Il “vecchio lupo”: Francesco Crispi
1. “Al regime di una vecchia volpe (= Agostino Depretis),
succedette la dittatura di un vecchio lupo (= Francesco Crispi)”
[1].
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Francesco Crispi (1819-1901) |
Elemento di continuità era comunque l’appartenenza di entrambi alla
Massoneria
[2]: il “lupo” usciva dallo stesso bosco della “volpe”,
come apprendiamo dal Sito Ufficiale del Grande Oriente d’Italia:
Il lupo e il suo (Gran) Maestro
2. “Conclusa senza drammi la gran maestranza di Giuseppe Petroni,
l’Assemblea del Grande Oriente d’Italia, riunitasi a Roma nel
gennaio del 1885, ed alla quale prese parte, fra gli altri, anche
Francesco Crispi, elesse il suo successore nella persona di
Adriano Lemmi.
La nomina a Gran Maestro dell’abile banchiere Adriano Lemmi
(Livorno, 1822; Firenze, 1906) impresse una svolta decisiva alla
strategia libero-muratoria.
Sul piano esterno, ciò si tradusse, per l’organizzazione,
nell’acquisizione di un ruolo in qualche modo parallelo e
complementare all’opera di Francesco Crispi nel governo del
paese.
Su quello interno, la nuova gran maestranza ebbe il merito di
portare a conclusione complesse e delicate operazioni di
riunificazione dei residui gruppi ancora separati, assicurando così
alla massoneria un significativo grado di compattezza, che segnò
l’inizio del periodo di maggior splendore del Grande Oriente
d’Italia (durato almeno fino allo scoppio della Prima guerra
mondiale).
Prima ancora di assumere la carica di Gran Maestro, il Lemmi aveva
intuito che soltanto un Grande Oriente potente, frequentato dalla
dirigenza politica ed economicamente solido, poteva realizzare il
suo progetto … di trasformare la massoneria non tanto in un vero e
proprio movimento politico, quanto in un potente gruppo di pressione
...
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Il banchiere livornese Adriano Lemmi (1822-1906),
Gran Maestro della Massoneria dal 1885 al 1895 |
3. (A tal fine) … non soltanto gli eroi risorgimentali ma
anche alcuni eretici vennero indicati come padri nobili,
anche se era sotto gli occhi di tutti il fatto che l’eresia, in
Italia, aveva arrecato ben pochi danni alla Chiesa cattolica.
Fu proprio nel corso dell’inaugurazione del monumento eretto in
favore del più famoso degli eretici italiani, Giordano Bruno, il 9
giugno del 1889 in Campo de’ Fiori a Roma, che il Grande Oriente
d’Italia diede dimostrazione della propria forza, facendo convergere
nella piazza dove arse sul rogo il martire nolano oltre 3.000
fratelli, che sfilarono per le vie della capitale dietro un
centinaio di làbari massonici ...”
4. Il vero e proprio collateralismo fra Gran Maestro (Lemmi) e Capo
del governo (Crispi) era talmente forte che il Lemmi … “non
sopravvisse alla caduta in disgrazia di Crispi e, nel dicembre del
1895, si dimise dalla carica” ... anche in seguito, per la verità,
al suo coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana.
La politica di Crispi: autoritarismo e colonialismo
5. Dal punto di
vista delle classi popolari, il “lupo” si rivelò ancor più nocivo
della “volpe”.
Il siciliano
Francesco Crispi (Ribera di Agrigento, 1819; Napoli, 1901),
ex-garibaldino e fervente repubblicano opportunamente convertitosi
alla monarchia, espresse una linea politica decisamente
autoritaria (all’interno) e accesamente colonialista
(all’esterno).
I due aspetti erano del resto
ovviamente collegati fra di loro: entrambi nascevano dall’esigenza
della classe dominante borghese di contenere, in qualche modo, la
crescente spinta al cambiamento sociale, che proveniva soprattutto
dalla insoddisfazione delle grandi masse contadine.
Il colonialismo di Crispi
6. “Il contadino meridionale
voleva la terra e Crispi, che non gliela voleva (o poteva) dare in
Italia stessa, ... prospettò il miraggio delle terre coloniali da
sfruttare.
L’imperialismo di Crispi fu un
imperialismo passionale, oratorio, senza alcuna base
economico-finanziaria.
L’Europa capitalistica, ricca
di mezzi e giunta al punto in cui il saggio del profitto cominciava
a mostrare la tendenza alla caduta, aveva la necessità di ampliare
l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi; così furono
creati, dopo il 1890, i grandi imperi coloniali.
Ma l’Italia, ancora
immatura, non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva
ricorrere al capitale estero per i suoi stessi strettissimi bisogni.
Mancava dunque una spinta reale all’imperialismo italiano e ad essa
fu sostituita la passionalità popolare dei ruràli, ciecamente
tesi verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità
di politica interna da risolvere, deviandone la soluzione
all’infinito.
Perciò la politica di Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti
(settentrionali) che più volentieri avrebbero visto impiegate in
Italia le somme ingenti spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi
fu popolare per aver creato il mito della terra facile”
.
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Francesco Crispi e Antonio Gramsci |
L’imperialismo “straccione” e “il
porco necessario”
7. Non a caso, quello italiano
venne giustamente definito “l’imperialismo straccione”, perché
adoperava imprese coloniali ed emigrazione
come valvole di sfogo alla secolare
miseria delle grandi masse contadine, che non si voleva risolvere
con una più equa ripartizione delle terre in Italia.
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Crispi fra i suoi ministri ed i suoi generali nel
Capodanno 1888 |
8. E quando le due valvole
di sfogo dell’emigrazione e delle guerre coloniali, pur essendo
completamente aperte, non riuscirono tuttavia a contenere la
pressione delle masse contadine, il Crispi non esitò a ricorrere
alla più brutale repressione armata, contro i suoi stessi
con-terranei siciliani. E ordinò il massacro dei cosiddetti “fasci
siciliani” (vedi oltre, nn°150-163).
Non per nulla, Francesco Crispi
era “stimato
dal Re (Umberto I), per intelligenza e talento politico,
anche se, moralmente, poco meno che un mascalzone: un porco
necessario, come Sua Maestà lo definisce”
.
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La repressione dei fasci siciliani |
Le due guerre coloniali
italo-etiopiche
9. Dopo i primi, infelici,
tentativi del Depretis
, culminati nella sconfitta di Dogali (26
gennaio 1887), si ebbero dunque, nel decennio di Crispi, le due
sciagurate guerre coloniali italo-etiopiche (1887-89 e
1893-96).
Poveri contadini italiani, che
per sfuggire alla fame vestivano la divisa militare, riempiti di
promesse menzognere e di retorica nazionalista, vennero condotti,
dalla classe dirigente borghese, ad uccidere e farsi uccidere per
rubare terre che appartenevano ad altri popoli.
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Ufficiali italiani in Africa, in un dipinto di Quinto
Cenni |
10. L’èlite liberale e
massonica italiana, conforme alla mentalità dell’epoca
, non aveva molta stima per quei “quattro
predoni che possiamo trovarci fra i piedi in Africa”, come affermò
l’allora ministro Robilant, considerando gli Etiopi dei “selvaggi
primitivi, che scapperanno appena spareremo un colpo di fucile” …
Le cose, però, non andarono
proprio così, e quegli “arretrati e superstiziosi selvaggi”
inflissero all’italietta “umbertina e margheritina” una sonante
bastonatura.
L’Etiopia: un paese di selvaggi?
11. In realtà, quella etiopica è una terra di antichissima e nobile
civiltà.
Già intorno al
2.500 aC, lungo la costa del Mar Rosso, esisteva un regno che gli
antichi egizi chiamavano "La terra di Punt" (= “La terra degli dèi”)
e che aveva come centro il porto di Adulis.
12. Intorno al
1.000 aC, i Sabèi, muovendo dalla penisola arabica ed
attraversando il Mar Rosso, si stabilirono sul territorio,
fondendosi con la popolazione autoctona.
13.
Successivamente, a partire dall’VIII secolo aC, diversi nuclei
urbani si riunirono in un’unica entità politica e formarono il
Regno D’mt che fiorì fino al V secolo aC.
14. Da esso,
insieme ad altri piccoli Stati autonomi, si sviluppò poi il grande
Regno di Axum.
Nel 200 dC, il Regno di Axum era considerato da Mani (215-276 dC),
il padre fondatore della religione manichea, come uno dei quattro
stati più potenti del mondo, assieme a Roma, Persia e Cina.
Sicuramente, aveva lingua ed alfabeto propri (il ge’ez), una
propria moneta, ed una propria architettura, caratterizzata da
imponenti obelischi di pietra.
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Le steli di Axum |
15. Al declino
del Regno di Axum, poco prima dell’anno 1.000 dC, subentrò la
dinastia Zagwe. “Il Re Lalibela, venerato come santo,
fece costruire la sua capitale sulle montagne del Lasta, a 2.600
metri sul livello del mare, come una sorta di Gerusalemme
africana, anche a beneficio dei pellegrini etiopi impediti a
recarsi in Terra Santa dopo la conquista di Gerusalemme da parte dei
musulmani di Saladino … (Forse, anche per questo a nessun
principe etiope venne in mente di partecipare alle Crociate?).
Le chiese
monolitiche della
Nuova
Gerusalemme
sono interamente scavate nella roccia e sono collegate tra loro da
gallerie e cunicoli. La più suggestiva è quella dedicata a S.
Giorgio, che sprofonda per ben 13 metri nella roccia madre e porta
inciso sul tetto il segno di una croce greca”
.
16. Con
Yekuno Amlak (1270-1285 dC), si ebbe poi un vero e proprio
Impero che, fra alterne vicende, durò fino al 1974 quando una Giunta
militare depose l’ultimo imperatore Hailé Selassié (=
“Potenza della SS. Trinità”, in lingua ge’ez; al secolo:
Ras Tafari Makonnen che, in lingua amarica, significa “Capo
Temibile Makonnen”).
Memorie viventi di questo lungo periodo imperiale sono tuttora
le chiese nascoste dalla vegetazione sulle
isolette e sulla penisola del grande Lago Tana, con cicli pittorici
splendidamente luminosi; i fiabeschi castelli di Gondar, la
Camelot d’Africa, dove i pellegrini arrivano da ogni parte, in
occasione della festa del Battesimo di Gesù nel Giordano (il 19-20 e
21 gennaio), per immergersi nella piscina fatta costruire dal Re
Fasilidas nel 1635; ed infine, ma non ultima, la nuova capitale
Addis Abeba (= nuovo fiore) fatta costruire da Menelik II al momento
della sua ascesa al trono nel 1889.
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Interno del mausoleo in Addis Abeba con le tombe di
Menelik II, sua moglie Taitù e sua figlia Zauditù |
Etiopia ed ebraismo
17. Degli Etiopi si parla nell’Iliade e nell’Odissea, nonché nella
Bibbia, sia ebraica sia cristiana, e nel Corano.
Tuttavia, la tradizione autoctona fa riferimento al Kebra Nagast
(= “La gloria dei Re”) ovvero il libro che narra la successione e le
gesta dei Re Etiopi
.
Precedenti tradizioni orali furono raccolte in una prima versione di
questo libro intorno al V secolo dC, e ricevettero l’attuale
formulazione in 117 capitoli, ed il titolo di Kebra Nagast,
nel XII secolo dC: entrambe le redazioni, furono scritte con
l’alfabeto e nella lingua del Regno di Axum (il ge’ez) ed a
cura, molto probabilmente, di uno o più sacerdoti della Chiesa
Ortodossa Etiope.
18. La vicenda centrale del
Kebra Nagast
è rappresentata dall’incontro fra Salomone, Re di Israele (circa
970-930 aC), e Makeda, Regina di Saba, la quale affronta un lungo
viaggio fino a Gerusalemme per conoscerlo ed apprendere da lui.
L’incontro fra Salomone e la regina di Saba è narrato nella Bibbia
ebraica (cfr 1Re 10, 1-13; 2Cr 9, 1-12); Gesù stesso vi si riferisce
in un passo del Vangelo (cfr Mt 12, 42; Lc 11, 31); ed è ripreso
anche nel Corano (27, 15-45).
19. Il Kebra Nagast vi aggiunge, oltre al nome della regina (Makeda),
altri particolari che interessano specificamente la storia etiope.
“La Regina
disse:- Da essere una sciocca, sono divenuta saggia solo seguendo la
tua sapienza; e da essere qualcosa di rifiutato dal Dio d’Israele,
sono divenuta una donna eletta, a causa della fede che risiede nel
mio cuore; d’ora in avanti, non venererò nessun altro Dio
all’infuori di Lui” (Kebra Nagast, 29).
“Salomone dunque la prese da parte, cosicché potessero essere da
soli, ma prima si tolse l’anello che era nel suo mignolo, e lo diede
alla Regina, dicendole:- Prendi [questo] così non ti dimenticherai
di me. E se il mio seme fiorirà in te, questo anello sarà un segno
per lui; se sarà un ragazzo dovrà venire da me, e la pace di Dio sia
con te!” (Kebra Nagast, 31).
20. Dall’unione fra i due sovrani nasce un bambino, Bayna-Lehkem
(detto Ebna Hakim, “Figlio del Saggio”), che in seguito diverrà
Imperatore col nome di Menyelek I (= Menelik I), dando
origine della dinastia dei sovrani d’Etiopia.
Secondo il Kebra Nagast, infatti, il “Figlio del Saggio”,
compiuti i ventidue anni, parte per raggiungere il padre, portando
con sé il prezioso anello; vuole chiedergli un pezzo del drappo (cfr
Nm 4, 6) che copre l’Arca dell’Alleanza nel Tempio di Gerusalemme
(cfr Es 25, 1-22; 40, 20-21), affinché anche il suo popolo possa
venerarla.
Salomone lo accoglie con tutti gli onori e insiste perché resti a
regnare con lui, ma, vedendolo deciso a tornare nella terra materna,
preme per farlo accompagnare da alcuni primogeniti israeliti che lo
possano aiutare e consigliare nel futuro governo.
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L'Arca dell'Alleanza |
21. I giovani però uniscono gli ingegni e, facendo costruire una
copia in legno dell’Arca, trafugano l’originale verso
l’Etiopia, percorrendo in un solo giorno anziché in trenta il
cammino fino al deserto.
Salomone stesso, nel libro, interpreta questo evento come
provvidenziale: poiché i sacerdoti ebrei del Tempio sono divenuti
stolti, indolenti e corrotti, il Signore ha voluto che la Sapienza
divina, rappresentata dall’Arca, venisse trasferita ad altri popoli.
In Etiopia l’Arca dell’Alleanza?
22. Attualmente, nella città santa e zona archeologica di Axum, nel
nord dell’Etiopia, e precisamente all’interno della chiesa di
“Nostra Signora Maria di Sion ad Axum”, i monaci cristiani etiopi
custodiscono gelosamente quella che essi ritengono essere
l’originaria Arca dell’Alleanza ovvero il “sacro contenitore” delle
Tavole della Legge, date da Dio stesso a Mosè sul Monte Sinai e
sulle quali sono scritti i 10 comandamenti.
Questa chiesa, edificata la prima volta al tempo del primo Re
cristiano Ezanà (IV secolo dC) e da allora in vari tempi e modi
ristrutturata, ampliata e ricostruita, fu il luogo dove, per secoli,
vennero incoronati gli imperatori etiopi ed è tuttora un’importante
meta di pellegrinaggi.
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La chiesa di nostra signora Maria di Sion in
Axum |
23. L’Arca è però custodita in un ambiente chiuso, ed i monaci
etiopi, come del resto avveniva anche nell’antico Tempio di
Gerusalemme, vietano severamente a chiunque, anche fedele, non solo
di toccarla ma anche solo di vederla. E’ difficile perciò
verificarne la datazione e quindi sapere se è davvero ciò che si
dice o semplicemente un antico, pur venerabile, duplicato.
Comunque, ancor oggi, un edificio per il culto cristiano etiopico
non è considerato una vera chiesa fino a che il vescovo non abbia
consegnato una copia dell'Arca fatta in alabastro o legno di acacia.
Queste copie sono anch’esse normalmente tenute nascoste alla vista
dei fedeli ma vengono esposte e portate in processione durante le
feste più importanti.
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La chiesa di nostra signora Maria di Sion in
Axum |
Etiopia e cristianesimo
24. Come sopra
accennato, il Regno di Axum divenne ufficialmente cristiano sotto il
Re Ezanà, poco dopo il Concilio di Nicea (325 dC) al quale non
risultano presenti Vescovi etiopi, ad opera soprattutto di S.
Frumenzio (festa liturgica cattolica, il 20 luglio), come
apprendiamo dalla “Storia della Chiesa” scritta da Rufino di
Aquileia
(circa 340 - 410 dC):
“Un filosofo cristiano di Tiro, a nome Meropio, si recò in India per
un viaggio d'istruzione, accompagnato da due suoi giovani parenti,
Edesio e Frumenzio, che lui stesso istruiva nelle libere arti.
Sulla via del ritorno, la nave si fermò, per fornirsi di acqua,
sulla costa africana del Mar Rosso, dove fu attaccata dalla gente
del luogo, in lotta contro l’Impero dei Romani. Tutto l'equipaggio e
i passeggeri furono uccisi: si salvarono solo i due giovani, che
furono catturati ed offerti in dono al Re degli Etiopi.
Impressionato dalla loro intelligenza, il Re nominò Frumenzio suo
segretario e tesoriere, Edesio suo coppiere. Al momento della sua
morte, il Re liberò i due giovani.
Ma la Regina, alla quale incombeva la reggenza in attesa della
maggiore età del piccolo Ezanà, pregò Frumenzio di assisterla nel
governo dello Stato”.
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S. Frumenzio di Etiopia |
25. “Frumenzio si recò in seguito ad Alessandria (d’Egitto)
ad informare il patriarca Atanasio (= S. Atanasio di Alessandria,
vissuto dal 295 al 373 dC, ottavo successore di S. Marco sulla sede
copta) della diffusione del cristianesimo nel regno di Axum,
esortandolo a mandarvi un vescovo che si prendesse cura di quelle
prime comunità di fedeli.
Radunati i suoi sacerdoti, Atanasio discusse la questione e rispose
a Frumenzio:- Quale altro uomo potremmo trovare, in cui sia lo
Spirito di Dio come è in te e che possa attendere a tale compito? E
lo consacrò vescovo, re-inviandolo ad Axum”.
26. Tuttavia, anche se la
conversione del Re Ezanà e la proclamazione ufficiale del
cristianesimo come religione nazionale avvenne al tempo e ad opera
di S. Frumenzio, gruppi di cristiani erano certamente presenti in
Etiopia già prima di allora.
Secondo la Scrittura, il primo
a portare il cristianesimo in Etiopia fu “un etiope, eunuco,
funzionario di Candace regina di Etiopia, amministratore di tutti i
suoi tesori, che era venuto per il culto a Gerusalemme e stava
ritornando, seduto sul suo carro, e leggeva il profeta Isaia” (At 8,
27-28), quando incontrò Filippo, uno dei primi sette diaconi (cfr At
6, 1-6), che gli annunciò “il vangelo del regno di Dio e del nome di
Gesù Cristo” (At 8, 12) e lo battezzò (cfr At 8, 26-40).
27. L’Etiopia può dunque essere
considerata la prima nazione pagana che accolse l’annuncio
cristiano, prima ancora della Siria e certo ben prima di Roma, e gli
Etiopi sono rimasti fieramente cristiani anche quando, a partire dal
VII secolo dC, è sopraggiunta l’alta marea islamica.
La prima guerra italo-etiopica
(1887-1889)
28. Fra i “civili galantuomini”
italiani e queste “scimmie” etiopi, si svolse quindi la prima guerra
coloniale (novembre 1887- dicembre 1889), nella quale il generale
Antonio Baldissera guidò le sorti italiane contro quelle del
negus Giovanni IV e poi, alla morte di questi, sopravvenuta il
10 marzo 1889, del suo successore, il negus Menelik II.
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L'imperatore Giovanni IV d'Etiopia |
29. “Era in lui (Baldissera)
uno spregiudicato realismo. Egli riteneva che si dovesse avanzare
cautamente, servendosi il più possibile di truppe indigene e
soprattutto dei capi locali, sfruttando le loro continue e spesso
insanabili divisioni interne e rivalità, e così procedere senza dare
nell'occhio, senza insospettire le grandi potenze europee”
.
La strategia era cioè quella di
attirare tutti i malcontenti etiopi dalla parte italiana,
presentandosi come “liberatori” dalle sopraffazioni e dalle
ingiustizie del regime vigente e mostrando la “superiorità” italiana
nel dare alla popolazione migliori condizioni di vita, usando però
nel contempo una spietata ferocia verso gli elementi che si
rivelavano irriducibili, doppio-giochisti o traditori.
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Il generale Antonio Baldissera (1838-1917) |
30. In questo modo, alternando
la carota al bastone, e versando il minimo possibile di “sangue
italiano” (quello etiopico non contava), il Baldissera riuscì a
consolidare la conquista di una piccola fascia di terra lungo il Mar
Rosso, che venne proclamata ufficialmente, nel gennaio del 1890,
“Colonia italiana di Eritrea”.
Alcuni studiosi ritengono che
il nome di “Eritrea” (dal greco erythros che significa
“rosso” e che, fin dall’antichità, identifica il “Mar Rosso”) fu
suggerito a Crispi dallo scrittore Carlo Dossi (1849-1910),
suo amico e consigliere personale nonché funzionario del Ministero
degli esteri in quegli anni.
La seconda guerra italo-etiopica
(1893-1895)
31. La lotta, comunque, riprese
pochi anni dopo “l’invenzione” crispina dell’Eritrea, con alcuni
effimeri successi italiani (Agordat, 1893; Halai, 1894; Coatit,
Senafé e Debra Ailà,1895) dopo i quali, però, il negus
Menelik II inflisse ad Oreste Baratieri, ex-generale
garibaldino e poi deputato della Destra liberale, tre perentorie
sconfitte: presso il monte Amba Alagi (7 dicembre 1895); al
forte di Macallè (15 dicembre 1895 - 22 gennaio 1896); e
soprattutto nei dintorni della città di Adua (1° marzo 1896).
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L'imperatore Menelik II con il suo seguito |
32. In seguito a queste
sconfitte, l’Italia dovette rinunciare ad ogni ulteriore pretesa
espansionistica, riconoscere l’indipendenza dell’Etiopia ed
accontentarsi dell’esiguo territorio “eritreo” conquistato qualche
anno prima.
Il generale Baratieri venne
processato per “omissioni, negligenze e abbandono di comando in
guerra”: fu assolto ma, collocato a riposo, ebbe modo di scrivere le
sue edificanti “Memorie”.
Quanto a Francesco Crispi, la
sconfitta di Adua determinò la caduta del suo governo e la sua
scomparsa dalla scena politica.
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Il generale Oreste Baratieri
(1841-1901) |
L’onore dell’esercito e il prestigio
della monarchia?
33. “Siamo pronti a qualunque
sacrificio per salvare l’onore dell’esercito e il prestigio della
monarchia” proclamava Crispi in un famoso telegramma inviato a
Baratieri.
Ma la verità
nascosta sotto i paludamenti dell’onore dell’esercito e del
prestigio della monarchia è quella che fu allora ben còlta e
ben descritta, ad esempio, dal poeta Olindo Guerrini (Forlì, 1845 -
Bologna, 1916), nella sua poesia “Mentre partono …”.
L’autore si
rivolge, in finzione poetica, al defunto capo del governo Agostino
Depretis (morto nel 1887), che chiama anche “buon vecchio di
Stradella” (Stradella era la località nella quale il Depretis
abitava; si trova in Lombardia, provincia di Pavia), e dice:
Tu che, aprendo il mercato alla menzogna,
alto salir potesti,
e che senza pietà,
senza vergogna,
vivo, di noi
ridésti,
or nella tomba
dormirai contento,
buon vecchio di
Stradella,
che accompagnar
solevi al tradimento
l’arte di
Pulcinella.
Dormi, buon vecchio, ormai
dimenticato dai servi e dai rivali,
e sogghigna se ‘l
puoi.
T’ han perdonato i
morti di Dogàli.
A ben più grave e più feroce guerra
l’Italia è
condannata;
nuovo sangue latin
beve la terra
dell’Eritrea
bruciata.
Nuove vittime ancor di rei consigli
cadràn sull’arse
aréne,
e nuove madri
cresceranno i figli
per ingrassar le
iene!
34. Poi, rivolgendosi al povero
contadino-soldato, continua:
Lascia, scarno villàn, lascia il sudato
solco, a te non
diviso!
Tu non devi morir
dove sei nato,
dove amor t’ha
sorriso.
La gentil civiltà de’ tuoi signori
ti spinge alla
battaglia.
Va, povero villano,
uccidi e muori.
Dopo, avrai la
medaglia.
E mentre i legulèi ti lauderanno
con sonanti parole,
oh come l’ossa tue
biancheggeranno
gloriosamente al
sole!
Sulla sabbia deserta e funerale
rotoleranno al
vento,
ma in qualche
trivio della capitale
sorgerà un
monumento,
su cui, tra i
bronzi falsi e le sculture
dell’arte a buon
mercato,
sarà il tuo nome, o
buon villan, se pure
non l’han
dimenticato.
35. Ed infine, riferendosi ai
familiari del contadino-soldato, conclude:
Piange intanto colei che la tua culla
vegliò, amorosa e
forte;
piange le tristi
nozze una fanciulla,
le nozze con la
morte.
Ma il padre invece,
al ciel rivolto il ciglio,
giunte le palme
grame,
dice:- Beato te,
povero figlio,
che non avrai più
fame!
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La vittoria di Adua in un dipinto
etiope |
Il primo Codice penale italiano (1890)
36. A parziale merito di
Francesco Crispi va però ascritto quanto, nel suo governo, riuscì a fare
il ministro Giuseppe Zanardelli ovvero la promulgazione del nuovo Codice
penale, che era il primo realmente “pensato” per l’Italia unita, dal
momento che, fino ad allora, si era semplicemente esteso a tutta la
penisola il Codice “piemontese”.
Il nuovo Codice, dal nome del
suo principale ispiratore, venne giustamente detto “Codice Zanardelli”
ed entrò in vigore il 1°gennaio 1890.
E’ suo grande onore
l’abolizione, in Italia, della pena di morte (fin dal 1890!)
nonostante la fiera opposizione della Regina Margherita la quale, dal
canto suo, era “fautrice della pena di morte e la invocava appena
possibile”
.
Veniva però anche introdotto,
ad esempio, lo strano reato di “incitamento all’odio di classe” che, per
la sua estrema genericità ed indeterminatezza, si prestava ottimamente
ad essere adoperato come strumento di repressione delle lotte operaie e
popolari per migliori condizioni di vita.
37. Lo Zanardelli è
lo stesso ministro che, nel 1882, sotto Depretis, aveva elaborato la
prima legge di riforma del sistema elettorale, che ampliava il diritto
di voto
.
In seguito, tentò
di introdurre nella legislazione anche il divorzio, ma non ci riuscì:
come scrisse ironicamente, ma giustamente, Giovanni Giolitti:- Soltanto
due scapoli si occupano oggi del divorzio in Italia, Zanardelli e il
Papa.
Dell’ èlite
liberale massonica italiana post-unitaria, lo Zanardelli è probabilmente
uno degli esponenti migliori per probità personale e sensibilità sociale
anche nei confronti dell’Italia meridionale.
Non per nulla, era
considerato dal Re Umberto e dalla Regina Margherita “fisicamente
sudicio e politicamente inaffidabile”
.
Vale dunque la pena sapere qualcosa in più su di lui.
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Zanardelli a Rionero (Basilicata) |
Giuseppe Zanardelli (1826-1903)
38. “Nacque a Brescia in una
famiglia della borghesia professionale, con radici popolari, cui non
mancava il senso religioso: la madre, cui fu devotissimo, era una
cattolica fervente, e tre sue sorelle divennero suore.
Giuseppe era uno studente
vivace, a volte prepotente, brillante negli studi. Come dimostrò al
collegio Sant’Anastasia di Verona e al Ghislieri di Pavia, da cui
rischiò di essere espulso a causa dell’esuberante interesse per il
gentil sesso.
Tale interesse, peraltro, gli
rimase a lungo: fu infatti uno scapolo impenitente, con alcuni figli
illegittimi accertati, tra cui uno che sarebbe poi diventato prete, e
nella sua Villa fece dipingere le allegorie dell’amor sacro e dell’amor
profano”
.
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Giuseppe Zanardelli (1826-1903) |
39. Mazziniano e repubblicano
in gioventù, patriota combattente nel 1848 e nelle “Dieci giornate
di Brescia”, si ascrisse alla Massoneria nel 1860 e in quello stesso
anno venne eletto deputato, tale rimanendo fino alla morte nel 1903.
Fu ministro con Depretis e con
Crispi, ed anche Capo del Governo negli ultimi due anni della sua vita,
dal 1901 al 1903, aprendo le porte al successivo periodo giolittiano.
Oltre il già citato Codice
penale, riuscì anche a far approvare il nuovo Codice del commercio; fu
coerentemente ostile al trasformismo ed a quelli che definiva i “banco-crati”;
si batté contro la politica coloniale di Crispi e contro le misure
repressive nei confronti dei movimenti popolari, venendo per questo
guardato con simpatia anche dai socialisti.
Fu lui, tra l’altro, a far
trasferire Giovanni Passannante a Montelupo Fiorentino, in condizioni
comunque più umane delle precedenti
.
Il viaggio in Basilicata
40. “L’ultimo atto politico di
questo liberale coerente, si svolse al Sud. Con quel viaggio in
Basilicata, compiuto nel settembre 1902 anche con mezzi di fortuna, come
un carro trainato da buoi, quando era già minato dalla malattia. I
Lucani gliene sono ancor oggi grati”
: il resoconto del suo viaggio fu infatti decisivo
per l’approvazione della legge contenente interventi speciali per la
Basilicata, approvata poi nel 1904.
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Giuseppe Zanardelli in Basilicata |
Torna a Surriento
41. Alla figura di Zanardelli è
legata anche la celebre canzone napoletana “Torna a Surriento”.
La vicenda è stata più volte
raccontata: il 15 settembre 1902 Giuseppe Zanardelli, Presidente del
Consiglio dei Ministri in carica, soggiornò a Sorrento nell’albergo di
cui era proprietario il barone Guglielmo Tramontano, all’epoca anche
Sindaco della cittadina.
Il Tramontano ebbe l’idea di
commissionare ai due fratelli Ernesto e Giambattista De Curtis una
canzone in onore dell’ospite illustre, per esortarlo a non dimenticare
il suo impegno a conseguire alcune opere fondamentali di cui Sorrento
era priva, come l’apertura di un ufficio postale e la costruzione della
rete fognaria.
In effetti, i due fratelli
riciclarono, e adattarono per l’occasione, una melodia (Ernesto) ed un
testo (Giambattista) già composti qualche anno prima.
Se non che, l’ufficio postale e
la rete fognaria, i Sorrentini dovettero aspettarli ancora a lungo; nel
frattempo, però, la canzone venne presentata al Festival di Piedigrotta
del 1905 e divenne un successo mondiale.
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L'ingresso di Zanardelli a Potenza |
La riforma della legge sulle amministrazioni locali (1889)
42. Fu merito di Crispi anche
l’esser riuscito a portare a termine, nel 1889, la riforma della legge
sulle amministrazioni locali del 1865.
La nuova normativa si intitolò
“Modifiche alla legge comunale e provinciale” (Legge n° 5865 del 30
dicembre 1888), fu coordinata alla precedente con il “Testo unico
comunale e provinciale” (Règio Decreto n° 5921 del 10 febbraio 1889) e
completata poi con il “Regolamento per l’esecuzione” (Règio Decreto n°
6107 del 10 giugno 1889).
Essa prevedeva l’estensione del
diritto di voto a tutti i cittadini, di sesso maschile, che avessero
compiuto 21 anni di età, sapessero leggere e scrivere, e pagassero
almeno 5 lire di imposte dirette nel Comune di appartenenza: di fatto,
questo significava estendere il diritto di voto dal 4% della popolazione
(come avveniva in base alla legge del 1865) all’11% circa.
Altra novità significativa: nei
Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti, oppure Capoluogo di
provincia e di circondario, il Sindaco non era più di nomina governativa
ma veniva “eletto dal Consiglio comunale, nel proprio seno, a scrutinio
segreto”.
Il Comune di Barra negli anni di Crispi
43. Barra, però, nel 1889, non
superava i 10.000 abitanti e non era capoluogo di provincia e di
circondario ma solo “capoluogo di mandamento”; pertanto, non erano
applicabili ad essa le nuove norme riguardanti l’elezione dei Sindaci,
che continuarono quindi ad essere nominati dal governo con Règio
Decreto.
Il 2° ed il 3° mandato del Sindaco
Mastellone (1886-1892)
44. Per quanto riguarda il
decennio crispino in Barra, occorre in ogni caso ricordare soprattutto
due nomi: quello dell’Ingegnere Pasquale Cozzolino e quello del Sindaco
Giovanni Mastellone.
45. Del Cozzolino,
abbiamo già iniziato a dire
. Dopo la “Proposta Falcocchio (= il notaio
Luigi Falcocchio, consigliere ed assessore comunale) per la nomina
del Sig. Cozzolino Pasquale ad architetto ufficioso” (Delibera
consiliare N°491 del 2 agosto 1882) sotto il primo sindacato Mastellone,
… nel 1888, con il secondo sindacato Mastellone, troviamo la “Nomina del
Sig. Pasquale Cozzolino ad Ingegnere municipale” (Delibera Consiglio
comunale N°328 dell’8 ottobre 1888).
Anche se già in
precedenza aveva ricevuto degli incarichi da parte del Comune, da quel
momento il Cozzolino divenne perciò ufficialmente l’ingegnere comunale
(unico) di Barra: con la sua previdente intelligenza e la sua buona
volontà, da probo funzionario comunale che si accontentava del suo
stipendio ed amava il suo paese, fu lui, per alcuni decenni, il vero e
proprio “piano regolatore vivente” del Comune di Barra.
46. E proprio avvalendosi dei
progetti elaborati dall’ingegnere comunale Pasquale Cozzolino, il cav.
Giovanni Mastellone dei duchi di Limatola
, nominato Sindaco di Barra per altre due volte
consecutive, proseguì i lavori iniziati durante il suo primo mandato nel
1879-82.
I tempi erano favorevoli. Con
il linguaggio, e l’opportunità politica, dell’epoca, il Cozzolino li
definisce “… tempi in cui la Dèa Igiene riporta in Italia, sotto l’alto
ed efficace patronato dell’eminente statista FRANCESCO CRISPI, i suoi
incontrastati trionfi.”
In effetti, il clima di
“operoso fervore” determinato dal “risanamento” dopo il colera del 1884
e la relativa stabilità politica del primo periodo di governo di
Francesco Crispi, consentirono al Mastellone di procedere alla
realizzazione di un programma ben più ambizioso e vasto di quello
realizzato nel suo primo mandato.
Mentre prima si era solo
migliorato l’esistente (il Corso Sirena e le strade ad esso afferenti),
adesso si procedette per analogia allo “sventramento” di Napoli
.
Il “doppio rettifilo a T” Barrese
47. Il Cozzolino progettò
dunque il “rettifilo” barrese, anzi addirittura due: il Corso Vittorio
Emanuele (attualmente, Bruno Buozzi) ed un altro, ad esso perpendicolare
secondo una forma a T, di collegamento con la strada costiera “delle
Calabrie” in S. Giovanni a Teduccio, che alla sua inaugurazione
ufficiale nel 1892 venne denominato Corso Giuseppe Garibaldi
(attualmente, IV Novembre).
Il collegamento tra
lo storico Corso Sirena ed il nuovo Corso Vittorio Emanuele venne
garantito con una nuova strada
dedicata al prete-maestro Domenico Minichino (‘A
traversa ‘e vascio), e soprattutto con la nuova piazza, dedicata
ad Umberto I (attualmente, Piazza Vincenzo De Franchis), che si apriva
proprio davanti alla Sede municipale.
Per completare
l’opera, restava peraltro da abbattere un muro, di proprietà privata
Buonocunto, che impediva il congiungimento fra la Piazza Umberto ed il
Corso Garibaldi: l’abbattimento avvenne nel 1894.
Inoltre, la
realizzazione del Corso Vittorio Emanuele comportò anche l’apertura
dell’ultimo lato della piazzetta che fu dedicata, come già la Via, a Don
Egidio Velotto
.
L’opera storica di Pasquale Cozzolino
(1889)
48. In quelle
circostanze, l’ing. Cozzolino scrisse anche la sua opera storica “La
Barra e sue origini (nella Napoli suburbana)”, che volle pubblicare con
la stessa data di inizio dei lavori (1°novembre 1889) e nella quale, fra
l’altro, propose di cambiare addirittura il nome del paese: Barra, in
effetti, non aveva mai visto un rinnovamento così ampio della propria
struttura urbanistica.
49. Il Cozzolino,
nell’opera citata, scrisse:
“Con i lavori di bonificamento,
che in questo dì (1°novembre 1889) si inaugurano, sotto il 3° e
non meno operoso Sindacato del distinto cav. Giovanni Mastellone, e che
hanno occasionato il presente lavoretto, si migliorerà ancora di più la
già buon’aria dell’abitato Villa Siréni …
Con la strada per S. Giovanni,
anche prossima ad aprirsi (strada, sebbene con indirizzo diverso da
quello già approvato, ideato dall’autore, propugnata fin dal Sindacato
del dott. Giuseppe Verolino e sostenuta anche dall’assessor notar Luigi
Falcocchio; come di seguito sotto la gestione del cav. Luigi Martucci)
si darà una eccellente arteria di accesso a tutto il ridente abitato.
Quando questo avrà completato a
poco a poco lo intiero sviluppo, dall’autore anche ideato (e che formerà
parte di una novella pubblicazione con tavola planimetrica), allora sì
che potrebbe pure svestirsi del suo nome … Barra … e
ribattezzarsi di bel nuovo, nella totalità delle due riunite università,
col nome di Sirena e di SIRENA VESUVIANA …
Perché … avrà in breve anche la
sua acqua del Serìno dai sifoni di Cancello … e sarà diventata allora,
senza confronti, la più affascinante e la più economica dimora
estiva sui fianchi maestosi di Regina Partenope, pari ad una sua
fedele e carissima damigella!”
In realtà …
50. E’ simpaticamente evidente,
nel Cozzolino, lo spirito di fervido entusiasmo “umanitario”, di stampo
positivistico, che permeava in quel tempo, anche a Barra, la parte
migliore della borghesia liberale al potere.
In realtà, però, per avere
l’acqua del Serìno bisognerà attendere ancora parecchio, e lo
“sventramento” di Barra non sortì effetti migliori di quello di Napoli
.
Lungo le nuove strade che si
realizzarono (il doppio “rettifilo” a T), si insediarono famiglie
appartenenti ad un ceto sociale che non era certo quello in precedenza
insediato sul Corso Sirena e si evidenziò sempre di più, anche
urbanisticamente, il crescente divario fra il nuovo ceto borghese
dominante, che tendeva ad imitare, sia pure in tono ovviamente minore,
la “dimora in villa” degli antichi aristocratici, e le tradizionali
famiglie contadine, i primi operai della nascente industria, la minuta
plebe paesana …
L’ing. Pasquale Cozzolino: altri cenni
biografici
51. Pasquale Cozzolino,
ingegnere comunale e primo storico locale di Barra, merita certamente la
memoria riconoscente del popolo barrese.
52. Rimasto orfano in tenera età, crebbe in condizioni economiche
disagiate. Per il latino e le materie letterarie, fu allievo, come detto
, del “maestro di
Barra” ovvero Don Domenico Minichino.
Si laureò in Ingegneria con una tesi sulle
Macchine per elevare l'acqua che venne pubblicata a Napoli nel 1875.
53. Dapprima come semplice
consulente e poi come ingegnere comunale, “ufficioso” (1882) ed
“ufficiale” (1888), di Barra, collaborò proficuamente con i Sìndaci
della Sinistra liberale: Giuseppe Verolino (1876-1879), Giovanni
Mastellone dei duchi di Limatola (1879-1882) e Luigi Martucci
(1882-1886).
Ma fu soprattutto nel periodo
del “Risanamento”, dopo il colera del 1884, che la sua opera poté essere
ampia ed incisiva (vedi sopra). E per l’occasione fu anche il primo a
scrivere una storia di Barra, diventando così, in un certo senso, il
patriarca ed archètipo degli storici locali.
54. In seguito (1904), fu
sempre il Cozzolino a redigere il progetto per la realizzazione della
Via (‘A traversa ‘e ‘ncoppa) che nel 1908 fu inaugurata e
intitolata al “conte di Acerra e marchese di Laino” Francesco
Spinelli (1820-1897) che, fra le altre cose, era stato anche
consigliere comunale di Barra.
55. Nel 1905
(lo stesso anno in cui entrò in funzione la prima linea della ferrovia
circum-vesuviana a trazione elettrica), pubblicò la “Relazione
sommaria, corredata di uno schema di progetto, intorno alla convenienza
del prolungamento della linea tramviaria elettrica dall’abitato
di S. Giorgio a Cremano verso Barra” anche se riuscì ad ottenere la
realizzazione di questo progetto solo nel 1913 (tratta
Napoli-Barra-Ponticelli) e nel 1914 (tratta Barra - S. Giorgio a
Cremano).
56. Insieme a suo fratello Vincenzo (1853-1911), che fu medico illustre,
pubblicò anche lo studio “Di un sanatorio per tubercolotici poveri in
Italia” (1901) e un trattato su “L’igiene e l’ingegneria” (1904).
57. Lasciò l’incarico di ingegnere municipale di Barra nell’aprile 1915,
con una lettera di cui diremo meglio a suo luogo, assai polemica nei
confronti di una Amministrazione comunale “che da molto e molto tempo”
così egli scriveva “veggo messa su di un binario falso … di fronte ai
pubblici interessi, ed anche ai miei, morali e materiali”.
Ed a quanto pare, non aveva torto: in effetti, la Giunta presieduta dal
Sindaco giolittiano Cristoforo Caccavale (1905-1918), a cui il Cozzolino
si riferiva, e tutto il Consiglio Comunale di Barra, vennero sciolti,
dopo indagine prefettizia, il 10 febbraio 1918 (mentre era in corso la
Prima Guerra Mondiale …) “a causa di inettitudine, irregolarità
amministrative, atti di favoritismo e corruzione” e denunciati
all’autorità giudiziaria.
Una gloria di Barra: il dottor Vincenzo
Cozzolino (1853-1911)
58. L’ing. Pasquale Cozzolino,
in una nota del suo libro sopra citato, dice fra l’altro: “E se un
sentimento fraterno non costituisce colpa, qui (in Barra) ebbero
anche i loro natali i miei fratelli: Andrea, che ha svolto la sua
professione architettonica con successo nel Salernitano e nel Calabrese;
e Vincenzo, che onora non poco la scienza d’Ippocrate in Italia
ed altrove”.
59. Sappiamo dunque che
Vincenzo Cozzolino, fratello dell’ing. Pasquale, già nel 1889 era medico
insigne.
A conferma e ad approfondimento
di ciò, nel “quadrato degli uomini illustri” del cimitero di Poggioreale,
si può tutt’oggi vedere, non molto lungi da quello di Bernardo Quaranta,
il suo monumento sepolcrale, recante un medaglione con il suo profilo e
l’iscrizione che volle apporvi la moglie Itala:
VINCENZO
COZZOLINO
NATO A
BARRA MORTO A NAPOLI
24.III.1853 15.III.1911
AL FERACE
INGEGNO, AL TENACE LAVORO,
ALLA FEDE IN
SE STESSO, AI SANTI ENTUSIASMI
DELLA
SCIENZA, UNICAMENTE DOVETTE
LA LUMINOSA
ASCESA NELLA VITA.
DELL’ATENEO
NAPOLETANO FIGLIO E MAESTRO,
FONDO’ IN
NAPOLI NEL 1882 L’INSEGNAMENTO
DI OTOLOGIA
E RINOLOGIA
CHE PER LUI
ASSURSE A CLINICA AUTONOMA.
SOMMO NELLA
PAROLA E NELL’ARTE CHIRURGICA,
STRENUO
RICERCATORE DEL VERO,
DIFENSORE
DEI DIRITTI DEL SORDOMUTO
E D’OGNI
DEBOLEZZA SOCIALE,
APOSTOLO
NELLA LOTTA CONTRO LA TUBERCOLOSI,
BONTA’
SUBLIME.
LA TUA ITALA
VOLLE PER TE
E PER SE QUESTO LUOGO DI PACE,
TRA I NOSTRI
FIORI, IN FACCIA AL MARE,
SU TERRA
LIBERA E SOTTO IL LIBERO CIELO,
A TE
INSEPARATA
NELLA FEDE
CHE LA VITA CONTINUA.
60. Questa iscrizione riassume
in modo esemplare la vita di Vincenzo Cozzolino e lo spirito che
l’animò.
In essa, l’orgoglio delle
origini barresi si sposa con la fierezza post-risorgimentale di
appartenere ad una Patria italiana unita e libera (“su terra libera e
sotto il libero cielo”).
La mentalità borghese
“dell’uomo che si è fatto da sé”, senza antenati illustri né sostegni
assistenziali ma basandosi solo sul suo ingegno, sulla sua forza di
volontà, sul suo lavoro costante, si sposa con la sensibilità
responsabile che lo pone a “difensore dei diritti del sordomuto e d’ogni
debolezza sociale” e ad “apostolo nella lotta contro la tubercolosi”.
“Il fervido entusiasmo
umanitario, di stampo positivistico, che permeava in quel tempo la parte
migliore della borghesia liberale”, già menzionato poc’anzi a proposito
del fratello Pasquale, si concretizza in lui nell’opera assidua di
medico, di scienziato e di maestro.
61. E dai documenti risulta,
infatti, che Vincenzo Cozzolino si laureò in Farmacia nel 1873 e in
Medicina nel 1874, presso l’Università di Napoli (“dell’Atenèo
napoletano figlio e maestro”).
Passò dapprima un anno a
lavorare come medico chirurgo in Marina, e poi si recò ad approfondire
lo studio della oto-rino-laringo-iatrìa a Parigi, a Londra e a Vienna
con il celebre Politzer.
Tornato a Napoli, vi fondò
nel 1882, primo in Italia, “l’insegnamento di oto-logia e rino-logia,
che per lui assurse a clinica autonoma”. Nel 1906-1907 fu anche Preside
di Facoltà.
62. Nel corso della sua
carriera, diede alle stampe oltre 150 pubblicazioni specialistiche, e
ideò perfino nuovi strumenti chirurgici.
Per dare un’idea della sua
forma mentis, si può qui citare, a titolo di esemplificazione, una
delle sue opere, pubblicata nel 1901 ed intitolata significativamente
“La cura del tubercolotico polmonare nel sanatorio, considerata anche
come questione sociale”.
Si
può anche osservare che, fra i due fratelli Cozzolino, l’ingegnere e il
medico, si stabilì evidentemente una proficua collaborazione
scientifica, animata dal medesimo spirito umanitario.
Abbiamo visto, infatti, che Pasquale Cozzolino, fra le altre opere sue,
pubblicò nello stesso anno 1901 lo studio “Di un sanatorio per
tubercolotici poveri in Italia” e nel 1904 addirittura un trattato su
“L’igiene e l’ingegneria”.
63. E’ ancora una volta sconcertante constatare che una figura come
quella di Vincenzo Cozzolino, che tanto lustro ha dato al nostro paese e
tanto ha operato per il bene di tutti, sia oggi praticamente sconosciuta
ai cittadini barresi, e nessun segno esteriore ne ricordi la vita, e ne
indichi l’esempio, alla gioventù studiosa ed operosa di Barra.
Arriva la ferrovia circum-vesuviana … a vapore (1890)
64. Nel clima di “operoso
fervore” co-ordinato dal Sindaco Mastellone e dall’ing. Pasquale
Cozzolino, arrivò in Barra anche la ferrovia circum-vesuviana.
La linea della
circum-vesuviana, dunque, giunse a Barra prima del tram elettrico,
quando ancora c’erano solamente il tram a cavalli e le carrozzelle col
cocchiere “in affitto”.
Per la verità, alla sua
costituzione (18 febbraio 1890), si chiamava “Società Anonima Ferrovia
Napoli-Ottajano” e gestiva infatti solo questa tratta, con un solo
binario e con trazione a vapore.
L’anno successivo, la linea
veniva prolungata, con le stesse modalità, fino a S. Giuseppe Vesuviano,
e diveniva, in tutto, di circa 23 Km.
Lungo questa linea, si trovava
comunque anche la stazione di Barra, e poiché il trenino a vapore
attraversava la pre-esistente Via Egidio Velotto, si dovette costruire
anche un “passaggio a livello”, con le sbarre manovrate a mano.
65. Solo nel nuovo secolo, nel
maggio 1901, la Società prenderà il nome attuale di Strade Ferrate
Secondarie Meridionali (SFSM) e, nel giro di pochi anni, procederà da
una parte ad allungare la linea già esistente fino a Sarno, e
d’altra parte a costruire una nuova tratta, lungo la costa
vesuviana, che arrivava fino a Pompei e poi si ricongiungeva alla
Napoli-Sarno in località Poggiomarino, chiudendo così il “cerchio”
intorno al Vesuvio (1904): la stazione di Barra divenne nodo di
interscambio fra le due linee.
Francesco Spinelli (1820-1897)
66. Della famiglia e della Villa Spinelli in Barra, fino alla morte di
Antonio Spinelli nel 1884, abbiamo scritto ampiamente in precedenza
.
Antonio Spinelli fu sempre un fedele suddito del Regno borbonico; suo
figlio invece, che ripetendo il nome del nonno fu un altro Francesco
Spinelli, operò politicamente soprattutto nell’àmbito del nuovo
Regno d’Italia, sotto casa Savoia.
In realtà, rispetto agli avi illustri, ed anche soltanto a paragone del
padre, è personaggio minore, anche se non privo di meriti nei confronti
della comunità.
67. “Signori senatori! Ieri (8 giugno 1897) moriva a Napoli il
conte Francesco Spinelli, che dal novembre 1892 apparteneva a questa
Camera (era stato nominato senatore il 21 novembre 1892, su proposta
del Prefetto di Napoli, nella categoria delle “persone
che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta, in ragione
dei loro beni o della loro industria”).
Nato il 19 luglio 1820 (da Antonio e da Maria Luisa Marulli), di
famiglia per antichità e per censo cospicua, e da tanta considerazione
circondata che due volte i due ultimi Borboni, ridotti a mal partito,
avevano nella reputazione di suo padre Antonio confidato per dissipare i
nembi che s'addensavano e tutt’attorno rombavano ... Francesco Spinelli,
rimasto lontano dalle aspre lotte politiche, al bene ed al decoro della
città sua solo intendendo, appose al proprio nome novella benemerenza.
Già decurione dell'antico Municipio (Decurione di Napoli nel periodo
borbonico, dal 1849 al 1860), a lungo appartenne al nuovo … (fu
Sindaco di Napoli dal 3 ottobre 1872 al 19 dicembre 1874; e
successivamente Consigliere anziano con funzioni di sindaco dal 22 al 26
gennaio 1894)
…
ponendovi una perizia ed operosità alle quali probità senza pari dava
rincalzo.
Fu la forza, furono le qualità stesse che lo soccorsero
nell'amministrare molte delle Istituzioni di beneficenza onde la
grande metropoli abbonda e di cui meglio potrebbe godere (fu
Componente del Consiglio
direttivo degli educatòri femminili di Napoli; Componente del Comizio
agrario di Napoli; Soprintendente dell'Ospedale degli incurabili di
Napoli; Presidente generale dell'Esposizione di belle arti di Napoli).
La medaglia d'oro ai benemeriti della pubblica salute fu degno premio
all'animo invitto nell'ultimo ufficio mostrato … La stima, la
benevolenza universale lo onorarono sempre in ogni congiuntura; il
cordoglio nostro, insieme a quello dei concittadini suoi, accompagna il
degno gentiluomo nella tomba”
.
Suoi meriti archeologici
68. Al tempo in cui scriveva il nostro Pasquale Cozzolino (1889), la
famiglia Spinelli aveva acquisito particolari meriti in campo
archeologico, avendo essi scoperto, in un fondo di loro proprietà in
Acerra, i resti dell’antica città di Suèssola: una cittadina
etrusca, che ebbe un periodo di grande splendore in epoca romana, fino a
quando, nell’alto medioevo, venne distrutta dai Saraceni e, da allora,
abbandonata.
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Alcuni reperti degli scavi condotti
da Francesco Spinelli |
69. “A 7km e mezzo da Acerra, nel fondo dei signori Spinelli di
Scalèa detto bosco di Calabricìto, nello scorso
febbraio, si cominciò a scoprire fortuitamente una necropoli
e, in un'area di circa 400mq ad una profondità massima di 2m,
vennero a luce alcuni sarcofagi di tufo, altri formati di tegoloni …
Pare indubitato che questa necropoli sia appartenuta all'antica
città di Suèssola, che la concorde opinione degli scrittori
colloca a 4 miglia da Acerrae e a 9 da Capua e Nola”.
Così Francesco Spinelli, allora proprietario del bosco di Calabricìto,
riferiva circa gli scavi archeologici da lui iniziati nel 1872 e
condotti, a più riprese, fino al 1886, tre anni prima dell’uscita del
libro di Pasquale Cozzolino.
70. L’area urbana vera e propria venne poi successivamente scavata nel
1901, mettendo in luce parte dell’antico Foro ed un tratto di strada
basolàta.
71. Purtroppo, di questi scavi
si conserva soltanto un sommario elenco dei materiali portati alla luce
e nessuna documentazione ordinata dei lavori.
Tutto il materiale emerso dalla campagna di scavi fu custodito nelle
sale del piano nobile della Casìna Spinelli, un edificio che il
conte di Acerra Ferdinando III de Cardenas, nel 1778, aveva fatto
costruire in quello stesso luogo, accanto ad una antica torre
longobarda, come residenza di campagna e casìno per la caccia e le
passeggiate del Re Ferdinando IV di Borbone.
Durante la II guerra mondiale,
i tedeschi ne asportarono antichi monili d’oro e gli anglo-americani ne
usarono i mobili del Settecento come legna da ardere. Nel 1945, la
vedova Spinelli, temendo per la collezione di oggetti antichi, li donò
allo Stato; essi sono ora depositati presso il Museo Archeologico
Nazionale di Napoli.
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La casina Spinelli e la torre
longobarda in una stampa dell'Ottocento |
La fine del “ramo Barrese” della
famiglia Spinelli
72. Francesco Spinelli, oltre che di Napoli, fu consigliere comunale di
Barra, adoperandosi con nobile generosità anche per il bene del suo
paese natìo.
Con la sua generazione, inizia però la drammatica fase che porterà alla
estinzione di quello che abbiamo chiamato il “ramo Barrese” della
famiglia Spinelli.
73. Troviamo infatti che Francesco Spinelli non si sposò e non ebbe
figli.
Una sua sorella, Francesca, nata prima di lui e di cui lui ripeteva il
nome, era morta alla nascita, nel 1819; due suoi fratelli, Troiano
(1821-1837) e Marianna (1834-1837) perirono nell’epidemia di colera del
1837, rispettivamente all’età di 16 e di 3 anni; e nel gennaio del
seguente anno 1838 morì, a 10 anni, anche il fratello Luigi.
Sposàtasi a 18 anni la sorella Maria Giuseppina nel 1844, ed
allontanatosi da Barra il fratello Vincenzo Marcello che morì poi a Roma
nel 1910, rimase con Francesco nella villa Barrese solo l’altro fratello
Carlo Spinelli.
Carlo Spinelli (1822-1884), fratello di
Francesco
74. Fu quest’ultimo a sposarsi (nel 1852, con Felicita Nolli dei baroni
di Tollo) e ad assicurare alla famiglia un’altra generazione.
Carlo Spinelli ebbe infatti 8 figli, ma anche contro di loro si accanì
la sventura: tutti i maschi, infatti, morirono precocemente: nel 1866, a
3 anni di età, morì Marino; nel 1873, a 20 anni, morì il
primogenito Antonio; nel 1875, a 18 anni, morì Camillo, e
nel 1880, a 21 anni, morì anche Francesco.
Alfonso Spinelli (1861-1883), figlio di
Carlo
75. E dopo tutto questo, nel 1883, si svolse la ugualmente drammatica
vicenda dell’ultimo discendente maschio rimasto, e cioè Alfonso
Spinelli, nato nel 1861.
Alfonso, ventenne, si invaghì di una Maria Caterina Frohli (a
quanto pare, non-nobile) e ne ebbe un figlio, che nacque in Barra il 2
ottobre 1883 ed al quale pose il nome di suo padre Carlo. Un mese
dopo la nascita del figlio, i due si sposarono, sempre in Barra, il 5
novembre 1883. Ma trascorsi appena venti giorni, il 25 novembre 1883,
Alfonso Spinelli morì, all’età di appena 22 anni.
Evidentemente prostrato da tante disgrazie, il primo marzo dell’anno
successivo 1884, veniva a morte anche il vecchio Carlo (1822-1884),
all’età di 62 anni.
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Lo stemma della famiglia Spinelli
sulla villa di Barra |
Lo “zio Francesco”
76. Nella villa di Barra, a tutela del piccolo Carlo nato nel 1883,
rimase così solo il vecchio “zio Francesco”, il quale come capo della
famiglia provvide successivamente a dotare e a procurare convenienti
matrimoni alle 3 nipoti femmine rimastegli: Luisa (che si sposò il 26
giugno del 1884), Eleonora (sposa il 25 febbraio 1888) e Maria Giuseppa
(sposata il 10 gennaio 1894).
77. Nel 1886, troviamo agli Atti di Barra le “Dimissioni del consigliere
comunale Conte Francesco Spinelli” (Delibera consiliare N°195 del 30
dicembre 1886).
Quasi a conclusione della sua vita, all’età di 75 anni, il vecchio
Francesco Spinelli ebbe però almeno la soddisfazione del riconoscimento
ufficiale dell’antico titolo di “conte di Acerra e marchese di Laino”,
da parte del Re d’Italia Umberto I di Savoia, con Decreto Ministeriale
del 30 giugno 1895.
78. Nel frattempo, un po’ per distrarsi, un po’ per consolarsi delle
amarezze che la vita gli aveva riserbato, si era dedicato, da
appassionato dilettante, agli studi ed alle imprese di archeologia (vedi
sopra, nn°68-71).
Morì, come detto, l’8 giugno 1897, e lo stesso mese troviamo agli Atti
Barresi la “Commemorazione del defunto senatore conte Francesco
Spinelli” (Delibera N°48 del 20 giugno 1897). Nel 1908 gli venne poi
intitolata la Via che tuttora porta il suo nome (vedi sopra, n°54).
L’ultimo: Carlo Spinelli (1883 - 19?)
79. Il titolo tanto sospirato, alla sua morte, venne ereditato
dall’ultimo superstite maschio, appunto il pro-nipote Carlo che, nato
nel 1883, aveva allora appena 14 anni.
Di lui troviamo agli Atti:
“Istanza del marchese Carlo Spinelli per acquisto di suolo nella via
parallela” (Delibera N°224 del 5 maggio 1910).
“Approvazione in seconda lettura dell’istanza del marchese Carlo
Spinelli per acquisto di suolo nella via parallela” (Delibera N°236 del
29 luglio 1910).
“Domanda del conte Carlo Spinelli per cessione di suolo comunale”
(Delibera N°20 del 16 aprile 1914).
Poi, più nulla. Con Carlo Spinelli, morto ancor giovane e scapolo nel
periodo fra le due guerre mondiali, si chiude dunque definitivamente la
sventurata vicenda del “ramo Barrese” della famiglia Spinelli ed inizia
la decadenza della loro Villa.
L’intermezzo giolittiano (maggio 1892 -
novembre 1893)
80. Il decennio di Francesco
Crispi (1887-1896) fu interrotto da un breve periodo (poco più di un
anno, dal maggio 1892 al novembre 1893) nel quale il governo venne
affidato a Giovanni Giolitti (1842-1928), nuovo astro nascente della
classe dirigente liberale.
Il Giolitti era portatore di
una concezione alternativa a quella autoritaria del Crispi, per la
gestione dello Stato e la difesa degli interessi di classe della
borghesia.
Tale concezione, che egli avrà
poi modo di realizzare più compiutamente nel suo successivo e ben più
lungo periodo di governo (1900-1914), prevedeva il pieno riconoscimento
legale delle organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia e
la ricerca di una intesa con i loro dirigenti, al fine di evitare gli
scoppi violenti di rivolta ed inserire gradualmente le masse popolari
all’interno delle istituzioni liberali.
La fondazione del Partito Socialista dei
lavoratori italiani (giugno 1892)
81. Il clima più tollerante di
questo breve intermezzo giolittiano rese, dunque, possibile procedere
alla fondazione, ufficiale e legale, del Partito socialista dei
lavoratori italiani aderente alla Seconda Internazionale, con un
Congresso che si tenne a Genova nel giugno del 1892.
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Lapide fondazione PSI |
82. Il nuovo partito unificava,
finalmente, tutte le varie organizzazioni e movimenti di base a cui
i lavoratori italiani avevano dato vita negli anni precedenti, ad
eccezione dei gruppi di ispirazione anarchica, che mantennero una
loro vita del tutto autonoma, sotto la guida di Errico Malatesta.
83. Tra i fondatori, oltre al
vecchio Andrea Costa, che proveniva dall’esperienza della Prima
Internazionale e delle sommosse anarchiche, a Camillo Prampolini, a
Nicola Badaloni, vanno ricordati soprattutto:
-
il gruppo milanese, in
particolare Filippo Turati (Canzo di Como, 1857 - Parigi, 1932)
e Anna Kuliscioff (Moskaja, Kerson, 1857 - Milano, 1925), la
quale fu compagna di vita prima di Andrea Costa e poi dello stesso
Turati, insieme a cui fondò e diresse la rivista intitolata “Critica
sociale”, e svolse anche una costante attività di medico nei
quartieri più poveri di Milano;
·
il filosofo meridionale Antonio Labriola (Cassino, 1843 - Roma, 1904),
che insegnò nelle Università di Napoli e di Roma e fu senza dubbio la
più vasta mente teorica del nuovo partito.
Il Programma socialista (1892)
84. Il Partito socialista si
riallacciava esplicitamente al pensiero di Marx e di Engels e poneva a
base della propria azione un chiaro e conciso Programma, approvato al
congresso di Genova insieme ad uno Statuto.
Questo programma è dunque come
l’atto di nascita del movimento operaio organizzato italiano e,
per la sua importanza storica, è riportato di seguito:
CONSIDERANDO
-
che, nel presente ordinamento della società umana, gli uomini sono
costretti a vivere in due classi: da un lato, i lavoratori sfruttati;
dall’altro, i capitalisti detentori e monopolizzatori delle ricchezze
sociali;
-
che i salariati d’ambo i sessi, d’ogni arte e condizione, formano per la
loro dipendenza economica il proletariato, costretto ad uno stato di
miseria, di inferiorità e di oppressione;
-
che tutti gli uomini, purché concorrano secondo le loro forze a creare e
a mantenere i benefìci della vita sociale, hanno lo stesso diritto a
fruire di cotesti benefìci, primo dei quali la sicurezza sociale
dell’esistenza;
RICONOSCENDO
-
che gli attuali organismi economico-sociali, difesi dall’odierno sistema
politico, rappresentano il predominio dei monopolizzatori delle
ricchezze sociali e naturali sulla classe lavoratrice;
-
che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se non
mercè la socializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere,
fabbriche, mezzi di trasporto, etc.) e la gestione sociale della
produzione;
RITENUTO
che tale scopo finale
non può raggiungersi che mediante l’azione del proletariato organizzato
in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti,
esplicantesi sotto il doppio aspetto:
1)
della lotta di mestieri, per i miglioramenti immediati della vita
operaia (orari, salari, regolamenti di fabbrica, etc.), lotta devoluta
alle Camere del lavoro ed alle altre Associazioni di arti e mestieri;
2)
di una lotta più ampia, intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato,
Comuni, Amministrazioni pubbliche, etc.) per trasformarli, da strumento
che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per
l’espropriazione economica e politica della classe dominante;
I LAVORATORI
ITALIANI
che si
propongono la emancipazione della propria classe, DELIBERANO DI
COSTITUIRSI IN PARTITO, informato ai princìpi su esposti e retto dal
seguente Statuto.
continua
Vedi
n°117 e n°123 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.
Vedi
nn°165-172 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1600”.