma vigilate da appositi “mastri massari” e “mastri forestari”, che pretendevano imposte sul diritto di raccogliere la legna, raccogliere erba o frasche, in alcuni casi persino sulle sorgenti o i corsi d’acqua...

20. Particolarmente infausta fu poi l’introduzione della tassa aggiuntiva di tre tareni a testa che, da allora, dovettero versare annualmente al re tutti coloro che risiedevano su terre demaniali: questo diede certamente il colpo di grazia alla condizione di relativo privilegio di cui avevano goduto, in epoca sveva, gli “uomini di demanio” rispetto a quelli che stavano su terre infeudate.

21. Questa pesante politica fiscale determinò, da una parte, un drastico peggioramento delle condizioni di vita dei contadini e delle popolazioni più povere ma, dall’altra, anche l’emergere di un nuovo ceto di funzionari che si arricchiva proprio grazie ad essa.

22. Infatti, il sistema fiscale angioino era tanto implacabile quanto macchinoso: la “Magna Curia” stabiliva la cifra da riscuotere per ognuna delle dodici province (Abruzzo citra ed ultra, Molise, Capitanata, Terra di lavoro, Principato citra ed ultra, Basilicata, Terra di Bari, Terra di Otranto, Calabria citra ed ultra) e, all’interno delle province, per ognuna delle località; dopo di che, i cosiddetti “tassatori” dovevano ripartire l’imposta fra i vari contribuenti locali; entravano poi in azione i cosiddetti “collettori” che dovevano materialmente riscuotere l’imposta stessa, dietro compenso del 2%; i collettori versavano quindi l’importo all’ ”esecutore” e quest’ultimo al “giustiziere”, che era in pratica il massimo responsabile della Provincia.

23. Vi erano poi altri funzionari per l’amministrazione delle rendite demaniali, dei “monopòli” della corte, per la riscossione dei diritti di registrazione e di sigillo reale, delle pene pecuniarie eventualmente inflitte, per la riscossione della “gabella delle sbarre” e delle gabelle sulle singole merci, etc. ed ognuno di questi funzionari poteva a sua volta assumere temporaneamente delle persone da lui dipendenti.

24. Questo ceto burocratico, distribuito sul territorio, si accrebbe quantitativamente rispetto al periodo svevo ed ebbe anche ovvie opportunità di accrescere le proprie fortune finanziarie...

Carlo I d'Angiò, statua di Palazzo Reale Napoli

I “re-vocàti” e Casavaleria

25. Il sistema fiscale sopra descritto provocò, tra l’altro, il fenomeno dei cosiddetti “revocàti”.

26. “I revocàti eran coloro che, per esimersi dalle fiscali imposizioni e collette, abbandonavano i loro paesi, e ciò in danno degli altri cittadini, i cui pesi venivano così ad essere aumentati: quindi, erano richiamati ai loro paesi, ed erano perciò detti re-vocàti” [5].

27. In sostanza, dato che la tassa, una volta deciso l’importo, doveva comunque essere pagata dall’intera comunità del Casale, la fuga di alcuni finiva con l’aggravare il peso sui rimanenti.

Pertanto, la “Università degli uomini dei Casali di Napoli” presentò ricorso contro i fuggiaschi e la Magna Curia, investita del caso, ordinò che questi dovessero essere ricondotti con la forza al loro paese di origine o comunque che vi si dovessero recare per pagare la dovuta imposta [6].

28. La carta, contenente la decisione della Magna Curia in merito al ricorso, viene detta “Carta dei revocati” ed è del 1268: quindi, proprio all’inizio del periodo angioino (e del nuovo sistema di tassazione).

La “Carta dei revocati” è importante non solo perchè ci permette di verificare la pesante efficacia del sistema fiscale angioino, ma anche perchè contiene un elenco dei Casali nei quali si era verificato il fenomeno.

Poichè la carta è del 1268, i Casali citati (che sono in numero di 33) esistevano senz’altro già nel periodo svevo ed è questo l’unico elenco che possediamo relativo a tale periodo.

29. La stima è certamente solo approssimativa, dal momento che non in tutti i Casali si trovavano revocati, nè d’altronde è sicuro che tutti i Casali interessati abbiano poi presentato il ricorso.

30. In ogni caso, per quanto più direttamente ci riguarda, nella Carta è menzionato, fra gli altri revocati, un certo Johannes Pinensis (un discendente, forse, di quel Iohannis de Pinum, il cui fondo si trovava in loco qui nominatur Casabalera, nel 1135?) al quale viene ingiunto di pagare la tassa dovuta in casali Sancti Martini.

Poichè è ben documentata l’esistenza di una chiesetta dedicata a S. Martino lungo la strada che va da S. Maria del Pozzo a S. Giorgio a Cremano, possiamo così essere certi, secondo il P. Alagi, che l’antica Casavaleria era composta da due agglomerati di case (uno intorno alla chiesetta di S. Maria del Pozzo e l’altro intorno alla chiesetta di S. Martino), per cui il Casale veniva indicato sia come “Casavaleria” che come “Casale di S. Martino” [7].

Giovanna I (immagine tratta da Bastian Biancardi "Le vite dei re di Napoli" Venezia 1737)

La disputa fra “antiqui scomparati” e “de novo redempti”

31. Al pagamento del tributo personale rimaneva inchiodata, nei Casali, anche un’altra categoria di persone, i cosiddetti scomparàti (o ex-comparàti).

Essi erano [8], semplicemente, dei servi riscattati, cioè discendenti di uomini, anticamente servi, che in seguito avevano ottenuto la libertà dai loro padroni, ed “appartenevano” quindi solo al demanio del re: in quanto tali, erano comunque obbligati al pagamento del tributo personale alla corte.

32. Se non che, si venne a determinare una odiosa discriminazione all’interno della categoria degli “scomparati”, perchè gli “antiqui scomparati” dovevano continuare a pagare anche le tasse dovute al loro antico signore, mentre i “de novo redempti” pagavano solo la tassa demaniale.

33. Ne seguirono continue e penose dispute fra le due categorie nonché fra queste ed i rispettivi Casali di appartenenza: dispute che, in definitiva, andarono comunque a svantaggio delle popolazioni ed a vantaggio del fisco, regale o baronale che fosse.

Roberto (immagine tratta da Storia d'Italia - Fratelli Fabbri Editori, 1965)

I “briganti”

34. Ulteriore effetto del vessatorio sistema fiscale angioino fu l’inizio (o solo un ulteriore incremento?), in quest’ epoca, del fenomeno del “brigantaggio”.

Per la precisione, il termine “brigante”, essendo stato importato dai francesi solo all’inizio dell’Ottocento, non era quello adoperato allora: si diceva, invece, genericamente “bandito”, “fuorilegge”, “malandrino”, “malvivente”, etc.

35. Al di là del nome, comunque, il fatto è ben chiaro:

“I contadini, oppressi dai vecchi e dai nuovi proprietari, avevano per isfogo quotidiano il brigantaggio, non mai cessato nella sua forma endemica: l’”andare alla montagna”, con le sue avventure e pericoli, e con la certa fine cruenta, ma anche con la gioia disperata, espressa nel proverbio:- meglio toro due anni che bove cento anni [9].

36. Di fronte alle difficili, talora penose, condizioni di vita dei contadini poveri, alle tasse ed ai balzelli che opprimevano ed esasperavano le popolazioni, non è poi così strano che qualcuno, specialmente se giovane ed impaziente, pensasse che era “meglio un giorno da leone che molti giorni da pecora” e si desse quindi “alla macchia”, ovvero fuggisse dal villaggio di origine per vivere liberamente nelle foreste o sui monti.

37. I boschi erano allora folti ed ampi, e potevano quindi agevolmente nascondere gruppi (più o meno organizzati, più o meno numerosi), di persone che vivevano alla giornata e quindi, oltre a quanto potevano procacciarsi nel bosco stesso, usavano di quando in quando “alleggerire” i peraltro rari viaggiatori.

38. “A ben leggere le pagine della storia napoletana, sotto tutti i regni e le dinastie si sono verificate forme di banditismo.

Tutto lo ha favorito: la povertà dei coloni agricoli, le angherie e le malversazioni dei signori, la prepotenza del clero, l’ignoranza in cui era tenuta la plebe.... ed ancora, forme di superstizione, di fanatismo, unite a corruzione dilagante...”[10]

39. E’ ben vero, dunque, ciò che ha affermato Dumas: “Non si cerchi una data più o meno recente al brigantaggio napolitano; esso è esistito sempre” [11].

40. Di certo, nell’epoca di cui ci stiamo occupando, troviamo documentato che, nel 1337, Roberto d’Angiò diede a tre monasteri napoletani il compito di disboscare, colonizzare e popolare il territorio sulle pendici del Vesuvio denominato “silva mala” perchè era infestato dai briganti: il territorio, una volta colonizzato, e fino ad oggi, venne detto Boscoreale.

Tomba di Carlo di Calabria, Tino da Camaino 1333, Napoli - Santa Chiara

Le meretrìci e la regina Sancia

41. Quando giunse a Napoli, la devota e pudìca Sancia di Maiorca, seconda moglie di re Roberto, dovette rimanere particolarmente impressionata dal gran numero di povere donne che esercitavano la prostituzione in città.

42. Il triste fenomeno, oltre che ingente per quantità, doveva essere anche particolarmente “visibile”, nel senso che si svolgeva, senza troppo ritegno, alla pubblica vista.

43. La buona regina non poteva sapere (o lo intuiva, forse, vagamente) che quello “universal meretricio” era, in definitiva, fortemente alimentato proprio dal sistema fiscale praticato dal re suo marito e dai suoi predecessori.

Tale sistema, gravando insopportabilmente sui ceti più poveri, alimentava anche quella disperata miseria che spingeva non poche ragazze del popolo, per procacciare di che vivere a se stesse e spesso anche ai propri familiari, ad ingrossare le fila del “mestiere più antico del mondo”.

44. Fra le ragazze che “esercitavano” per le vie o negli squallidi “bordelli” della città, non poche provenivano proprio dalle campagne circostanti e qualcuna, certamente, anche dai nostri Casali di Sirinum, Casavaleria, Tertium, etc.

Una ragazza povera rimasta orfana (e quindi senza dote) o che avesse patito “oltraggio” (e gravidanza) da parte di briganti o mercenari di passaggio, che possibilità aveva, secondo la mentalità del tempo, di “accasarsi”?

Abbastanza facilmente, poteva essere allettata da false promesse di una “vita migliore” in città, da parte di lenòni con pochi scrupoli, salvo poi rimanere schiava per tutta la vita di uno “sfruttamento sessuale” intenso e feroce, che la portava in pochi anni, tra le molte malattie del mestiere e dell’epoca, per le quali non vi era nè prevenzione nè cura, assai rapidamente a sfiorire e morire.

Non a caso, come abbiamo visto, procurare la dote alle fanciulle povere costituiva principalissima preoccupazione delle estaurìte contadine, le quali cercavano, in tal modo, di arginare il doloroso fenomeno.

45. In ogni modo, la buona regina Sancia (che non poteva certo influire sulla politica fiscale del marito e fu, d’altronde, da lui assai poco amata) pensò, secondo il costume dell’epoca, di far costruire un grande convento con annessa chiesa, allo scopo di accogliere le donne “traviate” che volessero “fare penitenza”, abbandonando la loro vita peccaminosa.

Il monastero e la chiesa, significativamente, furono intitolati a S. Maria Maddalena, una delle donne che seguirono Gesù come discepole e che una lunga tradizione interpretativa (che oggi sappiamo erronea) riteneva essere stata, in precedenza, una prostituta [12].

46. Nelle intenzioni della regina, donna sinceramente religiosa e fortemente permeàta di spiritualità francescana, l’edificazione del monastero avrebbe dovuto costituire una specie di equivalente morale dell’opera di bonifica delle paludi che stava contemporaneamente conducendo il re suo marito.

Come l’accorto sovrano andava purificando le malsane paludi ad oriente della città, così lei, la regina, avrebbe purificato le “paludi del vizio” cittadino.

47. La buona Sancia doveva però ben presto accorgersi che “prosciugare” il meretricio a Napoli era impresa molto più difficile che prosciugarne le paludi.

48. Quasi subito, infatti, dovette far ingrandire il monastero della Maddalena: a tal scopo, nel 1343, permutò la struttura già costruita con quella, più ampia, della chiesa e “santa casa” dell’Annunziata, che intanto stava sorgendo proprio di fronte, elargendo cospicue donazioni anche a quest’ultima.

Il convento si venne così a trovare laddove rimase poi per secoli (e cioè, appunto, di fronte all’attuale chiesa dell’Annunziata) finché, dopo una lunga e gloriosa storia, nel 1955 esso venne fatto demolire, per edificare al suo posto il repellente grattacielo che ancor oggi “impreziosisce” Via della Maddalena.

49. Allora, comunque, nemmeno il convento ingrandito bastò, e la povera Sancia fece costruire poco più in là, per lo stesso scopo, un altro monastero con relativa chiesa, che furono stavolta intitolati a S. Maria Egiziaca, una Santa ritenuta anch’essa peccatrice come la Maddalena e che poi, pentitasi, aveva trascorso ben 47 anni di durissima vita eremitica nel deserto egiziano.

Per questo secondo monastero, la regina stanziò 3000 once d’oro, più una rendita permanente di 150 once d’oro all’anno, più ancora un terzo di quei famosi territori alle pendici del Vesuvio, detti “silva mala”, che il re suo marito stava facendo liberare dalla presenza dei “briganti”.

50. Il trascorrere dei secoli è stato, per la seconda opera di Sancia di Maiorca, più benevolo: la chiesa di S. Maria Egiziaca (detta “a Forcella” o “all’olmo”), infatti, esiste ancora e l’annesso monastero è diventato l’attuale ospedale “Ascalesi”.

51. La vicenda dei due monasteri per donne “traviate”, frutto dei nobili quanto necessariamente inadeguati sforzi della regina Sancia, proietta comunque una significativa luce su quali dovevano essere, in quel tempo, le condizioni di vita dei ceti più poveri e, all’interno di questi, delle donne: doppiamente oppresse, in quanto povere ed in quanto donne.

La morte di Roberto d'Angiò (immagine tratta da Chroniques de France, Vienna, Museo Nazionale Austriaco)

La politica fiscale: sue cause

52. Non si deve, peraltro, ritenere che la opprimente politica fiscale provenisse da una particolare “malvagità” dei re angioini: essa era purtroppo legata alle condizioni stesse nelle quali era avvenuta la conquista del regno da parte della dinastia francese.

53. E’ noto infatti che Carlo I d’Angiò (“fratello poco santo” del re di Francia S. Luigi IX), “avido d’acquistare terra e signorìa d’onde si venisse”, era stato invitato a scendere nel Mezzogiorno d’Italia, ed a cingerne la corona, da due papi di origine francese, Urbano IV (1261-1264) e Clemente IV (1265-1268), nel contesto del conflitto che opponeva in quegli anni il papato alla Casa imperiale di Svevia.

54. Tale invito non era però senza condizioni.

In cambio dell’investitura papale, Carlo si impegnava a riconoscere il “plenum et ligium vassalagium romanae ecclesiae” (“pieno e ligio vassallaggio alla chiesa di Roma”) del regno che andava a conquistare, simboleggiato dal dono annuale di un “palafridum album” (un cavallo bianco) [13] e soprattutto assumeva, in concreto, una serie di impegni molto precisi: pagare ogni anno al papa un tributo pari a 35 volte quello pagato dagli Svevi e fornirgli, a richiesta, trecento cavalieri ed un certo numero di navi; cedere definitivamente allo Stato pontificio la città di Benevento ed il suo territorio; introdurre nel regno una legislazione particolarmente favorevole alle gerarchie ecclesiastiche (esenzione del clero e dei monasteri dalle imposte, immunità degli ecclesiastici davanti a qualsiasi tribunale laico, sia civile che criminale, appoggio del braccio secolare per garantire il pagamento delle decime, introduzione dell’inquisizione papale nel regno, etc.).

55. Oltre al papato, Carlo I ebbe anche altri accesi sostenitori, tutti ovviamente non disinteressati: in primis, il ceto aristocratico napoletano che, fortemente ostile agli Svevi (ad eccezione, come già detto, dei Capéce), appoggiò invece massicciamente l’impresa di conquista degli Angioini; inoltre, sostanziosi finanziamenti per l’esercito di Carlo vennero dai banchieri e dai ceti mercantili amalfitani, fiorentini, pisani, genovesi...

56. Una volta vinta la battaglia di Benevento contro Manfredi nel 1266 ed entrato in possesso del regno, Carlo I si trovò quindi nella scomoda necessità di dover “ricambiare” i ricevuti appoggi.

Naturalmente, sia l’oneroso tributo da corrispondere al papa che la restituzione dei prestiti ai banchieri, si tramutarono in tasse le quali, essendone esentato il clero (come da accordi) ed essendo quasi del tutto esenti i nobili, ricaddero in pratica esclusivamente sui contadini poveri e sulle popolazioni.

Ladislao, bassorilievo in marmo, Napoli Museo di S. Martino

La politica ecclesiastica

57. Per gli ecclesiastici, iniziò ad entrare in vigore, con particolare ampiezza, il regime privilegiato che era stato pattuito, con tutte le sue conseguenze.

58. Con documento del 1272, Carlo I ordinava di non citare in giudizio, per alcun motivo, gli appartenenti al clero, commettendosi altrimenti delitto di “lesa maestà” e di “attentato alla libertà della Chiesa”.

Ne scaturì, però, che “la licenza e l’insolenza dei prelati, dei chierici e dei monaci contro i laici, ed anche contro il basso clero, die’ in estremi eccessi, con invasioni e rapine di beni, angarìe e ingiurie alle persone, e i chierici andavano in giro armati a mo’ di masnadieri” [14].

59. Già Federico II aveva stabilito che si dovessero ricercare attivamente gli eretici presenti nel Regno e punirli con “giusta pena”, che poteva arrivare fino al rogo; il riconoscimento e la condanna degli eretici erano però strettamente riservati ai tribunali secolari e i beni ad essi confiscati ritornavano al demànio règio.

Nel periodo angioino, invece, entrò in vigore “l’Inquisizione delegata da Roma ai frati, e specialmente ai domenicani” [15], con l’ulteriore precisazione che i beni confiscati agli eretici venivano adesso assegnati in parte agli stessi Inquisitori e in parte alla Règia Curia.

60. In realtà, molto spesso, anche la parte spettante alla Règia Curia fu devoluta ai conventi dei frati in Napoli, a titolo di aiuto alle loro spese di necessità.

Le chiese ed i monasteri, in particolare i conventi ”nuovi” dei due Ordini religiosi di recente fondazione (domenicani e francescani) che avevano appoggiato gli Angioini nella conquista del regno, ricevettero continue e cospicue donazioni da parte dei sovrani e delle loro pie consorti.

61. D’altronde, sia l’alleanza politica con il papato, sia la sentita religiosità dell’epoca, spinsero gli Angioini ad appoggiare un gran numero di nuove fondazioni religiose di ogni tipo.

Attraverso di esse, si consolidava il consenso del popolo verso la dinastia, esaltando la religiosa “generosità” dei sovrani.

D’altra parte, si provvedeva così ad attenuare il malcontento popolare con una rete diffusa di “assistenza sociale”, che interveniva a lenìre parzialmente le piaghe di quella crescente miseria che era provocata dallo stesso blocco politico-religioso (aristocrazia ed alto clero) che esercitava il potere.

62. In conclusione, e paradossalmente, “forse le troppo libere condizioni che la Chiesa si era procacciata nelle terre napoletane e che egli era costretto a tollerare, queste malinconiche meditazioni, e non il semplice dilettantismo dottrinale, inclinarono quel “savio re” (che fu Roberto d’Angiò) a difendere, in un suo trattato, la dottrina della povertà di Cristo e degli apostoli” [16] ed a proteggere quell’ala del francescanesimo che, proprio per il suo attaccamento alla povertà ed il suo desiderio di rinnovamento della Chiesa, era accusata di eresia.

Luigi (Ludovico) II d'Angiò

L’infeudazione delle terre demaniali e la bonifica

63. I nobili napoletani furono, invece, ricompensati con generose elargizioni in feudo delle terre demaniali e così pure, naturalmente, la nobiltà francese che aveva seguito Carlo nella conquista del regno.

I nobili francesi, peraltro, ignorarono la tradizione napoletana degli “usi civici” e si comportarono in pratica verso le popolazioni come conquistatori stranieri, almeno finché non pervennero gradualmente a “naturalizzarsi” come napoletani, alla seconda e terza generazione.

64. La necessità di procedere a nuove infeudazioni delle terre demaniali fu però, anche, uno degli elementi che spinse Carlo d’Angiò a promuovere la prima vasta opera di bonifica dell’area paludosa e malsana ad oriente di Napoli, il che ritornò indirettamente a beneficio delle nostre popolazioni.

65. Tale opera di bonifica, utilizzando il naturale assetto idrogeologico del suolo e continuando quel poco (o tanto) che era stato già fatto dai coloni nel periodo del ducato bizantino, comportò la sistemazione di tutta la campagna mediante canali di irrigazione che, irreggimentando le acque dilavanti che scendevano dal Somma e dal Vesuvio, confluivano tutti nel fiume Sebéto come unico collettore verso il mare [17].

In questa vasta opera, rientrò anche il provvedimento a favore dell’acquedotto napoletano, le cui acque, divenute malsane, furono purificate nel 1268 [18].

Il risanamento delle paludi proseguì poi ulteriormente con Carlo II e con re Roberto.

66. Questi provvedimenti resero ovviamente più e meglio coltivabili le terre, aumentandone la capacità produttiva e rendendole più “appetibili” per i nobili feudatari e per i monasteri della capitale.

67. Vediamo quindi che i vari sovrani angioini modificarono gradualmente la scelta di Federico II di Svevia di mantenere le terre “Foris flubeum” nel demanio règio e cominciarono a darne in feudo parti sempre più rilevanti a nobili, ecclesiastici di riguardo, funzionari e favoriti di corte.

68. A quest’ultima categoria doveva, molto probabilmente, appartenere la Caterina Galasso (detta infatti esplicitamente, dalla regina Giovanna I, domicelle et fideli nostre) cui furono donate, nel 1345, petias terre cum domibus et fundo, site in loco ubi dicitur la Barra deli Cocze.

69. Alla categoria dei funzionari potrebbe invece appartenere, secondo una ipotesi che espliciteremo di seguito, quel Giovanni de Blasio al quale, nel 1294 (dunque, una cinquantina di anni prima), fu concessa da Carlo II petia terre una arbustata sita in loco qui dicitur Barra de Coczis de territorio Tresani.

70. L’inizio dell’opera di bonifica delle paludi (che, ricordiamolo, proseguì a fasi alterne fino al XX secolo incluso) comportò, come è ovvio, un generale miglioramento delle condizioni ambientali, in cui si svolgeva la vita delle nostre popolazioni.

71. Si attenuò, pur senza mai scomparire, il fenomeno della malaria e diminuì, in genere, la mortalità causata dalle varie malattie legate alla insalubrità della zona; la migliore irreggimentazione delle acque dilavanti fece sì che anche lo strutturale fenomeno delle “lave dell’acqua” potesse essere contenuto o, quanto meno, meglio previsto nei suoi percorsi e nei suoi effetti; si ebbe una maggiore disponibilità di acqua potabile.

72. Il “fiume” per eccellenza, il Rubeolum o Ribium, che era rimasto quasi completamente sepolto dalla ristagnante palude, poté iniziare a risorgere a nuova vita e perfino ereditare il greco, classico, nome di Sebéto.

Per Giovanni Boccaccio (1313-1375), infatti, che visse nella nostra città i suoi anni giovanili, dal 1328 al 1340, il Sebéto “è il fiume presso Napoli, in Campania, che io non ricordo di aver visto, tranne che si tratti invece di quel piccolo rivo che scorre nelle paludi alle falde del monte Vesuvio e senza nome s’immerge nel mare presso Napoli” [19].

Divenuto, però, in seguito alla bonifica, il collettore principale di acque meglio irreggimentate, il fiume vide accrescersi la propria portata ed anche la propria importanza economica, che del resto, per le povere popolazioni della zona, non era mai stata trascurabile.

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La peste nera (1347-1350)

73. Né la bonifica, né le più limpide acque del Sebéto, poterono comunque granché rispetto a quella che fu la più grande sciagura del secolo, ed una delle più grandi dell’umanità.

74. “Già la terribile carestia che prostrò l’Europa intera dal 1315 al 1317 causò, a quanto sembra, disastri superiori a tutte quelle che l’avevano preceduta, ma trenta anni dopo un disastro nuovo ed ancora più spaventoso, la peste nera, si abbatteva sul mondo appena rimessosi da quella prima calamità.

Di tutte le epidemie menzionate nella storia dell’umanità, essa fu indiscutibilmente la più atroce: si stima che, dal 1347 al 1350, abbia provocato la scomparsa di circa un terzo della popolazione europea” [20].

75. E’ proprio il Boccaccio ad averci lasciato una vìvida descrizione di quella immane sciagura, nella “Giornata prima” del suo celebre “Decameron”:

“Già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di 1348, quando...pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in un altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata”.

76. La malattia si disse peste “nera” perchè si manifestava, come prosegue il Boccaccio, “con macchie nere e livide, le quali nelle braccia e per le cosce, e in ciascuna altra parte del corpo, apparivano a molti, a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse” e queste macchie erano “certissimo indizio di futura morte: quasi tutti, infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano”.

77. Lo scrittore sottolinea la dissoluzione dei legami sociali e persino dei più stabili affetti umani che la terribile malattia provocò:

“Era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femmine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi...”

78. Il Boccaccio parla in particolare della città di Firenze, ma descrive anche la situazione delle campagne circostanti, che dovette essere molto simile a quella dei Casali intorno a Napoli:

“Nè la peste risparmiò il circustante contado; nel quale... per le sparte ville e per gli campi, i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per le loro corti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morìeno...

Per che addivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli, e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per gli campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere non che raccolte ma pur segate, come meglio piaceva loro se n’andavano...”

79. Di tanto universale sciagura, abbiamo visto che il Boccaccio, come tutti i suoi contemporanei, attribuiva la responsabilità o “all’operazione de’ corpi superiori” (cioè, ad una malvagia influenza degli astri) oppure ad una “correzione” delle “nostre inique opere” da parte della “giusta ira di Dio”.

80. Noi oggi, per nostra fortuna, possiamo dire qualche cosa in più.

Sappiamo oggi che la peste è dovuta ad un bacillo (“Pasteurella pestis”), che usualmente attacca i topi. La malattia viene accidentalmente trasmessa all’uomo mediante la puntura di alcuni tipi di pulci, che infestano i topi ammalati e che, alla morte di questi, passano a nutrirsi sull’uomo. Una volta colpito l’uomo, essa si diffonde poi rapidamente per contagio diretto ed anche, quando il bacillo si localizzi nei polmoni, per semplice contagio attraverso l’aria.

I medici contemporanei ci dicono altresì che la peste si può dunque combattere (o meglio, prevenire) attraverso la derattizzazione e la distruzione delle pulci tramite insetticidi.

81. Alla luce di queste considerazioni, possiamo ritenere che la malattia venne, con ogni probabilità, importata in Europa occidentale dai topi che trovavano larga e non richiesta “ospitalità” sulle navi che tornavano dalle crociate e su quelle al servizio degli intensificati traffici tra le due sponde del Mediterraneo.

82. D’altra parte, le condizioni di vita delle popolazioni, a quel tempo, comportavano una convivenza abbastanza abituale con topi e con pulci e, naturalmente, non esistevano gli insetticidi.

83. In tali condizioni, la peste era in pratica tanto inevitabile quanto inestirpabile; ed infatti, la grande peste nera della metà del Trecento fu disastrosa non solo in se stessa ma anche perché causò l’impianto endemico della malattia in Occidente, per circa 400 anni, e quindi tutte le successive epidemie che si susseguirono in Europa fino all’ultimo decennio dell’Ottocento.

84. Limitatamente a Napoli, e nel solo periodo angioino, dopo la grande strage del 1347-50, la peste infuriò nel 1362, nel 1382, nel 1399, nel 1411 ed ancora nel 1442, quando la città venne conquistata dagli Aragonesi.

Saluto in argento, regnante Carlo I d'Angiò (1266-1285). Clicca sull'immagine per ingrandire

Considerazioni sul periodo

85. Il Trecento fu dunque, per le nostre popolazioni povere, un secolo complessivamente micidiale e il periodo angioino, considerato nel suo insieme e confrontato con quello precedente (svevo) e con quello successivo (aragonese), non appare certamente il più felice, dal punto di vista dei contadini dei Casali.

86. “L’età peggiore (peggiore, del resto, per disordini e ferocie, in tutta Europa) fu quella dei cento anni tra il mezzo del Trecento ed il mezzo del Quattrocento...

Guerre di pretendenti, saccheggi, stragi e devastazioni per parte di genti da condotta, imperversare di bande, brigantaggio, e insieme tradimenti dei baroni, incostanza delle popolazioni, passaggi continui dall’uno all’altro partito e grandiose, improvvise e rapide catastrofi di alti personaggi e d’intere casate, e miseria e ozio e mancanza di arti, ed abbassamento morale nei grandi e nei piccoli...

Il paese e la gente destavano commiserazione, e più ancora riprovazione ed orrore” [21].

87. Nonostante ciò, la popolazione era comunque in crescita. L’età media non superava, con ogni probabilità, i 40 anni, ma alla fine del Quattrocento Napoli contava circa 40 mila abitanti ed i suoi Casali circa 12 mila (cioè 2016 “fuochi”).

Gigliato in argento di Roberto d'Angiò, postumo.

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Gli inizi della Barra de’ Coczis

88. E’ all’interno del quadro finora delineato che si può forse comprendere meglio l’origine della Barra de’ Coczis ed anche quella del suo nome.

89. Il territorio detto Tresàno, essendo posto in leggera salita rispetto alla zona delle paludi, era tendenzialmente boscoso e salubre, ed era ovviamente demaniale al tempo di Federico II.

90. Per gli abitanti dei vicini Casali di Sirinum e di Casavaleria esso costituiva quindi una risorsa di notevole importanza, ai fini soprattutto degli “usi civici”: si poteva andare nel bosco a raccogliere legna, erba da fieno per gli animali e frutta selvatica, a cacciare e pescare, a cavare pietre vesuviane per le costruzioni e, in modo del tutto ovvio, si poteva liberamente transitare.

91. Con gli Angioini, tutto questo cambiò, in modo abbastanza brusco: a sorvegliare il bosco vi era, adesso, il “mastro forestaro” che, per i vari usi, pretendeva la gabella dovuta al re.

92. Fra le tante “diaboliche” novità, che suscitavano l’ira dei giovani ed il rassegnato scandalo degli anziani, vi fu, molto probabilmente, una “sbarra” per la riscossione di un pedaggio.

Niente di strano, in regime angioino: abbiamo già visto che era stata istituita la “gabella delle sbarre” per entrare e uscire dalla città trasportando i prodotti della terra, e che appunto una di queste sbarre era già stata collocata sul ponte delle paludi; perchè non anche per transitare attraverso il bosco demaniale?

Ecco dunque la famosa “Barra” (o “Varra”, come anche si disse fino a tutto il Seicento).

93. Ma una sbarra per le gabelle non funziona certamente da sola: il “mastro forestaro”, titolare della riscossione, ha bisogno di un discreto numero di collaboratori per sorvegliare il bosco ed imporre i nuovi scomodi usi (o piuttosto “ab-usi”) ad una popolazione giustamente riottosa.

Questi collaboratori, oltre eventualmente al mastro stesso, debbono necessariamente risiedere sul posto, perchè non possono allontanarsi, lasciando la zona incustodita, e quindi anche le rispettive famiglie si debbono insediare nei pressi della “Barra”.

Ed ecco dunque, a poco a poco, formarsi anche un piccolo gruppo di abitazioni.

94. D’altra parte, abbiamo visto come il ceto dei funzionari (fra cui i “mastri forestari”) potesse raggiungere rapidamente una discreta agiatezza, proprio grazie alle percentuali che riscuoteva sulle gabelle: quindi, una casa più grande, un certo numero di servi, contadini che coltivano le terre e gli orti annessi, che accudiscono il bestiame, etc.

95. A loro volta, i contadini dei Casali vicini, in quest’ epoca impoveriti dalle tasse crescenti, in fuga sia dalle terre demaniali che da terre feudali con signori sempre più esigenti, possono trovare conveniente mettersi sotto la protezione di un funzionario “emergente”, che gode di una situazione di relativo privilegio e può quindi permettersi di trattarli meglio, sia come guardiani, che come servi, come coloni, etc.

96. A poco a poco, il funzionario può persino riuscire ad ottenere una o più terre in concessione, poi addirittura un vero e proprio piccolo feudo...

I suoi vecchi dipendenti, d’altronde, profittando anche del miglioramento delle terre indotto dalla bonifica, possono a loro volta diventare coloni (per l’epoca) abbastanza agiati, disboscare nuove terre, e così via...

97. In definitiva, tutto il territorio Tresàno, che del resto abbiamo visto essere già in parte coltivato in epoca ducale e normanna, sortì alla lunga, paradossalmente, un benefico effetto di risveglio economico dalla installazione della famosa “barra”.

Questo accadde, in sostanza, perchè la famigerata “barra delle gabelle” consentì ad un certo numero di persone, inizialmente ristretto, di accumulare un “capitale primitivo”, che fu poi re-investito sul territorio nelle attività agricole tradizionali e ritornò quindi a beneficio di un più vasto numero di abitanti del circondario.

98. D’altra parte, questo produsse inevitabilmente anche un certo aumento delle dis-uguaglianze ed una sensibile riduzione delle precedenti usanze comunitarie.

99. Ciò spiega anche perchè, nel periodo angioino, è il “loco qui dicitur Barra” che cresce, fino a diventare poi Casale nel periodo aragonese, mentre Sirinum e Casavaleria appaiono statiche o addirittura in declino economico.

Erano, infatti, venute meno le condizioni “sveve” (sicurezza, possibilità di fruire largamente degli “usi civici”, carico fiscale non pesantissimo), che avevano consentito ai casali di Tertium, Casavaleria, Sirinum, di poter crescere per quantità di popolazione e “qualità” di vita, mentre le nuove condizioni (le gabelle, lo sviluppo del ceto dei funzionari, la bonifica) operavano in modo da far nascere un Casale (la Barra de Coczis) “nuovo”, non solo nel senso che prima non c’era ma anche per le modalità della sua origine e la composizione sociale dei suoi abitanti.

Gigliato in argento (1309-1343). Clicca sull'immagine per ingrandire. link alla nota sulla moneta

Origine del nome “Barra”

100. Il nome al Casale, dunque, secondo quanto sostenuto anche dal P. Alagi, sembra sia derivato da una sbarra o “barra” che chiudeva la strada ai fini della riscossione delle gabelle.

101. Ma come mai quel “de’ Coczis” che accompagna il termine “Barra”?

L’ipotesi più lineare rimane quella secondo la quale “Coczis” è semplicemente il cognome della famiglia che ebbe in appalto la riscossione delle gabelle al passaggio della famosa “barra”, onde il luogo venne ben presto detto “la Barra de’ Coczis”.

102. Tale ipotesi è coerente con quanto dice il Cozzolino:

“Ed uno dei territorii venduto, ma non infeudato, sotto il re Carlo I d’Angiò, alla borghese famiglia napoletana de Coczi, de Coctii, de Coctiis o de Coczis, in gran parte, fu appunto quello di Tresano o Trasano, per gran danari imprestati alla Regia Corte; il che importa che questo territorio era in allora demanio di re” [22].

103. I de’ Coczis sarebbero dunque una delle molte famiglie napoletane che appoggiarono finanziariamente l’impresa di conquista, da parte di Carlo I d’Angiò, del regno di Napoli, ottenendone poi in cambio l’appalto per la riscossione delle gabelle nella zona demaniale del Tresano nonché, nel 1275, una ampia parte del territorio stesso.

104. Analogamente si comportò, come abbiamo già detto [23], la famiglia nobile degli Aprano, che ricevette poi in cambio, a titolo ereditario, l’ufficio (e la rendita) di “collettore” delle imposte di vari Casali e, fra questi, quello di Sirinum.

105. Essendo i de’ Coczis benestanti ma non nobili, il territorio ad essi assegnato non fu dato a titolo di feudo, anche se costituiva comunque una cospicua rendita, che i de’ Coczis non mancarono di sfruttare e di valorizzare nel modo precedentemente descritto.

A tal proposito, si può osservare che, ancor oggi, i cognomi “Cocozza” e “Cozzolino” (chiaramente derivati da “Coczis”) sono ben presenti e diffusi nella zona [24].

106. A sua volta, il Giovanni de Blasio che nel 1294 ricevette, da Carlo II d’Angiò, petia terre una arbustata sita in loco qui dicitur Barra de Coczis de territorio Tresani, potrebbe essere stato o un nuovo funzionario che in quell’anno prese il posto dei de’ Coczis o semplicemente qualcuno che ricevette il dono di un terreno, nello stesso territorio Tresano, vicino a quello dei de’ Coczis.

Su questo terreno, il de Blasio potrebbe poi aver costruito una propria abitazione oppure essersi limitato a riscuotere dai contadini i frutti della terra, dimorando egli altrove: non esistono elementi che consentano di poter decidere fra queste due alternative.

107. Infine, si elencano di seguito le diverse ipotesi, avanzate da vari autori, circa l’origine del nome “Barra”, nonché le ragioni per le quali non sembrano condivisibili.

108. Ipotesi Prima:

Il termine “Barra” potrebbe derivare dal greco “barry, barrydos” che significa “torre” e riferirsi quindi alle molteplici torri che furono una caratteristica del casale.

Le torri, però, furono edificate solo nel periodo aragonese, come diremo in seguito; quando, cioè, il nucleo abitato già da più di un secolo si chiamava “Barra”.

109. Ipotesi Seconda:

Il termine “Barra” potrebbe derivare dal fatto che la famiglia de’ Coczis aveva, nel suo podere, anche un “porticus”, che in greco corrotto si diceva “barra”.

A parte, però, la discutibilità di questa etimologia, va osservato che la struttura del portico era molto comune, sia nelle “corti” contadine che nelle successive ville, e non si capisce quindi perchè solo quel determinato “porticus” sarebbe stato chiamato “barra” e non anche gli altri.

110. Ipotesi Terza:

Il termine “Barra” potrebbe derivare dal fatto che i terremoti e l’azione vulcanica del Vesuvio formarono, su una parte del territorio Tresano, alcuni “ammassi di lapilli, cocci di lava indurita e gusci di molluschi” e da allora quella zona sarebbe stata chiamata “Barra”, che significherebbe appunto “ammasso di sabbia o di altra materia”.

Non si trova, però, in quale vocabolario il termine “barra” significhi “ammasso di sabbia o di altra materia”. Non in quello italiano, nè latino, nè greco, nè napoletano. In quale, dunque? A parte ciò, vale inoltre quanto già detto a proposito del termine “porticus” e cioè che “ammassi di lapilli e cocci di lava indurita”, alle falde del Vesuvio, se ne sono sempre formati evidentemente parecchi: perchè solo quello, e nessun altro, avrebbe assunto il nome “barra” ?

111. Ipotesi Quarta:

L’abitato sorse, in ragione delle acque dilavanti, disponendosi ortogonalmente alle linee di compluvio, al di sopra di una linea mediana di raccolta, determinando così una conformazione urbanistica a forma di “barra”, che avrebbe dato origine al suo nome.

A ciò si può osservare che, se è ben vero che il centro storico di Barra ha una conformazione urbanistica “lineare”, ortogonale alle linee di compluvio, disponendosi le abitazioni ai due lati del Corso Sirena, non è però possibile che sia stato questo fatto a dare origine al nome “Barra”, perchè quando questo termine compàre per la prima volta (alla fine del Duecento), il numero delle abitazioni è ancora troppo esiguo per poter costituire un allineamento allungato.

Il tracciato tipicamente lineare cominciò a formarsi solo dopo l’unificazione con Serino (alla fine del Quattrocento), anche per favorire il collegamento tra i due nuclei abitati.

Fiorino in oro (1343-1382). Clicca sull'immagine per ingrandire

I Domenicani

112. Abbiamo visto che il Giustiniani riporta un diploma, datato 24 dicembre 1301, del re Carlo II d’Angiò, “il quale tra le molte donazioni fatte a’ PP. Predicatori per la costruzione della chiesa di S. Domenico maggiore di Napoli, vi si legge questa: Item pecia una terre arbustata sita in loco qui dicitur Barra de Coczi de territorio tresano coniuncto ab una parte terre S. Gregorio ecc.”

113. Ciò non vuol dire che l’attuale chiesa e convento dei Domenicani in Barra risalgano a quell’epoca; è anzi ben documentato [25] che la prima pietra della costruzione del convento di Barra fu posta solo il 16 novembre 1584, alla presenza dell’allora arcivescovo di Napoli, Annibale Di Capua (1578-1595), come vedremo meglio più avanti.

114. Dal Trecento al Cinquecento, dunque, la pecia una terre arbustata di Barra fu, per i Domenicani, una semplice rendita feudale che servì, insieme a molte altre, prima per la costruzione e poi per il mantenimento della casa principale dell’Ordine nel regno meridionale: il convento di S. Domenico Maggiore in Napoli.

115. In effetti, i Domenicani iniziarono a diffondersi nel regno già nel periodo Svevo (1194-1266), non molti anni dopo la loro fondazione.

Data l’importanza della loro presenza, anche nella storia di Barra, si ritiene qui non inutile una piccola parentesi ad essi dedicata.

116. Ricordo, dunque, che S. Domenico de Guzman, nato a Caleruega in Castiglia, visse dal 1171 al 1221; il suo Ordine (“Ordo fratrum praedicatorum”, in sigla OP) prese forma già nel 1206, ebbe approvazione ufficiale dal papa Onorio III (1216-1227) nel dicembre del 1216 e si diffuse assai rapidamente in tutto il mondo allora conosciuto, dalla Scozia alla Siria.

117. Alla morte di S. Domenico, fu suo successore il tedesco Giordano di Sassonia (1222-1237), uomo di grandi capacità organizzative, che scrisse anche la costituzione dell’Ordine.

118. Fu lui, in particolare, ad insediare i suoi frati a Napoli, nel convento di S. Domenico Maggiore, sotto la guida del primo priore fra’ Tommaso Agni da Lentini: nel 1231 il papa Gregorio IX (1227-1241) scrisse, a tal proposito, prima (20 ottobre) all’allora arcivescovo della città, Pietro II di Sorrento (1217-1247) e subito dopo (25 ottobre) a tutto il popolo napoletano; infine (il 1 novembre) l’arcivescovo donò ufficialmente ai Domenicani i pre-esistenti monastero e chiesa benedettini di S. Arcangelo a Morfisa.

119. Il papa era allora impegnato nella controversia con Federico II di Svevia e, alle controversie, i Domenicani erano ben avvezzi: non per nulla, il loro Ordine era stato fondato nel contesto della grande lotta contro l’eresia albigese, nella Francia meridionale.

120. Nel loro stemma recavano la scritta “veritas” ed il simbolo del cane, perchè essi si definivano, con un gioco di parole, “domini-canes” (“i cani del Signore”), ossia coloro che si erano assunti il compito di fare la guardia affinché il gregge del Signore non venisse disperso dagli eretici; ovvero affinché questi non si introducessero nel “campo del Signore”, inquinando le sorgenti della “veritas”.

121. La finalità specifica dell’Ordine era perciò l’approfondimento, la difesa e lo studio sistematico della “veritas” cristiana e cattolica, attraverso una rigorosa disciplina di studio teologico, allo scopo di esercitare la “sancta praedicatio”, la predicazione al popolo, onde elevarne la conoscenza e la pratica della dottrina cristiana e preservarlo dal pericolo di cadere nell’eresia.

122. Si tratta, come si vede, di un “carisma” preciso e ben chiaramente definito.

Tale precisione e chiarezza nella definizione della propria identità, da una parte, evitò ai Domenicani le laceranti divisioni interne che afflissero invece il coèvo Ordine francescano (costantemente alle prese con le dispute sulla “povertà”) e, d’altra parte, anche per la perfetta rispondenza alle esigenze del momento storico, li pose all’avanguardia, nel bene e nel male, della Chiesa dell’epoca.

S. Tommaso d’Aquino

123. Fu, com’è noto, un Domenicano il massimo teologo europeo di quel tempo ed uno dei più grandi della storia della Chiesa, il nobile Tommaso d’Aquino, vissuto dal 1225 al 1274 e proclamato Santo nel 1323.

Paolo de Majo (Marcianise 1703-1784), San Tommaso d'Aquino, olio su tela (Caserta, collezione privata)

124. Tommaso, ultimo dei figli del conte Landolfo d’Aquino, nobile di origine longobarda, e di Teodora, discendente dall’aristocrazia normanna, nacque nel borgo di Roccasecca, a metà strada fra Roma e Napoli, nel 1225.

La sua nonna paterna, Francesca di Svevia, era sorella di Federico Barbarossa, imperatore del Sacro Romano Impero: Tommaso era dunque cugino del suo grande coetaneo Federico II di Svevia, anche se molto diverse furono le loro strade.

A cinque anni, venne affidato dalla famiglia, in qualità di “oblato”, al monastero benedettino di Montecassino, ove rimase fino al 1239.

A quattordici anni, venne inviato a studiare in quella Università che proprio suo cugino Federico II aveva fondato in Napoli, pochi anni prima, allo scopo di promuovere una cultura “laica”, in opposizione alle altre Università allora esistenti, come quella di Bologna, che erano invece di impostazione “guelfa” e papale.

Qui, Tommaso fu iniziato alle opere di Aristotele, ritenuto allora un autore “pericoloso” da parte dell’autorità ecclesiastica, del quale Tommaso diventerà e resterà sempre convinto seguace in campo filosofico.

A diciannove anni, decise di unirsi all’Ordine domenicano di recente fondazione, nonostante l’accesa opposizione di suo padre e dei suoi fratelli.

Subito dopo, fu inviato dai superiori a studiare prima a Parigi e poi a Colonia, avendo come maestro il confratello S. Alberto Magno.

Ritornò a Parigi come docente, dal 1252 a1 1259. Nel decennio successivo, fu in Italia, in territorio papale: ad Anagni, Orvieto, Roma, Viterbo, lavorò nell’organizzazione degli “Studi” domenicani.

Dal 1269 al 1272 di nuovo a Parigi, impegnato nelle controversie contro gli averroisti, che interpretavano Aristotele in modo non compatibile con la dottrina della Chiesa.

Solo nel 1272 ritornò infine a Napoli, per fondarvi lo “Studio” domenicano, nel convento di S. Domenico Maggiore, ove visse ed insegnò.

Dopo appena due anni ivi trascorsi, morì il 7 marzo del 1274, all’età di 49 anni, nel monastero cistercense di Fossanova, mentre era in viaggio per recarsi al II Concilio di Lione, in Francia, come consulente teologico; 50 anni dopo, nel 1323, venne proclamato santo dal papa Giovanni XXII (1316-1334).

125. La sua vita fu interamente dedicata, in piena coerenza al “carisma” domenicano, allo studio, all’insegnamento e alla predicazione. I testimoni dell’epoca riferiscono che dettava abitualmente a tre o quattro segretari alla volta, su argomenti diversi. Fu autore di numerose e densissime opere, che rivelano una delle menti più vaste e profonde che l’umanità abbia mai avuto; il suo capolavoro rimane la famosa “Summa theologiae”, composta fra il 1265 ed il 1273 e lasciata peraltro incompiuta a metà della terza ed ultima parte.

126. Il suo pensiero consiste essenzialmente in un “aristotelismo cristiano”, ossia nella sintesi tra la filosofia di Aristotele ed i presupposti del messaggio evangelico: si tratta quindi di un poderoso tentativo di unificare, al punto più alto, la grande civiltà classica antica e la novità introdotta dal cristianesimo, in modo da fornire una compiuta base teorica alla “societas christiana” medioevale.

127. Il pensiero di Tommaso, per la sua novità, andò incontro all’inizio ad una notevole opposizione all’interno della Chiesa che, nelle sue autorità più tradizionaliste, era legata, piuttosto che ad Aristotele, al “platonismo cristiano” elaborato qualche secolo prima da S. Agostino. Per lo stesso motivo, anche i teologi francescani ne furono costanti oppositori. Nel 1277, tre anni dopo la sua morte, i vescovi Tempier di Parigi e Kilwardby di Oxford condannarono alcune proposizioni tratte dalle opere di Tommaso.

A partire dal Concilio di Trento, nel Cinquecento, il pensiero di Tommaso divenne, per così dire, la “filosofia ufficiale” della Chiesa e nel 1567 il papa S. Pio V (1566-1572) lo proclamò “Dottore della Chiesa”.

Medaglia in bronzo dedicata a San Tommaso d'Aquino (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire

La predicazione

128. Ma non c’era solo l’alta cultura. Furono i Domenicani coloro che praticarono, in modo sistematico, anche la predicazione al popolo.

Si consideri che, a quel tempo, la predicazione era riservata ai soli vescovi e S. Domenico, all’inizio della sua opera, venne osteggiato da molti esponenti del clero secolare e dei vecchi Ordini religiosi (benedettini, cistercensi, certosini, etc.), con la motivazione che egli, presuntuosamente, pretendeva di fondare “un Ordine di vescovi”.

In realtà, il Santo, per contrastare l’estendersi dell’eresia, rivendicava la funzione di predicare anche al semplice frate, purché naturalmente ben preparato e soprattutto di vita esemplare.

Il popolo, e gli stessi studiosi, ebbero così la possibilità di un nuovo e largo accostamento alle fonti della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, che erano rimaste oscurate dall’ignoranza, dalle superstizioni e dal fanatismo dell’Alto Medioevo.

Aspetti ambigui: l’Inquisizione

129. Furono Domenicani, però, anche i più convinti e micidiali assertori dell’Inquisizione, della sua logica e delle sue procedure. Di essa, anzi, furono specificamente responsabili, come adesso si dirà.

130. Già il papa Lucio III (1181-1185), nel Sinodo di Verona del 1184, aveva individuato e colpito con scomunica i principali gruppi eretici popolari che andavano emergendo in quell’epoca, come i Càtari (soprattutto quelli della Francia meridionale, che erano detti “albigesi”, dal nome della città di Alby), i Valdesi, ed altri gruppi minori.

131. Il grande Concilio ecumenico Lateranense IV, indetto dal papa Innocenzo III (1198-1216) nel 1215, sancì ufficialmente, per tutto il mondo cristiano, la scomunica (e, dopo un anno, la deposizione e la perdita del potere) per quei feudatari che non avessero “purificato” dagli eretici le loro terre, mentre i vescovi avevano il dovere di ricercare gli eretici in tutte le diocesi e procedere alla loro punizione per mano delle autorità civili.

132. Nel frattempo, lo stesso papa Innocenzo III aveva indetto la grande crociata contro gli albigesi, che diede inizio ad uno scontro armato, durato 20 anni (1209-1229), con atroci massacri e devastazioni in tutta la Francia meridionale.

133. Poco dopo la conclusione della guerra albigese, il papa Gregorio IX (1227-1241), ritenendo insufficiente e troppo blanda l’azione fino ad allora svolta dai singoli vescovi in esecuzione dei decreti del Concilio Lateranense IV, istituì ufficialmente, con apposito documento del 1231, l’Inquisizione papale, con il compito di ricercare (“inquirere”) e punire (attraverso il braccio secolare) gli eretici in tutto il mondo cristiano, e la affidò agli Ordini religiosi di recente fondazione, in particolare proprio ai Domenicani dei quali essa divenne da quel momento un còmpito specifico.

134. Circa i metodi da adoperare, il papa Innocenzo IV (1243-1254) ripristinò, nel 1252, la tortura quale valido mezzo di prova nei processi inquisitoriali, contraddicendo peraltro la precedente dottrina ufficiale della Chiesa, che con il papa Niccolò I (858-867) aveva invece condannato la tortura come “offesa contro ogni legge, umana e divina”.

135. Di per sé, l’ideale originario di S. Domenico era la libera conversione degli eretici, attraverso la predicazione e l’esempio di povertà dei suoi frati.

Adesso, però, si registrava una innegabile involuzione:

“I frati non si confrontavano in spirito di libertà con quelli che apparivano come nemici della fede, ma agivano ben consapevoli che alla fine erano comunque loro a determinare l’intervento del braccio secolare.

Il rischio dunque era quello di perdere di vista l’idea primordiale del dialogo, quella idea che aveva spinto S. Domenico a trascorrere una notte a dialogare con l’oste per ottenerne da Dio la conversione.

Prendeva cioè sempre più piede la tendenza a scoprire e punire gli eretici, piuttosto che la preoccupazione di convertirli sinceramente e liberamente all’ortodossia della fede cristiana” [26].

136. In tale contesto, si spiega l’emergere delle tristemente controverse figure di “Grandi Inquisitori” domenicani, come il francese Bernardus Guidonis (Gui), autore del trattato “Practica (officii) inquisitionis haereticae pravitatis” e l’aragonese Nicolaus Eymericus, autore del “Directorium inquisitorum haereticae pravitatis”. Essi, morti entrambi nel Trecento, ebbero poi validi continuatori quali Johannes Nider (1380-1438) e soprattutto i famigerati Jacob Sprenger (1437-1495) e Heinrich Institor (1432-1505), inquisitori in Germania ed autori del tremendo “Malleus maleficarum” (“Martello delle streghe”), che costituì per alcuni secoli il “testo-base” per l’individuazione di eretici e streghe.

Aspetti ambigui: il contesto politico

137. Nel contesto napoletano, comunque, i Domenicani si impegnarono a fondo nella lotta contro il pluri-scomunicato Federico II e nell’appoggio alla conquista del regno da parte degli Angioini.

Non meraviglia, quindi, che, dopo la vittoria di Carlo I d’Angiò nel 1266, essi assurgessero a grandi onori: esaltati nei documenti dei sovrani come “fedelissimi custodi della fede ed energici mìliti della Santa Sede”, svolsero ufficialmente, per conto del papa, il ruolo di Inquisitori nel regno e ricevettero, soprattutto dai primi re angioini, cospicue donazioni per i loro conventi (vedi nn. 57-62).

138. Nel 1294, su richiesta di Carlo II d’Angiò, con Bolla del papa Celestino V (luglio-dicembre 1294), confermata l’anno seguente dal nuovo papa Bonifacio VIII (1295-1303), venne istituita la “Provincia Regni” ovvero la circoscrizione domenicana che comprendeva tutta, e solo, l’Italia meridionale continentale e la Sicilia. Primo priore provinciale: fra’ Pietro di Andria.

139. Gli storici domenicani attuali appaiono ben consapevoli delle ambiguità derivanti dal contesto politico in cui avvenne tale istituzione:

140. “La Provincia Regni nacque dalla convergenza fra gli interessi politici degli Angioini e i sentimenti di autonomia dei frati del Sud (dai loro confratelli) [27].

141. “Non solo re Carlo non ne ostacolò i movimenti, come era avvenuto ai tempi dell’imperatore svevo nei confronti dei frati che sostenevano la politica papale, ma li inviò lui stesso in tutto il regno, a controllare la fedeltà dei regnicoli al pontefice e quindi al potere angioino che ne era il braccio secolare.

Si può dire perciò che i Domenicani, beneficati in diversi modi dallo stato, non di rado divennero involontariamente uno strumento nelle mani del potere costituito e riconosciuto dalla Chiesa.

Cosa che ovviamente aveva i suoi vantaggi (buona libertà di movimento e sicurezza economica) ma anche i suoi svantaggi, in quanto l’inquisizione non colpiva soltanto gli eretici veri e propri, come richiedeva lo spirito dell’Ordine, ma anche (ed erano numerosi) gli eretici politici, vale a dire i ghibellini” [28].

142. “Col 1294, il rapporto fra l’Ordine e gli Angioini acquisiva un più chiaro e duraturo assestamento, nel senso di un impegno continuo dei Sovrani nel dare un concreto appoggio alla missione dell’Ordine nonché un altrettanto continuo impegno dell’Ordine nel ricercare e segnalare i nemici del re” [29].

143. In particolare, la sede principale dei Domenicani nel regno, ovvero la chiesa con annesso convento di S. Domenico Maggiore in Napoli, fu magnificamente ristrutturata ed ampliata nel periodo 1284-1324, grazie soprattutto alle elargizioni di Carlo II.

144. Appunto fra queste elargizioni, si registra nel 1301 la concessione di alcune terre, appartenute alle famiglie De Rebursa e Parrilli, site in vari Casali di Napoli, ed in particolare quella, riportata dal Giustiniani, relativa alla pecia una terre arbustata sita in loco qui dicitur Barra de Coczi de territorio tresano (vedi n.112).

L’estaurìta di Sirinum viene data in feudo

145. Mentre sul territorio Tresano avvenivano tali trasformazioni, anche il vicino villaggio di Sirinum era investito da mutamenti non meno profondi: all’interno dei rapporti comunitari fra “li homine de lo Casale” organizzati in estaurìta su terre demaniali, venivano innestati dall’alto, in modo abbastanza pesante, nuovi rapporti di subordinazione feudale.

146. Infatti, nell’àmbito della generale politica angioina, di infeudazione delle terre demaniali e di favori alle istituzioni ecclesiastiche, che abbiamo già descritto, il re Roberto d’Angiò fece dono di una parte delle terre di Sirinum, inclusa la chiesa estaurìta di S. Atanasio, all’ospedale dell’Annunziata di Napoli.

147. Questo ci fa sapere il Chiarito [30], citando l’Inventario dei beni posseduti dal suddetto ospedale, che “sèrbasi nell’Archivio della Chiesa della SS. Annunziata di questa Metropoli”:

“L’accennato Inventario, formato nell’anno 1336, ci fa sapere che in questo Villaggio (Sirinum, ndr) vi fosse una Chiesa dedicata a detto nostro Vescovo S. Atanasio; ed altre curiose notizie.

Leggesi in detto Inventario così: Item habet dictum Hospitale in Casali Sireni Stargiam terrae unam... per mensuram... computata in dicta mensura Ecclesia S. Athenasii; cum curti ante se usque ad viam publicam, Cimiterio... concessa per Abbatem dicti Hospitalis; de speciali gratia stauritae dictae Ecclesiae”.

148. Vediamo quindi che, nel 1336, l’ospedale dell’Annunziata possedeva Stargiam terrae unam del territorio del casale di Sirinum e che in dicta mensura erano inclusi anche:

a) la chiesa di S. Atanasio, che era la chiesetta del villaggio e, ovviamente, la sede della relativa estaurìta;

b) la corte davanti alla chiesa, fino alla via pubblica (corte che si vede tuttora davanti alla “Arciconfraternita della SS. Annunziata”, fino al Corso Sirena);

c) il cimitero annesso alla chiesa, che doveva essere in parte sottostante ed in parte restrostante la chiesa stessa (ricordiamo che l’usanza cristiana, prima del famoso editto di Napoleone che impose le sepolture extra-urbane, era di seppellire i defunti sotto le chiese o quanto meno in prossimità di esse).

149. Ma quando era avvenuta la donazione?

E’ qui opportuno ricordare che la chiesa della SS. Annunziata (“Ave gratia plena”, in sigla AGP) in Napoli, fu una delle più notevoli istituzioni religiose promosse dagli Angioini in città.

Alla chiesa erano annessi un importante ospedale (tuttora funzionante) e la cosiddetta “Santa Casa” per l’infanzia abbandonata (nella quale i bambini venivano accolti attraverso la caratteristica “ruota”, abolita solo nel 1875), che funzionò in pratica fino al 1980.

150. Dalla storia, dunque, dell’Annunziata [31], apprendiamo che la più antica documentazione esistente su di essa è un diploma angioino, datàto 15 dicembre 1318, nel quale i “Maestri della SS. Annonciàta sopra muro” chiedono al re Roberto l’espropriazione di “un fodicciuolo di tal Tommaso Coppula” per la costruzione della “Chiesa et Hospidale”, da erigersi con elemosine dei fedeli.

151. E’ certo, quindi, che nel 1318 esisteva già una confraternita intitolata all’Annunziata (tale confraternita era nata presumibilmente un paio di anni prima, attorno ad una piccola cappella omonima) e che la chiesa e l’ospedale erano in costruzione.

152. Il re Roberto, come usava, sostenne l’opera con varie donazioni e, fra queste, vi fu evidentemente anche quella della Stargiam terrae unam del nostro villaggetto di Sirinum, che troviamo poi registrata nell’inventario compilato nel 1336.

153. Fu dunque nel periodo fra il 1318 e il 1336 (più vicino alla prima che alla seconda data) che il re Roberto d’Angiò concesse terra e chiesa, con corte e cimitero (come sopra detto), del Casale di Sirinum a titolo di rendita feudale all’Annunziata, così come suo padre Carlo II aveva concesso ai Domenicani, nel 1301, pecia una terre arbustata ... de territorio tresano.

154. Per gli Angioini, fu semplicemente una ulteriore donazione ad enti ecclesiastici di beni del demànio règio, ma per la minuscola popolazione del Casale di Sirinum (ricordiamo che potevano essere una cinquantina di persone) costituì una svolta, poco meno che epocale, della sua storia.

La contésa

155. Questa volta, infatti, oltre la terra, era stata infeudata anche la chiesetta e quindi i “maestri dell’estaurita”, eletti dalla popolazione, si trovarono all’improvviso a dipendere dall’abate dell’ospedale.

156. Considerato che essi erano abituati ad amministrare direttamente i beni della comunità, sotto il controllo ed a vantaggio della comunità stessa, nonché a nominare senza interferenze il cappellano che amministrava i sacramenti, si può ben comprendere come da quel momento siano insorte continue controversie fra l’estaurita e l’abate, le cui tracce permangono nei documenti addirittura fino al Concilio di Trento ed oltre.

157. I quattro estauritari, alla testa delle sette-otto famiglie di Sirinum e con il presumibile appoggio del loro povero prete di campagna, dovettero iniziare una fiera “guerra di trincea”, per far rispettare i diritti della loro piccola comunità, rispetto al nuovo, potente feudatario, resistendo ad ogni sorta di pressioni materiali e morali (si consideri che, in quel tempo, si poteva utilizzare addirittura lo strumento della “scomunica”, per ottenere il versamento delle rendite...).

158. Si trattava, da una parte, della disputa (rinnovantesi in pratica ogni anno) circa la ripartizione dei prodotti della terra fra la comunità locale e l’abate, che poi diventava ovviamente una disputa più generale circa il potere di gestione della comunità e dei suoi beni; d’altra parte, la controversia riguardava anche il diritto di nomina del cappellano, che fino a quel momento era di pertinenza della comunità (che peraltro lo stipendiava), mentre adesso veniva rivendicato dall’abate, che anzi pretendeva addirittura di nominare direttamente gli stessi maestri dell’estaurita, sottraendoli quindi alla elezione ed al controllo degli uomini del Casale.

159. Non esistono, purtroppo, documenti che consentano di ricostruire nei dettagli tutta la disputa, che dovette essere piuttosto aggrovigliata, anche perché la Chiesa universale attraversava in quel secolo una grave crisi.

160. Dal 1309 al 1377 i papi ebbero sede non a Roma bensì ad Avignone, in Francia, e furono fortemente subalterni alla monarchia francese (è il periodo cosiddetto della “cattività avignonese” della Chiesa).

Tornati i papi a Roma, nel 1378 ebbe però inizio il cosiddetto “grande scisma”, cioè un lungo periodo che durò fino al 1417, nel quale si ebbero contemporaneamente due papi (in certe fasi addirittura tre), che si contendevano il governo della Chiesa, oltre che con reciproche scomuniche, anche con gli eserciti schierati dai rispettivi sostenitori.

161. In questa fase, naturalmente, anche la Chiesa di Napoli si trovò ad avere contemporaneamente due (o tre) arcivescovi, ognuno nominato da un papa diverso ed ognuno fermamente convinto di essere il legittimo capo della diocesi e reclamante l’obbedienza dei sudditi.

162. In tale situazione, non è difficile immaginare che anche la piccola (ma, per la povera popolazione, vitale) disputa fra Sirinum e l’Annunziata potesse trascinarsi per decenni, con parziali successi ora dell’uno, ora dell’altro, in una situazione di sostanziale equilibrio, potendo sempre ognuno dei due competitori appellarsi ad una autorità ritenuta “più legittima” di quella alla quale si appellava l’antagonista.

163. D’altra parte, occorre considerare che la contesa non era combattuta, dalle due parti, con pari fervore e determinazione: per il piccolo Casale di Sirinum si trattava di una questione vitale e determinante, dalla quale dipendeva in definitiva la sua stessa sopravvivenza; per l’Annunziata, si trattava invece di una rendita piccolissima ed in sostanza trascurabile, rispetto alle molte e cospicue donazioni che vennero fatte all’istituzione nel corso di tutto quel secolo e nel successivo.

Si può quindi presumere che, da parte dell’AGP, la vicenda fosse seguita in modo piuttosto blando e che l’accanimento (se vi fu) fosse più “di principio” che di sostanza.

164. E’ ben certo, comunque, e documentato [32], che nel 1411 il piccolo Casale arrivò ad intentare causa contro l’ospedale: evento che dovette restare memorabile nella tradizione orale delle famiglie del Casale, visto che ancora veniva ricordato durante la Santa Visita del card. Decio Carafa, nel 1620!

165. I contadini di Sirinum ed i loro “mastri” erano sicuramente poveri e presumibilmente ignoranti, ma non erano certo stupidi.

La data per far causa all’ospedale, infatti, appare decisamente ben scelta, ove si consideri che non solo era ancora in corso il “grande scisma” ma appena due anni prima (quindi, nel 1409) la Santa Casa dell’Annunziata aveva ricevuto in dono dalla regina Margherita, madre del re Ladislao d’Angiò-Durazzo, il grande feudo di Lesina, in Capitanata, che fu la più grande investitura feudale concessa all’istituto.

L’AGP si trovava quindi in un momento nel quale non doveva avere grosse difficoltà economiche e poteva, dunque, permettersi una certa benevolenza verso il povero Casale!

166. Ad ogni modo, non si sa come andasse a finire la causa.

D’altra parte, nel 1432, la regina Giovanna II d’Angiò-Durazzo finanziò interamente i lavori per la costruzione di un nuovo ospedale per l’Annunziata e quindi la rendita di Sirinum diventò ancor meno significativa per l’istituto.

167. Sembra, ma non è certo, che il papa Eugenio IV (1431-1447), qualche anno dopo, terminato ormai lo scisma, abbia finalmente concesso all’abate dell’ospedale il “privilegio” di nominare il cappellano dell’estaurita di Sirinum.

168. Ma il nostro piccolo Casale (vuoi per fierezza di spirito, vuoi per la disperazione della miseria, vuoi per entrambe le cose), continuò evidentemente a dimostrarsi un osso molto duro da piegare, tanto che il 25 febbraio 1543 (ed il manoscritto, dopo quanto abbiamo detto, suona quasi come un bollettino di vittoria), durante la Santa Visita del card. Francesco Carafa [33],

“relatum fuit eidem domino visitatori quod dicta ecclesia regitur per quator magistros laycos pro tempore eligendos de dicta Villa qui eligunt Cappellanum in dicta ecclesia amovibilem pro celebratione missarum et administratione ecclesiasticorum sacramentorum”

(traduzione: fu riferito al signor visitatore che la detta chiesa (quella di Sirinum) è retta da quattro maestri laici, che vengono eletti periodicamente da detta Villa, i quali (a loro volta) eleggono il cappellano in detta chiesa, amovibile, per la celebrazione delle messe e l’amministrazione dei sacramenti ecclesiastici).

169. Dunque, nel 1543, quando Sirinum si era ormai unificato con la Barra de Coczis in un unico Casale con un’unica chiesa estaurìta, la popolazione di questo Casale continuava ad eleggere i suoi “quattro maestri laici” per governare la chiesa (ed i beni connessi), ed i maestri sceglievano chi dovesse essere il prete cappellano, che era comunque “amovibile”, poteva cioè essere rimosso e sostituito con un altro, a giudizio delle famiglie e degli stessi “magistros laycos”.

170. Sembrerebbe quindi, per i nostri contadini, una vittoria quasi completa, ma... la vicenda ebbe poi ulteriori sviluppi e i loro antagonisti, con il Concilio di Trento, si presero la loro rivincita.

Di questo parleremo, però, nel capitolo dedicato ai due secoli del vice-regno spagnolo.

Cronologia dei Re Angioini di Napoli

1266-1285 Regno di Carlo I d’Angiò

1266   - Battaglia di Benevento: Carlo I d’Angiò sconfigge Manfredi di Svevia, che muore in battaglia.

1268 - Battaglia di Tagliacozzo: Carlo I d’Angiò sconfigge Corradino di Svevia (figlio di Corrado IV) che viene poi decapitato in Piazza Mercato a Napoli e sepolto alla foce del fiume Sebéto. Napoli diventa la capitale del Regno.

1275 – La famiglia de’ Coczis riceve da Carlo I d’Angiò un terreno in territorio Tresano.

1282 - Inizio della guerra “del Vespro”: la Sicilia si ribella agli Angioini e offre la corona a Pietro III d’Aragona, marito di Costanza figlia primogenita di Manfredi.

1285-1309        Regno di Carlo II d’Angiò, figlio primogenito di Carlo I

1294 – Giovanni de Blasio riceve da Carlo II d’Angiò un terreno sito in Barra de Coczis de territorio Tresani.

1301 – I Padri Domenicani ricevono da Carlo II d’Angiò un terreno sito in Barra de Coczi de territorio tresano.

1302       Finisce la guerra “del Vespro” fra Angioini ed Aragonesi, con la pace di Caltabellotta: Carlo II d’Angiò mantiene il titolo di “Re di Sicilia” ed il possesso della parte continentale del Regno, mentre Federico II d’Aragona, col titolo di “Re di Trinacria”, s’impossessa della Sicilia; alla sua morte, però, l’isola dovrà tornare agli Angioini.

1305      Carlo II fa esporre per la prima volta in pubblico il busto d’argento, da lui commissionato ad òrafi della corte angioina, per contenere le ossa del cranio di S.Gennaro.

1309-1343 Regno di Roberto d’Angiò, terzogenito di Carlo II

1309-1377          “Cattività avignonese”: i papi non risiedono più a Roma ma ad Avignone (Francia) e sono fortemente subalterni alla monarchia francese.

1328-1340 Giovanni Boccaccio a Napoli. Roberto d’Angiò fa costruire la teca per contenere le ampolle del sangue di S. Gennaro.

1336 – Nell’inventario dei beni concessi da Roberto d’Angiò all’abate della “Santa casa” dell’Annunziata in Napoli figurano anche dei terreni posti nel Casale di Sirinum e la chiesa estaurita di S. Atanasio.

1337 - Dopo la morte di Federico II d’Aragona, il suo successore si rifiuta di restituire l’isola agli Angioini, come stabilito a Caltabellotta, ed assume anzi anch’egli il titolo di “Re di Sicilia” in concorrenza con gli Angioini.

Da questo momento vi sono quindi 2 “Regni di Sicilia”: uno, denominato “Regno di Sicilia di qua dal faro (il faro di Messina)” che è in effetti il Regno di Napoli governato dagli Angioini; l’altro, denominato “Regno di Sicilia di là dal faro”, che è in effetti la Sicilia governata dagli Aragonesi.

In pratica, quindi, a partire dal 1282, la Sicilia costituisce un Regno autonomo, governato dai seguenti re aragonesi:

1282-1285 Pietro I (III d’Aragona)

1285-1295       Giacomo I (II d’Aragona)

1295-1336 Federico II

1336-1342       Pietro II

1342-1355       Luigi

1355-1377       Federico III

1377-1402 Maria

1402-1409 Martino “il giovine”

1409-1410     Martino “il vecchio”

1343-1382 Regno di Giovanna I d’Angiò, figlia di Carlo (primogenito di Roberto morto prematuramente)

1345 Caterina Galasso riceve da Giovanna I d’Angiò una casa, con terreni, sita in la Barra de li Cocze.

1347-1350              La grande “peste nera” spopola l’Europa.

1378-1417       “Grande scisma” nella Chiesa: si hanno contemporaneamente 2 papi (in certe fasi, anche 3) che si contendono il governo della Chiesa cattolica.

1382-1386 Regno di Carlo III d’Angiò-Durazzo.

1386-1399        Reggenza di Margherita di Durazzo, moglie di Carlo III.

1389                (17 agosto) – E’ documentato il verificarsi per la prima volta del “miracolo di S. Gennaro”: il sangue del martire si scioglie nelle ampolle.

1399-1414 Regno di Ladislao d’Angiò-Durazzo, figlio di Carlo III e di Margherita.

1414-1435          Regno di Giovanna II d’Angiò-Durazzo, sorella di Ladislao.


Note

[1] Nicola Del Pezzo-”I casali di Napoli” in “Napoli nobilissima”, settembre 1892, pag.2

[2] Antonio Chiarito- “Comento istorico-critico-diplomatico sulla Costituzione De instrumentis conficiendis per Curiales dell’Imperador Federico II”, Napoli, 1772.

[3] Gli Aprano erano nobili del Seggio di Capuana; insieme agli Zurlo, risultano tra i fondatori della chiesa di S. Caterina a Formiello, nella parte orientale della città, in data non precisabile ma certamente anteriore al 1450; un importante esponente della famiglia, Giovanni Aprano, fu tra i finanziatori di Carlo I d’Angiò per la conquista del regno nel 1266. La chiesa di S. Caterina a Formiello divenne poi, nel Cinquecento, una specie di Pantheon della nobile famiglia Spinelli.

[4] B.Capasso- “Sulla circoscrizione civile ed ecclesiastica della Città di Napoli dalla fine del secolo XIII fino al 1809”- Napoli, 1883, pag.113 sqq.

[5] Nicola Del Pezzo-”I casali di Napoli” in “Napoli nobilissima”, settembre 1892, pag. 2.

[6] Antonio Chiarito- “Comento istorico-critico-diplomatico sulla costituzione De instrumentis conficiendis per Curiales dell’Imperador Federigo II”- Napoli, 1772, pag. 129.

[7] Giovanni Alagi - “Ricerche su Casavaleria, antico casale dell’agro vesuviano” in“Asprenas”, anno X (1963), n. 4.

[8] Matteo Schipa - “Contese sociali nel medioevo”- Napoli, 1906 - pagg. 111-112; Antonio Chiarito- “Comento istorico-critico-diplomatico sulla costituzione De instrumentis conficiendis per Curiales dell’Imperador Federigo II”- Napoli, 1772, pagg. 130-133.

[9] Benedetto Croce- “Storia del Regno di Napoli”- Napoli, 1924.

[10] Luisa Basile e Delia Morea- “I briganti napoletani”- Napoli, 1996.

[11] Alexandre Dumas- “Cento anni di brigantaggio nelle province meridionali d’Italia”- Vol. I, Stamperia Salvatore De Marco, Napoli, 1863.

[12] Maria di Màgdala (Maddalena) è menzionata nei seguenti passi dei Vangeli: Mt 27, 56. 61; 28, 1; Mc 15, 40. 47; 16, 1. 9; Lc 8, 2; 24, 10; Gv 19, 25; 20, 1. 11-18. In nessuno di questi passi è detto che fosse una prostituta. La figura di Maria Maddalena non va quindi confusa con quella della “peccatrice” dell’unzione in casa del fariseo (Lc 7, 36-50) che è, invece, anonima. Nè, d’altronde, può essere confusa con la donna dell’unzione di Betania (Gv 12, 1-8; Mt 26, 6-13; Mc 14, 3-9) che è invece Maria, sorella di Marta e di Lazzaro, della quale si parla anche in Lc 10, 38-42 e Gv 11, 1-45 e che, a sua volta, non è una prostituta.

[13] Ogni anno, la vigilia della festa dei SS. Pietro e Paolo (29 giugno), l’ambasciatore del re di Napoli consegnava al papa una cavalla dal mantello bianco (detta “chinèa”), sulla cui groppa era sistemata una coppa d’argento e il tributo in denaro. Si organizzava di solito un grande corteo, che si snodava per le vie di Roma fino alla presenza del papa, al cui cospetto la cavalla, opportunamente addestrata, si inginocchiava. Il cosiddetto “omaggio della chinèa” rimase in vigore fino al periodo borbonico.

[14] Benedetto Croce- “Storia del Regno di Napoli”- Napoli, 1924.

[15] B. Croce, op. cit.

[16] B. Croce, op. cit.

[17] R.Ciasca- “Storia delle bonifiche del Regno di Napoli”- Bari, 1828, pag. 102 sqq.

[18] M. Camera “Annali delle due Sicilie”- Napoli, 1841, vol.I, pag. 290.

[19] G. Boccaccio- “De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris”- Si tratta di un’opera erudita, dell’ultimo ventennio di vita del Boccaccio, nella quale egli menziona ed illustra, in ordine alfabetico ed in separate sezioni, tutti i nomi geografici che si incontrano nelle opere letterarie, storiche e filosofiche dell’età classica, allo scopo di fornire aiuto ai lettori della poesia antica, greca e latina. Vedi anche nn.23-28 de “Il periodo greco e romano” e n.8 de “Il periodo del ducato”.

[20] Henri Pirenne-“Storia economica e sociale del medioevo”- Parigi, 1933.

[21] Benedetto Croce- “Storia del Regno di Napoli”- Napoli, 1924.

[22] Registro segnato 1275 C fol. 6 at e 7.

[23] Vedi nota (3)

[24] Diverso problema è quello della etimologia del cognome “de Coczis”. Tale problema, però, non ha alcun rapporto con il luogo del quale stiamo parlando, perchè ovviamente i de Coczis potevano così chiamarsi già da molte generazioni, quando si insediarono sul territorio Tresano.

[25] G. Alagi- “S. Giorgio a Cremano: vicende e luoghi”- S. Giorgio a Cremano, 1981.

[26] Gerardo Cioffari e Michele Miele – “Storia dei Domenicani nell’Italia meridionale” – EDI, 1993.

[27] Cioffari e Miele, op. cit.

[28] Cioffari e Miele, op. cit.

[29] Cioffari e Miele, op. cit.

[30] Antonio Chiarito- “Comento istorico-critico-diplomatico sulla costituzione De instrumentis conficiendis per Curiales dell’Imperador Federigo II”- Napoli, 1772, pag. 145.

[31] Giambattista D’Addosio- “Origine, Vicende storiche e progressi della Real S.Casa dell’Annunziata di Napoli”- Napoli, 1883. Vedi anche il recente: Ida Maietta e Angelo Vanacore- “L’Annunziata: Chiesa e Santa Casa”- Napoli, 1997.

[32] Atti Santa Visita Card. Decio Carafa, IV, 258 (anno 1620).

[33] Atti Santa Visita Card. Francesco Carafa, II, 181 (anno 1543). La Santa Visita ordinata dal card. Francesco Carafa fu eseguita dal suo vicario generale, Leonardo de Magistris, vescovo di Capri. A Serino, al momento della visita, gli estauritari non erano presenti e così il de Magistris si incontrò solo con il cappellano, di nome D. Ambrogio de Riccardo. Fu questi, evidentemente, a “riferire al signor visitatore” quanto detto sopra.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, settembre 2016

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