Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.3a Il Periodo Liberale (1887-1896)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Il “vecchio lupo”: Francesco Crispi

1. “Al regime di una vecchia volpe (= Agostino Depretis), succedette la dittatura di un vecchio lupo (= Francesco Crispi) [1].

Francesco Crispi (1819-1901)

Elemento di continuità era comunque l’appartenenza di entrambi alla Massoneria [2]: il “lupo” usciva dallo stesso bosco della “volpe”, come apprendiamo dal Sito Ufficiale del Grande Oriente d’Italia:

Il lupo e il suo (Gran) Maestro

2. “Conclusa senza drammi la gran maestranza di Giuseppe Petroni, l’Assemblea del Grande Oriente d’Italia, riunitasi a Roma nel gennaio del 1885, ed alla quale prese parte, fra gli altri, anche Francesco Crispi, elesse il suo successore nella persona di Adriano Lemmi.

La nomina a Gran Maestro dell’abile banchiere Adriano Lemmi (Livorno, 1822; Firenze, 1906) impresse una svolta decisiva alla strategia libero-muratoria.

Sul piano esterno, ciò si tradusse, per l’organizzazione, nell’acquisizione di un ruolo in qualche modo parallelo e complementare all’opera di Francesco Crispi nel governo del paese.

Su quello interno, la nuova gran maestranza ebbe il merito di portare a conclusione complesse e delicate operazioni di riunificazione dei residui gruppi ancora separati, assicurando così alla massoneria un significativo grado di compattezza, che segnò l’inizio del periodo di maggior splendore del Grande Oriente d’Italia (durato almeno fino allo scoppio della Prima guerra mondiale).

Prima ancora di assumere la carica di Gran Maestro, il Lemmi aveva intuito che soltanto un Grande Oriente potente, frequentato dalla dirigenza politica ed economicamente solido, poteva realizzare il suo progetto … di trasformare la massoneria non tanto in un vero e proprio movimento politico, quanto in un potente gruppo di pressione ...

Il banchiere livornese Adriano Lemmi (1822-1906), Gran Maestro della Massoneria dal 1885 al 1895

3. (A tal fine) … non soltanto gli eroi risorgimentali ma anche alcuni eretici vennero indicati come padri nobili, anche se era sotto gli occhi di tutti il fatto che l’eresia, in Italia, aveva arrecato ben pochi danni alla Chiesa cattolica.

Fu proprio nel corso dell’inaugurazione del monumento eretto in favore del più famoso degli eretici italiani, Giordano Bruno, il 9 giugno del 1889 in Campo de’ Fiori a Roma, che il Grande Oriente d’Italia diede dimostrazione della propria forza, facendo convergere nella piazza dove arse sul rogo il martire nolano oltre 3.000 fratelli, che sfilarono per le vie della capitale dietro un centinaio di làbari massonici ...”

4. Il vero e proprio collateralismo fra Gran Maestro (Lemmi) e Capo del governo (Crispi) era talmente forte che il Lemmi … “non sopravvisse alla caduta in disgrazia di Crispi e, nel dicembre del 1895, si dimise dalla carica” ... anche in seguito, per la verità, al suo coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana.

La politica di Crispi: autoritarismo e colonialismo

5. Dal punto di vista delle classi popolari, il “lupo” si rivelò ancor più nocivo della “volpe”.

Il siciliano Francesco Crispi (Ribera di Agrigento, 1819; Napoli, 1901), ex-garibaldino e fervente repubblicano opportunamente convertitosi alla monarchia, espresse una linea politica decisamente autoritaria (all’interno) e accesamente colonialista (all’esterno).

I due aspetti erano del resto ovviamente collegati fra di loro: entrambi nascevano dall’esigenza della classe dominante borghese di contenere, in qualche modo, la crescente spinta al cambiamento sociale, che proveniva soprattutto dalla insoddisfazione delle grandi masse contadine.

Il colonialismo di Crispi

6. “Il contadino meridionale voleva la terra e Crispi, che non gliela voleva (o poteva) dare in Italia stessa, ... prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare.

L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale, oratorio, senza alcuna base economico-finanziaria.

L’Europa capitalistica, ricca di mezzi e giunta al punto in cui il saggio del profitto cominciava a mostrare la tendenza alla caduta, aveva la necessità di ampliare l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi; così furono creati, dopo il 1890, i grandi imperi coloniali.

Ma l’Italia, ancora immatura, non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale estero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava dunque una spinta reale all’imperialismo italiano e ad essa fu sostituita la passionalità popolare dei ruràli, ciecamente tesi verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità di politica interna da risolvere, deviandone la soluzione all’infinito.

Perciò la politica di Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che più volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver creato il mito della terra facile” [3].

Francesco Crispi e Antonio Gramsci

L’imperialismo “straccione” e “il porco necessario”

7. Non a caso, quello italiano venne giustamente definito “l’imperialismo straccione”, perché adoperava imprese coloniali ed emigrazione [4] come valvole di sfogo alla secolare miseria delle grandi masse contadine, che non si voleva risolvere con una più equa ripartizione delle terre in Italia.

Crispi fra i suoi ministri ed i suoi generali nel Capodanno 1888

8. E quando le due valvole di sfogo dell’emigrazione e delle guerre coloniali, pur essendo completamente aperte, non riuscirono tuttavia a contenere la pressione delle masse contadine, il Crispi non esitò a ricorrere alla più brutale repressione armata, contro i suoi stessi con-terranei siciliani. E ordinò il massacro dei cosiddetti “fasci siciliani” (vedi oltre, nn°150-163).   

Non per nulla, Francesco Crispi era “stimato dal Re (Umberto I), per intelligenza e talento politico, anche se, moralmente, poco meno che un mascalzone: un porco necessario, come Sua Maestà lo definisce” [5].

La repressione dei fasci siciliani

Le due guerre coloniali italo-etiopiche

9. Dopo i primi, infelici, tentativi del Depretis [6], culminati nella sconfitta di Dogali (26 gennaio 1887), si ebbero dunque, nel decennio di Crispi, le due sciagurate guerre coloniali italo-etiopiche (1887-89 e 1893-96).

Poveri contadini italiani, che per sfuggire alla fame vestivano la divisa militare, riempiti di promesse menzognere e di retorica nazionalista, vennero condotti, dalla classe dirigente borghese, ad uccidere e farsi uccidere per rubare terre che appartenevano ad altri popoli.

Ufficiali italiani in Africa, in un dipinto di Quinto Cenni

10. L’èlite liberale e massonica italiana, conforme alla mentalità dell’epoca [7], non aveva molta stima per quei “quattro predoni che possiamo trovarci fra i piedi in Africa”, come affermò l’allora ministro Robilant, considerando gli Etiopi dei “selvaggi primitivi, che scapperanno appena spareremo un colpo di fucile” … 

Le cose, però, non andarono proprio così, e quegli “arretrati e superstiziosi selvaggi” inflissero all’italietta “umbertina e margheritina” una sonante bastonatura.

L’Etiopia: un paese di selvaggi?

11. In realtà, quella etiopica è una terra di antichissima e nobile civiltà.

Già intorno al 2.500 aC, lungo la costa del Mar Rosso, esisteva un regno che gli antichi egizi chiamavano "La terra di Punt" (= “La terra degli dèi”) e che aveva come centro il porto di Adulis.

12. Intorno al 1.000 aC, i Sabèi, muovendo dalla penisola arabica ed attraversando il Mar Rosso, si stabilirono sul territorio, fondendosi con la popolazione autoctona.

13. Successivamente, a partire dall’VIII secolo aC, diversi nuclei urbani si riunirono in un’unica entità politica e formarono il Regno D’mt che fiorì fino al V secolo aC.

14. Da esso, insieme ad altri piccoli Stati autonomi, si sviluppò poi il grande Regno di Axum. Nel 200 dC, il Regno di Axum era considerato da Mani (215-276 dC), il padre fondatore della religione manichea, come uno dei quattro stati più potenti del mondo, assieme a Roma, Persia e Cina. Sicuramente, aveva lingua ed alfabeto propri (il ge’ez), una propria moneta, ed una propria architettura, caratterizzata da imponenti obelischi di pietra.

Le steli di Axum

15. Al declino del Regno di Axum, poco prima dell’anno 1.000 dC, subentrò la dinastia Zagwe. “Il Re Lalibela, venerato come santo, fece costruire la sua capitale sulle montagne del Lasta, a 2.600 metri sul livello del mare, come una sorta di Gerusalemme africana, anche a beneficio dei pellegrini etiopi impediti a recarsi in Terra Santa dopo la conquista di Gerusalemme da parte dei musulmani di Saladino … (Forse, anche per questo a nessun principe etiope venne in mente di partecipare alle Crociate?). 

Le chiese monolitiche della Nuova Gerusalemme sono interamente scavate nella roccia e sono collegate tra loro da gallerie e cunicoli. La più suggestiva è quella dedicata a S. Giorgio, che sprofonda per ben 13 metri nella roccia madre e porta inciso sul tetto il segno di una croce greca” [8].

16. Con Yekuno Amlak (1270-1285 dC), si ebbe poi un vero e proprio Impero che, fra alterne vicende, durò fino al 1974 quando una Giunta militare depose l’ultimo imperatore Hailé Selassié (= “Potenza della SS. Trinità”, in lingua ge’ez; al secolo: Ras Tafari Makonnen che, in lingua amarica, significa “Capo Temibile Makonnen”). 

Memorie viventi di questo lungo periodo imperiale sono tuttora [9] le chiese nascoste dalla vegetazione sulle isolette e sulla penisola del grande Lago Tana, con cicli pittorici splendidamente luminosi; i fiabeschi castelli di Gondar, la Camelot d’Africa, dove i pellegrini arrivano da ogni parte, in occasione della festa del Battesimo di Gesù nel Giordano (il 19-20 e 21 gennaio), per immergersi nella piscina fatta costruire dal Re Fasilidas nel 1635; ed infine, ma non ultima, la nuova capitale Addis Abeba (= nuovo fiore) fatta costruire da Menelik II al momento della sua ascesa al trono nel 1889.

Interno del mausoleo in Addis Abeba con le tombe di Menelik II, sua moglie Taitù e sua figlia Zauditù

Etiopia ed ebraismo

17. Degli Etiopi si parla nell’Iliade e nell’Odissea, nonché nella Bibbia, sia ebraica sia cristiana, e nel Corano.

Tuttavia, la tradizione autoctona fa riferimento al Kebra Nagast (= “La gloria dei Re”) ovvero il libro che narra la successione e le gesta dei Re Etiopi [10].

Precedenti tradizioni orali furono raccolte in una prima versione di questo libro intorno al V secolo dC, e ricevettero l’attuale formulazione in 117 capitoli, ed il titolo di Kebra Nagast, nel XII secolo dC: entrambe le redazioni, furono scritte con l’alfabeto e nella lingua del Regno di Axum (il ge’ez) ed a cura, molto probabilmente, di uno o più sacerdoti della Chiesa Ortodossa Etiope.

18. La vicenda centrale del Kebra Nagast è rappresentata dall’incontro fra Salomone, Re di Israele (circa 970-930 aC), e Makeda, Regina di Saba, la quale affronta un lungo viaggio fino a Gerusalemme per conoscerlo ed apprendere da lui.

L’incontro fra Salomone e la regina di Saba è narrato nella Bibbia ebraica (cfr 1Re 10, 1-13; 2Cr 9, 1-12); Gesù stesso vi si riferisce in un passo del Vangelo (cfr Mt 12, 42; Lc 11, 31); ed è ripreso anche nel Corano (27, 15-45).

19. Il Kebra Nagast vi aggiunge, oltre al nome della regina (Makeda), altri particolari che interessano specificamente la storia etiope.

“La Regina disse:- Da essere una sciocca, sono divenuta saggia solo seguendo la tua sapienza; e da essere qualcosa di rifiutato dal Dio d’Israele, sono divenuta una donna eletta, a causa della fede che risiede nel mio cuore; d’ora in avanti, non venererò nessun altro Dio all’infuori di Lui” (Kebra Nagast, 29).

“Salomone dunque la prese da parte, cosicché potessero essere da soli, ma prima si tolse l’anello che era nel suo mignolo, e lo diede alla Regina, dicendole:- Prendi [questo] così non ti dimenticherai di me. E se il mio seme fiorirà in te, questo anello sarà un segno per lui; se sarà un ragazzo dovrà venire da me, e la pace di Dio sia con te!” (Kebra Nagast, 31).

20. Dall’unione fra i due sovrani nasce un bambino, Bayna-Lehkem (detto Ebna Hakim, “Figlio del Saggio”), che in seguito diverrà Imperatore col nome di Menyelek I (= Menelik I), dando origine della dinastia dei sovrani d’Etiopia.

Secondo il Kebra Nagast, infatti, il “Figlio del Saggio”, compiuti i ventidue anni, parte per raggiungere il padre, portando con sé il prezioso anello; vuole chiedergli un pezzo del drappo (cfr Nm 4, 6) che copre l’Arca dell’Alleanza nel Tempio di Gerusalemme (cfr Es 25, 1-22; 40, 20-21), affinché anche il suo popolo possa venerarla.

Salomone lo accoglie con tutti gli onori e insiste perché resti a regnare con lui, ma, vedendolo deciso a tornare nella terra materna, preme per farlo accompagnare da alcuni primogeniti israeliti che lo possano aiutare e consigliare nel futuro governo.

L'Arca dell'Alleanza

21. I giovani però uniscono gli ingegni e, facendo costruire una copia in legno dell’Arca, trafugano l’originale verso l’Etiopia, percorrendo in un solo giorno anziché in trenta il cammino fino al deserto.

Salomone stesso, nel libro, interpreta questo evento come provvidenziale: poiché i sacerdoti ebrei del Tempio sono divenuti stolti, indolenti e corrotti, il Signore ha voluto che la Sapienza divina, rappresentata dall’Arca, venisse trasferita ad altri popoli.

In Etiopia l’Arca dell’Alleanza?

22. Attualmente, nella città santa e zona archeologica di Axum, nel nord dell’Etiopia, e precisamente all’interno della chiesa di “Nostra Signora Maria di Sion ad Axum”, i monaci cristiani etiopi custodiscono gelosamente quella che essi ritengono essere l’originaria Arca dell’Alleanza ovvero il “sacro contenitore” delle Tavole della Legge, date da Dio stesso a Mosè sul Monte Sinai e sulle quali sono scritti i 10 comandamenti.  

Questa chiesa, edificata la prima volta al tempo del primo Re cristiano Ezanà (IV secolo dC) e da allora in vari tempi e modi ristrutturata, ampliata e ricostruita, fu il luogo dove, per secoli, vennero incoronati gli imperatori etiopi ed è tuttora un’importante meta di pellegrinaggi.

 La chiesa di nostra signora Maria di Sion in Axum

23. L’Arca è però custodita in un ambiente chiuso, ed i monaci etiopi, come del resto avveniva anche nell’antico Tempio di Gerusalemme, vietano severamente a chiunque, anche fedele, non solo di toccarla ma anche solo di vederla. E’ difficile perciò verificarne la datazione e quindi sapere se è davvero ciò che si dice o semplicemente un antico, pur venerabile, duplicato.

Comunque, ancor oggi, un edificio per il culto cristiano etiopico non è considerato una vera chiesa fino a che il vescovo non abbia consegnato una copia dell'Arca fatta in alabastro o legno di acacia. Queste copie sono anch’esse normalmente tenute nascoste alla vista dei fedeli ma vengono esposte e portate in processione durante le feste più importanti.

 La chiesa di nostra signora Maria di Sion in Axum

Etiopia e cristianesimo

24. Come sopra accennato, il Regno di Axum divenne ufficialmente cristiano sotto il Re Ezanà, poco dopo il Concilio di Nicea (325 dC) al quale non risultano presenti Vescovi etiopi, ad opera soprattutto di S. Frumenzio (festa liturgica cattolica, il 20 luglio), come apprendiamo dalla “Storia della Chiesa” scritta da Rufino di Aquileia (circa 340 - 410 dC):

“Un filosofo cristiano di Tiro, a nome Meropio, si recò in India per un viaggio d'istruzione, accompagnato da due suoi giovani parenti, Edesio e Frumenzio, che lui stesso istruiva nelle libere arti.

Sulla via del ritorno, la nave si fermò, per fornirsi di acqua, sulla costa africana del Mar Rosso, dove fu attaccata dalla gente del luogo, in lotta contro l’Impero dei Romani. Tutto l'equipaggio e i passeggeri furono uccisi: si salvarono solo i due giovani, che furono catturati ed offerti in dono al Re degli Etiopi.

Impressionato dalla loro intelligenza, il Re nominò Frumenzio suo segretario e tesoriere, Edesio suo coppiere. Al momento della sua morte, il Re liberò i due giovani.

Ma la Regina, alla quale incombeva la reggenza in attesa della maggiore età del piccolo Ezanà, pregò Frumenzio di assisterla nel governo dello Stato”.

S. Frumenzio di Etiopia

25. “Frumenzio si recò in seguito ad Alessandria (d’Egitto) ad informare il patriarca Atanasio (= S. Atanasio di Alessandria, vissuto dal 295 al 373 dC, ottavo successore di S. Marco sulla sede copta) della diffusione del cristianesimo nel regno di Axum, esortandolo a mandarvi un vescovo che si prendesse cura di quelle prime comunità di fedeli.

Radunati i suoi sacerdoti, Atanasio discusse la questione e rispose a Frumenzio:- Quale altro uomo potremmo trovare, in cui sia lo Spirito di Dio come è in te e che possa attendere a tale compito?  E lo consacrò vescovo, re-inviandolo ad Axum”.

26. Tuttavia, anche se la conversione del Re Ezanà e la proclamazione ufficiale del cristianesimo come religione nazionale avvenne al tempo e ad opera di S. Frumenzio, gruppi di cristiani erano certamente presenti in Etiopia già prima di allora.

Secondo la Scrittura, il primo a portare il cristianesimo in Etiopia fu “un etiope, eunuco, funzionario di Candace regina di Etiopia, amministratore di tutti i suoi tesori, che era venuto per il culto a Gerusalemme e stava ritornando, seduto sul suo carro, e leggeva il profeta Isaia” (At 8, 27-28), quando incontrò Filippo, uno dei primi sette diaconi (cfr At 6, 1-6), che gli annunciò “il vangelo del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo” (At 8, 12) e lo battezzò (cfr At 8, 26-40). 

27. L’Etiopia può dunque essere considerata la prima nazione pagana che accolse l’annuncio cristiano, prima ancora della Siria e certo ben prima di Roma, e gli Etiopi sono rimasti fieramente cristiani anche quando, a partire dal VII secolo dC, è sopraggiunta l’alta marea islamica. 

La prima guerra italo-etiopica (1887-1889)

28. Fra i “civili galantuomini” italiani e queste “scimmie” etiopi, si svolse quindi la prima guerra coloniale (novembre 1887- dicembre 1889), nella quale il generale Antonio Baldissera guidò le sorti italiane contro quelle del negus Giovanni IV e poi, alla morte di questi, sopravvenuta il 10 marzo 1889, del suo successore, il negus Menelik II.

L'imperatore Giovanni IV d'Etiopia

29. “Era in lui (Baldissera) uno spregiudicato realismo. Egli riteneva che si dovesse avanzare cautamente, servendosi il più possibile di truppe indigene e soprattutto dei capi locali, sfruttando le loro continue e spesso insanabili divisioni interne e rivalità, e così procedere senza dare nell'occhio, senza insospettire le grandi potenze europee” [11].

La strategia era cioè quella di attirare tutti i malcontenti etiopi dalla parte italiana, presentandosi come “liberatori” dalle sopraffazioni e dalle ingiustizie del regime vigente e mostrando la “superiorità” italiana nel dare alla popolazione migliori condizioni di vita, usando però nel contempo una spietata ferocia verso gli elementi che si rivelavano irriducibili, doppio-giochisti o traditori.

Il generale Antonio Baldissera (1838-1917)

30. In questo modo, alternando la carota al bastone, e versando il minimo possibile di “sangue italiano” (quello etiopico non contava), il Baldissera riuscì a consolidare la conquista di una piccola fascia di terra lungo il Mar Rosso, che venne proclamata ufficialmente, nel gennaio del 1890, “Colonia italiana di Eritrea”.

Alcuni studiosi ritengono che il nome di “Eritrea” (dal greco erythros che significa “rosso” e che, fin dall’antichità, identifica il “Mar Rosso”) fu suggerito a Crispi dallo scrittore Carlo Dossi (1849-1910), suo amico e consigliere personale nonché funzionario del Ministero degli esteri in quegli anni.

La seconda guerra italo-etiopica (1893-1895)

31. La lotta, comunque, riprese pochi anni dopo “l’invenzione” crispina dell’Eritrea, con alcuni effimeri successi italiani (Agordat, 1893; Halai, 1894; Coatit, Senafé e Debra Ailà,1895) dopo i quali, però, il negus Menelik II inflisse ad Oreste Baratieri, ex-generale garibaldino e poi deputato della Destra liberale, tre perentorie sconfitte: presso il monte Amba Alagi (7 dicembre 1895); al forte di Macallè (15 dicembre 1895 - 22 gennaio 1896); e soprattutto nei dintorni della città di Adua (1° marzo 1896).

L'imperatore Menelik II con il suo seguito

32. In seguito a queste sconfitte, l’Italia dovette rinunciare ad ogni ulteriore pretesa espansionistica, riconoscere l’indipendenza dell’Etiopia ed accontentarsi dell’esiguo territorio “eritreo” conquistato qualche anno prima.

Il generale Baratieri venne processato per “omissioni, negligenze e abbandono di comando in guerra”: fu assolto ma, collocato a riposo, ebbe modo di scrivere le sue edificanti “Memorie”.

Quanto a Francesco Crispi, la sconfitta di Adua determinò la caduta del suo governo e la sua scomparsa dalla scena politica.

Il generale Oreste Baratieri (1841-1901)

L’onore dell’esercito e il prestigio della monarchia?

33. “Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l’onore dell’esercito e il prestigio della monarchia” proclamava Crispi in un famoso telegramma inviato a Baratieri.

Ma la verità nascosta sotto i paludamenti dell’onore dell’esercito e del prestigio della monarchia è quella che fu allora ben còlta e ben descritta, ad esempio, dal poeta Olindo Guerrini (Forlì, 1845 - Bologna, 1916), nella sua poesia “Mentre partono …”.

L’autore si rivolge, in finzione poetica, al defunto capo del governo Agostino Depretis (morto nel 1887), che chiama anche “buon vecchio di Stradella” (Stradella era la località nella quale il Depretis abitava; si trova in Lombardia, provincia di Pavia), e dice:

Tu che, aprendo il mercato alla menzogna,

alto salir potesti,

e che senza pietà, senza vergogna,

vivo, di noi ridésti,

 

or nella tomba dormirai contento,

buon vecchio di Stradella,

che accompagnar solevi al tradimento

l’arte di Pulcinella.

 

Dormi, buon vecchio, ormai

dimenticato dai servi e dai rivali,

e sogghigna se ‘l puoi.

T’ han perdonato i morti di Dogàli.

 

A ben più grave e più feroce guerra

l’Italia è condannata;

nuovo sangue latin beve la terra

dell’Eritrea bruciata.

 

Nuove vittime ancor di rei consigli

cadràn sull’arse aréne,

e nuove madri cresceranno i figli

per ingrassar le iene!

34. Poi, rivolgendosi al povero contadino-soldato, continua:

Lascia, scarno villàn, lascia il sudato

solco, a te non diviso!

Tu non devi morir dove sei nato,

dove amor t’ha sorriso.

 

La gentil civiltà de’ tuoi signori

ti spinge alla battaglia.

Va, povero villano, uccidi e muori.

Dopo, avrai la medaglia.

 

E mentre i legulèi ti lauderanno

con sonanti parole,

oh come l’ossa tue biancheggeranno

gloriosamente al sole!

 

Sulla sabbia deserta e funerale

rotoleranno al vento,

ma in qualche trivio della capitale

sorgerà un monumento,

 

su cui, tra i bronzi falsi e le sculture

dell’arte a buon mercato,

sarà il tuo nome, o buon villan, se pure

non l’han dimenticato.

35. Ed infine, riferendosi ai familiari del contadino-soldato, conclude:

Piange intanto colei che la tua culla

vegliò, amorosa e forte;

piange le tristi nozze una fanciulla,

le nozze con la morte.

 

Ma il padre invece, al ciel rivolto il ciglio,

giunte le palme grame,

dice:- Beato te, povero figlio,

che non avrai più fame!

La vittoria di Adua in un dipinto etiope

Il primo Codice penale italiano (1890)

36. A parziale merito di Francesco Crispi va però ascritto quanto, nel suo governo, riuscì a fare il ministro Giuseppe Zanardelli ovvero la promulgazione del nuovo Codice penale, che era il primo realmente “pensato” per l’Italia unita, dal momento che, fino ad allora, si era semplicemente esteso a tutta la penisola il Codice “piemontese”.

Il nuovo Codice, dal nome del suo principale ispiratore, venne giustamente detto “Codice Zanardelli” ed entrò in vigore il 1°gennaio 1890.

E’ suo grande onore l’abolizione, in Italia, della pena di morte (fin dal 1890!) nonostante la fiera opposizione della Regina Margherita la quale, dal canto suo, era “fautrice della pena di morte e la invocava appena possibile” [12].

Veniva però anche introdotto, ad esempio, lo strano reato di “incitamento all’odio di classe” che, per la sua estrema genericità ed indeterminatezza, si prestava ottimamente ad essere adoperato come strumento di repressione delle lotte operaie e popolari per migliori condizioni di vita.

37. Lo Zanardelli è lo stesso ministro che, nel 1882, sotto Depretis, aveva elaborato la prima legge di riforma del sistema elettorale, che ampliava il diritto di voto [13].

In seguito, tentò di introdurre nella legislazione anche il divorzio, ma non ci riuscì: come scrisse ironicamente, ma giustamente, Giovanni Giolitti:- Soltanto due scapoli si occupano oggi del divorzio in Italia, Zanardelli e il Papa.

Dell’ èlite liberale massonica italiana post-unitaria, lo Zanardelli è probabilmente uno degli esponenti migliori per probità personale e sensibilità sociale anche nei confronti dell’Italia meridionale.

Non per nulla, era considerato dal Re Umberto e dalla Regina Margherita “fisicamente sudicio e politicamente inaffidabile” [14]. Vale dunque la pena sapere qualcosa in più su di lui.

Zanardelli a Rionero (Basilicata)

Giuseppe Zanardelli (1826-1903)

38. “Nacque a Brescia in una famiglia della borghesia professionale, con radici popolari, cui non mancava il senso religioso: la madre, cui fu devotissimo, era una cattolica fervente, e tre sue sorelle divennero suore.

Giuseppe era uno studente vivace, a volte prepotente, brillante negli studi. Come dimostrò al collegio Sant’Anastasia di Verona e al Ghislieri di Pavia, da cui rischiò di essere espulso a causa dell’esuberante interesse per il gentil sesso.

Tale interesse, peraltro, gli rimase a lungo: fu infatti uno scapolo impenitente, con alcuni figli illegittimi accertati, tra cui uno che sarebbe poi diventato prete, e nella sua Villa fece dipingere le allegorie dell’amor sacro e dell’amor profano” [15].

Giuseppe Zanardelli (1826-1903)

39. Mazziniano e repubblicano in gioventù, patriota combattente nel 1848 e nelle “Dieci giornate di Brescia”, si ascrisse alla Massoneria nel 1860 e in quello stesso anno venne eletto deputato, tale rimanendo fino alla morte nel 1903.

Fu ministro con Depretis e con Crispi, ed anche Capo del Governo negli ultimi due anni della sua vita, dal 1901 al 1903, aprendo le porte al successivo periodo giolittiano. 

Oltre il già citato Codice penale, riuscì anche a far approvare il nuovo Codice del commercio; fu coerentemente ostile al trasformismo ed a quelli che definiva i “banco-crati”; si batté contro la politica coloniale di Crispi e contro le misure repressive nei confronti dei movimenti popolari, venendo per questo guardato con simpatia anche dai socialisti. 

Fu lui, tra l’altro, a far trasferire Giovanni Passannante a Montelupo Fiorentino, in condizioni comunque più umane delle precedenti [16].

Il viaggio in Basilicata

40. “L’ultimo atto politico di questo liberale coerente, si svolse al Sud. Con quel viaggio in Basilicata, compiuto nel settembre 1902 anche con mezzi di fortuna, come un carro trainato da buoi, quando era già minato dalla malattia. I Lucani gliene sono ancor oggi grati” [17]: il resoconto del suo viaggio fu infatti decisivo per l’approvazione della legge contenente interventi speciali per la Basilicata, approvata poi nel 1904.

Giuseppe Zanardelli in Basilicata

Torna a Surriento

41. Alla figura di Zanardelli è legata anche la celebre canzone napoletana “Torna a Surriento”.

La vicenda è stata più volte raccontata: il 15 settembre 1902 Giuseppe Zanardelli, Presidente del Consiglio dei Ministri in carica, soggiornò a Sorrento nell’albergo di cui era proprietario il barone Guglielmo Tramontano, all’epoca anche Sindaco della cittadina.

Il Tramontano ebbe l’idea di commissionare ai due fratelli Ernesto e Giambattista De Curtis una canzone in onore dell’ospite illustre, per esortarlo a non dimenticare il suo impegno a conseguire alcune opere fondamentali di cui Sorrento era priva, come l’apertura di un ufficio postale e la costruzione della rete fognaria.

In effetti, i due fratelli riciclarono, e adattarono per l’occasione, una melodia (Ernesto) ed un testo (Giambattista) già composti qualche anno prima. 

Se non che, l’ufficio postale e la rete fognaria, i Sorrentini dovettero aspettarli ancora a lungo; nel frattempo, però, la canzone venne presentata al Festival di Piedigrotta del 1905 e divenne un successo mondiale.

L'ingresso di Zanardelli a Potenza

La riforma della legge sulle amministrazioni locali (1889)

42. Fu merito di Crispi anche l’esser riuscito a portare a termine, nel 1889, la riforma della legge sulle amministrazioni locali del 1865.

La nuova normativa si intitolò “Modifiche alla legge comunale e provinciale” (Legge n° 5865 del 30 dicembre 1888), fu coordinata alla precedente con il “Testo unico comunale e provinciale” (Règio Decreto n° 5921 del 10 febbraio 1889) e completata poi con il “Regolamento per l’esecuzione” (Règio Decreto n° 6107 del 10 giugno 1889).

Essa prevedeva l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini, di sesso maschile, che avessero compiuto 21 anni di età, sapessero leggere e scrivere, e pagassero almeno 5 lire di imposte dirette nel Comune di appartenenza: di fatto, questo significava estendere il diritto di voto dal 4% della popolazione (come avveniva in base alla legge del 1865) all’11% circa.

Altra novità significativa: nei Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti, oppure Capoluogo di provincia e di circondario, il Sindaco non era più di nomina governativa ma veniva “eletto dal Consiglio comunale, nel proprio seno, a scrutinio segreto”.        

Il Comune di Barra negli anni di Crispi

43. Barra, però, nel 1889, non superava i 10.000 abitanti e non era capoluogo di provincia e di circondario ma solo “capoluogo di mandamento”; pertanto, non erano applicabili ad essa le nuove norme riguardanti l’elezione dei Sindaci, che continuarono quindi ad essere nominati dal governo con Règio Decreto.   

Il 2° ed il 3° mandato del Sindaco Mastellone (1886-1892)

44. Per quanto riguarda il decennio crispino in Barra, occorre in ogni caso ricordare soprattutto due nomi: quello dell’Ingegnere Pasquale Cozzolino e quello del Sindaco Giovanni Mastellone.

45. Del Cozzolino, abbiamo già iniziato a dire [18]. Dopo la “Proposta Falcocchio (= il notaio Luigi Falcocchio, consigliere ed assessore comunale) per la nomina del Sig. Cozzolino Pasquale ad architetto ufficioso” (Delibera consiliare N°491 del 2 agosto 1882) sotto il primo sindacato Mastellone, … nel 1888, con il secondo sindacato Mastellone, troviamo la “Nomina del Sig. Pasquale Cozzolino ad Ingegnere municipale” (Delibera Consiglio comunale N°328 dell’8 ottobre 1888).

Anche se già in precedenza aveva ricevuto degli incarichi da parte del Comune, da quel momento il Cozzolino divenne perciò ufficialmente l’ingegnere comunale (unico) di Barra: con la sua previdente intelligenza e la sua buona volontà, da probo funzionario comunale che si accontentava del suo stipendio ed amava il suo paese, fu lui, per alcuni decenni, il vero e proprio “piano regolatore vivente” del Comune di Barra.

46. E proprio avvalendosi dei progetti elaborati dall’ingegnere comunale Pasquale Cozzolino, il cav. Giovanni Mastellone dei duchi di Limatola [19], nominato Sindaco di Barra per altre due volte consecutive, proseguì i lavori iniziati durante il suo primo mandato nel 1879-82.

I tempi erano favorevoli. Con il linguaggio, e l’opportunità politica, dell’epoca, il Cozzolino li definisce “… tempi in cui la Dèa Igiene riporta in Italia, sotto l’alto ed efficace patronato dell’eminente statista FRANCESCO CRISPI, i suoi incontrastati trionfi.”

In effetti, il clima di “operoso fervore” determinato dal “risanamento” dopo il colera del 1884 e la relativa stabilità politica del primo periodo di governo di Francesco Crispi, consentirono al Mastellone di procedere alla realizzazione di un programma ben più ambizioso e vasto di quello realizzato nel suo primo mandato.

Mentre prima si era solo migliorato l’esistente (il Corso Sirena e le strade ad esso afferenti), adesso si procedette per analogia allo “sventramento” di Napoli [20].

Il “doppio rettifilo a T” Barrese

47. Il Cozzolino progettò dunque il “rettifilo” barrese, anzi addirittura due: il Corso Vittorio Emanuele (attualmente, Bruno Buozzi) ed un altro, ad esso perpendicolare secondo una forma a T, di collegamento con la strada costiera “delle Calabrie” in S. Giovanni a Teduccio, che alla sua inaugurazione ufficiale nel 1892 venne denominato Corso Giuseppe Garibaldi (attualmente, IV Novembre).

Il collegamento tra lo storico Corso Sirena ed il nuovo Corso Vittorio Emanuele venne garantito con una nuova strada [21] dedicata al prete-maestro Domenico Minichino (‘A traversa ‘e vascio), e soprattutto con la nuova piazza, dedicata ad Umberto I (attualmente, Piazza Vincenzo De Franchis), che si apriva proprio davanti alla Sede municipale.

Per completare l’opera, restava peraltro da abbattere un muro, di proprietà privata Buonocunto, che impediva il congiungimento fra la Piazza Umberto ed il Corso Garibaldi: l’abbattimento avvenne nel 1894. 

Inoltre, la realizzazione del Corso Vittorio Emanuele comportò anche l’apertura dell’ultimo lato della piazzetta che fu dedicata, come già la Via, a Don Egidio Velotto [22]

L’opera storica di Pasquale Cozzolino (1889)

48. In quelle circostanze, l’ing. Cozzolino scrisse anche la sua opera storica “La Barra e sue origini (nella Napoli suburbana)”, che volle pubblicare con la stessa data di inizio dei lavori (1°novembre 1889) e nella quale, fra l’altro, propose di cambiare addirittura il nome del paese: Barra, in effetti, non aveva mai visto un rinnovamento così ampio della propria struttura urbanistica.

49. Il Cozzolino, nell’opera citata, scrisse:

“Con i lavori di bonificamento, che in questo dì (1°novembre 1889) si inaugurano, sotto il 3° e non meno operoso Sindacato del distinto cav. Giovanni Mastellone, e che hanno occasionato il presente lavoretto, si migliorerà ancora di più la già buon’aria dell’abitato Villa Siréni

Con la strada per S.  Giovanni, anche prossima ad aprirsi (strada, sebbene con indirizzo diverso da quello già approvato, ideato dall’autore, propugnata fin dal Sindacato del dott. Giuseppe Verolino e sostenuta anche dall’assessor notar Luigi Falcocchio; come di seguito sotto la gestione del cav. Luigi Martucci) si darà una eccellente arteria di accesso a tutto il ridente abitato.

Quando questo avrà completato a poco a poco lo intiero sviluppo, dall’autore anche ideato (e che formerà parte di una novella pubblicazione con tavola planimetrica), allora sì che potrebbe pure svestirsi del suo nome … Barra e ribattezzarsi di bel nuovo, nella totalità delle due riunite università, col nome di Sirena e di SIRENA VESUVIANA …

Perché … avrà in breve anche la sua acqua del Serìno dai sifoni di Cancello … e sarà diventata allora, senza confronti, la più affascinante e la più economica dimora estiva sui fianchi maestosi di Regina Partenope, pari ad una sua fedele e carissima damigella!”

In realtà …

50. E’ simpaticamente evidente, nel Cozzolino, lo spirito di fervido entusiasmo “umanitario”, di stampo positivistico, che permeava in quel tempo, anche a Barra, la parte migliore della borghesia liberale al potere.

In realtà, però, per avere l’acqua del Serìno bisognerà attendere ancora parecchio, e lo “sventramento” di Barra non sortì effetti migliori di quello di Napoli [23].

Lungo le nuove strade che si realizzarono (il doppio “rettifilo” a T), si insediarono famiglie appartenenti ad un ceto sociale che non era certo quello in precedenza insediato sul Corso Sirena e si evidenziò sempre di più, anche urbanisticamente, il crescente divario fra il nuovo ceto borghese dominante, che tendeva ad imitare, sia pure in tono ovviamente minore, la “dimora in villa” degli antichi aristocratici, e le tradizionali famiglie contadine, i primi operai della nascente industria, la minuta plebe paesana …

L’ing. Pasquale Cozzolino: altri cenni biografici

51. Pasquale Cozzolino, ingegnere comunale e primo storico locale di Barra, merita certamente la memoria riconoscente del popolo barrese.

52. Rimasto orfano in tenera età, crebbe in condizioni economiche disagiate. Per il latino e le materie letterarie, fu allievo, come detto [24], del “maestro di Barra” ovvero Don Domenico Minichino.

Si laureò in Ingegneria con una tesi sulle Macchine per elevare l'acqua che venne pubblicata a Napoli nel 1875.

53. Dapprima come semplice consulente e poi come ingegnere comunale, “ufficioso” (1882) ed “ufficiale” (1888), di Barra, collaborò proficuamente con i Sìndaci della Sinistra liberale: Giuseppe Verolino (1876-1879), Giovanni Mastellone dei duchi di Limatola (1879-1882) e Luigi Martucci (1882-1886).

Ma fu soprattutto nel periodo del “Risanamento”, dopo il colera del 1884, che la sua opera poté essere ampia ed incisiva (vedi sopra). E per l’occasione fu anche il primo a scrivere una storia di Barra, diventando così, in un certo senso, il patriarca ed archètipo degli storici locali.

54. In seguito (1904), fu sempre il Cozzolino a redigere il progetto per la realizzazione della Via (‘A traversa ‘e ‘ncoppa) che nel 1908 fu inaugurata e intitolata al “conte di Acerra e marchese di Laino” Francesco Spinelli (1820-1897) che, fra le altre cose, era stato anche consigliere comunale di Barra.     

55. Nel 1905 (lo stesso anno in cui entrò in funzione la prima linea della ferrovia circum-vesuviana a trazione elettrica), pubblicò la “Relazione sommaria, corredata di uno schema di progetto, intorno alla convenienza del prolungamento della linea tramviaria elettrica dall’abitato di S. Giorgio a Cremano verso Barra” anche se riuscì ad ottenere la realizzazione di questo progetto solo nel 1913 (tratta Napoli-Barra-Ponticelli) e nel 1914 (tratta Barra - S. Giorgio a Cremano).

56. Insieme a suo fratello Vincenzo (1853-1911), che fu medico illustre, pubblicò anche lo studio “Di un sanatorio per tubercolotici poveri in Italia” (1901) e un trattato su “L’igiene e l’ingegneria” (1904).

57. Lasciò l’incarico di ingegnere municipale di Barra nell’aprile 1915, con una lettera di cui diremo meglio a suo luogo, assai polemica nei confronti di una Amministrazione comunale “che da molto e molto tempo” così egli scriveva “veggo messa su di un binario falso … di fronte ai pubblici interessi, ed anche ai miei, morali e materiali”.

Ed a quanto pare, non aveva torto: in effetti, la Giunta presieduta dal Sindaco giolittiano Cristoforo Caccavale (1905-1918), a cui il Cozzolino si riferiva, e tutto il Consiglio Comunale di Barra, vennero sciolti, dopo indagine prefettizia, il 10 febbraio 1918 (mentre era in corso la Prima Guerra Mondiale …) “a causa di inettitudine, irregolarità amministrative, atti di favoritismo e corruzione” e denunciati all’autorità giudiziaria.

Una gloria di Barra: il dottor Vincenzo Cozzolino (1853-1911)

58. L’ing. Pasquale Cozzolino, in una nota del suo libro sopra citato, dice fra l’altro: “E se un sentimento fraterno non costituisce colpa, qui (in Barra) ebbero anche i loro natali i miei fratelli: Andrea, che ha svolto la sua professione architettonica con successo nel Salernitano e nel Calabrese; e Vincenzo, che onora non poco la scienza d’Ippocrate in Italia ed altrove”.  

59. Sappiamo dunque che Vincenzo Cozzolino, fratello dell’ing. Pasquale, già nel 1889 era medico insigne.

A conferma e ad approfondimento di ciò, nel “quadrato degli uomini illustri” del cimitero di Poggioreale, si può tutt’oggi vedere, non molto lungi da quello di Bernardo Quaranta, il suo monumento sepolcrale, recante un medaglione con il suo profilo e l’iscrizione che volle apporvi la moglie Itala:

VINCENZO  COZZOLINO

NATO A BARRA                                       MORTO A NAPOLI

  24.III.1853                                                  15.III.1911

AL FERACE INGEGNO, AL TENACE LAVORO,

ALLA FEDE IN SE STESSO, AI SANTI ENTUSIASMI

DELLA SCIENZA, UNICAMENTE DOVETTE

LA LUMINOSA ASCESA NELLA VITA.

 

DELL’ATENEO NAPOLETANO FIGLIO E MAESTRO,

FONDO’ IN NAPOLI NEL 1882 L’INSEGNAMENTO

DI OTOLOGIA E RINOLOGIA

CHE PER LUI ASSURSE A CLINICA AUTONOMA.

 

SOMMO NELLA PAROLA E NELL’ARTE CHIRURGICA,

STRENUO RICERCATORE DEL VERO,

DIFENSORE DEI DIRITTI DEL SORDOMUTO

E D’OGNI DEBOLEZZA SOCIALE,

APOSTOLO NELLA LOTTA CONTRO LA TUBERCOLOSI,

BONTA’ SUBLIME.

 

LA TUA ITALA

VOLLE PER TE E PER SE QUESTO LUOGO DI PACE,

TRA I NOSTRI FIORI, IN FACCIA AL MARE,

SU TERRA LIBERA E SOTTO IL LIBERO CIELO,

A TE INSEPARATA

NELLA FEDE CHE LA VITA CONTINUA.

60. Questa iscrizione riassume in modo esemplare la vita di Vincenzo Cozzolino e lo spirito che l’animò.

In essa, l’orgoglio delle origini barresi si sposa con la fierezza post-risorgimentale di appartenere ad una Patria italiana unita e libera (“su terra libera e sotto il libero cielo”).

La mentalità borghese “dell’uomo che si è fatto da sé”, senza antenati illustri né sostegni assistenziali ma basandosi solo sul suo ingegno, sulla sua forza di volontà, sul suo lavoro costante, si sposa con la sensibilità responsabile che lo pone a “difensore dei diritti del sordomuto e d’ogni debolezza sociale” e ad “apostolo nella lotta contro la tubercolosi”.

“Il fervido entusiasmo umanitario, di stampo positivistico, che permeava in quel tempo la parte migliore della borghesia liberale”, già menzionato poc’anzi a proposito del fratello Pasquale, si concretizza in lui nell’opera assidua di medico, di scienziato e di maestro.

61. E dai documenti risulta, infatti, che Vincenzo Cozzolino si laureò in Farmacia nel 1873 e in Medicina nel 1874, presso l’Università di Napoli (“dell’Atenèo napoletano figlio e maestro”).

Passò dapprima un anno a lavorare come medico chirurgo in Marina, e poi si recò ad approfondire lo studio della oto-rino-laringo-iatrìa a Parigi, a Londra e a Vienna con il celebre Politzer.

Tornato a Napoli, vi fondò nel 1882, primo in Italia, “l’insegnamento di oto-logia e rino-logia, che per lui assurse a clinica autonoma”. Nel 1906-1907 fu anche Preside di Facoltà.

62. Nel corso della sua carriera, diede alle stampe oltre 150 pubblicazioni specialistiche, e ideò perfino nuovi strumenti chirurgici.

Per dare un’idea della sua forma mentis, si può qui citare, a titolo di esemplificazione, una delle sue opere, pubblicata nel 1901 ed intitolata significativamente “La cura del tubercolotico polmonare nel sanatorio, considerata anche come questione sociale”.

Si può anche osservare che, fra i due fratelli Cozzolino, l’ingegnere e il medico, si stabilì evidentemente una proficua collaborazione scientifica, animata dal medesimo spirito umanitario.

Abbiamo visto, infatti, che Pasquale Cozzolino, fra le altre opere sue, pubblicò nello stesso anno 1901 lo studio “Di un sanatorio per tubercolotici poveri in Italia” e nel 1904 addirittura un trattato su “L’igiene e l’ingegneria”.

63. E’ ancora una volta sconcertante constatare che una figura come quella di Vincenzo Cozzolino, che tanto lustro ha dato al nostro paese e tanto ha operato per il bene di tutti, sia oggi praticamente sconosciuta ai cittadini barresi, e nessun segno esteriore ne ricordi la vita, e ne indichi l’esempio, alla gioventù studiosa ed operosa di Barra.

Arriva la ferrovia circum-vesuviana … a vapore (1890)

64. Nel clima di “operoso fervore” co-ordinato dal Sindaco Mastellone e dall’ing. Pasquale Cozzolino, arrivò in Barra anche la ferrovia circum-vesuviana.

La linea della circum-vesuviana, dunque, giunse a Barra prima del tram elettrico, quando ancora c’erano solamente il tram a cavalli e le carrozzelle col cocchiere “in affitto”.

Per la verità, alla sua costituzione (18 febbraio 1890), si chiamava “Società Anonima Ferrovia Napoli-Ottajano” e gestiva infatti solo questa tratta, con un solo binario e con trazione a vapore.

L’anno successivo, la linea veniva prolungata, con le stesse modalità, fino a S. Giuseppe Vesuviano, e diveniva, in tutto, di circa 23 Km.

Lungo questa linea, si trovava comunque anche la stazione di Barra, e poiché il trenino a vapore attraversava la pre-esistente Via Egidio Velotto, si dovette costruire anche un “passaggio a livello”, con le sbarre manovrate a mano.

65. Solo nel nuovo secolo, nel maggio 1901, la Società prenderà il nome attuale di Strade Ferrate Secondarie Meridionali (SFSM) e, nel giro di pochi anni, procederà da una parte ad allungare la linea già esistente fino a Sarno, e d’altra parte a costruire una nuova tratta, lungo la costa vesuviana, che arrivava fino a Pompei e poi si ricongiungeva alla Napoli-Sarno in località Poggiomarino, chiudendo così il “cerchio” intorno al Vesuvio (1904): la stazione di Barra divenne nodo di interscambio fra le due linee.

Francesco Spinelli (1820-1897)

66. Della famiglia e della Villa Spinelli in Barra, fino alla morte di Antonio Spinelli nel 1884, abbiamo scritto ampiamente in precedenza [25].

Antonio Spinelli fu sempre un fedele suddito del Regno borbonico; suo figlio invece, che ripetendo il nome del nonno fu un altro Francesco Spinelli, operò politicamente soprattutto nell’àmbito del nuovo Regno d’Italia, sotto casa Savoia.

In realtà, rispetto agli avi illustri, ed anche soltanto a paragone del padre, è personaggio minore, anche se non privo di meriti nei confronti della comunità.

67. “Signori senatori! Ieri (8 giugno 1897) moriva a Napoli il conte Francesco Spinelli, che dal novembre 1892 apparteneva a questa Camera (era stato nominato senatore il 21 novembre 1892, su proposta del Prefetto di Napoli, nella categoria delle “persone che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta, in ragione dei loro beni o della loro industria”).

Nato il 19 luglio 1820 (da Antonio e da Maria Luisa Marulli), di famiglia per antichità e per censo cospicua, e da tanta considerazione circondata che due volte i due ultimi Borboni, ridotti a mal partito, avevano nella reputazione di suo padre Antonio confidato per dissipare i nembi che s'addensavano e tutt’attorno rombavano ... Francesco Spinelli, rimasto lontano dalle aspre lotte politiche, al bene ed al decoro della città sua solo intendendo, appose al proprio nome novella benemerenza.

Già decurione dell'antico Municipio (Decurione di Napoli nel periodo borbonico, dal 1849 al 1860), a lungo appartenne al nuovo … (fu Sindaco di Napoli dal 3 ottobre 1872 al 19 dicembre 1874; e successivamente Consigliere anziano con funzioni di sindaco dal 22 al 26 gennaio 1894) ponendovi una perizia ed operosità alle quali probità senza pari dava rincalzo.

Fu la forza, furono le qualità stesse che lo soccorsero nell'amministrare molte delle Istituzioni di beneficenza onde la grande metropoli abbonda e di cui meglio potrebbe godere (fu Componente del Consiglio direttivo degli educatòri femminili di Napoli; Componente del Comizio agrario di Napoli; Soprintendente dell'Ospedale degli incurabili di Napoli; Presidente generale dell'Esposizione di belle arti di Napoli).

La medaglia d'oro ai benemeriti della pubblica salute fu degno premio all'animo invitto nell'ultimo ufficio mostrato … La stima, la benevolenza universale lo onorarono sempre in ogni congiuntura; il cordoglio nostro, insieme a quello dei concittadini suoi, accompagna il degno gentiluomo nella tomba” [26].

Suoi meriti archeologici

68. Al tempo in cui scriveva il nostro Pasquale Cozzolino (1889), la famiglia Spinelli aveva acquisito particolari meriti in campo archeologico, avendo essi scoperto, in un fondo di loro proprietà in Acerra, i resti dell’antica città di Suèssola: una cittadina etrusca, che ebbe un periodo di grande splendore in epoca romana, fino a quando, nell’alto medioevo, venne distrutta dai Saraceni e, da allora, abbandonata.

Alcuni reperti degli scavi condotti da Francesco Spinelli

69. “A 7km e mezzo da Acerra, nel fondo dei signori Spinelli di Scalèa detto bosco di Calabricìto, nello scorso febbraio, si cominciò a scoprire fortuitamente una necropoli e, in un'area di circa 400mq ad una profondità massima di 2m, vennero a luce alcuni sarcofagi di tufo, altri formati di tegoloni … Pare indubitato che questa necropoli sia appartenuta all'antica città di Suèssola, che la concorde opinione degli scrittori colloca a 4 miglia da Acerrae e a 9 da Capua e Nola”.

Così Francesco Spinelli, allora proprietario del bosco di Calabricìto, riferiva circa gli scavi archeologici da lui iniziati nel 1872 e condotti, a più riprese, fino al 1886, tre anni prima dell’uscita del libro di Pasquale Cozzolino.

70. L’area urbana vera e propria venne poi successivamente scavata nel 1901, mettendo in luce parte dell’antico Foro ed un tratto di strada basolàta.

71. Purtroppo, di questi scavi si conserva soltanto un sommario elenco dei materiali portati alla luce e nessuna documentazione ordinata dei lavori.

Tutto il materiale emerso dalla campagna di scavi fu custodito nelle sale del piano nobile della Casìna Spinelli, un edificio che il conte di Acerra Ferdinando III de Cardenas, nel 1778, aveva fatto costruire in quello stesso luogo, accanto ad una antica torre longobarda, come residenza di campagna e casìno per la caccia e le passeggiate del Re Ferdinando IV di Borbone. 

Durante la II guerra mondiale, i tedeschi ne asportarono antichi monili d’oro e gli anglo-americani ne usarono i mobili del Settecento come legna da ardere. Nel 1945, la vedova Spinelli, temendo per la collezione di oggetti antichi, li donò allo Stato; essi sono ora depositati presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

La casina Spinelli e la torre longobarda in una stampa dell'Ottocento

La fine del “ramo Barrese” della famiglia Spinelli

72. Francesco Spinelli, oltre che di Napoli, fu consigliere comunale di Barra, adoperandosi con nobile generosità anche per il bene del suo paese natìo.

Con la sua generazione, inizia però la drammatica fase che porterà alla estinzione di quello che abbiamo chiamato il “ramo Barrese” della famiglia Spinelli.

73. Troviamo infatti che Francesco Spinelli non si sposò e non ebbe figli.

Una sua sorella, Francesca, nata prima di lui e di cui lui ripeteva il nome, era morta alla nascita, nel 1819; due suoi fratelli, Troiano (1821-1837) e Marianna (1834-1837) perirono nell’epidemia di colera del 1837, rispettivamente all’età di 16 e di 3 anni; e nel gennaio del seguente anno 1838 morì, a 10 anni, anche il fratello Luigi. 

Sposàtasi a 18 anni la sorella Maria Giuseppina nel 1844, ed allontanatosi da Barra il fratello Vincenzo Marcello che morì poi a Roma nel 1910, rimase con Francesco nella villa Barrese solo l’altro fratello Carlo Spinelli.

Carlo Spinelli (1822-1884), fratello di Francesco

74. Fu quest’ultimo a sposarsi (nel 1852, con Felicita Nolli dei baroni di Tollo) e ad assicurare alla famiglia un’altra generazione.

Carlo Spinelli ebbe infatti 8 figli, ma anche contro di loro si accanì la sventura: tutti i maschi, infatti, morirono precocemente: nel 1866, a 3 anni di età, morì Marino; nel 1873, a 20 anni, morì il primogenito Antonio; nel 1875, a 18 anni, morì Camillo, e nel 1880, a 21 anni, morì anche Francesco

Alfonso Spinelli (1861-1883), figlio di Carlo

75. E dopo tutto questo, nel 1883, si svolse la ugualmente drammatica vicenda dell’ultimo discendente maschio rimasto, e cioè Alfonso Spinelli, nato nel 1861.

Alfonso, ventenne, si invaghì di una Maria Caterina Frohli (a quanto pare, non-nobile) e ne ebbe un figlio, che nacque in Barra il 2 ottobre 1883 ed al quale pose il nome di suo padre Carlo. Un mese dopo la nascita del figlio, i due si sposarono, sempre in Barra, il 5 novembre 1883. Ma trascorsi appena venti giorni, il 25 novembre 1883, Alfonso Spinelli morì, all’età di appena 22 anni.

Evidentemente prostrato da tante disgrazie, il primo marzo dell’anno successivo 1884, veniva a morte anche il vecchio Carlo (1822-1884), all’età di 62 anni.

Lo stemma della famiglia Spinelli sulla villa di Barra

Lo “zio Francesco”

76. Nella villa di Barra, a tutela del piccolo Carlo nato nel 1883, rimase così solo il vecchio “zio Francesco”, il quale come capo della famiglia provvide successivamente a dotare e a procurare convenienti matrimoni alle 3 nipoti femmine rimastegli: Luisa (che si sposò il 26 giugno del 1884), Eleonora (sposa il 25 febbraio 1888) e Maria Giuseppa (sposata il 10 gennaio 1894).

77. Nel 1886, troviamo agli Atti di Barra le “Dimissioni del consigliere comunale Conte Francesco Spinelli” (Delibera consiliare N°195 del 30 dicembre 1886).    

Quasi a conclusione della sua vita, all’età di 75 anni, il vecchio Francesco Spinelli ebbe però almeno la soddisfazione del riconoscimento ufficiale dell’antico titolo di “conte di Acerra e marchese di Laino”, da parte del Re d’Italia Umberto I di Savoia, con Decreto Ministeriale del 30 giugno 1895.

78. Nel frattempo, un po’ per distrarsi, un po’ per consolarsi delle amarezze che la vita gli aveva riserbato, si era dedicato, da appassionato dilettante, agli studi ed alle imprese di archeologia (vedi sopra, nn°68-71). 

Morì, come detto, l’8 giugno 1897, e lo stesso mese troviamo agli Atti Barresi la “Commemorazione del defunto senatore conte Francesco Spinelli” (Delibera N°48 del 20 giugno 1897). Nel 1908 gli venne poi intitolata la Via che tuttora porta il suo nome (vedi sopra, n°54).

L’ultimo: Carlo Spinelli (1883 - 19?)

79. Il titolo tanto sospirato, alla sua morte, venne ereditato dall’ultimo superstite maschio, appunto il pro-nipote Carlo che, nato nel 1883, aveva allora appena 14 anni.

Di lui troviamo agli Atti:

“Istanza del marchese Carlo Spinelli per acquisto di suolo nella via parallela” (Delibera N°224 del 5 maggio 1910).

“Approvazione in seconda lettura dell’istanza del marchese Carlo Spinelli per acquisto di suolo nella via parallela” (Delibera N°236 del 29 luglio 1910).

“Domanda del conte Carlo Spinelli per cessione di suolo comunale” (Delibera N°20 del 16 aprile 1914).

Poi, più nulla. Con Carlo Spinelli, morto ancor giovane e scapolo nel periodo fra le due guerre mondiali, si chiude dunque definitivamente la sventurata vicenda del “ramo Barrese” della famiglia Spinelli ed inizia la decadenza della loro Villa.

L’intermezzo giolittiano (maggio 1892 - novembre 1893)

80. Il decennio di Francesco Crispi (1887-1896) fu interrotto da un breve periodo (poco più di un anno, dal maggio 1892 al novembre 1893) nel quale il governo venne affidato a Giovanni Giolitti (1842-1928), nuovo astro nascente della classe dirigente liberale.

Il Giolitti era portatore di una concezione alternativa a quella autoritaria del Crispi, per la gestione dello Stato e la difesa degli interessi di classe della borghesia.

Tale concezione, che egli avrà poi modo di realizzare più compiutamente nel suo successivo e ben più lungo periodo di governo (1900-1914), prevedeva il pieno riconoscimento legale delle organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia e la ricerca di una intesa con i loro dirigenti, al fine di evitare gli scoppi violenti di rivolta ed inserire gradualmente le masse popolari all’interno delle istituzioni liberali.

La fondazione del Partito Socialista dei lavoratori italiani (giugno 1892)

81. Il clima più tollerante di questo breve intermezzo giolittiano rese, dunque, possibile procedere alla fondazione, ufficiale e legale, del Partito socialista dei lavoratori italiani aderente alla Seconda Internazionale, con un Congresso che si tenne a Genova nel giugno del 1892.

Lapide fondazione PSI

82. Il nuovo partito unificava, finalmente, tutte le varie organizzazioni e movimenti di base a cui i lavoratori italiani avevano dato vita negli anni precedenti, ad eccezione dei gruppi di ispirazione anarchica, che mantennero una loro vita del tutto autonoma, sotto la guida di Errico Malatesta.

83. Tra i fondatori, oltre al vecchio Andrea Costa, che proveniva dall’esperienza della Prima Internazionale e delle sommosse anarchiche, a Camillo Prampolini, a Nicola Badaloni, vanno ricordati soprattutto:

  • il gruppo milanese, in particolare Filippo Turati (Canzo di Como, 1857 - Parigi, 1932) e Anna Kuliscioff (Moskaja, Kerson, 1857 - Milano, 1925), la quale fu compagna di vita prima di Andrea Costa e poi dello stesso Turati, insieme a cui fondò e diresse la rivista intitolata “Critica sociale”, e svolse anche una costante attività di medico nei quartieri più poveri di Milano;  

·         il filosofo meridionale Antonio Labriola (Cassino, 1843 - Roma, 1904), che insegnò nelle Università di Napoli e di Roma e fu senza dubbio la più vasta mente teorica del nuovo partito.

Il Programma socialista (1892)

84. Il Partito socialista si riallacciava esplicitamente al pensiero di Marx e di Engels e poneva a base della propria azione un chiaro e conciso Programma, approvato al congresso di Genova insieme ad uno Statuto.

Questo programma è dunque come l’atto di nascita del movimento operaio organizzato italiano e, per la sua importanza storica, è riportato di seguito:

CONSIDERANDO

-          che, nel presente ordinamento della società umana, gli uomini sono costretti a vivere in due classi: da un lato, i lavoratori sfruttati; dall’altro, i capitalisti detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali;

-          che i salariati d’ambo i sessi, d’ogni arte e condizione, formano per la loro dipendenza economica il proletariato, costretto ad uno stato di miseria, di inferiorità e di oppressione;

-          che tutti gli uomini, purché concorrano secondo le loro forze a creare e a mantenere i benefìci della vita sociale, hanno lo stesso diritto a fruire di cotesti benefìci, primo dei quali la sicurezza sociale dell’esistenza;

RICONOSCENDO

-          che gli attuali organismi economico-sociali, difesi dall’odierno sistema politico, rappresentano il predominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali sulla classe lavoratrice;

-          che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se non mercè la socializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, etc.) e  la gestione sociale della produzione;

RITENUTO

che tale scopo finale non può raggiungersi che mediante l’azione del proletariato organizzato in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti, esplicantesi sotto il doppio aspetto:

1)    della lotta di mestieri, per i miglioramenti immediati della vita operaia (orari, salari, regolamenti di fabbrica, etc.), lotta devoluta alle Camere del lavoro ed alle altre Associazioni di arti e mestieri;

2)    di una lotta più ampia, intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche, etc.) per trasformarli, da strumento che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante;

I LAVORATORI ITALIANI

che si propongono la emancipazione della propria classe, DELIBERANO DI COSTITUIRSI IN PARTITO, informato ai princìpi su esposti e retto dal seguente Statuto.

continua


Note

[1] Ernesto Ragionieri – “Storia d’Italia”, Vol.V, Einaudi, 1976.

[2] Vedi n°1 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”; e n°1 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[3] Antonio Gramsci – “Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello stato moderno in Italia” -  1° e 2° parte: Q. X - in “Quaderni del carcere – Il Risorgimento”.

[4] Vedi nn°181-184 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[5] Paolo Paulucci - Alla corte di re Umberto. Diario segreto, a cura di Giorgio Calcagno, Ed. Rusconi, 1986.

[6] Vedi nn°195-197 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[7] Vedi nn°177-180, ibidem.

[8] Romina Gobbo in “Jesus”, N°1, gennaio 2013.

[9] ibidem

[10] Vedi: Lorenzo Mazzoni (a cura di) - Kebra Nagast. La Bibbia segreta del Rastafari, pref. di David Donnini, Roma, Coniglio Editore, 2007.

[11] Piero Pieri in “Dizionario biografico degli italiani”, 1963.

[12] Paolo Paulucci, op.cit.

[13] Vedi nn°91-93 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[14] Paolo Paolucci, op. cit.

[15] Roberto Chiarini – “Zanardelli: grande bresciano, grande italiano”, Ed. La Compagnia della Stampa Massetti Rodella, 2004.

[16] Vedi n°36 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[17] Chiarini, op. cit.

[18] Vedi n°117 e n°123 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[19] Vedi nn°165-172 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1600”.

[20] Vedi n°151 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[21] Vedi n°75, ibidem.

[22] Vedi nn°111-114, ibidem.

[23] Vedi nn°159-168 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[24] Vedi n°70, ibidem.

[25] Vedi nn°72-94 in “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[26] Domenico Farini, Presidente del Senato, “Commemorazione del defunto senatore Francesco Spinelli” in Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 9 giugno 1897.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, giugno 2017

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