La Sinistra liberale: Agostino Depretis
1. Il 25 marzo 1876, caduto
l’ultimo governo della Destra (Marco Minghetti: 1873-1876), il re
Vittorio Emanuele II conferì l’incarico di formare il nuovo governo alla
personalità emergente della Sinistra liberale, Agostino Depretis
(Mezzana Corti Bottarone di Pavia, 1813 – Stradella di Pavia, 1887)
il quale, con brevi interruzioni, rimase poi al potere fino alla sua
morte, avvenuta il 29 luglio 1887.
Anche Depretis, comunque, come
gran parte dei suoi predecessori
[1], era massone: si ascrisse alla massoneria nel 1864, e nel
1877 era “33° grado” del “Rito scozzese antico ed accettato”.
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Agostino Depretis (1813-1887) |
2. La Sinistra liberale
arrivava al potere con un programma di riforme abbastanza
dettagliato ed audace, che prevedeva: istruzione elementare gratuita
ed obbligatoria per tutti; maggiore decentramento amministrativo ed
allargamento del diritto di voto; abolizione della tassa sul
macinato e una riforma fiscale che facesse pagare ai ricchi un po’
di più.
3. Questo programma fu
sostanzialmente realizzato negli anni successivi, nonostante le tenaci
opposizioni che esso incontrava nei settori più conservatori della
borghesia e della vecchia aristocrazia.
Tali settori,
perduto il governo, trovarono però un valido appoggio nel nuovo Re,
Umberto I di Savoia (1844-1900), salito al trono nel gennaio del
1878, affiancato dalla giovane moglie-cugina, figlia di un fratello
minore di Vittorio Emanuele II: la famosa regina Margherita
(1851-1926), quella in onore della quale un pizzaiolo di Napoli fu
indotto dai cortigiani a ribattezzare la pre-esistente pizza “tricolore”
(bianco della mozzarella, rosso del pomodoro, verde delle foglie di
basilico), che viene detta tuttora “pizza Margherita”.
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Umberto I e Margherita di Savoia |
Margherita: la “primattrice” della nuova Italia
4. Alcuni storici usano parlare
dell’Italia umbertina; ma forse, non ostante la scarsa eleganza
di questa espressione, sarebbe più esatto parlare di Italia
margheritina.
5. In effetti, Margherita di
Savoia, “la regina d’Italia” per antonomasia, è probabilmente il
personaggio pubblico più rappresentativo, nel bene e nel male, della
“italietta” post-risorgimentale, nel periodo compreso fra l’unificazione
(1860) e l’avvento al potere del fascismo (1922).
Ed altrettanto probabilmente,
il suo principale talento fu quello di attrice anzi di “primattrice”, da
“professionista del trono” (Montanelli) che recitò magnificamente, e con
convinzione, la parte, assegnatale dalle circostanze storiche, di celare
un’assai brutta sostanza sotto un’assai bella apparenza.
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Margherita di Savoia |
6. Nella sostanza, le
sue opinioni e scelte politiche, che influenzarono in maniera
determinante le decisioni del marito, furono sempre nettamente
anti-democratiche, sul piano politico, ed anti-popolari, sul piano
sociale.
Osteggiò le pur timide riforme
della Sinistra liberale di Depretis ed appoggiò invece il successivo
governo autoritario di Francesco Crispi ed il tentativo di svolta ancor
più autoritaria sul finire del secolo; sostenne convintamente le guerre
coloniali di conquista; volle fermamente la repressione armata dei
movimenti di piazza contro l’aumento del prezzo del pane, e la
decorazione del generale massacratore Bava-Beccaris; appoggiò infine,
con fervida simpatia anche personale nei confronti di Mussolini, il
nascente movimento fascista, favorendone esplicitamente l’avvento al
potere.
7. Contro siffatta donna
politica, avrebbero dovuto sollevarsi anche le pietre della strada, ed
invece fu amatissima da larghi strati del buon popolo, grazie ad una ben
studiata apparenza ovvero costruzione della propria immagine
pubblica, che riuscì ad alimentare un vero e proprio “culto della
personalità” della “italica Margherita … la sabàuda Margherita … figlia
e regina del sacro rinnovato popolo latino” (Carducci, Odi barbare, “Il
liuto e la lira”).
Onde
venisti? Quali a noi secoli
sí mite e
bella ti tramandarono?
fra i canti
de’ sacri poeti
dove un
giorno, o regina, ti vidi?
(Giosuè
Carducci, “Alla Regina d’Italia”)
L’inizio della recita
8. Al momento del matrimonio,
il 22 aprile 1868, lei aveva 17 anni. Suo marito Umberto ne aveva 24 ed
era, già da alcuni anni, legato sentimentalmente alla duchessa Eugenia
Attendolo Bolognini coniugata Litta Visconti Arese, “regina” dei salotti
milanesi, di sette anni più grande di lui.
Questo legame durò poi per
tutta la vita del Re, senza peraltro impedirgli di coltivare
fiammeggianti ma più brevi passioni, fra le quali solo quella degli anni
Novanta con la “fatale contessa” di Santa Fiora, Vincenza Publicola
Santacroce coniugata Sforza Cesarini, giunse a contendere il primato
alla duchessa Litta anche in termini di influenza politica.
9. Comunque, già poco dopo il
matrimonio e sicuramente dopo la nascita dell’unico figlio Vittorio
Emanuele III nel 1869, i due coniugi non vissero più come marito e
moglie, conducendo ognuno vita indipendente dall’altro, tranne che per
la gestione in comune dei passaggi politici più decisivi.
Ciò non ostante, lei recitò per
tutta la vita, in pubblico e nelle cerimonie ufficiali, la parte della
moglie felice e premurosa. La consorte di Vittorio Emanuele II, Maria
Adelaide, era morta nel 1855 e da quel momento lui non aveva più avuto
una consorte ufficiale
fino alla sua morte nel 1878. Margherita fu dunque
la prima vera “regina d’Italia” e la “prima-donna” indiscussa già dal
momento del suo matrimonio con il giovane erede al trono.
10. Nata a Torino, di sangue
sabàudo, battezzata nientemeno che alla presenza di Cavour, d’Azeglio e
La Marmora, con quel matrimonio ritenne di aver ricevuto, dalla
Provvidenza e dalla Storia, il ruolo di “icona” del nascente Regno
d’Italia e di dover contribuire, coltivando accortamente la propria
immagine pubblica di regina bella, buona, colta, affabile e generosa, al
consolidamento del nuovo Stato ed al prestigio “indissolubile” della
Patria e della famiglia Savoia.
La regina bella (?)
11. Come la bianca stella di
Venere …
fulgida e bionda ne l’adamàntina
luce del serto tu passi, e il
popolo
superbo di te si compiace
qual di figlia che vada a
l’altare.
Salve, dice cantando, o inclita
a cui le Grazie corona cinsero,
a cui sí soave favella
la pietà ne la voce gentile!
(Giosuè Carducci)
In realtà non proprio
bellissima, con le gambe vistosamente corte rispetto al busto (che poi
lasciò in eredità al figlio Vittorio Emanuele III, il “Re sciaboletta”),
ritenne di supplire a queste lacune estetiche ostentando le vistose
scollature e le nude braccia grassocce, e soprattutto con un
abbigliamento fastoso ed un crescente sovraccarico di gioielli, che la
facevano sembrare a volte una statua votiva: ai nostri barresi, poteva
sembrare una specie di S. Anna in processione ricoperta di ex-voto, una
“S. Anna incannaccàta”.
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Margherita di Savoia |
12. Il suo vezzo particolare,
suggerito dal suo nome Margherita (in latino, come si sa,
margarita significa “perla”), erano le perle, di cui amava
vistosamente ornarsi, tanto da essere chiamata “la regina delle
perle”.
Dopo averle doverosamente ceduto la collana di perle e smeraldi
appartenuta a sua madre Maria Adelaide, “in 32 anni di matrimonio,
Umberto le regalò complessivamente 16 fili di perle, di cui ella
adornava le sue più splendide toilette, anche se sapeva che ogni
filo equivaleva a un tradimento, e forse anche più, di Umberto”
.
Sembra superfluo evidenziare che “ogni filo” di perle “equivaleva” anche
a sangue succhiato al popolo, ma questo lei, e non solo lei, preferiva
non saperlo …
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Margherita di Savoia |
La regina buona (?)
13. Con un sorriso misto di
lacrime
la verginetta ti guarda, e
trepida
le braccia porgendo ti dice,
come a suora maggior,
“Margherita!”
Salve, o tu buona, sin che i
fantasimi
di Raffaello ne’ puri vesperi
trasvolin d’Italia, e tra’
lauri
la canzon del Petrarca sospiri!
Fin da prima del matrimonio, le
furono organizzati dei continui “giri d’Italia” insieme ad Umberto, per
ostentare ai popoli della penisola il nuovo potere unitario, che
mentre massacrava ferocemente i contadini del Sud, si impadroniva
truffaldina-mente della pingue Cassa del Banco di Napoli, rubava
sfacciatamente le terre demaniali, imponeva la tassa sul macinato, etc.
etc. … voleva poi presentarsi come benefico, rispettoso dei costumi e
delle tradizioni locali e, nello stesso tempo, animato dal desiderio di
progresso e di modernità.
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Margherita di Savoia |
14. La sua bontà personale, in
particolare nel ruolo di “regina madre” dopo essere rimasta vedova
nel 1900, si estrinsecò soprattutto nel patrocinare e promuovere,
ovviamente con denaro pubblico, vari tipi di opere filantropiche,
assistenziali e di beneficenza, con ostentate
visite e làsciti ad ospedali, orfanotrofi, ospizi per bambini e per
ciechi, istituti educativi, etc. nonché nel trasformare in ospedale
militare la sua residenza romana, durante la Prima guerra mondiale.
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Margherita di Savoia |
15. In realtà, se fosse stata veramente buona e caritatevole come
voleva apparire, avrebbe almeno intuito che “più di chiunque altro,
colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire
le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel
vincerla risolutamente”
.
Il “suo amatissimo popolo”, più che di beneficenza, aveva bisogno
anzitutto di una politica economica fatta di maggiore equità
sociale, redistribuzione delle terre a favore delle famiglie contadine,
miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro allora durissime,
incremento di scuola, sanità e trasporti, pubblici e non più privati, ed
insomma di una politica sociale.
Ma questo lei, e non solo lei, preferiva non comprenderlo …
La regina colta (?)
16. In effetti, aveva
cognizioni alquanto superficiali, nei vari ambiti che allora si
ritenevano indispensabili a tutte le signorine di buona famiglia, anche
borghesi.
Sapeva graziosamente disegnare
e colorare, ballare e suonare il pianoforte, apprezzare la poesia,
l’arte e le corse dei cavalli. Lei però, di suo, era anche appassionata
ed esperta alpinista.
Aveva ricevuto nozioni di
cultura generale ed infarinature di storia e letteratura italiana. Marco
Minghetti, l’esponente della Destra liberale, fu per molto tempo il suo
“lettore di latino” ma ciò non impedì “i numerosi errori di ortografia e
di sintassi che costelleranno la sua corrispondenza”
.
17. La sua ambizione era quella
di essere, o almeno di sembrare, la Mecenate della nuova Italia,
promuovendo l’arte, la musica, la letteratura.
18. I suoi balli di corte ed i
suoi “giovedì della regina” a Palazzo diventarono il salotto della nuova
Italia, dove la vecchia aristocrazia, riciclatasi come liberale, si
lasciava graziosamente “contaminare” dalla frequentazione con i nuovi
borghesi, arricchitisi con la speculazione finanziaria e con il furto
delle terre ecclesiastiche e demaniali, amalgamando così la classe
dirigente “italiana” sulla base di un fruttuoso reciproco scambio di
favori e di una mentalità ancorata alle concezioni della Destra
liberale.
19. Lusingati nella loro vanità
dall’accoglienza nel salotto regale, per lei diedero fiato ai tromboni
della retorica i maggiori letterati di allora, dal massone repubblicano
(?) Giosuè Carducci, all’ineffabile “superuomo all’amatriciana” Gabriele
D’Annunzio, all’angelico e patriottico chierico vicentino Giacomo
Zanella, e tanti altri.
20. Nella sostanza, la
sua strategia, lucidamente concepita e perfettamente messa in atto, fu
quella di promuovere una cultura cortigiana che doveva servire
anzitutto ad esaltare la dinastia regnante e non invece volgersi allo
studio ed alla comprensione delle cause della povertà che affliggeva la
stragrande maggioranza del popolo ed ai possibili rimedi.
21. Finita la guerra, e consegnata l’Italia in mano a Mussolini, si
rifugiò a Bordighera, dove si era fatta costruire una grande Villa che
da lei prese il nome e laddove morì il 4 gennaio del 1926.
I suoi funerali, con il feretro
portato a spasso in treno per quasi tutta l’Italia fra ali di popolo
piangente, fu il più grande spettacolo che diede nella sua vita:
l’ultimo dell’Italia liberale ed il primo dell’era fascista.
Il primo attentato a Umberto I (1878):
Giovanni Passannante
22. Non ostante la popolarità
della moglie, Umberto I era talmente amato dal suo popolo che subì 3
attentati: il primo, nel 1878, ad opera del cuoco lucano Giovanni
Passannante; il secondo, nel 1897, ad opera di Pietro Acciarito; il
terzo, nel 1900, ad opera di Gaetano Bresci, che sortì l’effetto.
23. Quando Agesilao Milano, l’8
dicembre 1856, attentò alla vita di Ferdinando II di Borbone, venne
“soltanto”, in base alle leggi che erano allora in vigore in tutti gli
Stati europei, fustigato e poi impiccato in Piazza Mercato pochi giorni
dopo, il 13 dicembre.
“Circa quattro anni dopo,
durante la degenza che lo condusse alla morte, il Re Ferdinando chiese
al chirurgo Capone di controllare se la ferita al petto infertagli dal
Milano si fosse infiammata, temendo che la baionetta dell’attentatore
fosse avvelenata. Il chirurgo lo rassicurò che la cicatrice era intatta
e senza segni di infiammazione e suppurazione, e concluse qualificando
Milano come un infame. Il Re rimproverò il chirurgo: - Non si
deve dir male del prossimo; io ti ho chiamato per osservare la ferita e
non per giudicare il misfatto; Iddio lo ha giudicato, io l'ho perdonato.
E basta così”
.
24. Giovanni Passannante
(Salvia di Lucania, 1849 – Montelupo Fiorentino, 1910), colui che
attentò alla vita di Umberto I di Savoia, venne invece sadicamente
seviziato e torturato per tutto il resto dei suoi giorni e perfino
post mortem, e vi furono rivalse finanche sugli incolpevoli parenti
e con-paesani.
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Giovanni Passannante |
25. Ma procediamo con ordine. Umberto I di Savoia era salito al
trono nel gennaio del 1878, dopo la morte del padre. Il 17 novembre
di quello stesso anno, Umberto e la sua moglie-cugina Margherita
erano in visita a Napoli, accompagnati dall’allora capo del governo
Benedetto Cairoli.
Quando il corteo giunse all'altezza di "Largo della Carriera Grande", un
uomo, che si seppe poi chiamarsi Giovanni Passannante, sbucò
improvvisamente dalla folla, salì sul predellino della carrozza, scoprì
un coltello che teneva avvolto in un fazzoletto rosso e si lanciò sul re
gridando: “Viva Orsini! Viva la Repubblica Universale!”
La regina scagliò in faccia all'aggressore il mazzo di fiori che aveva
in grembo e così il re rimase solo leggermente ferito al braccio
sinistro. Cairoli afferrò l'attentatore per i capelli, venendo a sua
volta ferito da un taglio alla coscia destra, una ferita non grave
nonostante l'abbondante sangue versato.
Accorsero subito i corazzieri e il loro capitano Stefano De Giovannini
colpì il Passannante con un fendente alla testa e lo trasse subito in
arresto.
Il tutto si compì in un tempo così breve che le altre carrozze vicine a
quella reale non dovettero mai fermare la loro marcia ed anche la
maggior parte della folla circostante, vedendo un uomo ferito condotto
via, non si accorse immediatamente del mancato assassinio e pensò che
Passannante fosse stato investito dalla carrozza reale.
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L'attentato in un murales a Salvia di Lucania |
26. L’attentatore, pur sanguinante per la ferita alla testa, non
venne accompagnato in ospedale per essere medicato e subì anzi
ulteriori percosse. Affermò di aver agito da solo e di non
appartenere ad alcuna organizzazione politica. Si era procurato il
coltello barattandolo con la sua giacca. Anche su un foglio,
attaccato al fazzoletto rosso, aveva scritto: “Viva Orsini! Viva la
Repubblica Universale! Morte al re!” Addosso gli venne trovato uno
scritto, indirizzato ad un certo Don Giovannino, che incaricava di
distribuire i suoi pochissimi averi ad alcune persone.
Cosa fece Umberto
27. Il giorno dopo, il re ricevette la visita di alcuni aristocratici e
politici lucani, che manifestarono rincrescimento per il fatto che
Passannante fosse un loro co-regionale.
Successivamente, anche Giovanni
Parrella, allora Sindaco di Salvia di Lucania, il paese nativo di
Passannante, dopo aver preso in fitto con i soldi del Comune un abito
adeguato per l’occasione, si recò a Napoli per porgere le scuse dei suoi
concittadini ad Umberto I, il quale maestosamente le accettò.
Ma subito dopo il Sindaco venne
convocato da consiglieri del re, i quali gli spiegarono che, per
ottenere il perdono, in una sorta di risarcimento penitenziale,
bisognava cambiare il nome del suo paese e così, con Règio Decreto del 3
luglio 1879, Salvia di Lucania diventò Savoia di Lucania.
Ed oggi ancora, non si è
riusciti a rimediare a tale sconcio e a ridare al paese il suo bel nome
originale!
Cosa fece il Comune di Barra
28. Meglio se la cavò il Comune
di Barra. In data 27 novembre 1878, dieci giorni dopo l’attentato,
Sindaco Giuseppe Verolino (1876-1879), troviamo semplicemente agli Atti
la “Approvazione di somma per solennizzare una Messa con il Te Deum
in ringraziamento di essere rimasta illesa Sua Maestà nell’attentato”.
Cosa fece Margherita
29. La regina riuscì a
mantenersi calma e sorridente per la restante parte della sfilata;
tornata alla reggia, fu colta però da malore, che peraltro non le impedì
di esclamare assai lucidamente: “Oggi, si
è rotto l'incantesimo di Casa Savoia!”
Evidentemente, aveva ben capito che, nel gran teatro in cui lei recitava
come primattrice, una parte crescente del pubblico iniziava a
rumoreggiare e sul palcoscenico cominciavano a sopraggiungere verdure
avariate ed altri oggetti …
Chi era Passannante
30. Gli psichiatri Biffi e Tamburini, incaricati della perizia al
processo, scrissero testualmente:
“Noi abbiamo esaminato attentamente le qualità psichiche del prevenuto e
non vi abbiamo trovato nulla di anormale. L’attività produttiva della
mente è in lui regolare; le espressioni di cui si serve non sono come
comporterebbe la sua condizione sociale; le sue idee sono elevate e
rivelano una cultura superiore.
31. Le sue risposte denotano in lui una finezza ed una forza di pensiero
non comune.
Interrogato se egli approvava che per la sua difesa lo si facesse
passare per pazzo, rispose: Io non temo punto la morte; non voglio
passare per pazzo; sacrifico volentieri la mia vita ai miei princìpi.
Interrogato s’egli si credeva in diritto di fare violenza ai sentimenti
della maggioranza, e di turbarne la tranquillità, ha risposto: La
maggioranza che si rassegna è colpevole, e la minoranza ha il diritto di
resisterle.
Alla nostra domanda come mai lui, povero cuoco, aveva la presunzione di
voler scrivere degli opuscoli, rispose: Sovente gli ignoranti
riescono là dove i sapienti inciampano.
32. I sentimenti affettivi, quello del dovere soprattutto, sono in
Giovanni Passannante pronunciatissimi. Lo studio della sua vita
anteriore non ci ha rivelato neppure un atto di disonestà. Infine egli
ha volontà ferma, parola sicura, tagliente, che riflette fedelmente il
suo pensiero. Ha una fisionomia dolce, sorridente qualche volta, ed ha
un comportamento energico”.
33. Al processo venne
condannato a morte, ma Umberto I la commutò, misericordiosamente, in
ergastolo: e la grazia fu più raffinata crudeltà.
Passannante sull’isola d’Elba
34. Per 10 anni (1879-1889)
rimase prigioniero nella Torre detta “della Linguella”, a Portoferraio
sull’isola d’Elba:
“Per due anni e mezzo, Passannante restò sepolto in una completa
oscurità, in una cella situata al di sotto del livello dell’acqua, e là,
sotto l’azione combinata dell’umidità e delle tenebre, il suo corpo
spogliò di ogni pelo, si scolorì e si gonfiò in una guisa pietosa.
Più tardi lo si fece montare per scale segrete e oscure, senza ch’egli
vedesse un lembo di cielo, a una cella superiore. Là egli restò
rinchiuso giorno e notte senza interruzione.
Il guardiano, che lo guardava a vista, aveva l’ordine espresso di non
mai rispondere alle sue domande, fossero anche le più urgenti e le più
indispensabili. Ed è inutile dire ch’egli non riceveva mai né lettere,
né visite”
.
35. Il deputato Agostino Bertani (1812-1886) fu il solo che
riuscì a vederlo, nel 1885. Dopo otto giorni d’insistenza, di minacce e
di dispacci col ministero, ottenne un permesso, che era stato sempre
rifiutato a tutti, anche all’arcivescovo di Portoferraio. Ma egli doveva
guardare il prigioniero da un buco della porta e alla condizione
assoluta di non parlare, perché il prigioniero non doveva accorgersi
della presenza d’un visitatore.
“Dopo un certo tempo, necessario ad abituare l’occhio alle tenebre,
Bertani poté discernere alla debolissima luce di una lanterna situata
nell’interno della cella la figura di Passannante ridotto in una
condizione raccapricciante. Le sue membra erano gonfie, il suo viso
cereo, egli giaceva su un tavolaccio ed emetteva dei rantoli tenendo
sollevata con una mano una grossa catena di 18 chili ch’egli non poteva
sopportare in altro modo data l’estrema sua debolezza.
Il disgraziato mandava delle grida strazianti, che i marinai dell’isola
sentivano sempre con grande emozione; come i detenuti della prigione S.
Francesco di Napoli avevano sentito le sue grida d’angoscia, quando lo
si torturava, prima, durante e dopo il processo, per fargli confessare
il nome dei presunti complici, ch’egli non aveva avuto.
Simile orrendo trattamento spezzò la sua fibra robusta; egli impazzì, si
ridusse a tal punto da mangiare i propri escrementi!
Solo allora il governatore dell’isola si commosse e temendo peggio (come
se potesse darsi una cosa peggiore di quella rovina!) si decise a
trasferire la povera vittima al manicomio provinciale di Montelupo”
.
Passannante nel manicomio di Montelupo
36. Nel 1889, il Passannante
venne dunque dichiarato ufficialmente pazzo e trasferito al manicomio
criminale di Montelupo Fiorentino, dove però ebbe il permesso di poter
scrivere. Nel 1908, divenne cieco. Morì il 14 febbraio del 1910.
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Giovanni Passannante |
Dopo la morte
37. Il suo cadavere fu sottoposto ad autopsia e decapitato, in base alle
teorie scientifiche dell’epoca.
Il celebre Prof. Cesare Lombroso (1835 – 1909), e tutti i suoi
pari, grandi docenti universitari seguaci della Scuola di antropologia
criminale positivistica allora dominante, sostenevano infatti
pregiudizialmente il carattere innato della criminalità (=
“delinquenti si nasce”) e dunque miravano ad accertare (!?) quali
fossero precisamente le ipotizzate cause fisiologiche ed anatomiche
della tendenza a delinquere, che venivano ricercate nelle
caratteristiche del volto, nella conformazione del cranio, etc.
38. In seguito, del suo corpo non si ebbe più notizia. Il cranio ed il
cervello, invece, furono immersi in una soluzione di cloruro di zinco
(ZnCl2), e conservati prima nello stesso manicomio di
Montelupo Fiorentino e poi nella Scuola Superiore di Polizia associata
al Carcere di “Regina Coeli” a Roma.
Nel 1936, il cervello, immerso in formalina e conservato in una teca di
vetro sigillato, venne trasferito presso il Museo Criminologico
dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia a Roma,
insieme a resti del cranio e ad alcuni blocchetti di appunti scritti dal
Passannante nel periodo della sua “follia”.
Ancora nel 1982, il cervello fu oggetto di studi del prof. Alvaro
Marchiori dell'Istituto di Medicina Legale dell'università romana “La
Sapienza”.
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Cervello e cranio di Giovanni Passannante |
39. Solo nel 2007 i resti mortali di Giovanni Passannante vennero
infine tumulati nel cimitero del suo paese natale. Ma il 7 gennaio
2012 la lapide fu presa a martellate e la tomba gravemente
danneggiata da ignoti …
L’istruzione nell’Italia unita
40. Al momento della
unificazione italiana, la quasi totalità della popolazione non sapeva né
leggere né scrivere e parlava solo il proprio dialetto locale
. Su una popolazione di circa 25 milioni di
persone, coloro che sapevano leggere e scrivere in italiano erano poco
più di 600 mila ed erano più o meno quelle stesse persone che avevano il
reddito sufficiente per poter votare e per essere eletti: la classe
dominante.
In generale, la cultura era
patrimonio “privato” delle sole classi privilegiate: la vecchia
aristocrazia aveva i suoi “precettori”, cioè i maestri che,
opportunamente retribuiti, facevano lezione ai giovani rampolli nelle
stanze del palazzo di famiglia e spesso vi erano anche alloggiati in
permanenza; e la nuova borghesia era ormai abbastanza ricca per potersi
permettere lo stesso costume.
La scuola “pubblica” era
praticamente inesistente e quel poco che ne esisteva era più che
carente.
Nel Regno delle due Sicilie
41. Il Regno delle due Sicilie
vantava Università ed Istituzioni di alta cultura più che qualsiasi
altra parte d’Italia.
Nel 1860, vi erano al Sud 4
Università: Napoli, Messina, Catania e Palermo, mentre a Milano la prima
Università (il Politecnico) fu fondata solo nel 1863; il numero degli
studenti nelle Università meridionali (dati ufficiali del censimento
1861) era superiore a quello di tutte le altre Università italiane messe
insieme (9 mila su 16 mila); le case editrici napoletane pubblicavano il
55% di tutti libri èditi in Italia.
42. Il punto dolente, anche
qui, era l’istruzione elementare, cioè “l’istruzione popolare”.
Con una normativa risalente già
al 1768, e poi confermata nel 1818, il re Ferdinando I di Borbone
stabilì che dovesse esserci almeno una scuola gratuita, per entrambi i
sessi, in ogni Comune del Regno; ed impose altresì che tutte le case
religiose tenessero scuole gratuite per i bambini.
Ma Luigi Settembrini, con una
sua indagine svolta nel 1861, osservava che: “Su 3.094 comuni e borgate,
obbligate dalle leggi borboniche a provvedere all’istruzione popolare,
1.084 mancano di ogni insegnamento, 920 mancano di scuola femminile e 21
di scuola maschile”.
Quindi, solo 1.069 Comuni e
borgate (circa un terzo del totale) erano in regola con la legge. Gli
alunni complessivi (maschi e femmine) erano, in tutto, appena 67.431.
Peraltro, la legge autorizzava
esplicitamente ad affidare le classi elementari, quando occorresse, a
maestre ... analfabete, che quindi svolgevano solo un compito di
intrattenimento e di avviamento ai lavori manuali.
43. Il Capomazza, che fu
l’ultimo “presidente dell’istruzione pubblica” nel Napoletano, scriveva
nel 1855, a proposito delle scuole elementari nel Regno borbonico: “Per
ogni dove ... mancanza di oggetti scolastici: non un libro, non un
foglio di carta, non un lapis, non un quaderno, si dà agli alunni, che
quasi tutti sono sforniti di mezzi per provvedersene ... Non poche
scuole, poi, mancano perfino degli scanni e delle tabelle per
l’insegnamento del leggere e dello scrivere”.
E la prima inchiesta sulla
scuola realizzata nel nuovo Regno d’Italia (inchiesta Matteucci,
1864-65) rilevava che “i maestri, in generale, sono poco studiosi e
s’appigliano facilmente ad altri impieghi per lucrare; gli
insegnanti vecchi usano il dialetto; quei pochi che parlano a scuola in
italiano, parlano assai scorretto ...”.
44. Il fatto è che, ovunque in
Europa, gli Stati stanziavano assai poco per l’istruzione elementare:
l’Austria, che era quella che spendeva più di tutti, retribuiva un
insegnante elementare con uno stipendio che era pari ad un terzo di
quello di qualsiasi altro impiegato pubblico, ed equivaleva in pratica
alla mercede di un bracciante agricolo.
In Italia, fu la Sinistra
liberale che si accinse all’arduo e lodevole compito di iniziare a
cambiare tale deplorevole situazione.
La legge Coppino sulla istruzione
elementare (1877)
45. Al momento dell’unità
d’Italia, anche nel campo dell’istruzione, non si fece altro che
estendere a tutte le nuove Province italiane la legge già
precedentemente in vigore nel Regno sabàudo: in questo caso, si trattava
del Règio Decreto n°3725 del 13 novembre 1859 ovvero la cosiddetta
“legge Casàti”, dal nome del Ministro dell’Istruzione, il conte milanese
Gabrio Casati (1798-1873).
Essendo del 1859, la legge era
dunque “nuova” anche per il Regno di Sardegna e regolamentava
organicamente l’intero sistema dell’istruzione, dalle elementari
all’università. Purtroppo, i suoi frutti nel campo dell’istruzione
popolare non furono particolarmente abbondanti, visto che, al censimento
generale del 1871, l’analfabetismo risultava addirittura aumentato
rispetto al censimento del 1861.
46. La “legge Casati” venne
perciò integrata dal parlamento italiano con una nuova legge riguardante
solo l’istruzione elementare: la n°3961 del 15 luglio 1877 che,
dal cognome di colui che la propose, il ministro della Pubblica
Istruzione Michele Coppino (1822-1901), venne detta appunto
“legge Coppino”.
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Aristide Gabelli (1830-1891) |
47. Al riguardo, occorrerebbe
però menzionare soprattutto il nome del pedagogista bellunese
Aristide Gabelli (1830-1891), che molto lavorò per la sua
promulgazione ed attuazione, ispirando largamente anche i programmi di
insegnamento.
Il Gabelli, un positivista molto pragmatico, nel 1880 scrisse anche
Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d'Italia: “Il
maestro deve tener presente che la scuola ha da servire a 3 fini: dar
vigore al corpo, penetrazione all'intelligenza e rettitudine all'animo
… Le cognizioni, non poche volte, e forse il più delle volte, dopo un
po' di tempo di desuetudine dagli studi, vengono in molta parte
dimenticate; mentre invece il modo di pensare dura tutta la vita,
entra in tutte le azioni umane”.
48. La legge Coppino istituiva 3 anni di scuola elementare, obbligatoria
e gratuita, per tutti i fanciulli di ambo i sessi dai 6 ai 9 anni, ai
quali bisognava insegnare “le
prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino, la lettura, la
calligrafia, i rudimenti della lingua italiana, dell'aritmetica e del
sistema metrico”;
stabiliva le ammende per i genitori inadempienti; e sanciva gli obblighi
dei Comuni nel provvedere alle classi e alle attrezzature per le scuole.
Da buon massone, quale anche lui era, Coppino prevedeva poi
l’insegnamento della religione solo su richiesta dei genitori e al di
fuori dell’orario scolastico.
49. La legge del 1877 segnò
naturalmente una svolta notevole nella vita della nazione ed in
particolare delle grandi masse popolari: per la prima volta, veniva
sancìto il principio che tutti i cittadini hanno diritto
alla istruzione e che lo Stato ha, come uno dei suoi doveri
primari, quello di provvedere alla scuola.
Naturalmente, la realizzazione
pratica di quanto stabilito dalla legge fu cosa molto più lunga e
complessa, dovendosi fare i conti con la cronica mancanza di fondi da
parte dei Comuni e dello Stato, nonché con antichi e radicati pregiudizi
(“è inutile che le donne vadano a scuola, perché devono stare in casa”;
“è inutile istruire quelli che devono fare lavori manuali, operai e
contadini ... anche perché potrebbero cominciare a ribellarsi”, etc.).
La scuola a Barra subito dopo l’unità
50. Negli Atti di Santa Visita
del 1849, si riferisce che a Barra non vi sono scuole pubbliche (il
Comune non era quindi in regola con la legge borbonica) e si accenna ad
“una sola scuola”, evidentemente privata, “in cui vi sono fanciulli e
fanciulle, perchè la scuola la fa il marito e la moglie”.
Anche poco dopo l’unità
d’Italia, risulta a Barra una sola scuola, privata, tenuta da tale
Giuseppe Padovano, con 20 ragazzi e 20 ragazze.
Queste scuole private erano
evidentemente quelle necessarie e sufficienti per l’istruzione dei figli
di quelle poche famiglie della borghesia barrese (proprietari terrieri,
grossi negozianti, professionisti ...) che avevano fatto fortuna
soprattutto nel periodo del decennio francese e potevano adesso
permettersi di mandare a scuola, a pagamento, i propri figli.
51. Troviamo, tuttavia, che già
prima del 1873 il Comune di Barra aveva istituito alcune classi di
scuola elementare pubblica: “Barra aveva una scoletta di campagna con 2
classi, con una popolazione scolastica di 37 alunni”
.
Si trattava evidentemente di
una classe maschile ed una femminile, ed il corso di studi durava 2
anni.
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A scuola |
52. In seguito, nella sua
relazione del 1873, il Règio Delegato Straordinario Vincenzo Lugarési
attesta di aver provveduto ad istituire “la terza elementare maschile e
femminile”, nonché per la prima volta 2 classi di “scuola serale” per
gli adulti.
Dopo il 1873, vi furono quindi
2 classi, una maschile ed una femminile, ognuna delle quali faceva un
corso di studi di 3 anni; più due classi per adulti che,
presumibilmente, erano solo maschi e facevano anch’essi un corso della
durata di 3 anni.
La legge Coppino a Barra (1877-1904)
53. Solo dopo l’emanazione
della legge Coppino nel 1877, e dunque al tempo del Sindaco Giuseppe
Verolino (1876-1879), la scuola pubblica barrese raggiunse la sua
classica conformazione post-unitaria, così strutturata:
§
4 classi femminili (circa 80 ragazze in tutto);
§
3 classi maschili (circa 100 ragazzi in tutto);
§
2 classi serali per lavoratori studenti.
E ai primi di febbraio del
1879, venne istituito anche l’insegnamento della ginnastica, anche se
solo per le tre classi maschili: il lunedì, il mercoledì e il sabato,
dopo l’orario di scuola, a cura del maestro Alberto Cenere: “Per
l’oggetto, si dispone ufficiarsi gli insegnanti delle altre scuole
maschili, i Signori Minichino, Vitale e Scognamiglio, ad inculcare nei
loro allievi tale insegnamento” (Delibera Giunta municipale del 5
febbraio 1879).
54. Vi era poi la cosiddetta
“Scuola superiore” che era costituita semplicemente dal 4° e 5° anno di
Scuola elementare, che non erano obbligatori in base alla legge Coppino,
ma che i Comuni dovevano comunque istituire, compatibilmente con i loro
problemi di bilancio, provvedendo ai locali scolastici, nonché
scegliendo e retribuendo gli insegnanti.
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A scuola |
55. La situazione scolastica
rimase grosso modo la stessa per alcuni decenni, sostanzialmente fino
alla legge Orlando del 1904.
Scrivendo nel 1929, il Lapegna
dice: “La più antica delle insegnanti, la signora Gemma Barraud, che da
oltre 38 anni assolve il nobile apostolato di educatrice, ricorda che
nel 1891 ella trovò in funzione 4 classi maschili e 4 femminili; la
scuola non aveva direzione ed ella più volte ebbe l’incarico di
fiduciaria”
.
In effetti, agli Atti del
Consiglio comunale di Barra risulta la “Nomina della Sig.ra Gemma
Barraud a maestra della Seconda elementare” in data 28 ottobre 1891.
Invece, per quanto riguarda il
numero preciso delle classi, la maestra Barraud non ricordava forse
esattamente, perché ancora nell’anno 1900 troviamo che il Comune
“autorizza le Scuole elementari municipali a provvedersi di acqua di
Serino, in ragione di una secchia per ogni classe cioè numero
sette secchie al giorno”.
56. In ogni caso, non è poco,
ove si consideri che la popolazione complessiva di Barra, secondo gli
Atti di Santa Visita del 1877, era di 9.215 abitanti e che bisognò
creare praticamente dal nulla un sistema scolastico pubblico e gratuito.
Grande onore va quindi dato a
questi pionieristici maestri e maestre che, con stipendi certo non da
nababbi ed affrontando difficoltà di ogni genere, combatterono la buona
battaglia per estirpare l’analfabetismo ed iniziare i figli del popolo
semplice ai primi rudimenti del sapere.
57. Va anche detto, ad onore
della classe dirigente borghese dell’epoca, che erano anche previsti,
sia pure in modo del tutto discrezionale, dei “sussidi” da parte del
Comune per quei pochissimi “giovinetti volenterosi ma di famiglia
povera” che intendevano continuare gli studi dopo la Terza elementare.
I maestri e le maestre elementari
58. I maestri e le maestre,
come del resto anche i bidelli, erano a tutti gli effetti dipendenti
comunali: il Comune li assumeva, con contratti di durata variabile, e
poteva eventualmente licenziarli; gli pagava lo stipendio; e gli versava
anche una pensioncina dopo il loro collocamento a riposo, beninteso
previo una ritenuta del 2,5% sullo stipendio e compatibilmente con le
magre finanze comunali.
A quanto risulta dagli Atti,
erano altresì previsti “un aumento sessennale (cioè per ogni 6 anni
di servizio) del decimo dello stipendio” nonché eventuali sussidi e
gratifiche occasionali a discrezione della Giunta e del Consiglio
comunale.
59. E proprio dagli Atti
comunali relativi alle assunzioni, alle dimissioni ed ai pagamenti dei
maestri, veniamo a conoscere i loro nominativi ed alcune delle loro
vicende.
Il primo documento relativo alla scuola che risulta agli
Atti è quello “Per una gratifica al maestro Domenico Scognamiglio”
(Delibera Consiglio comunale N°55 del 12 novembre 1870) concessa dal
Sindaco Tommaso Fasano (1869-1872).
Segue poi la delibera “Pel
rilascio dei due mezzi (quindi, l’intero) del soldo del maestro
Domenico Minichino” (N°86 del 7 novembre 1871).
E tre anni dopo (ahi loro!) la
prima agli Atti “Domanda dei maestri municipali che chiedono l’aumento
di soldo” (N°313 del 18 dicembre 1874).
Troviamo poi la “Omologazione
della deliberazione, presa d’urgenza dalla Giunta, riguardante la nomina
di maestri delle scuole serali” (N°93 del 13 gennaio 1877). I nomi che
emergono dagli Atti, a proposito dei “maestri delle scuole serali”
istituite nel 1873, sono quelli dello stesso Domenico Scognamiglio e di
un certo “maestro sig. Nicola Tonti” assunto peraltro già dal 1872.
I
tre patriarchi
60. Fra i maestri delle scuole
maschili, troviamo quindi anzitutto i tre patriarchi della scuola
pubblica barrese e cioè: Don Domenico Minichino, Don Luigi Vitale
e Domenico Scognamiglio.
Il più anziano in servizio
doveva essere il Minichino, perché Don Luigi Vitale e Domenico
Scognamiglio risultano “messi a riposo” nello stesso giorno, il 16
giugno del 1890, che è poi lo stesso anno in cui morì Don Domenico
Minichino, che era stato invece “messo a riposo” già dal 1°dicembre del
1884.
Don Domenico Minichino, Don Luigi Vitale e Domenico Scognamiglio sono perciò, per
così dire, i tre maestri di prima generazione post-unitaria cioè
che insegnarono nella scuola elementare di Barra, ininterrottamente,
all’incirca nel trentennio 1860-1890.
Il maestro Alberto Cenere
61. Solo di poco più giovane,
ma egualmente esemplare, è la figura del maestro Alberto Cenere che
abbiamo già visto essere anche il primo “patentato nell’insegnamento
della ginnastica” (vedi sopra, n°53).
In effetti, la “Nomina del sig.
Cenere Umberto (?) e della sig.na Scognamiglio Maria a Maestri di
queste scuole municipali” avviene con la Delibera del Consiglio comunale
N°187 del 10 maggio 1878.
All’inizio, a quanto pare, non
conoscevano bene neanche il suo nome: infatti, il segretario comunale lo
denomina Umberto invece che Alberto.
62. A partire però da quel mese
di maggio del 1878, il maestro Cenere inizia il suo lungo servizio nel
Comune di Barra, nel corso del quale ebbe modo di farsi ben conoscere ed
apprezzare.
Quasi 20 anni dopo, troviamo il
“Certificato di lodevole servizio al maestro elementare Cenere Alberto”
(Delibera N°180 del 28 maggio 1896).
Ed in quello stesso anno, la
“Nomina a vita del maestro elementare sig. Cenere Alberto”
(Delibera N°211 del 20 settembre 1896): fu dunque, per i suoi meriti, il
primo maestro di Barra ad avere non più un contratto “a termine” ma un
contratto “a tempo indeterminato”.
E nel nuovo secolo, dopo più di
30 anni di ininterrotto servizio a Barra, troviamo addirittura, e sembra
essere l’unico caso in cui ciò avviene, la “Proposta dell’Assessore alla
Pubblica Istruzione per un voto di plauso all’insegnante Cenere
Alberto” (Delibera N°147 dell’11 settembre 1909).
Il maestro Eugenio Venere
63. Del tutto opposta appare
invece la figura, della generazione successiva, del maestro Eugenio
Venere, assunto inizialmente come “maestro di 5^ elementare” (Delibera
N°176 del 15 settembre 1890).
La sua persona ed il suo modo
di agire non riuscirono evidentemente molto graditi, tanto che, solo
quattro anni dopo, troviamo il “Licenziamento del maestro Venere Eugenio
dalla 1^ elementare” (Delibera N°44 del 26 novembre 1894).
Il Venere protestò vivacemente
per il suo licenziamento, presentando al Comune anche due “istanze”, che
però furono respinte (Delibera N°70 del 5 aprile 1895).
Lui non si tenne la posta ed
evidentemente continuò a reclamare con altre “istanze” presso i livelli
superiori, tanto che ottenne addirittura il “Reintegro del maestro
elementare Venere Eugenio per disposizione ministeriale”
(Delibera N°155 del 22 marzo 1896).
64. Vinse dunque la sua
battaglia con il Comune e venne riassunto, ma i notabili Barresi, come
si suol dire, “se la legarono al dito” e, da buoni borghesi, gli fecero
pagare sul piano economico la sua vittoria: negli anni
successivi, infatti, come si vede dalle Delibere, gli rifiutarono
sistematicamente tutte le richieste di gratifica, gli pagarono in
ritardo il previsto “aumento del decimo sessennale” e gli tennero in
sospeso per un certo tempo anche il “Certificato di lodevole
servizio”.
Anche nel nuovo secolo, si
segnalano “Provvedimenti a riguardo del sig. Venere Eugenio maestro
elementare” (Delibere N° 283 del 25 ottobre 1902 e N°341 del 16 aprile
1903) e l’ultima cosa che rimane di lui agli Atti, dopo 20 anni dalla
sua assunzione, è proprio l’ennesima (inutile?) “Istanza dell’insegnante
Venere Eugenio” (Delibera N°220 del 25 aprile 1910) …
Il maestro Raffaele Conte
65. La seconda generazione di
maestri (quella degli anni novanta, per intenderci) non era però
composta solo di rompi-scatole come il maestro Eugenio Venere.
Troviamo così la lineare
carriera del maestro Raffaele Conte:
Nomina di Conte Raffaele in
sostituzione di Don Luigi Vitale come maestro della 3^elementare
(Delibera N°120 del 13 ottobre 1891).
Voto favorevole pel certificato
di lodevole servizio a favore dell’insegnante Conte Raffaele (N°16 del
21 gennaio 1906).
Ratifica dell’atto d’urgenza
relativo alla nomina della sig.na Monaco Giuseppina a maestra elementare
supplente in surroga dell’insegnante Conte Raffaele collocato in
aspettativa (N°121 del 15 febbraio 1907).
Accettazione di dimissioni
offerte dal sig. Conte Raffaele da insegnante elementare (N°147 del 7
giugno 1907).
Accettazione di istanza
dell’insegnante pensionato sig. Conte Raffaele in prima lettura (N°192
del 22 novembre 1907).
Approvazione in seconda lettura
del provvedimento relativo a sussidio all’insegnante sig. Conte Raffaele
(N°210 del 28 dicembre 1907).
Le maestre
66. Se cerchiamo invece fra
le maestre di prima generazione post-unitaria, troviamo i nominativi
di:
Anna Mastrorocco,
deceduta nel 1880 e sostituita dalla “giovanetta Maria Scognamiglio”
a partire dal settembre 1879;
Concetta Napolitano,
che insegnò fino all’anno scolastico 1890-91 incluso, dopo di che:
“Collocamento a riposo della maestra elementare Napolitano Concetta”
(N°130 del 17 ottobre 1891) e “Liquidazione di pensione alla maestra
elementare Napolitano Concetta” (N°160 del 30 novembre 1891).
Giustina Parisi:
“Restituzione alla maestra sig.ra Parise della tassa di R.M.
indebitamente esatta nel 1877” (N° 233 del 17 gennaio 1879). “Compenso
alla maestra elementare Parise Giustina” (N°193 del 30 dicembre 1886).
“Rilascio dell’attestato di lodevole servizio agli insegnanti Parisi
e Santilli (N°191 dell’11 maggio 1893).
Erminia Cerrone:
“Disposizioni per una inchiesta (!?) a carico della maestra
elementare Cerrone Erminia” (N°309 del 28 settembre 1888). “Attestato di
lodevole servizio alle maestre elementari sig.re Cerrone Erminia e
Caniello Carmela” (N°83 del 12 maggio 1895).
Adelaide Sito:
“Istanze delle maestre elementari signore Parisi, Cerrone e Sito
per l’aumento sessennale” (N° 262 del 25 maggio 1894).
67. Alla seconda generazione,
quella degli anni Novanta, appartiene invece la già citata Gemma
Barraud (vedi sopra, n°55) che infatti venne assunta nell’ottobre
del 1891, prendendo il posto della maestra Concetta Napolitano “messa a
riposo”.
continua