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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

8.2 Il Periodo dei Viceré Spagnoli (1600)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

La Barra nel Seicento

1. Il parroco Don Giuseppe Carlino (1687-1709) fu particolarmente accurato nella sua relazione per la Santa Visita del Card. Giacomo Cantelmo (1691-1702) e fornì questo quadro statistico della popolazione della Barra nel 1699:

Popolazione dai 18 anni in su

2190

Popolazione al di sotto dei 18 anni

385

Sacerdoti cittadini (di Barra)

4

Sacerdoti forestieri (non di Barra)

7

Chierici

1

Religiosi domenicani

12

Religiosi francescani

7

Romiti (Eremiti)

1

Totale della popolazione

2607

2. Si è visto [1] che, alla fine del Quattrocento, i due Casali unificati di Sirinum e della Varra de’ Coczis avevano poco più di 100 abitanti (“fochi decisepte”). A metà del Cinquecento, si ebbe l’unificazione anche con Casavaleria, che a sua volta doveva avere dimensioni non molto più grandi [2] e, nel 1599, gli abitanti erano più di 1.000.

3. La crescita della popolazione, nei due secoli del dominio spagnolo, fu dunque eccezionalmente rapida e costante: addirittura maggiore di quella, pur notevole, che si verificava contemporaneamente nella città di Napoli [3].

Le grandi catastrofi che pure ebbero luogo nel periodo (la peste e la guerra nel 1526-28; i terremoti della seconda metà del Cinquecento; l’eruzione del Vesuvio nel 1631; la grande peste del 1656; le carestie, le epidemie, etc.) ben lungi dal frenare l’aumento della popolazione, sortirono evidentemente l’effetto contrario di rafforzare la capacità di resistenza e lo spirito di adattamento di questo popolo “solare” amante della vita.

Vi fu, soprattutto, un fenomeno di immigrazione verso il Casale, dovuto alle condizioni sociali complessivamente più favorevoli, rispetto alle altre campagne del regno, che in esso si potevano trovare.

4. In ogni caso, è nel periodo del vice-regno spagnolo che Barra acquista la sua fisionomia unitaria di fondo, che verrà poi trasmessa ai secoli successivi.

5. Come si è detto, nella seconda metà del Cinquecento si ebbe l’insediamento nel Casale dei due conventi, francescano e domenicano, la fine della estaurìta di Casavaleria (intorno al 1577) e, alcuni decenni dopo, anche di quella della Varra di Serino (1620), contestualmente al sorgere della parrocchia della “SS. Annunziata - AGP” (a partire dal 1610).

6. Nel corso del Seicento, su questo tessuto sociale prevalentemente contadino, innervato solo da insediamenti religiosi, cominciano ad innestarsi anche, in modo stabile, nuclei dell’aristocrazia e della grande borghesia arricchitasi con il commercio e la speculazione.

La villa di Gaspare Roomer

7. Qui occorre far menzione, prima di ogni altro, di Gaspare Roomer (nato intorno al 1585-morto il 3 aprile 1674), del “coraggioso e fortunato mercante, ma anche inesauribile sovvenitore di istituzioni pie e generose, e intelligente mecenate”, “fiammingo per nascita ma napoletano per elezione” [4], il quale, nei primi decenni del Seicento (intorno al 1620), fece costruire in Barra una sua magnifica villa, nella quale “servito da una corte numerosa, riceveva con splendidezza i viceré e i più grandi signori del regno” [5].

8. Data l’importanza di questa figura per la storia di Barra, si raccomanda allo studioso lettore la consultazione della sua classica biografia, curata da Giuseppe Ceci [6] nel 1921, dalla quale si apprendono anche vari particolari del suo rapporto con la villa situata nel nostro Casale.

9. Ci si limita qui ad osservare che il Roomer apparteneva alla categoria, generalmente odiata, degli “arrendatori” [7] e probabilmente scelse la Barra per insediarvi la sua “villa di rappresentanza” anche perchè sapeva che qui non vi era alcuno che potesse avere risentimenti nei suoi confronti, essendo il Casale esente da buona parte della tassazione.

10. Inoltre, la scelta di Barra per l’insediamento fu certo favorita dalla vicinanza alla nuova “strada delle Calabrie”, promossa nel 1562 dal vicerè Don Perafàn [8].

“Tale strada litoranea... costituì l’asse primario delle comunicazioni... servendo di collegamento tra la città e i numerosi Casali sviluppatisi lungo la costa e raggiungendo a monte i Casali sparsi, tramite diramazioni.

Dalla strada costiera, la più antica via di accesso al primitivo nucleo del Casale di Barra... doveva essere quella che oggi reca il nome di via Bernardo Quaranta.

L’antica cupa costituiva infatti il percorso più breve per chi, dalle residenze costiere vice-reali (come la famosa villa di Bernardino Martirano in Pietrabianca) si dirigeva a quelle del Casale di Barra...

Va rilevato che l’incrocio tra questa via di collegamento (attuale Via Bernardo Quaranta) e l’altra (attuale Corso Sirena) che costituiva l’asse del Casale, rappresentava non solo un punto nodale della struttura urbana e territoriale, ma rivestiva anche una notevole importanza sotto il profilo della difesa della zona, avvalendosi del lieve pendìo fra il monte ed il mare; e fu certo questa una delle cause preminenti della scelta di tale sito per l’insediamento della villa del Roomer, come per la localizzazione conventuale dei domenicani” [9].

11. Teresa Colletta si spinge fino a ritenere abbastanza fondata l’ipotesi [10], avvallata pure dallo storico barrese Pasquale Cozzolino nel 1889, che anche la prima villa di Barra, quella Duecentesca dei de’ Coczis (in seguito distrutta dalle eruzioni del Vesuvio), fosse situata proprio in questo luogo, scelto poi dal ricco mercante fiammingo per edificarvi il suo palazzo.

Il “quadrivium” nobile

12. In ogni caso, è certo che l’incrocio tra il Corso Sirena e le attuali Via Bernardo Quaranta e Via Villa Bisignano può essere considerato il “quadrivium nobile” di Barra, proprio per l’importanza strategica di cui si è detto, che ha favorito l’insediamento, in almeno tre dei suoi quattro angoli, di edifici di notevole valore storico: la villa del Roomer; la villa Filomena; il convento dei domenicani con l’adiacente villa Finizio (nella quale poi, nell’Ottocento, visse Bernardo Quaranta).

Le ville-masserìa del Seicento

13. Quasi contemporaneamente alla villa del Roomer, ed accanto ad essa, sorse infatti la villa Filomena.

La villa Filomena, la villa Amalia (sita in Casavaleria e recante esplicitamente la data 1617) e la villa Mastellone (attestata nel 1678) costituiscono gli esempi, tuttora presenti in Barra, di ville nobili a carattere rustico-residenziale anteriori al periodo settecentesco.

Non si trattava, cioè, di ville “di rappresentanza”, come quella del Roomer, nè di ville “di delizia” come quelle successive del “Miglio d’oro”, ma di “ville-masseria” nelle quali famiglie di piccola nobiltà di provincia risiedevano stabilmente, a diretto contatto con le loro terre e con i contadini che le coltivavano.

14. Ciò spiega quanto osservato da Anna Giannetti e Benedetto Gravagnuolo riguardo a villa Filomena: “il tono dell’edificio è tutt’altro che aulico e l’ampia corte retrostante sembra più destinata a svolgere funzioni agricole che a condurre verso giardini di delizie. Anche formalmente, l’edificio manifesta più solidità e utilità che grazia: le mura hanno una pesante conformazione a scarpa, certamente per opporsi al deflusso delle acque torrentizie... mentre la planimetria a doppia L con il basso ingresso e l’ampia corte rettangolare ha molti più punti di contatto con la tipologia a corte dell’edilizia minore di Barra che con quelle della villa suburbana” [11].

15. Si tratta quindi di un tipo di insediamento, intermedio fra le piccole corti agricole pre-esistenti e le grandi ville aristocratiche che verranno dopo, espressione di una piccola nobiltà ancora sana, che manteneva, in qualche modo, rapporti con l’attività produttiva e con il lavoro contadino nei feudi, di non grande estensione, da cui provenivano le sue rendite.

Presenze illustri nella villa del Roomer: Donna Marianna (1630)

16. La villa del “borghese” Gaspare Roomer ebbe il suo momento di gloria nelle corti di tutta Europa nel 1630, quando venne “prescelta quale residenza della regina d’Ungheria (Maria Anna d’Austria) nel suo soggiorno napoletano, dall’8 agosto al 19 dicembre dello stesso anno.

In suo onore probabilmente furono scolpite le insegne della casa d’Asburgo (l’aquila bicipite) nei pilastrini ancor oggi visibili nella balaustra della terrazza affacciante sul giardino. Si proseguiva in tal modo una usanza già introdotta da Carlo V nel 1535, quando l’imperatore prese alloggio nella villa di Bernardino Martirano” [12].

17. In effetti, Donna Maria Anna d’Austria era niente di meno che la sorella del re di Spagna Filippo IV, ed andava, proprio allora, sposa al re d’Ungheria.

Per recarsi alle nozze, avrebbe dovuto attraversare la Lombardia, nella quale però in quell’anno infieriva la peste; si decise, pertanto, di farla transitare per Napoli, dove era in quel tempo viceré Fernando Afàn de Ribera, secondo Duca d’Alcalà (1629-1631), discendente di quel Don Perafàn che aveva governato dal 1559 al 1571.

18. Il soggiorno napoletano della promessa sposa, tra feste, cerimonie, incidenti di etichetta, liti per questioni di precedenza, etc. etc. durò piuttosto a lungo (più di quattro mesi, come si è detto) e si concluse con una “Nobilissima Cavalcata che si fece a’ 19 di dicembre del 1630, nell’uscita della Serenissima Infante D. Maria d’Austria, Regina d’Ungheria” [13].

19. E’ inutile dire che la maggior parte delle spese furono a carico del vice-regno napoletano (cioè delle popolazioni povere, che pagavano donativi e gabelle).

Presenze illustri nella villa del Roomer: il conte di Penaranda (1658-59)

20. Un altro momento nel quale la villa del Roomer si trovò al centro dell’attenzione fu quello del trapasso dei poteri fra due vicerè, nel 1658-59.

Gaspar de Bracamonte y Guzmàn, conte di Penaranda, era stato chiamato a prendere il posto di Garcia de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, illustre giurista dell’Università di Salamanca, che aveva governato nel periodo 1653-1658 (ed aveva dunque dovuto, fra l’altro, fronteggiare la peste del 1656).

I rapporti fra i due notabili spagnoli non erano evidentemente molto buoni, giacché essi rifiutarono ostinatamente di incontrarsi fra di loro per la cerimonia del passaggio dei poteri.

Il Penaranda giunse a Napoli il 29 dicembre del 1658, ma dovette aspettare fino all’11 gennaio dell’anno seguente, in attesa che il suo predecessore sgombrasse il palazzo reale.

In questo periodo di epica tenzone diplomatica in punta di fioretto (in pratica, per le feste di Capodanno ed Epifania) il nuovo viceré alloggiò appunto nella villa del Roomer a Barra.

Il “nefasto” conte di Monterey (1631-1637)

21. Nefasta quant’altre mai per la nostra popolazione fu l’epoca del viceré Manuel de Zuniga y Fonseca, conte di Monterey (1631-1637).

Il periodo di governo di questo vicerè iniziò con una catastrofe naturale (l’eruzione del Vesuvio, nel 1631) e si concluse con una catastrofe sociale (la risoluzione di vendere a privati tutti i Casali demaniali, compresa la Barra, nel 1637).

22. Pressato dalle continue e crescenti richieste di denaro da parte della corte di Madrid (la Spagna era allora impegnata nella guerra “dei trent’anni”) e convinto, da parte sua, che la città ed il regno di Napoli pagassero ancora poco rispetto agli altri possedimenti spagnoli, il Monterey aumentò il peso fiscale sulla popolazione fino al punto massimo mai raggiunto nei due secoli del dominio spagnolo.

Sotto di lui (che peraltro continuava a condurre vita sfarzosa e mondana, fra ricevimenti e rappresentazioni teatrali) si diffuse nel popolo il detto che era meglio vivere fra i Turchi “infedeli” piuttosto che nel viceregno di Napoli!

L’eruzione del Vesuvio nel dicembre 1631 (e le seguenti)

23. Il Monterey arrivò a Napoli il 14 maggio del 1631. Il 16 dicembre di quello stesso anno, iniziò un’eruzione del Vesuvio tanto terrificante per i contemporanei quanto memorabile presso i posteri.

L’eruzione del 1631 fu la più forte di tutto il secondo millennio: il Vesuvio subì un abbassamento di circa 450 metri e si formò un cratere di circa 2 Km di diametro. Il “gran cono”, con un fortissimo terremoto, collassò sulle falde, come liquefatto, in terribili colate di lava che cancellarono ogni cosa fino al mare; il mare stesso si ritirò dal lido, quasi spinto indietro dall’enorme frana.

24. L’eruzione immediatamente precedente si era verificata nell’anno 1500, sicché se ne era ormai perduta ogni memoria presso le popolazioni ed abbandonate tutte le possibili, pur fragili, precauzioni. L’area vesuviana era stata di nuovo (a Casali sparsi, ma interamente) riedificata ed inevitabile fu quindi la tragedia. Furono distrutti interi paesi e villaggi; si contarono morte circa 10.000 persone, più 6.000 animali di allevamento; i danni stimati ascèsero ad oltre 25 milioni di ducati.

25. Si deve poi aggiungere che la lava continuò ancora a riversarsi, con vari episodi eruttivi negli anni seguenti (1649-60-80-85-89), all’interno del cratere che si era aperto, formando un nuovo “gran cono” che, alla fine del secolo, cominciò ad essere ben visibile anche da Napoli. Infine, nel 1694, nel 1696 e nel 1698, la lava fuoriuscì nuovamente dal cratere, traboccando in direzione di S. Giorgio a Cremano, Boscotrecase e Torre del Greco.

L'eruzione del Vesuvio del 1631

Le descrizioni dei cronisti – Il P. Saverio Santagata

26. Le descrizioni della grande eruzione del 1631, da parte dei cronisti dell’epoca, sono pittoresche quanto drammatiche, e si possono leggere tenendo davanti agli occhi, a mo’ di illustrazione, i due disegni del Vesuvio, prima e dopo l’eruzione, pubblicati da G. B. Masculo nel suo “De Incendio Vesuvio”, libri X, Napoli, 1663.

27. Così il P. Saverio Santagata, della Compagnia di Gesù:

“Il compimento di tutti questi terrori fu ciò che avvenne circa le ore dieciotto dell’istesso giorno di mercoledì diciassettesimo di dicembre.

Allora, non cessando la pioggia orribile e niun’altra delle molte cagioni del mortalissimo affanno, sopravvenne un ultimo, ma più di tutti gli altri esizial terremoto, che fece vacillar come canna ogni edifizio, e non pochi ne scompaginò, gittandone a terra non piccol numero.

Nel tempo stesso, si commosse il monte dalle radici e, per via di naturale rovinosissima mina sbalzato in aria l’impedimento della sommità, che sbassato restar lo fece di molto, aprì in tutto la orribil bocca, con ampiezza di un miglio e mezzo nel suo diametro e di tre in circa nella irregolare circonferenza.

Apèrtosi così il varco ad infellonire e nuocere, fece il monte incredibili scempi; perocché lo stesso fu lo spalancarsi della gran voragine, e il rovesciarsi nelle sottoposte contrade le furie tutte d’inferno.

Basti dire che, in meno di una quarta parte di ora, quattordici volte rigurgitando, mandò tartarei e sopra ogni umano pensamento orribili fiumi di zolfo, bitume, alume, acque boglienti, cenere, sabbia, e fuoco mescolato a minerali di ogni specie; le quali roventi materie rovinando giù a precipizio dalle valli, rapiron seco per lo cammino sassi e macigni di smisurata mole, e con esterminio non mai veduto rasero da’ fondamenti, senza lasciarne neppur vestigio, case, palagi, chiese, ville, e popolazioni intere, a cui fu lo stesso accorgersi dei ferali allagamenti del monte, ed il trovarsi oppresse dall’ultimo ed inevitabil fato” [14].

L'eruzione del Vesuvio del 1631

Le descrizioni dei cronisti – Il P. Salvatore Varone

28. Il De Dominicis, dopo di averci detto che la lava, la quale si riversò dalla voragine apertasi il mercoledì, si divise in sette correnti di varia natura, e che una di esse fu quella che, scendendo per S. Giorgio, prese la volta di Napoli, così continua il racconto [15], volgendo in italiano le parole del P. Salvatore Varone, della Compagnia di Gesù, nelle sue “Vesuviani incendii Historiae”:

“Il primo torrente precipita verso occidente minacciando la città di Napoli, e poco mancò che non assorbisse con sinistro soffio la scarsa perennità del Sebéto; imperocché precipitando pei sottoposti confini di Barra e di S. Giorgio, dapprima dòmina su la via règia presso Pietrabianca, indi prorompe nel Tirreno a due miglia lungi da Napoli, dove s’innalza una chiesa della gran Regina che, soccorrendo con somma benignità ai voti de’ mortali, dal popolo è invocata sotto il nobile titolo di S. Maria del Soccorso (si tratta appunto della chiesa della Madonna del Soccorso, fondata nel 1517 in S. Giovanni a Teduccio, dove ancor oggi vi è una lapide commemorativa dell’evento) ”.

L'eruzione del Vesuvio del 1631

Le descrizioni dei cronisti – Il Capitano de Contreras

29. Il capitano spagnolo Alonso de Contreras, che si trovava a Nola, così descrive [16]:

“Una mattina, martedì 16 dicembre, si vide un gran pennacchio di fumo sulla montagna... ed a mano a mano che avanzava il giorno, il sole si oscurò e cominciò a tuonare ed a piovere cenere. La gente, vedendo che tutto il giorno e anche la notte continuava a piover cenere, cominciò a spaventarsi e ad abbandonare la città.

Fu quella una notte così orrenda che credo non ci sia l’uguale neanche il giorno del giudizio; non solo cenere, ma cadevano dal cielo anche pietre infuocate, come le scorie che cavano i fabbri dalle fucine, grandi quanto una mano ed anche di più. Oltre a ciò, si ebbero quella notte violente scosse di terremoto che fecero crollare molte case; i cipressi e gli aranci si squarciavano come se fossero partiti da un’ascia di acciaio.

Tutti gridavano “Misericordia !” che faceva proprio pena udirli. Ed era una pena che non so dirvi, vedere la poca gente ch’era rimasta, scarmigliate le donne, ed i bambini che correvano di qua e di là, mentre da una parte bruciava una casa e dall’altra ne cadevano due; anche quelli che volevano scappare non sapevano dove andare, perché affondavano nella cenere e nella terra infocata...

Al fuoco e alle ceneri che non cessavano di piovere si aggiunse anche l’acqua, perché cominciò a precipitare dalla montagna un torrente così impetuoso che solo il rumore infondeva terrore...

Il venerdì volle il Signore che piovesse acqua dal cielo, mista con terra e cenere; e si formò al suolo una melma così compatta e dura ch’era impossibile romperla anche con zappe e picconi... E così passammo il Santo Natale, mentre il Vesuvio continuava a vomitar fuoco”.

La Barra nella tragedia del 1631

30. Anche gli abitanti di Barra cercarono scampo verso la vicina città.

“Essi presero la volta di Napoli: ma non vi arrivarono soli. Il Viceré, saputo di molti che, scampati dalle ruine e dal fuoco, si erano raccolti sui lidi della Torre, di Resina e di Portici, mandò due galee perché li traghettassero alla Città: e così, tra quelli che andarono colà per terra, e quelli che vi andarono per mare, si contarono presso a 15.000 persone.

Dicono gli scrittori di quei tempi, e si intende da sé, che era uno spettacolo degno di compassione vedere quel sì gran numero di miseri, quali mezzo nudi con le vesti bruciate, quali con qualche mano mozza o con qualche braccio monco, quali cercando inutilmente il padre, la madre, la moglie, il figlio perduto. Tutti languivano della fame, ed essendosi sparsi per la città in cerca di alcun ristoro, vi produssero una confusione indescrivibile.

I preposti alla pubblica beneficenza, accorsero tostamente in loro aiuto, e mille dei più miserabili presero a loro carico, ricoverandoli nel recinto delle scuole.

A questa loro carità si unì quella dei privati. Il Monte della Misericordia ne ricettò tremila, parte in un’ampia casa posta nel luogo detto S. Gennaro fuori le mura, e parte nei contorni della Madonna dell’Arco. Il Monte dei Poveri Vergognosi raccolse quanti poté, dei più riguardevoli per nascita o per impieghi, nell’Albergo dei Pellegrini, fàttosi cedere per questo dalla celebre Congregazione dello stesso nome fondata da S. Filippo Neri. Alcune nobili e ricche matrone aprirono a buon numero di onorate donzelle le porte di un edifizio che in un tratto apprestarono per esse presso la chiesa e monistero di S. Severino. E così altri, che a volerli noverare tutti a uno per uno sarebbe un non finire giammai” [17].

31. I nostri di Barra, essendo abbastanza vicini a Napoli, furono certamente fra quelli che si rifugiarono in città “per terra”, andando a piedi, con asinelli o con poveri carrettini, attraverso il ponte della Maddalena sul fiume Sebéto, come si vede nella illustrazione fàttane da Joackim von Sandrart alcuni anni dopo.

32. Comunque, dopo i primi provvedimenti di assistenza elencati sopra dal Palomba, non furono prese dalle autorità altre misure di aiuto o di coordinamento. Trascorsi una quarantina di giorni, i profughi cominciarono a rientrare nei rispettivi Casali, e dovettero fare (ovvero ri-fare) tutto da soli.

33. I Barresi trovarono, a conti fatti, che il loro Casale era stato, nonostante tutto, meno colpito di altri. S. Giorgio a Cremano, ad esempio, era stato quasi completamente distrutto, e la sua chiesa parrocchiale invasa da una lava di “acque boglienti miste a sassi ed arene infocate”, che aveva incenerito sessanta persone che ivi si erano rifugiate [18].

34. A Barra, invece, la lava non arrivò, anche se il Giuliani [19] narra che: “Barra, che era stata toccata appena dai torrenti di fuoco e cenere, veniva dalle grosse correnti d’acqua allagàta, e negli alberi e negli edifici stranamente e crudelmente abbattuti, mediante le grossissime pietre che seco ne portavano; anzi, dovunque somiglianti piene strabocchevolmente passavano, diversi valloni, dove più dove meno profondi, horridamente si aprivano”.

35. Comunque, non subirono danni sostanziali gli edifici che cominciavano a costituire gli “elementi di identità” del Casale: rimasero indenni le chiese (la parrocchiale, S. Atanasio, S. Maria delle Grazie dei Francescani, S. Maria della Sanità dei Domenicani) e le case principali (la villa del Roomer, villa Amalia, villa Filomena...).

Il colpo subìto, soprattutto dai più poveri, era stato però molto duro: le misere abitazioni dovettero essere ricostruite in pratica da capo, ed i campi devastati dovettero essere faticosamente recuperati, ove possibile, alla coltivazione.

Il Villaggio di San Martino si stacca da Barra: “le Pagliàre”

36. Si è detto [20] che la chiesa di S. Martino (appartenente al casale di Casavaleria), già alla fine del Cinquecento, era ormai diroccata.

Continuava ad esistere, però, il piccolo gruppo di case che da essa prendeva il nome e che, come tutto il casale di Casavaleria, era stato unito a Barra intorno alla metà del Cinquecento.

In occasione della eruzione del 1631, alcuni sopravvissuti abitanti di S. Giorgio, non potendo subito ricostruire le loro case là dove in precedenza erano, si insediarono nelle campagne a monte di S. Martino, nel luogo ancor oggi detto “le Pagliàre” dal nome delle prime abitazioni provvisorie che essi si costruirono.

Si stabilirono, quindi, rapporti molto stretti fra costoro e gli abitanti di S. Martino; in tal modo, gradualmente, quest’ultimo si staccò da Barra e fu aggregato a S. Giorgio a Cremano, come è tuttora.

Da notare, però, che le rendite dei terreni annessi alla chiesa diroccata rimasero sempre a beneficio della parrocchia di Barra [21].

La protesta dei Casali nel 1637

37. Erano ancora tutte aperte le ferite provocate dalla catastrofe naturale (l’eruzione), quando arrivò nei Casali la notizia di una vicina catastrofe sociale.

38. Nel 1637, il viceré conte di Monterey giunse infatti alla determinazione di procedere alla vendita di tutti i Casali ancora demaniali (fra i quali era anche la Barra).

Il viceré aveva bisogno di soldi, per soddisfare le richieste che continuavano a provenire dalla Spagna, nonostante la condizione di prostrazione in cui si trovava la città in seguito all’eruzione. Pensò quindi di poter conseguire un rapido “realizzo”, vendendo anche quei Casali vesuviani che costituivano ormai, per lui, solo una fastidiosa incombenza, visto che le rendite da essi provenienti erano di molto scemate in seguito alla catastrofe.

39. Il viceré non aveva però compreso che la capacità di sopportazione delle popolazioni era quasi del tutto esaurita e gli animi erano assai vicini alla rivolta.

Contro la sua decisione, i Casali di Torre del Greco, Resina, Portici, S. Giorgio a Cremano, S. Giovanni a Teduccio, Barra, La Villa, Ponticelli, S. Pietro a Patierno, Casoria, Arzano, Afragola, Casalnuovo, Cardito, Frattamaggiore, Pomigliano, Grumo, Casandrino, Mugnano, Panecocoli, Marano, Polvica, Piscinola, Chiaiano, Marianella, Mianella, Miano, Secondigliano, Posillipo, Soccavo, Pianura e la stessa Napoli, sollevarono una forte opposizione legale, con una formale e generale protesta, richiamandosi a tutte le norme e “privilegi” ad essi storicamente riconosciuti, ed arrivando in alcuni luoghi anche alla sollevazione armata [22].

40. Per sua buona sorte, il Monterey venne richiamato in patria e, il 13 novembre 1637, lasciò l’incarico (e la bollente “patata”) al suo successore Ramiro Nunez de Guzman, duca di Medina de las Torres (1637-1644).

41. Il duca di Medina riuscì ad imporre la conferma della deliberazione del suo predecessore, ma... una cosa era il decidere di vendere, tutt’altra cosa era il vendere di fatto.

Per far ciò, infatti, bisognava anzitutto trovare il compratore, poi mettersi d’accordo sul prezzo e sulle condizioni della vendita, poi procedere alla esatta confinazione del territorio che si vendeva, poi ottenere la conferma da parte di Madrid, etc. etc.

Considerato, inoltre, che i Casali erano in subbuglio e che le rendite dei loro terreni, dopo l’eruzione, erano divenute assai meno appetibili per i possibili compratori, non stupisce affatto il constatare che le cose andarono piuttosto per le lunghe.

42. Basti qui menzionare il caso di S. Giorgio a Cremano, documentato dal Palomba [23]: solo il 25 settembre 1645 giunse da Madrid il diploma con il quale questo Casale veniva concesso in feudo ad Antonio Caracciolo, a condizione peraltro che si procedesse alla confinazione.

Ma sia la “Universitas” del Casale, sia la vicina Pietrabianca, sia la stessa città di Napoli, elevarono opposizione legale contro la decisione, con varie e diverse motivazioni, giungendo fino a sostenere la nullità della concessione fatta al Caracciolo, e solo il 4 febbraio 1647 si addivenne ad una transazione tra la “Universitas” di S. Giorgio ed il suo aspirante feudatario, per mano del notaio Brancale.

Ormai, però, era alle porte la generale sollevazione delle plebi, nota col nome di Masaniello, e dopo... nulla poté più essere come prima.

presunto ritratto di Masaniello

43. Dopo la sollevazione di Masaniello, per placare gli animi ed evitare ulteriori turbolenze, il Serenissimo Don Giovanni d’Austria, figlio naturale del re, inviato apposta da Madrid, “mise fuori” (11 aprile del 1648) una serie di “grazie” per la “fedelissima città di Napoli, le Università ed uomini tutti del Regno”.

Fra queste, ve n’era una che così diceva: “Facciamo anco grazia a tutti li Casali di questa fedelissima città di Napoli, che si possano ricomprare (cioè, ritornare al demanio), pagando il prezzo o migliorazioni fatte... dispensando per questa volta... da ogni altra legge in contrario” [24].

44. Se dunque venne concessa ai Casali già infeudati, come S. Giorgio, la facoltà di riscattarsi tornando in demanio, a maggior ragione si può ritenere che non si procedesse ad ulteriori vendite di quei Casali che erano rimasti demaniali.

Tale era il caso di Barra, che infatti non fu mai venduta, rimanendo costantemente in demànio anche in quei perigliosi frangenti.

45. Dalle carte della lite riguardante S. Giorgio, si evince infatti [25] incidentalmente che, ancora nel 1646, la Barra, S. Giovanni a Teduccio e Pietrabianca erano “burgo e piazza di detta fedelissima città” di Napoli, cioè erano ancora demaniali; ed abbiamo già escluso che possano essere stati venduti dopo (vedi, peraltro, quanto avvenne nel 1678: n°122). Così, ormai nel 1794, il Galanti registrerà 20 Casali demaniali e solo 10 baronali [26].

46. Ma veniamo ora a dire, più per esteso, di quella sollevazione di Masaniello che, come si è visto, anche per i Casali produsse qualche frutto positivo.

La “sollevazione” di Masaniello nel 1647

47. Il cardinale Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli dal 1641 al 1666, così scriveva al papa Innocenzo X (1644-1655), per informarlo degli eventi:

“Questa sollevazione ebbe principio da venticinque in trenta fanciulli, ciascheduno dei quali non passava li quindici anni, e che si erano uniti nella piazza del mercato, con le canne in mano, per fare una festa, solita farsi ogni anno, con alcuni giuochi puerili, in onore della Beatissima Vergine.

Detti fanciulli, trovatisi a caso presenti al luogo dove si pagava la gabella dei frutti, mentre per certa differenza occorsa col gabelloto ne furono gettati via alcuni sportoni, prèsane buona parte, ne facevano allegrezza grande fra loro.

Un tal Masaniello pescatore, giovane di venti anni (precisamente, 27), ch’era anche lui presente, fàttosi capo di detti fanciulli e di altri che accorsero e s’unirono, e montato sopra di un cavallo che stava nella piazza, disse che si levi la gabella dei frutti.

Ad un batter d’occhio, si unirono con lui migliaia e migliaia di persone di popolo, e tutte sotto la sua guida s’incamminarono verso il palazzo del viceré; per strada givano sempre crescendo, onde in poche ore arrivarono al numero di cinquanta in sessantamila, e si sollevò tutta la città, e fu domenica 7 del passato (luglio 1647), conforme scrissi a Vostra Santità” [27].

Le premesse

48. In effetti, è evidente che le popolazioni del regno avevano ormai esaurito le loro, pur secolari, riserve di sopportazione e di pazienza nei confronti dell’oppressione di aristocratici e borghesi, tanto stranieri che indigeni.

Sia l’immensa plebe della città che i contadini delle campagne (“padulani” o “cafoni” che fossero) avevano ormai accumulato, in diversi modi e tempi, troppi motivi di malcontento, dai quali non si intravedeva alcun’altra via di uscita se non quella della rivolta.

49. La goccia che fece traboccare il vaso fu la famosa “gabella dei frutti” che il viceré in carica, Rodrigo Ponce de Leon, duca d’Arcos (1646-1648), quale uno dei primi atti del suo governo, aveva re-introdotto, dopo che era stata abolita nel 1619 dal viceré Pedro Tèllez Giròn secondo duca di Ossuna.

50. Subito dopo, vi furono attentati contro alcune baracche dove si riscuoteva la gabella e, il giorno 26 dicembre 1646, una folla inferocita bloccò la carrozza del viceré, davanti alla basilica della Madonna del Carmine, mentre questi si recava alla Messa per le festività natalizie; in quel pericoloso frangente, il duca d’Arcos promise di abolire l’odiosa gabella ma “ovviamente”, una volta messosi in salvo, non mantenne la promessa fatta.

La domenica 7 luglio 1647

51. Si giunse così alla domenica 7 luglio 1647. A quanto pare, l’episodio che diede il via alla sollevazione non fu così “a caso” come allora poté sembrare.

L’incidente con il “gabelloto” fu provocato ad arte da un certo Maso Carrese, di Pozzuoli, che era cognato di Masaniello, ed anche la festa dei ragazzi in onore della Madonna del Carmine, pur usuale, era stata quell’anno organizzata dallo stesso Masaniello, come risulta dalla “Cronistoria del Real Convento del Carmine Maggiore di Napoli”, la quale attesta che un certo fra’ Savino, un converso carmelitano amico del pescivendolo, gli aveva prestato 20 carlini (poi restituiti) per comprare le canne necessarie per la festa.

Giulio Genoino

52. Ma soprattutto, “ne’ primi mesi del 1647, fu veduto spesse volte, verso l’imbrunire, stringersi a secreto colloquio con Masaniello nella chiesa del Carminello al Mercato... un vecchio, in abito da prete e con lunga barba...” [28].

Era questi l’ormai ottantenne Giulio Genoino, giurista oltre che prete.

In gioventù, era stato “Eletto del popolo” e, alleandosi con l’ambizioso e già menzionato vicerè Pedro Tèllez Giròn, secondo duca di Ossuna (1616-1620), non solo aveva allora conseguito l’abolizione della gabella sulla frutta, ma aveva cercato di perseguire un ben preciso progetto politico di riforma, consistente nella richiesta di parità di voti fra nobili e popolo nell’amministrazione della città.

La richiesta era, per l’epoca, decisamente molto avanzata ed anzi sconvolgente per gli equilibri del potere, come si vide dalle fortissime resistenze che incontrò e che ne determinarono la sconfitta.

53. Il duca di Ossuna venne dimesso dall’incarico ad opera della corte di Madrid e, tornato in patria, venne addirittura processato e finì i suoi giorni in prigione, nel 1624; anche il Genoino subì varie traversie, persecuzioni ed una lunga carcerazione, che non valsero tuttavia a fiaccare il suo spirito di convinto oppositore dell’aristocrazia.

54. Ora, vecchio ma non domo, egli “aveva scorto l’influenza che il giovane pescivendolo esercitava sulla plebe del Mercato e del Lavinaro, l’avversione che nutriva contro i nobili ed i prepotenti, l’animo pronto ed ardito, ed il buon senso che nascondeva sotto le apparenze della spensieratezza e della buffoneria; lo indettava, quindi, e lo preparava a’ futuri casi ed a’ moti facilmente prevedibili” [29].

La settimana del popolo: 7-13 luglio 1647

55. Da queste premesse, nacque la sollevazione del 7 luglio, al grido di “Viva il re e muoia il mal governo!”

Per una settimana, fino al sabato 13 luglio, Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, nato il 29 giugno 1620 in Vico Rotto al Mercato, da Cicco d’Amalfi e Antonia Gargano, di professione pescivendolo, fu il vero capo della città, alla testa della plebe.

56. Il cardinale Ascanio Filomarino ne dà questa positiva testimonianza:

“Questo Masaniello... ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; in somma era divenuto un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea, e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri.

La confidenza ed osservanza e il rispetto ch’egli ha avuto in me, e l’ubbidienza che ha mostrato in ordinare e far eseguire tutte le cose che gli venivano dette e suggerite da me, è stato il vero miracolo di Dio in questo così arduo negozio, il quale era altrimenti impossibile di condurre a fine in sì poche ore, come si è fatto, con tanta lode e gloria di Sua Divina Maestà e della Beatissima Vergine che l’hanno guidato e protetto” [30].

57. “Un drappello di circa 50 garzoni e fanciulli, capitanati da Giovanni d’Amalfi a cavallo, eseguiva fedelmente gli ordini di Masaniello.

Scalzi, in sola camicia e mutande di tela, e col berretto rosso in testa, essi, facendosi ministri di una nuova giustizia, andavano processionalmente per le vie, preceduti da uno stendardo (pennone), nel quale si vedevano dipinte le armi reali di Spagna, e portavano chi torce di pece, chi graffii o forcine, chi solfanelli, fascine impeciate ed altre cose bisognevoli ad accendere, e chi finalmente picconi e sciamarri.

Erano cenciaiuoli o bazzareoti (venditori ambulanti di commestibili), gente della più vile e povera condizione, che viveva stretta ed ammucchiata in alcuni di quei luridi covìli del Mercato e del Lavinaro, che si dicevano e si dicono tuttora fòndachi, e che la progredita civiltà ha ora diminuiti, o in buona parte migliorati, ma non ancora interamente distrutti.

Laceri e seminudi, furono i primi che allora si chiamassero làzzari [31], e questo nome, che i superbi dominatori spagnuoli diedero loro come un’ingiuria, i plebei sollevati della città e del regno, imitando i bruzii dell’antica Italia ed i gueux delle Fiandre, lo adottarono volentieri, come un titolo onorifico, e come un distintivo di animo libero ed indipendente” [32].

58. Oltre a quella, sopra descritta, guidata da Giovanni d’Amalfi, fratello di Masaniello, il Capasso menziona “sei compagnie, comandate da Scipione Giannattasio del Lavinaro e da altri capitani più fedeli. Componevansi di giovinetti da 16 a 22 anni, antichi compagni del pescivendolo, per lo più cenciaiuoli o saponari, che portavano ordinariamente come special distintivo il graffio e la sporta”.

59. Durante quella settimana, i drappelli di lazzari procedettero a devastare e bruciare tutti gli uffici del dazio (i luoghi dove si pagavano le gabelle) nonché le ricche abitazioni dei più noti “arrendatori” e di coloro che “si erano arricchiti sulla fame del popolo”, incluso quella dell’ “Eletto del popolo” allora in carica, Andrea Naclerio, accusato (ed era vero) di essere corrotto dagli arrendatori.

60. Fra gli altri, anche l’arrendatore Gaspare Roomer giudicò opportuno, in quei giorni, lasciare il suo palazzo di città, sito in via Monteoliveto, e rifugiarsi nella sua villa alla Barra [33].

61. Infine, il sabato 13 luglio, il viceré giurò sui Vangeli, in Duomo, di rispettare e far rispettare i nuovi “Capitoli”, dettati dal Genoino, che comprendevano sia la liberazione dalle “gravezze” (l’abolizione di tutti i dazi imposti dopo Carlo V), sia la parità fra nobili e popolo nell’amministrazione della città.

La reazione: uccisione di Masaniello (martedì 16 luglio 1647)

62. Passata però quella inaudita settimana di egemonia popolare, viceré, nobili e ricchi borghesi cominciarono a riprendersi dallo sconcerto e ad organizzare adeguatamente la loro reazione.

63. A dar loro una mano, sopravvenne in Masaniello un vero e proprio stato di squilibrio mentale: “la gran mole dei pensieri, la lunga inèdia, l’abuso del vino e le veglie protratte, e forse, più che tutto ciò, il veleno dell’adulazione, di cui era stato così largamente abbeverato dal viceré, perturbarono il suo cervello” [34].

Egli cominciò a compiere azioni strane, quali denudarsi in pubblico, orinare davanti a tutti in un angolo prima di entrare in Duomo, tenere discorsi sconnessi.

Soprattutto, però, ordinò atti arbitrari: stragi, esecuzioni sommarie senza motivo, devastazioni e confische ingiustificate di beni, che suscitarono disgusto e paura nei suoi stessi sostenitori ed alleati.

64. Di conseguenza, andò a buon fine la trama ordita dal viceré, con il tacito consenso dello stesso Genoino e la attiva complicità dell’ex -”Eletto del popolo” Andrea Naclerio e di alcuni stretti collaboratori di Masaniello, invidiosi del suo potere o comprati dal viceré.

65. Il martedì 16 luglio (festa della Madonna del Carmine), mentre il cardinale Ascanio Filomarino celebrava Messa al Carmine Maggiore, davanti ad una strabocchevole folla, Masaniello si mise ad arringare il popolo.

“I frati lo invitarono a porre termine a quel gesto poco edificante, ed egli obbedì, mettendosi a passeggiare nel corridoio principale del convento, al primo piano.

Là lo raggiunsero ben otto persone armate, che prima gli tirarono quattro colpi di archibugio, privandolo di vita, poi lo decapitarono.

La testa, mostrata al viceré, fu portata alle Fosse del Grano; il corpo, dopo essere stato trascinato in ludibrio per le strade, fu gettato in un fosso qualsiasi della città.

66. Non erano passate ventiquattr’ore e subito si videro i frutti dell’uccisione di Masaniello: il peso del pane diminuito e le gabelle rimesse in vigore.

Compreso il male commesso contro il suo difensore, il popolo ne raccolse il cadavere, lavandolo nelle acque del Sebéto; vi riunì il distaccato capo, e lo trasportò al Carmine...

Quindi si vide uscire dal Carmine un corteo di ben 400 preti, e 100 ragazzi del celebre conservatorio di S. Maria di Loreto; seguiva il cadavere (vestito con le insegne di Capitano Generale) e, dietro, il bel numero di 4000 soldati ed un popolo che non finiva mai.

Dopo un lungo giro per la città, il mesto corteo rientrò nel Carmine a tre hore di notte, come allora si diceva, e Masaniello fu sepolto nello spazio tra il lato sinistro della balaustra dell’altare maggiore e la cappella detta del presepio, oggi di S. Ciro” [35].

Le fasi della rivolta dopo la morte di Masaniello

67. La rivolta popolare non si spense però con la morte di Masaniello, deludendo così sia l’assassino e spergiuro viceré d’Arcos, sia l’astuto Giulio Genoino che pensava adesso di poter guidare il popolo, senza Masaniello, secondo i suoi progetti. Non è però questo il luogo per narrare dettagliatamente le vicende, così intense, che si svolsero appresso; bastino quindi i pochi cenni che seguono.

68. Il 21 agosto si ebbe una seconda fase della sollevazione, al grido non più di “Viva il re e muoia il malgoverno” ma “Viva il popolo e morte agli spagnuoli” : si arrivava quindi alla guerra aperta contro i dominatori, fino a quando il viceré, il 7 settembre, giurò nuovi capitoli d’intesa.

69. Questa seconda fase della rivolta travolse il vecchio Genoino, che il popolo riteneva complice nell’uccisione di Masaniello e che il viceré allontanò da Napoli, facendolo imbarcare per la Spagna, dove però giunse cadavere, per i tanti travagli subìti alla sua veneranda età.

70. Ma presto fu evidente che il viceré non intendeva mantenere nemmeno i nuovi giuramenti fatti.

Il primo ottobre giunse nel porto la flotta guidata da don Giovanni d’Austria, figlio naturale del re Filippo IV di Spagna. Istigato dal viceré, il giovane comandante intimò al popolo di consegnare le armi e, avùtane risposta negativa, iniziò a cannoneggiare la città.

71. La situazione si radicalizzava, in tal modo, sempre di più; il 22 ottobre il popolo proclamava la “serenissima real repubblica”, invocando alla sua guida il francese Enrico di Lorena, duca di Guisa, che approdò al ponte della Maddalena il 15 novembre, accolto dal grido “Viva Dio e il popolo”.

72. La guerra fra le due parti continuò, con tutti i mezzi delle armi, delle astuzie, della diplomazia e dei tradimenti, fino al 6 aprile del seguente anno 1648, quando gli spagnoli ripresero interamente la città ed il Guisa fu fatto prigioniero.

73. Nel frattempo, il 24 gennaio 1648, il duca d’Arcos era stato richiamato in patria ed al suo posto nominato viceré, a partire dal primo marzo, Inigo Velez de Guevara, conte di Onate (1648-1653), che ebbe l’ingrato compito di gestire la “normalizzazione” spagnola.

La Barra nella rivolta di Masaniello

74. Nicola Lapegna riporta i nomi di due giovani barresi, Silvestro Mastrogiacomo e Raffaele Fiscone, “noti per audacia e coraggio dimostrato e per la loro fedeltà e grande attaccamento a Masaniello nei sei giorni della sua dominazione” [36].

75. Al di là di questi nomi, comunque, è del tutto plausibile che in quei drappelli di giovani e ragazzi che componevano “l’armata” di Masaniello, oltre che naturalmente nel gran mare di vasto popolo che lo seguì, vi fossero anche “padulani” della Barra, che si recavano abitualmente a Napoli per smerciare i prodotti della loro terra ed avevano quindi stretti rapporti con i lazzari, cenciaiuoli, bazzareoti o saponari che fossero.

76. D’altronde, la rivolta non tardò ad estendersi anche ai Casali di Napoli, nei quali, come si è detto, non mancavano motivi specifici di malcontento [37], sia per l’aggravarsi anche in quei luoghi delle gabelle, in dispregio degli antichi privilegi goduti, sia soprattutto dopo la risoluzione di vendita del conte di Monterey.

77. Dell’estensione dei tumulti anche a Barra è testimonianza la vicenda del Roomer, riportata dal Ceci nella sua biografia:

78. “Gaspare Roomer, ancora il 16 luglio 1647 (giorno della morte di Masaniello), si trovava nella sua villa alla Barra come in luogo di rifugio, raggiunto dopo aver lasciato il suo palazzo napoletano, sito alla via Monteoliveto (vedi n°60).

Qui ebbe, appunto il 16 luglio, la visita di un converso carmelitano, fra’ Savino, confidente di Masaniello (vedi n°51) che, con un ordine scritto dal segretario di questi, Marco Vitale, gli impose di consegnare 5000 zecchini per servizio di Sua Maestà.

Il denaro fu subito sborsato, dietro regolare ricevuta; ma il converso, giunto al ponte della Maddalena, seppe della morte di Masaniello avvenuta proprio in quel giorno e, paventando un eguale destino, se ne fuggì a Roma col peculio.

Il denaro fu poi in buona parte recuperato dal Roomer, che era stretto in vincoli di amicizia coi superiori e con parecchi padri dell’Ordine Carmelitano”.

79. Ma “presto, anche la dimora alla Barra non sembrò sicura” per un ricco arrendatore come lui, ed egli lasciò anche questa, riparando in Castel Nuovo insieme ad altri notabili cittadini e poi addirittura su una nave di sua proprietà al largo del golfo.

80. E’ molto probabile che il Roomer lasciasse la Barra dopo che, il 21 agosto, ripresero i tumulti e la rivolta popolare entrò in una nuova ed ancora più turbolenta fase, che sfociò in aperta guerra civile.

81. E’ fuori dubbio, quindi, la partecipazione di Barra e di Barresi alla sollevazione del 1647 e tale partecipazione non fu inutile, viste le concessioni, anche a vantaggio dei Casali, che il plenipotenziario spagnolo, don Giovanni d’Austria, fu costretto a fare dopo quelle memorabili giornate (vedi nn°43-44).

Micco Spadaro, "La rivolta di Masaniello". Napoli, Museo di San Martino

La grande peste del 1656

82. Salvatore de Renzi [38], “che raccolse con molta diligenza in un sol volume tutte le notizie che intorno alla peste del 1656 poté rintracciare sia nei libri stampati, sia in memorie e documenti inediti” scrive che i morti in Napoli furono 450.000, su una popolazione stimata, intorno alla metà del Seicento, di circa 500-550 mila persone. Il Capasso restringe le vittime a 350-400 mila. In ogni caso, si tratta sempre di ben più della metà della popolazione allora presente (morirono, in pratica, circa 7 persone su ogni 10).

Micco Spadaro, "Piazza Mercatello durante la peste del 1656". Napoli, Museo di San Martino

83. Questo semplice dato è sufficiente a dare le dimensioni della drammaticità dell’evento che, appena nove anni dopo la sollevazione di Masaniello, sopraggiunse ad unificare oppressi ed oppressori nella comune fragilità della condizione umana, facendo molte più vittime, anche nei nostri Casali, della pur disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631.

84. Erano certamente le precarie condizioni igieniche, la promiscua convivenza di uomini e bestie, la disastrosa condizione abitativa e, in città, il pauroso addensamento della popolazione su aree ristrette, le condizioni che favorivano la recrudescenza della peste, del resto endemica fin dal Trecento in tutta Europa [39].

85. A quel tempo, come ovvio, le interpretazioni furono diverse: parlarono, alcuni, di veleni sparsi volutamente dal viceré e dalle classi dirigenti, per trarre vendetta dei recenti tumulti; dissero, altri, di una giusta punizione del Cielo stesso per le violenze e le disobbedienze allora compiute.

86. Certo è che il medico Giuseppe Bozzuto, che aveva per tempo compreso il pericolo ed avvisato le autorità affinché si prendessero le possibili precauzioni, fu addirittura fatto imprigionare dal viceré Garcia de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo (1653-1659), come perturbatore della pubblica quiete. Il Bozzuto fu poi liberato quando la peste scoppiò, essendosi verificato che aveva ragione, ma ne morì lui stesso poco dopo.

87. Lo stesso viceré, nei primi giorni della pestilenza, per stornare i sospetti che il popolo nutriva sulle autorità, pubblicò “che vi erano cinquanta persone che in abiti mentìti andavano seminando le polveri velenose”, appositamente inviati dalla Francia e dal Portogallo, nazioni nemiche della corona spagnola [40].

88. “Allora sì che i poveri forestieri la passarono male: poiché bastava portare l’abito, le scarpe, il cappello, la cappa, o qualche altra cosa differente dall’uso comune de’ cittadini, per correr pericolo della vita.

All’uscir della chiesa di S. Maria di Costantinopoli in Napoli (quella stessa nella quale si andava ad implorare la Madonna contro la peste: vedi n°106) v’inciampò un tal Vittorio Angelucci, molti preti e diversi mendìchi, e tra questi un infermo uscito poche ore prima dallo Spedale della SS. Annunziata, che a colpi di bastone perdé la vita.

Una povera donna, la quale in mezzo al Mercato si spolverava la gonna, fu fatta in pezzi insieme con un bambino ch’ haveva in braccio” [41].

89. “Intanto la peste continuava la sua opera sterminatrice. Si moriva con uno starnuto, col solo dare un sospiro, con vertigini. L’infermo era assalito da tremore, gli venivan meno immediatamente le forze, e seguiva subito la morte.

I morti eran così numerosi, che furon fatti uscire dalle carceri i ladri ed i banditi, perché trasportassero o trascinassero i cadaveri.

Abbiam detto trascinassero perché spesso si era costretti proprio a tirar per terra, con un uncino, i poveri colpiti e spesso tra i cadaveri furon trovati esseri che davano ancora segni di vita” [42].

90. Furono allestiti almeno dieci ospedali e parecchi lazzaretti, tra i quali uno a Borgo Loreto. Presto, non bastarono più le usuali sepolture sotto le chiese e furono scavate grandi fosse comuni.

91. S. Maria degli Angeli, all’Orto botanico, viene tuttora detta “alle croci”, perché lungo la salita davanti alla chiesa venne in quell’anno scavata una enorme fossa comune per seppellirvi i morti, e sopra vi furono collocate numerosissime croci.

92. Così pure, le quattro fosse dell’annona nella grande piazza Mercato si colmarono di ben 47.000 corpi e, da quel tempo, il luogo ebbe la triste denominazione di “morticelli”. “La pietà dei superstiti chiuse allora la piazza con un muro di recinzione e tutte le sere vi si vedevano accesi innumerevoli lumini” [43].

 Micco Spadaro Rendimento di grazie dopo la peste (I monaci di San Martino rendono grazie per lo scampato pericolo della peste, 1657). Napoli Certosa e Museo Nazionale di San Martino

La peste del 1656 a Barra

93. La peste, a Napoli e nel circondario, durò all’incirca dagli inizi di maggio fino ad ottobre. Il focolaio era Napoli, che però solo con molto ritardo venne isolata, per cui la malattia poté propagarsi anche nei Casali, portata dai padulani che andavano a vendere in città i loro prodotti.

94. La mortalità cominciò a crescere in giugno e raggiunse le punte massime nel periodo più caldo, il mese di luglio e la prima metà di agosto; poi, dopo un benefico acquazzone purificatore, iniziò gradualmente a diminuire. L’epidemia fu dichiarata ufficialmente scomparsa l’8 dicembre (festa dell’Immacolata).

95. Nel Casale della Barra, i registri parrocchiali riportano 183 morti (115 donne e 68 uomini), da confrontarsi con i dati dei tempi “normali”: 23 morti nel 1655 (l’anno prima) e 20 nel 1657 (l’anno dopo).

118 persone morirono nel solo mese di giugno, fra i quali anche il parroco Vincenzo Imperato, entrato in carica poco tempo prima, nel maggio 1654, e la cui firma compare per l’ultima volta sui registri in data 26 giugno 1656.

96. Il dato di giugno è probabilmente assai prossimo al reale, ma quello complessivo è certamente superiore a 183, perché la mortalità raggiunse le punte massime a luglio ed agosto e “quanti ne morissero nei mesi di luglio e di agosto non si può dire, perché i libri parrocchiali di quel tempo vanno a salti e a lacune; ciò che dimostra, che il numero degli infermi che si dovevano assistere e de’ morti che si dovevano seppellire tanto era grande, che non lasciava né tempo né testa per registrarlo” [44], data anche la morte del parroco.

97. Nel vicino casale di S. Giorgio a Cremano, nel mese di giugno morirono circa 140 persone (su una popolazione di 600) ed il Palomba [45] stima intorno a 300 il numero complessivo delle vittime.

Considerato che il numero degli abitanti di Barra era superiore (intorno alla metà del Seicento, può essere stimato intorno ai 1800, quindi circa il triplo di quelli di S. Giorgio) e che Barra si trovava più vicina a Napoli e quindi più prossima al focolaio dell’epidemia, sembra realistico congetturare intorno a 7-800 il numero complessivo delle vittime Barresi del flagello.

98. Non pare, quindi, che si arrivi a superare la metà degli abitanti, come invece (e di gran lunga) avvenne in Napoli, ma naturalmente la tragedia fu del tutto analoga, anzi forse peggiore, considerato che qui la terra aveva bisogno di braccia, per dare quei frutti che consentivano di sopravvivere.

Intere famiglie furono cancellate ed in quelle restanti nessuna vi fu che non piangesse morto un padre, una madre, un fratello, un figlio, una moglie, un marito... ”tolto al proprio amore e al proprio bisogno, di una maniera sì cruda, e senza verun riparo” [46].

99. Il luogo della sepoltura, sotto il pavimento della nuova parrocchia, l’accesso al quale era costituito dalla lapide con la scritta UNIVERSITAS 1642 che solo pochi anni prima era stata posta, si riempì quasi d’improvviso dei resti mortali di tante persone care, appartenenti ad ogni famiglia del Casale.

100. Vi furono certamente, come sempre in occasioni simili, episodi di violenza e di sciacallaggio, di appropriazione indebita dei beni delle famiglie estinte e addirittura di omicidio, ma risplendette anche quello spirito di fraternità che fa affrontare e superare insieme le sofferenze più gravi.

101. “Questa scena di morte, dispiegata con tanta solennità sugli occhi di tutti, valse in mano a Dio per operare la salute di molte anime qui nel Casale nostro, come tutto altrove nel regno. Lascio stare che niuno fu, il quale non s’affrettasse allora ad aggiustare le partite della sua coscienza, e tenersi preparato a quel che potrebbe essere di lui da un istante all’altro. Ma si videro anche, in ogni luogo, atti di pietà singolare sì privata che pubblica” [47].

102. In particolare, come abbiamo visto, il parroco Vincenzo Imperato seppe accompagnare e confortare il suo popolo nella tragedia, come vero pastore del gregge, fino a morire lui stesso nell’epidemia.

103. La ripresa fu comunque sorprendentemente rapida: il primo matrimonio successivo alla peste è registrato già in data 31 agosto 1656 e nel successivo anno 1657 il numero dei bambini nati fu di 108, superiore cioè alla media degli anni precedenti, che era di 80-90. Il nuovo parroco venne nominato nel novembre del 1656 e fu don Carlo Riccardo, che rimase poi in carica fino al 1684.

La chiesa di S. Maria di Costantinopoli in Barra

104. La più importante memoria storica, relativa alla grande peste del 1656, esistente in Barra, è la chiesa di S. Maria di Costantinopoli “allo Scassone”.

105. Si è già detto [48] della omonima e maggior chiesa presente in Napoli, collegata alla peste del 1526-28 ed a quella successiva del 1575, dalla quale la città ed il regno rimasero indenni. A partire dal 1575 e fino ai primi decenni del Seicento, venne edificata e progressivamente abbellita la grande chiesa napoletana dedicata MATRI DEI OB URBEM AC REGNUM A PESTE SERVATUM.

106. Si può facilmente immaginare quanto fosse estesa la devozione popolare verso quella particolare immagine della Madonna [49], considerato il fatto che la peste era fenomeno endemico, con frequenti recrudescenze.

In particolare, in occasione della grande peste del 1656, “tutto il popolo accorreva in quella chiesa dal sorgere al tramonto del sole, e le donne vi andavano scalze e scarmigliate, ed uno storico dice che imitavano i cori delle undicimila vergini di S. Orsola; alle quali seguivano innumerevoli coorti di matrone e turbe di uomini coverti di sacchi, con cilicii ed altri strumenti di penitenza; vedresti in ogni giorno, dice il Florio, dal nascere al tramonto del sole, sciami di persone pie che corrono a visitare questa chiesa” [50].

107. Nulla di strano, quindi, che anche gli abitanti del piccolo borgo di Barra detto “lo Scassone” ben conoscessero quel tempio napoletano e la particolare immagine di Maria in esso venerata e che, in occasione dell’infuriare della peste, si siano recati colà in pellegrinaggio per impetrare la fine del flagello.

108. Occorre ora dire che, già nel Cinquecento, nel borgo dello Scassone vi era una piccola immagine della Madonna delle Grazie, posta in una semplice nicchietta sul muro di una casa abitata da un certo Tommaso Mandaro.

Cessata la peste del 1656, le famiglie del luogo pensarono di edificare una chiesetta in ringraziamento a Maria, là dove c’era solo quella piccola immagine sul muro, e di intitolarla appunto alla Madonna “di Costantinopoli”, che “preserva dalla peste”.

La chiesetta venne aperta ufficialmente al culto nel marzo del 1658, come si rileva dagli Atti intercorsi fra la Curia diocesana e i “magistri” del posto, custoditi nell’Archivio Storico Diocesano.

109. L’immagine della Madonna delle Grazie intorno alla quale fu edificata la chiesa è ancor oggi visibile sulla parete, a sinistra di chi entra nella chiesa stessa.

Infatti, molto probabilmente, in occasione della costruzione, furono anche dipinti i due affreschi che attualmente si vedono e che sono tornati alla luce solo nel 1982 (al tempo del parroco don Salvatore Russo), nel corso dei lavori di restauro successivi al terremoto del 1980.

110. Il primo affresco completava la pre-esistente immagine mariana, aggiungendovi la figura di un prete che celebra Messa (ritratto al momento della elevazione dell’Ostia consacrata), assistito da due chierici in ginocchio; il secondo, sulla parete di fronte, è ormai del tutto sbiadito e se ne vede solo il margine esterno, ai due lati del quale si notano una figura maschile ed una femminile in abiti seicenteschi e, in alto, la colomba simbolo dello Spirito Santo.

111. La chiesa, nel 1658, era molto più piccola di quella che attualmente si vede; fu nel quinquennio 1849-54 che essa venne ingrandita di circa due terzi, come si dirà in seguito [51].

Dopo la peste

112. Lo spopolamento provocato dalla peste del 1656, anche se venne colmato in non molti anni da una vivace ripresa della natalità, contribuì comunque a rendere poco praticabili, e meno redditizi, ulteriori esosi prelievi fiscali.

113. Soprattutto però, dopo che la plebe ebbe preso coscienza della sua forza, dimostrata con la sollevazione di Masaniello nel 1647, i viceré successivi dovettero porre maggiore attenzione a non irritarla eccessivamente ed a perseguire una politica di maggiore equilibrio fra le diverse classi sociali.

114. Cosa, questa, che fecero soprattutto i due viceré che gli storici ritengono i più “illuminati” della seconda metà del Seicento e cioè Inigo Velez de Guevara, conte di Onate (1648-1653), il viceré della “normalizzazione”, e Gaspar de Haro, marchese del Carpio (1683-1687).

Ed il meno “illuminato” Antonio Pedro Alvarez de Toledo, marchese di Astorga (1672-1675), fu costretto ad introdurre in Napoli il gioco del lotto, quando ebbe bisogno di “qualche espediente per scorticare e non guastare la pelle” onde trovare i 350.000 ducati che gli erano stati richiesti dalla corte di Madrid [52].

Le congiure nobiliari

115. La controprova più convincente delle migliorate condizioni del popolo è data, forse, proprio dal fatto che a protestare e a ribellarsi, in questo periodo, furono principalmente i nobili, soprattutto con le due celebri congiure che, per così dire, aprono (1649) e chiudono (1701) la seconda metà del Seicento.

116. La prima, guidata da Alfonso d’Avalos, principe di Montesarchio, nel 1649, si poneva l’obiettivo di portare sul trono di Napoli proprio quel don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Filippo IV di Spagna, che l’aveva “pacificata” nel 1647-48, sconfiggendo il duca di Guisa [53].

117. La seconda, a carattere marcatamente filo-austriaco, fu detta “congiura di Macchia” [54] dal nome di Gaetano Gambacorta, principe di Macchia, e si svolse il 23-24 settembre 1701.

118. Entrambe queste congiure nobiliari, pur diverse tra loro, furono però egualmente retrograde: tendenti, cioè, a ripristinare una condizione di assoluto privilegio della nobiltà, che gli eventi storici avevano, sia pur parzialmente, messo in discussione; sicché il popolo, nella prima, non ebbe comunque parte attiva e, alla seconda, si rifiutò completamente di partecipare.

119. E’ molto significativa la celebre risposta, riferita dal Colletta [55], che un anziano plebeo dette a Saverio Panzuti, “Eletto del popolo” e partecipe della congiura di Macchia, quando questi si recò, insieme ad altri, in piazza Mercato per chiedere l’adesione del popolo.

120. Disse dunque il vecchio làzzaro: “Voi, Eletto, e voi, popolo, ascoltate. Sono molti anni che il malgoverno spagnuolo fu da noi scosso, movendoci Masaniello popolano. Stettero i nobili o contra noi o in disparte, e spesso vennero ad arringarci, come ora il nuovo Eletto, per ricondurci alla servitù, chiamandola quiete.

Io, giovinetto, seguitai le parti del popolo; vidi le fraudi dei signori, le tradigioni del governo, le morti date a’ miei parenti ed amici.

Io, vecchio ora che parlo, e assennato dal tempo, credo che in questa congiura di nobili debba il popolo abbandonarli, come nella congiura di Masaniello fu da’ nobili abbandonato.

Udite già gli assunti nomi di principe di Piombino, principe di Salerno, conte di Nola; e aspettatevi tanti altri ancora ignoti, ma che tutti sarebbero sopra noi nuovi tiranni.

Io mi parto da questo luogo; mi seguirà chi presta fede ai miei detti!” E restò vuota la piazza.

Un po’ di respiro… per non essere venduti (1678)

121. In un clima, dunque, di maggiore tranquillità sociale e di minor carico fiscale, anche il nostro Casale della Barra poté “respirare” un po’ di più.

122. Un bel po’ di “fiato” fu necessario per respingere un altro tentativo di “vendita a privati” di vari Casali, fra i quali La Barra, effettuato questa volta dal vicerè Fernando Fajardo, marchese de Los Velez (1675-1683): il Casale della Barra chiese di “rimanere in demànio” e lo ottenne, nel 1678, sborsando in cambio al vicerè la bella cifra di 8000 ducati [56].

123. Il “fiato” maggiore, però, fu utilizzato per portare a termine la chiesa parrocchiale.

La parrocchia “di S. Anna” nel Seicento

124. Il titolo ufficiale della parrocchia di Barra è “Ave Gratia Plena” ovvero A G P ovvero “SS. Annunziata”: lo stesso, cioè, dell’altra e maggior chiesa che si trova in Napoli [57]. Fin dalla sua fondazione, però, vi fiorì anche quella particolare devozione alla madre di Maria, onde la parrocchia stessa venne popolarmente detta “di S. Anna”.

125. Ancor prima che venisse posto il battistero nel 1697, risulta che vi fosse in parrocchia “...un quadro di S. Anna, la madre di Maria SS. ma, con lo suo Bambino e con S. Giuseppe e S. Gioacchino” che “se celebra per essere guarnito di ogni cosa necessaria...”, come si evince dagli Atti di Santa Visita del Card. Antonio Pignatelli nel 1689.

Gli Atti di Santa Visita del Card. Giacomo Cantelmo nel 1692 specificano: “La quarta cappella intitulata S. Anna, con l’imagini del Bambino, S. Anna, la Madonna, S. Giuseppe e S. Gioacchino … una fenestra con le vetrate, et avante alla detta cappella vi è una balagustrata di legname di noce”.

126. Il quadro raffigurava quindi bensì S. Anna, ma inserita nel contesto di una “foto di famiglia” che riprendeva tre generazioni: figlio (il bambino Gesù), genitori (la Madonna e S. Giuseppe) e nonni (S. Anna e S. Gioacchino).

127. Esso, quale che ne fosse il pregio artistico, si prestava perciò a quella che oggi si direbbe la “pastorale familiare”, perché proponeva, visivamente e sinteticamente, tutta una serie di valori cristiani della famiglia: l’unità e l’armonia fra le persone e le generazioni, la santità della procreazione e l’amore per i bambini, la fedeltà coniugale, il rispetto e la non-emarginazione degli anziani, la laboriosità e lo spirito di sacrificio, nel contesto di una fede in Dio semplice ma solida, alimentata dalla preghiera quotidiana.

128. Erano appunto i valori che la Chiesa intendeva infondere nelle famiglie e che furono sostanzialmente recepiti e vissuti dal popolo di Barra, dando vita alla sana famiglia contadina, ampia, compatta e patriarcale, che sarà il sostegno di molte generazioni per secoli, fino alla sua disgregazione operata, nel Novecento, dalle mutate condizioni sociali e culturali.

129. D’altra parte S. Anna, patrona delle partorienti ed invocata dalla donne sterili desiderose di avere un figlio, rappresenta in modo emblematico la maternità (forse più della stessa Madonna) nonché la femminilità vissuta nel contesto domestico, in dedizione al marito e ai figli.

Il P. Tommaso Auriemma e la confraternita dell’Annunziata (1640)

130. Il principale promotore della figura di S. Anna in Barra fu il padre gesuita Tommaso Auriemma, che ivi operò alacremente, in collaborazione con i vari parroci, per buona parte del Seicento.

131. Davide Palomba, anch’egli gesuita, scrivendo nel 1881, così delinea la figura del suo confratello vissuto due secoli prima:

“Quanto poi al P. Auriemma, era questi un uomo meritatamente stimato da ogni maniera di persone. Entrato nella Compagnia in età di anni diciotto, vi era riuscito insigne così nelle lettere come nella pietà.

E, per quello che si attiene alle lettere, ben lo attestano le Opere da lui stampate... delle quali Opere, alcune ebbero l’onore di varie edizioni, altre furono tradotte in diverse lingue.

Relativamente poi alla pietà, dicono le memorie rimasteci di lui, che egli era religioso per osservanza e per povertà esimio. Ma quello che lo rendeva più ammirevole era lo zelo per la salute delle anime. Perciò, dopo di avere insegnato lettere umane e teologia morale, ottenne dai suoi Superiori di poter dedicare il resto degli anni, che gli avanzavano, al sacro ministero; ed il campo dàtogli da coltivare furono questi paesi posti a poca distanza da Napoli.

Fosse pertanto la docilità della nostra gente, fosse la scossa salutare della eruzione (1631) e della peste (1656), certo è che il frutto da lui raccolto in queste parti fu copioso assai.

E ne è una prova convincente la riunione della Santissima Annunziata, alla quale nella Barra diede, quanto era da lui, forma ed essere di Sodalizio” [58].

132. “Venne in Barra il P. Tommaso Auriemma, gesuita, nel 1639 e nel 1640 fondò la Congregazione della SS. Annunziata”, come concordano i successivi Atti di Santa Visita.

133. L’Auriemma, quindi, noto e valente predicatore e formatore delle coscienze, venne in Barra la prima volta al tempo del parroco Francesco Antonio del Pozzo (1627-1654) e del card. Francesco Buoncompagno (1626-1641), nel periodo compreso fra l’eruzione del Vesuvio (1631) e la sollevazione di Masaniello (1647), e si adoperò allo scopo di costituire la confraternita secondo lo spirito del Concilio di Trento destinata a sostituire in tutto la precedente estaurìta.

134. Dagli Atti di Santa Visita già nel 1639 risulta infatti come promotore della congregazione “della SS. Annunziata”, che si riuniva naturalmente nei locali stessi della nuova parrocchia, anche se in quell’anno non aveva ancora un riconoscimento formale del proprio statuto da parte della Curia. Tale riconoscimento formale fu dato l’anno successivo (1640) e la confraternita, nel 1692, contava 187 iscritti (100 uomini e 87 donne), su un totale di circa 2500 “anime” Barresi registrate quell’anno.

135. Gli statuti dell’Annunziata di Barra prevedevano esplicitamente l’intervento permanente dei Gesuiti nella direzione spirituale della confraternita. Ora, occorre notare che l’Ordine dei gesuiti fu quello che, più di ogni altro, nel periodo successivo al Concilio di Trento, promosse la devozione verso S. Anna.

Tommaso Auriemma, in particolare, risulta autore di un’opera specifica, intitolata, secondo lo stile dell’epoca, “Historia panegirica delle attioni, glorie e gratie di S. Anna, Genetrice della Gran Madre di Dio Maria”, uscita a stampa nel 1665.

Si può quindi ritenere per certo che egli, nel processo stesso di formazione della confraternita laicale e di guida spirituale degli ascritti, procurò di instillare quell’amore verso la figura di S. Anna, che doveva poi così fortemente caratterizzare il Casale.

136. Collaboratore dell’Auriemma e co-fondatore dell’Annunziata in Barra fu il laico Gerolamo Pisa, che già faceva parte della analoga confraternita gesuitica della Purificazione in Napoli e risulta essere stato assegnato nel 1612, in qualità di “prefetto”, ad un’altra congregazione fondata nella chiesa del Carminiello al Mercato, aggregata a quella della Purificazione [59].

Evidentemente, il Pisa era un attivo collaboratore dei PP. Gesuiti e partecipava con loro alla fondazione di nuove confraternite, in particolare quando si trattava di “impiantarle” dal punto di vista organizzativo.

Giulio Cesare Cortese è il maggior poeta napoletano del Seicento

Vita di confraternita nella Barra del Seicento

137. La confraternita dell’Annunziata di Barra era “affiliata” non soltanto a quella detta “dei Catecumeni” di Napoli, come la maggior parte delle confraternite dei Casali, ma anche alla prestigiosa arciconfraternita romana “della Concezione” in S. Lorenzo in Damaso, che era la “capo-fila” di tutte le confraternite “della Dottrina Cristiana”, quelle cioè che si proponevano come scopo principale l’istruzione catechistica dei confratelli:

138. “… et particolarmente in essere instrutti nella sacra Dottrina Cristiana et in essere promossi a vita spirituale in frequenza de’ Santi Sacramenti et in esercitio di tutte le virtù cristiane”.

139. La catechesi prevedeva due momenti: quello dell’apprendimento della dottrina in occasione delle riunioni della confraternita; e quello dell’insegnamento agli altri della dottrina appresa. I padri di famiglia dovevano cioè insegnare il catechismo nella propria famiglia, così come dovevano fare i maestri di scuola, i capi-bottega e i maestri delle corporazioni di arti e mestieri, ciascuno per le persone di cui era responsabile, perché “tutti passano per le mani di costoro e sotto del loro magistero”.

140. La dottrina cristiana si apprendeva “conforme all’uso”: da due o da quattro persone, “a modo di dialogo si reciterà una parte della Dottrina del Padre Ledesma”.

141. Il padre gesuita spagnolo Giacomo Ledesma (1519-1575) aveva scritto, nel 1571, una “Dottrina christiana breve, per insegnare in pochi giorni, per interrogazione, a modo di dialogo fra ‘l maestro e discepolo”.

142. La “Dottrina breve” del Ledesma, originariamente in spagnolo e poi tradotta in moltissime lingue, aveva avuto ovunque un grandissimo successo per la sua forma semplice e pratica, particolarmente adatta al tipo di apprendimento, verbale e mnemonico, di coloro che non sapevano leggere e scrivere; ovvero, in quel tempo, la stragrande maggioranza della popolazione.

143. Inoltre, i confratelli imparavano anche “le lodi e i canti dell’istessa Dottrina, acciò che, lasciando i canti profani, possano cantare quelli devoti e spirituali”.

144. Infine, il padre spirituale, nel suo sermone conclusivo, “dichiarerà qualcosa della dottrina … qualche articolo e mistero della fede, qualche altro precetto, o qualche sagramento”.

145. Si raccomandava anche di leggere, o farsi leggere, privatamente, qualche libro spirituale, quali le vite dei santi o testi preparatori alle varie festività religiose.

146. Riguardo a queste ultime, era naturalmente prevista la partecipazione alla Messa domenicale, in particolare la prima domenica di ogni mese, e in tutte le ricorrenze festive solenni. La Messa quotidiana era raccomandata ma non obbligatoria, potendo essere sostituita dalla “Visita al SS. Sacramento” e dalla recita di 5 Pater e 5 Ave in onore delle 5 piaghe del Signore crocifisso, e una Salve Regina in onore della Vergine.

147. Ogni giorno, abitualmente: il rosario di cinque poste, l’orazione mentale al mattino e l’esame di coscienza alla sera, il ringraziamento prima del pranzo e della cena, la preghiera per la Chiesa, per il Papa e per le Anime del Purgatorio.

148. Come pratiche ascetiche, era suggerito di digiunare il Sabato o di fare qualche astinenza o altra devozione in onore della Vergine; nella confraternita di Barra, in particolare, era prevista anche “mez’ora di disciplina ogni venerdì sera”.

149. A Barra, inoltre, contrariamente a quanto di solito accadeva per le altre confraternite “della Dottrina Cristiana”, il sodalizio doveva anche gestire una festa e la relativa processione, quella del 25 marzo (giorno dell’Annunciazione): i preparativi dovevano aver inizio con un mese di anticipo, ed in quel giorno l’Oratorio rimaneva sempre aperto ed accessibile anche ai non-iscritti, evitando “ogni forma di divertimento dentro e fuori l’Oratorio”.

150. Erano previste due tipi di riunione: quella per gli “esercizi ordinari” e quella per gli “esercizi straordinari”.

151. Gli “esercizi ordinari” si tenevano la Domenica e nelle principali festività religiose, e consistevano in:

  1. Preghiera iniziale di invocazione dello Spirito Santo

  2. Litanie della Vergine

  3. Apprendimento della “Dottrina” e dei canti, come detto sopra

  4. Sermone del Padre spirituale

  5. Atti di penitenza

  6. Recita finale della Salve Regina

152. Gli “esercizi straordinari” erano invece:

  1. la lettura delle regole della confraternita che veniva fatta, ogni prima domenica del mese, dal Padre spirituale,in sostituzione del sermone;

  2. la recita della Coroncina delle piaghe di Cristo, la seconda domenica di ogni mese;

  3. la devozione del “Santo del mese”, la terza domenica, che consisteva nel “pigliarsi ogni mese un Santo per protettore e avvocato davanti a Dio”.

153. Altresì irrinunciabili erano:

  1. l’assistenza ai confratelli infermi, consistente nel visitarli, pregare per loro e con loro, fornire aiuti materiali se necessario;

  2. l’accompagnamento alla sepoltura dei confratelli defunti, dopo le esequie che si celebravano nell’Oratorio; in suffragio, era poi prevista la comunione, da farsi il primo giorno festivo dopo la morte, e la recita del rosario di 15 poste e di altre preghiere.

154. Per quanto riguarda l’organizzazione interna, essa era simile a quella di altre confraternite, come abbiamo descritto nei nn°117 e seguenti del capitolo dedicato al Cinquecento.

155. In particolare, però, nell’Annunziata di Barra era previsto che il Padre spirituale fosse sempre un Gesuita, che doveva “conservare la congregatione, presiedere negli esercitii che si fanno, procurare che si osservino le regole, e che tutti gli ufficiali siano diligenti nelli loro ufficii”.

Era il Padre gesuita a proporre 3 confratelli per le cariche di superiore e di assistenti; dopo di che, colui che aveva la maggioranza dei voti, diventava priore e gli altri due, assistenti; il Padre però disponeva di 2 voti invece di uno.

Era poi sempre lui a nominare direttamente gli altri ufficiali della confraternita, tranne il tesoriere, e comunque ad autorizzare, insieme al priore, le spese necessarie.

“Il governo della confraternita ovvero la congregazione dell’officiali non può riunirsi senza la voluntà et presentia del Padre e, facendosi senza il Padre, sarrà nulla né potrà proporre nissuno officiale cosa alcuna; ma ogn’uno comunicherà al Padre quello che vuole proporre et il Padre, in suo nome, la proporrà quando si farà la congregazione”.

156. L’elezione si svolgeva annualmente, nel periodo natalizio o in altro periodo opportuno; gli “officiali” potevano anche essere confermati più volte ed anzi si raccomandava di “non mutarli tutti contemporaneamente”, evidentemente per assicurare la continuità della gestione.

157. Per essere ammessi alla confraternita, bisognava fare richiesta al Padre e compiere un noviziato di 4 mesi sotto la guida del “maestro dei novizi”, apprendere la dottrina cristiana, praticare spesso i sacramenti e frequentare l’oratorio; il novizio doveva poi fare la confessione generale e la comunione immediatamente prima della cerimonia di ammissione.

Il completamento della chiesa parrocchiale

158. Procedeva, intanto, il completamento della chiesa parrocchiale.

“E tu leggi, ripetuto in ben tre lastre di marmo bianco, poste l’una in seguito all’altra nel pavimento di essa, una sola frase” [60] : UNIVERSITAS 1642.

Si trattava, evidentemente, dell’accesso al luogo di sepoltura che era, conforme all’uso, sottostante la chiesa. In pratica, s’inaugurò allora il nuovo “cimitero”, mentre in precedenza i morti venivano seppelliti sotto la chiesa di S. Atanasio.

159. Successivamente, venne posto il fonte battesimale, come si evince dalla scritta che lo sovrasta:

D O M

AD ABSTERGENDAM GENERIS HVMANI LABEM

INFVNDENDVMQVE GRATIAE CAELESTIS NITOREM

HVNC VERAE SALVTIS FONTEM

ET ANIMARVM ELVENDARVM LAVACRVM

VBI RECENS NATI CHRISTO REGENERANTVR PARENTI

ASSIDVVMQVE FACIT ORIGINARIA CVLPA NAVFRAGIVM

TOMAE AGNELLI SANCTORI BORRELLI ET ANGELI SANNINI

PAGI ELECTORVM PIETAS

JOSEPHO CARLINO PAROCHO OPTIME MERITO ADNITENTE

AERE PVBLICO FORMANDVM EXCITANDVMQVE CVRAVIT

AN. REPARATAE SALVTIS

M DC LXXXX VII

Traduzione:

- A DIO OTTIMO MASSIMO -

PER TERGERE LA MACCHIA (ORIGINALE) DEL GENERE UMANO

ED INFONDERE LO SPLENDORE DELLA GRAZIA CELESTE

QUESTO FONTE DI VERA SALVEZZA

E LAVACRO DELLE ANIME DA PURIFICARE

DOVE I NEONATI VENGONO RIGENERATI IN CRISTO

E CONTINUAMENTE FA NAUFRAGIO L’ORIGINARIA COLPA

LA PIETA’ DEGLI ELETTI DEL VILLAGGIO

TOMMASO D’ANIELLO SANTOLO BORRELLI E ANGELO SANNINO

CON LA COLLABORAZIONE DEL BENEMERITO PARROCO GIUSEPPE CARLINO

EBBE CURA DI FAR COSTRUIRE CON IL DENARO PUBBLICO

NELL’ANNO DELLA RIACQUISTATA SALVEZZA

1697

160. Si tenga presente, come già detto al n°159 del capitolo dedicato al Cinquecento, che “per le costituzioni di Federico II di Svevia (1220-1250), perciò sin da tempi antichissimi…” l’amministrazione locale “… si affidava ad un Sindaco e due Eletti, scelti dal popolo in così largo Parlamento che non altri erano esclusi dal votare fuorché le donne, i fanciulli, i debitori della comunità e gli infami per condanna o per mestiero. Ci si adunava in certo giorno d’estate nella piazza e si facevano le scelte per gride, avvenendo di rado che bisognasse imborsar più nomi per conoscere il preferito” [61].

161. I nostri Tommaso D’Aniello, Santolo Borrelli e Angelo Sannino erano dunque gli Eletti di Barra (un Sindaco e due Eletti) che fecero costruire, con denaro pubblico, il fonte battesimale inaugurato nell’anno 1697; il parroco era invece D. Giuseppe Carlino, in carica dall’agosto 1687 al gennaio 1709.

162. Sui due lati del fregio che incornicia il luogo del battistero, venne scolpita, come ancor oggi si vede, la Sirena bi-cauda, stemma del Casale.

163. Nello stesso anno 1697 nel quale veniva posto il fonte battesimale, il grande pittore Francesco Solimena, che risiedeva in Barra, donò alla parrocchia la bellissima tela raffigurante “S. Maria delle Grazie con anime purganti”, che ancor oggi si vede nella cappella laterale successiva a quella che ospita il battistero.

164. Così, in un certo senso, come notava già il Cozzolino, intorno al fonte battesimale si trova riassunta tutta la passata storia, religiosa e civile, di Barra!

La villa Mastellone (1678)

165. Lo storico di Barra Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889, riferisce:

“… sulle altezze del Serinum, risanato, la marchese Amato nel 1621 volle, accosto ad un territorio suo, veder costruita la Casa, così detta Scioriniello, forse dai fiori superbi del parco che la dovevano idealizzare, allietata pur da teatrino; ed i Mastellone, dei duchi di Limatola, la loro villa nel 1678, confinante con questa casa Amato, arricchita anche di bel parco, con stradone centrale di mezzo chilometro circa! ”.

166. La villa-masseria (vedi n°13) dei Mastellone sorse dunque nel 1678, lungo quella “cupa” che proprio da loro prese il nome di Cupa Mastellone.

In effetti, il tracciato della strada esisteva già, scavato nel terreno dalle “lave dell’acqua” che irrompevano dal Vesuvio durante le piogge e determinavano appunto il formarsi delle famose “cupe”, delle quali quella di cui stiamo parlando è una delle più antiche sul territorio di Barra.

Nel 1678, in occasione della costruzione della villa, il vecchio tracciato venne molto probabilmente ri-sistemato, per congiungere più agevolmente la villa, isolata in mezzo ai campi dei quali i Mastellone erano “signori”, con il nucleo abitato di Barra “di sotto”.

167. I Mastellone (o Mastelloni: le due dizioni si trovano in atti diversi, ma riferiti sempre alla stessa famiglia), a quanto sembra, erano originari di Sorrento: il documento più antico che se ne ha, riferisce di un Matteo Mastellone che fu milite e sindaco di Sorrento nel 1274. Divennero feudatari nel periodo Aragonese, acquisendo nel tempo vari titoli nobiliari.

168. In particolare, il titolo di “duchi di Limatola”, riferito dal Cozzolino ai Mastellone di Barra, appartenne al ramo secondogenito della famiglia.

169. Il ramo primogenito, infatti, acquisì successivamente i titoli di nobili in Monòpoli, “règi familiari” (1580) duchi di Castelpagano (1724), marchesi di Capograssi (1725), marchesi di Ripa Limosano per successione di Casa Capecelatro con anzianità dal 1617, nobili di Tarquinia, ed altri. A questo ramo primogènito appartenne quell’Emmanuele Mastellone (1750-1835) che troveremo, in seguito, come Ministro della Giustizia nella Repubblica napoletana del 1799.

170. Il titolo di duchi di Limatola [62] apparteneva invece alla illustre famiglia dei Gambacorta (vedi n°117).

Morto però senza eredi, il 31 marzo 1725 in Napoli, l’ultimo duca Francesco Gambacorta, il titolo ed il feudo passarono al ramo secondogenito dei Mastellone, nella persona di un Giovanni Mastellone, nel 1733, e poi di Maddalena Mastellone (1751-1760).

Dopo questo periodo relativamente breve, titolo e feudo pervennero, per matrimonio, alla famiglia Lottieri d’Aquino di Pietrastornina ed in seguito, per vicende non ben documentate, ai Carafa.

171. Dopo la legge di eversione della feudalità (nel 1806), che comportò la vendita di terreni e castello a privati, il solo titolo di “duca di Limatola” venne riconosciuto, con Règio Decreto di Ferdinando II di Borbone il 17 luglio 1856, nella persona di Nicola Mastellone.

172. Perciò, quando, nel 1678, i Mastellone (del ramo secondogenito) costruirono la loro villa-masseria in Barra, non portavano ancora il titolo di “duchi di Limatola”, che ricevettero invece solo nel 1856. Di questo titolo si fregiava, al tempo del Cozzolino, quel Giovanni Mastellone (1820-1898) che fu Sindaco di Barra dal 1879 al 1882 e poi dal 1886 al 1892, e che svolse un ruolo fondamentale nel definire la conformazione urbanistica che ancor oggi caratterizza Barra, come vedremo a suo luogo.

Il terremoto del 1688

173. A far costruire la villa-masseria in Barra nel 1678 fu, come risulta dalla lapide che sovrasta l’ingresso della cappella, Domenico Mastellone.

174. Solo dieci anni dopo, però, sopravvenne il celebre terremoto del 1688: anche la masseria dei Mastellone subì consistenti danni ed un lato di essa addirittura crollò.

175. Quel terremoto del 5 giugno 1688 fece particolare impressione sui napoletani, soprattutto a causa dell’elevato valore simbolico di alcuni degli edifici che da esso furono danneggiati.

Si ebbe infatti il crollo della facciata della grande e centralissima chiesa di S. Paolo Maggiore, con i resti, ivi incorporati, dell’antico tempio pagano di Castore e Polluce, e vi furono gravi danni anche alla cupola della chiesa del Gesù Nuovo.

176. Per dare un’ idea della ripercussione psicologica che ebbe l’evento, si riporta qui di seguito un ben composto sonetto, che il gesuita Giacomo Lubrano, quasi anticipando in stile barocco il Leopardi de “La ginestra”, scrisse per l’occasione, onde sottolineare la irrimediabile precarietà di ogni opera umana, anche di quelle esaltate come “eterne”:

177. Terremoto orribile accaduto in Napoli nel 1688:

Mortalità, che sogni? ove ti ascondi,

se puoi perire a un alito di fato?

dei miracoli tuoi il fasto andato

or nemmen scopre inceneriti i fondi.

 

Sozzo vapor da bàratri profondi

basta ad urtar con precipizio alato

alpi di bronzo; e in polveroso fiato

distrugge tutto il Tutto a regni, a mondi.

 

Di ciechi spirti un’invisibil guerra

ne assedia sempre, e cova un vacuo ignoto

a subitànee mine in ogni terra.

 

Ai troni ancora, ai templi è base il loto:

su le tombe si vive; e spesso atterra

le nostre eternità breve tremòto.

La cappella di S. Rosa

178. Anche i Casali, con le loro povere abitazioni e le loro ville, non restarono indenni.

Ma nel Casale della Barra, proprio fra i ruderi originati dal crollo di un lato della villa Mastellone, spuntò, non molto tempo dopo… una rosa (“erumpente inter rudera... rosa”) che, con la sua indifesa tenacia, ispirò a Domenico Mastellone la costruzione, su quell’ala diroccata del suo palazzo, della bella cappelluccia che tuttora si vede, dedicata appunto a S. Rosa, come si può ancora leggere nell’epigrafe che ne sovrasta la porta.

Chi è Santa Rosa?

179. S. Rosa, vergine, è la prima Santa del continente americano, e può essere chiamata “la Santa degli indios ” in particolare degli indios del Perù.

Nacque infatti a Lima, capitale del Perù (che era stato, ricordiamolo, colonizzato dagli spagnoli) il 20 aprile del 1586, decima dei 13 figli di una nobile famiglia di origine spagnola.

Il suo nome di battesimo era Isabella Flores de Oliva, ma una serva di casa di origine india le diede, secondo il costume indigeno, il soprannome di un fiore e la chiamò “Rosa”. Questo soprannome popolare le fu poi autorevolmente confermato, al momento della Cresima, dall’arcivescovo di Lima, S. Turibio de Mongrovejo; ad esso, lei stessa aggiunse “di Santa Maria” per sottolineare il suo amore per la Madre di Dio, e così da allora si chiamò “Rosa di Santa Maria”.

Essendo andata in miseria la sua famiglia, ne divenne lei stessa il sostegno principale, con il suo lavoro di ricamatrice e coltivando il suo piccolo orto.

Rimase affascinata dalla lettura di alcuni brani delle opere di S. Caterina da Siena e vestì l’abito del Terz’Ordine domenicano; la sua breve vita fu tutta dedicata alla penitenza, alla contemplazione mistica e all’aiuto materiale e spirituale ai poveri indios.

Morì il 24 agosto del 1617, all’età di 31 anni. Il suo corpo è tutt’ora veneratissimo a Lima (Perù) nella basilica domenicana del Rosario.

Fu beatificata nel 1668 ed appena 2 anni dopo, nel 1670, fu proclamata ufficialmente “patrona principale delle Americhe, delle Filippine e delle Indie occidentali”, con provvedimento del tutto eccezionale dal momento che una norma papale del 1630 stabiliva che non potessero darsi come patroni a città o regni delle persone che non fossero state ancora canonizzate.

Fu comunque canonizzata il 12 aprile 1671 dal papa Clemente X. La sua festa ricorre attualmente il 23 agosto [63].

180. L’epigrafe, attualmente visibile dalla strada, che sovrasta la porta di accesso alla cappella dei Mastellone dice:

D O M

DOMINICVS MASTELLONVS

SUBURBANUM HOC

PRO SE FAMILIAQVE SUA

COMPARAVIT

AT IBIDEM ERUMPENTE INTER RUDERA

ROSA

ISTHOC SACELLUM

AN MDCXCIX

DIVAE MARIAE ROSAE COGNOMENTO

NUNCUPATUM

INAUGURATO CONSTRUXIT

INGREDERE HOSPES

ET FLORUM REGINAE

SPARGE FLORES

Traduzione:

- A DIO OTTIMO MASSIMO -

DOMENICO MASTELLONE

QUESTO SUBURBANO (EDIFICIO)

PER SE E LA SUA FAMIGLIA

PREDISPOSE.

NELLO STESSO LUOGO, ESSENDO SPUNTATA FRA I RUDERI

UNA ROSA,

COSTRUI’ NELL’ANNO 1699

QUESTA CAPPELLA,

CONSACRATA E CHIAMATA

COL NOME DI S. MARIA ROSA.

ENTRA, OSPITE,

E SPARGI FIORI

ALLA REGINA DEI FIORI.

181. A parte la vicenda del terremoto del 1688 e della rosa spuntata fra i ruderi, non meraviglia il fatto che Domenico Mastellone abbia pensato di dedicare la cappella di famiglia a S. Rosa da Lima, stante la grande popolarità che questa Santa, patrona “eccezionale” dei domìni d’oltremare spagnoli, ebbe anche nel viceregno napoletano.

182. La cappelluccia, che aveva anche la funzione di “tomba di famiglia” secondo l’usanza di quel tempo, ha tuttora sull’altare maggiore una immagine di Maria con la sua “rosa”. Vi erano un tempo due grandi tele sulle pareti laterali: se ne vede attualmente una sola, che raffigura la Madonna con ai lati S. Domenico e S. Rosa da Lima.

Casavaleria nel Seicento

183. All’inizio del Seicento, Casavaleria (ormai parte integrante di Barra) aveva già perduto la antica chiesetta di S. Martino, del tutto diroccata, e dopo la eruzione del 1631 anche il villaggetto omonimo si orientò sempre di più verso S. Giorgio a Cremano (vedi sopra, n°36).

184. Il centro del piccolo borgo agricolo diventava quindi la rimanente chiesa di S. Maria del Pozzo, costituita in Rettorìa, ma senza una corrispondente confraternita stabile.

185. E’ interessante, a tal proposito, osservare che quell’unico “romìto” segnalato in Barra dagli Atti di Santa Visita del 1699 viveva proprio nella zona di S. Maria del Pozzo; il che dice molto circa la assoluta pace e tranquillità del borgo, ma anche circa il tipo di esperienza religiosa del tutto solitaria che, in assenza di confraternita, vi si poteva di preferenza sviluppare.

186. Nel corso del secolo, Casavaleria si arricchì comunque di nuovi insediamenti stabili di piccola nobiltà, come si evince dalle due memorie storiche seicentesche tuttora visibili nel borgo.

La villa Amalia (1617)

187. La prima è la villa Amalia, della quale si è già detto che, insieme alla villa Filomena e alla villa Mastellone, costituisce esempio di villa nobile a carattere rustico-residenziale. In altre parole, una famiglia nobile risiedeva stabilmente nella villa (naturalmente, negli appartamenti a ciò appositamente riservati) mantenendo quindi un diretto rapporto con il lavoro ed i lavoratori delle campagne retrostanti, delle quali erano “signori”.

188. La villa Amalia (appartenuta, fra gli altri, al barone Covelli, che fu probabilmente colui che così la denominò) reca sul portale d’ingresso una lapide di marmo con sopra incise le insegne e la data: ANO DNI 1617

Si può quindi ritenere come la più antica fra le ville tuttora esistenti in Barra.

189. “Dal punto di vista tipologico, presenta una pianta ad L con una delle due ali dell’edificio articolata su terrazze degradanti.

La corte irregolare, aperta sui due lati, conserva tracce dei due depositi posti ai lati dell’accesso alla proprietà agricola.

Sul piano formale, è da sottolineare il raffinato disegno della facciata, con la cornice continua in piperno del marcapiano del piano nobile ed il portale con il timpano spezzato, nonché il corpo scala a vista sia verso il cortile che verso la strada” [64].

La pietra sepolcrale in S. Maria del Pozzo (1635)

190. La seconda memoria storica del Seicento è la pietra sepolcrale posta proprio sotto l’altare principale della chiesa di S. Maria del Pozzo, la quale reca la seguente iscrizione:

DDM

HIC SITUS EST DIDACUS PAPARIUS

DECY FILIUS REGY CENSUS PRAESIDIS

QUI PATRIS INTEGRITATEM SUIS MORIBUS VIVA EXPRESSIT

OBYT DIE V FEBRUARY ANO DNI MDCXXXV (1635)

HOC SIBI SUISQU CONSANGUINEIS EX LEONISSAE ATQ ALBITIORUM FAMILIA

MF. C

Traduzione:

QUI E’ POSTO DIDACUS PAPARO

FIGLIO DI DECIO, PRESIDE DEL REGIO CENSO,

CHE L’INTEGRITA’ DEL PADRE, CON I SUOI COSTUMI, VIVA ESPRESSE.

MORTO IL GIORNO 5 FEBBRAIO DELL’ANNO DEL SIGNORE 1635.

QUESTO, PER SE E PER I SUOI CONSANGUINEI, DALLA FAMIGLIA DI LEONESSA E DEGLI ALBIZI.

191. Nella iscrizione mancano alcune lettere (la E finale di SUISQUE; la sillaba UE al termine di ATQUE); la scritta MF C è probabilmente la sigla dell’artefice materiale dell’ iscrizione.

192. La lapide, ed evidentemente anche il pagamento della prestigiosa collocazione in luogo diverso da quello del restante popolo, furono quindi donate dalla “famiglia di Leonessa e degli Albizi” alla famiglia Pàparo, affinché potesse provvedere a seppellire Didacus, che era il figlio di Decio, il quale viene presentato come “regy census praesidis”.

193. “Census” indica, in latino, “l’elenco dei cittadini e dei rispettivi patrimoni”, compilato ai fini della tassazione, e quindi il nostro Decio Pàparo, essendo “preside del censo regio”, doveva essere un importante funzionario addetto alla ripartizione del carico fiscale e alla riscossione delle imposte sulle terre demaniali (come era Barra), che appartenevano direttamente al re.

194. La famiglia “della Leonessa”, dal francese “de la Lagonière”, giunta nel Regno al seguito di Carlo I d’Angiò, divenne una importante casàta nobiliare napoletana, iscritta al Seggio di Capuana; gli Albizi (si legge con l’accento sulla A) erano invece una famiglia di ricchi mercanti fiorentini, legati all’arte della lana. Il fatto che si parli di una sola “familia” e non di due è dovuto probabilmente al fatto che qualcuno “della Leonessa” aveva sposato qualcuna degli “Albizi” e fu questa “familia” a regalare lapide e sepolcro ai Pàparo.

La “famiglia di Leonessa e degli Albizi” era evidentente legata a Decio Pàparo da rapporti di amicizia ed anche di reciproca gratitudine, trattandosi di un personaggio collocato in un ruolo strategico (la riscossione delle imposte!).

L’elogio funebre sembra infatti rivolto più al padre che al figlio, il che lascia presumere che il figlio sia morto prima del padre, ancora vivente, che si voleva compiacere col dono della pietra.

La chiesa e contrada dell’Oliva nel Seicento

195. Su una piccola lapide, che sormonta l’arco di accesso al cortile contrassegnato dal numero civico 5 della attuale Via Comunale dell’Oliva in Barra, si legge la seguente scritta:

FRVCTIFERV DIVI LAVRETI ISABELLA DE GENNARO

FRATRIBVS VLTRO SPONTANEAMENTE DIEDE IN DONO

HOC DONO DE ANNARVS QUESTO TERRENO COLTIVATO A FRUTTETO

ISABELLA DEDIT 1601 AI FRATI DI S. LORENZO 1601

196. Dall’altro lato della strada, proprio di fronte al cortile, si trova la chiesetta dedicata a S. Maria delle Grazie “dell’Oliva”. La circostante contrada è tuttora detta, anch’essa, “all’Oliva” e costituisce uno degli ultimi esempi di piccolo borgo rurale rimasti in Barra. Come possiamo interpretare questa lapide?

Contesto storico della lapide del 1601

197. Come si è detto [65], sulla cresta dell’onda suscitata dal Concilio di Trento (1545-1563), nella seconda metà del Cinquecento arrivarono in Barra gli insediamenti stabili dei Francescani e dei Domenicani. E per primi, arrivarono i Francescani, ai quali nel 1585 il patrizio napoletano Gerolamo de Fazio finanziò la chiesa e il convento che tuttora esistono, aggiungendovi la rendita di 20 ducati all’anno, affinché i frati celebrassero tre messe alla settimana per i defunti della sua famiglia.

198. I Francescani avevano (ed hanno) la loro sede principale a Napoli nello storico convento, con famosissima chiesa, di S. Lorenzo Maggiore: sono essi, perciò, i “frati di S. Lorenzo” cui accenna la lapide.

199. Non molti anni dopo la donazione del de Fazio (nel 1601, appunto), la nostra Isabella de Gennaro donò il suo frutteto: agli stessi frati e, del tutto verosimilmente, con la stessa motivazione, cioè far celebrare Messe per i defunti.

200. I frati francescani del convento di Barra, dunque, sia per soddisfare all’obbligo imposto dal làscito sia per assicurare un minimo di assistenza spirituale alle due o tre famiglie dei contadini del posto, cominciarono presumibilmente a celebrare la Messa in un piccolo locale del cortile, che dava sulla stradina esterna.

La villa e la cappella di Dionìsio Làzzari (1617-1689) all’Abbeveratùro

201. Occorre inoltre considerare che, a non molta distanza, vi era anche un’altra cappella, privata ma pur sempre aperta al popolo per la Messa domenicale: si trovava nel Largo “dell’Abbeveratoio” ed era la cappella del famoso “marmoraro”, architetto e scultore napoletano Dionisio Lazzari.
202. Nella mappa del duca di Noja (1775), si distingue chiaramente il celebre “Abbeveraturo”, isolato ad un incrocio di strade campestri (l’attuale Piazza Abbeveratoio): serviva, fino a non molti anni fa, soprattutto per abbeverare gli animali che trainavano i carretti contadini di passaggio ed è addirittura identificabile con il “Bibitùru” di cui parlano alcune carte del periodo del ducato bizantino, intorno all’anno 1000.
203. Il primo storico di Barra, Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889, testimonia:
“Quivi (all’Abbeveratoio) vi si trova la cappella del celebre pittore (!?) Dionisio Lazzaro, oggi proprietà del signor Antonio di Franco. In essa si veneravano due Santi, S. Spirito e S. Antonio, ma sotto i Borboni rimase la preferenza a S. Antonio”. E più avanti dice: “Quivi… il famoso pittore Dionisio Lazzaro, nella sua bella villa, oggi di Franco, si conduceva a domandare le sue ispirazioni!”

204. Ricordiamo qui, di passaggio, che Dionisio Lazzari (1617-1689), architetto e “ornamentista”, fu un tipico esponente del barocco napoletano, di formazione toscana ed influenzato dal gusto pittoricistico di Cosimo Fanzago.

E’ autore, fra l’altro, del grande pulpito (datato 1678) che si vede nella chiesa di S. Maria della Sanità in Napoli; dei marmi dell’altare maggiore nella chiesa di S. Gregorio Armeno; della cupola, del chiostro grande e della cappella di S. Filippo Neri nella chiesa dei Girolamini; del magnifico altare della cappella di Palazzo Reale (realizzato nel 1674 per la chiesa di S. Teresa agli Studi); di gran parte della suggestiva decorazione marmorea della chiesa di S. Maria del Purgatorio ad Arco; del Palazzo Firrao a Piazza Bellini; e inoltre delle chiese di S. Maria Egiziaca all’Olmo, della Croce a S. Agostino, di S. Maria di Montesanto, di S. Severo alla Sanità, del SS. Salvatore a Capri, e tante altre ancora.

Ebbe come allievo, fra gli altri, l’architetto Arcangelo Guglielmelli (1650-1717), che collaborò con Francesco Solimena nella costruzione della chiesa dei Domenicani in Barra.

La costruzione della chiesetta “dell’Oliva”

205. Solo in seguito, dunque, aumentando la popolazione, si sentì l’esigenza di costruire una vera e propria chiesetta rurale, dedicata anch’essa alla Madonna delle Grazie: più piccola di quanto non sia adesso, e senza il campanile. Tale costruzione deve essere avvenuta negli ultimi anni del Seicento o nei primissimi del Settecento, stante il fatto che il primo documento certo della sua esistenza è datato al 1718.

Una presenza benedettina a Barra nel Seicento (1607-1625)

206. Oltre al convento dei Francescani ed a quello dei Domenicani, nel periodo successivo al Concilio di Trento venne fondato in Barra anche un altro convento, questa volta benedettino, il quale però non vi rimase a lungo.

207. E’ infatti ben documentato [66] che vi era, in un luogo non ben precisato di Barra, un piccolo convento (dovevano essere una decina di monaci) di Benedettini Cassinesi. Fondato nel 1607, il convento venne però trasferito, già nel 1625, nella zona di Chiaia, “per ricavarne un convalescenziario e per liberarsi dai ladri che spesso molestavano i monaci in Barra” [67].

208. Nasceva così il convento di S. Benedetto a Chiaia, detto pure all’Arco Mirelli o al Vomero, su una proprietà di Giulio Cesare Guadagno, notaio della règia corte, che ne aveva fatto dono (un dono del valore di circa 4.000 ducati) al fiorentino Gabriele Lapini, già priore di Barra, il 4 aprile 1625.

209. Già nel novembre dello stesso anno (1625), i monaci si trasferirono nella nuova sede di Chiaia e, un po’ alla volta, cominciarono a vendere la precedente proprietà che avevano nel Casale della Barra, allo scopo di dotare il nuovo S. Benedetto [68].

210. Ma come mai i Barresi, che avevano accolto positivamente gli insediamenti francescano e domenicano, si mostrarono poi così refrattari a quello benedettino?

211. Probabilmente, il convento benedettino si trovava in un luogo troppo isolato tra le campagne di Barra ed era quindi più facilmente esposto ai malintenzionati.

Inoltre, si può supporre che, mentre Francescani e Domenicani svilupparono subito, conforme al loro carisma, una adeguata “pastorale popolare”, mescolandosi al popolo e vivendo con esso, i Benedettini furono invece percepiti dalla popolazione come una presenza “chiusa” in se stessa e con la quale, oltretutto, i contadini venivano a trovarsi in concorrenza per il possesso e l’uso del territorio agricolo.

212. Quale differenza, comunque, con il lontano periodo del ducato bizantino, quando i conventi di tipo benedettino erano i signori feudali della quasi totalità del territorio “foris flubeum” ed i contadini dipendevano interamente da loro!

La cappella Bonvicino-Giordano-Fumaroli

213. Ma questa presenza benedettina non lasciò proprio alcuna traccia dietro di sé?

214. E’ merito di Romano Marino [69] aver riportato l’attenzione su una piccola cappella, che tuttora si può vedere, a fianco di palazzo Fumaroli, in Via Luigi Martucci, nel tratto successivo all’incrocio di questa con Via Repubbliche Marinare, andando verso S. Giovanni a Teduccio.

215. All’interno di questa cappella, si può leggere la seguente iscrizione:

D O M

SACELLUM

QUOD DIVO BENEDICTO OLIM

VIRTUTE PIETATE GENERE

CLARISSIMUS

RESTAURAVIT DOTAVITQUE ONOFRIUS BONVICINUS

CUIUS FAMILIA

INTER VENETOS MAGNATES

AUREIS CARACTERIBUS

ADSCRIPTA

ANNO M DC XL VI TRANSACTI SECULI

QUOTIDIE UT SACRUM FIERET

NUNC

MARMOREO EXPELITAM LAPIDE

SUCCESSOR NON MINUS

SANGUINE ET PIETATE QUAM NOBILITATE

DUX MONTIS CORACY

DOMINUS IOSEPH IORDANUS

SUE DEVOTIONIS ETERNE ARGUMENTUM

IN EO ARAM

EREXIT DECORAVIT DITAVIT

ANNO SAL. M DCC III

Traduzione:

A DIO OTTIMO MASSIMO

QUESTO TEMPIO

GIA’ DEDICATO A SAN BENEDETTO

CHE IL CHIARISSIMO PER VIRTU’ PIETA’ E NASCITA

ONOFRIO BONVICINO

LA CUI FAMIGLIA

ERA ASCRITTA A CARATTERI D’ORO

FRA I MAGNATI VENETI

RESTAURO’ E DOTO’

NELL’ANNO 1646 DEL SECOLO SCORSO

AFFINCHE’ FOSSE PER SEMPRE SACRO

ADESSO

ESSENDO L’ALTARE PRIVO DI LAPIDE MARMOREA

IL SUCCESSORE NON MINORE

PER ORIGINE E PIETA’ CHE PER NOBILTA’

DUCA DI MONTE CORVO

SIGNOR GIUSEPPE GIORDANO

COME SEGNO ETERNO DELLA SUA DEVOZIONE

IN ESSO UN ALTARE

ERESSE DECORO’ ARRICCHI’

ANNO DELLA SALVEZZA 1703

216. Subito sotto, vi è un’altra scritta, in italiano, più piccola:

QUESTO TEMPIO

NEGLETTO DA OTTO LUSTRI

GIOVANNI FUMAROLI

RESTAURO’

E SOLENNEMENTE FECE INAUGURARE

NEL GIORNO VI MAGGIO M DCCC LX

(6 MAGGIO 1860)

COZZOLINO VINCENZO 1988

217. A quanto sembra, dunque, Giovanni Fumaroli (ereditando dal padre, magistrato Francesco Saverio Fumaroli) venne a trovarsi in possesso del palazzo e della cappella, chiusa da 40 anni (otto lustri; quindi, dal 1820) e la fece restaurare e di nuovo inaugurare il 6 maggio 1860.

218. Prima dei Fumaroli, la cappella era evidentemente appartenuta ai Giordano (Giuseppe Giordano, 1703), i quali a loro volta erano succeduti ai Bonvicino (Onofrio Bonvicino, 1646).

219. E prima dei Bonvicino? Nella scritta, è affermato chiaramente che, prima del restauro effettuato nel 1646 da Onofrio Bonvicino, il tempio era dedicato a S. Benedetto.

220. Poiché abbiamo detto (vedi n°209) che i monaci benedettini cassinesi lasciarono Barra nell’anno 1625 e, un po’ alla volta, cominciarono a vendere le proprietà che qui avevano, è del tutto ragionevole concludere che il nostro Onofrio Bonvicino fu uno di quelli che comprarono dai monaci: comprò, fra l’altro, la cappella dedicata a S. Benedetto, che fece poi restaurare nel 1646.

221. Si può quindi ritenere che la attuale cappella Fumaroli costituisca l’ultima traccia di quella lontana presenza benedettina a Barra.

222. E chi è, in coda a così grandi ed illustri predecessori, il “piccolo” COZZOLINO VINCENZO 1988 ? Si tratta semplicemente di un con-cittadino attuale, che vive insieme alla moglie in un appartamento del vicino palazzo, e che, animato da uno spirito veramente nobile ed eroico, cerca di mantenere con un minimo di decoro la sfortunata cappella Fumaroli.

Uno strano prete nella Barra di fine secolo (1694)

223. In una lettera pervenuta al Tribunale del Sant’Ufficio di Napoli il 3 luglio 1694, il parroco di Barra Don Giuseppe Carlino (1687-1709), che già abbiamo avuto modo di conoscere (vedi sopra, n°1 e nn°159-161), denuncia l’improvviso arrivo nelle campagne di Barra, fin dal maggio di quello stesso anno, di un uomo forestiero, di circa 30 anni, che dalla parlata sembra calabrese, vestito con una tonaca da prete piuttosto consunta.

Al contadino Giovanni Nappo che gli ha chiesto chi fosse e da dove venisse, ha risposto di chiamarsi Francesco di Palma e di essere “fratello” di un Frate Antonio di cui il contadino aveva molto sentito parlare [70].

Gli addetti del Tribunale non persero tempo e già nella successiva settimana di luglio 1694 vennero in Barra per effettuare una prima inchiesta [71].

224. Si trattava, a quanto pare, di un “vero” prete, nel senso che era stato regolarmente consacrato, ma si trovava nella condizione, chiaramente irregolare secondo i canoni conciliari, di prete “acèfalo e giròvago” in quanto andava girovagando al di fuori della sua diocesi di appartenenza senza alcun permesso del suo vescovo.

Era probabilmente originario di Palmi (Reggio Calabria) e si presentava come amico e seguace del famoso frate francescano cappuccino P. Antonio da Olivàdi (1653-1720) piccolo paese della Calabria vicino Catanzaro, che proprio in quegli anni andava percorrendo come predicatore missionario, “fra l’entusiasmo delle folle che lo veneravano come santo”, villaggi e campagne di tutta l’Italia meridionale.

225. La spiritualità e la predicazione del P. Olivàdi erano fortemente incentrate sui “dolori” di Gesù e di Maria. Lo stesso Padre era autore di un opuscolo, che aveva avuto grande diffusione, intitolato “L’anno doloroso – Meditazioni, per ogni giorno dell’anno, sulla vita dolorosa di nostro Signore Gesù Cristo”; al quale opuscolo, visto il notevole successo, ne aveva poi fatto seguire uno analogo, dedicato stavolta alla “vita dolorosa” della Vergine Maria.

In effetti, questo tipo di spiritualità era allora molto sentito e suscitava nei più fedeli una fervente devozione e fin troppo accesi desidèri di “disciplinarsi” vigorosamente, a colpi di cinghie, fruste e funicelle, che i confessori cercavano poi, di solito vanamente, di mitigare. Abbiamo visto dianzi (n°148) che anche le regole della Confraternita dell’Annunziata di Barra prevedevano “mez’ora di disciplina ogni venerdì sera”.

226. Salvatore Preite, sensale di Barra, dichiara che: “… e perché pareva, tanto a me quanto a gli altri del convicino, che (Don Francesco) fusse un prete di buona vita, et andava mendicando per carità, tanto io quanto altri del nostro convicinato procuràimo di farlo vivere et havere avuto molte elemosine, tanto dalli detti miei vicini quanto da altri del Casale” [72].

Si stabilisce in una casa abbandonata, nella corte in cui viveva Salvatore Preite, e va in giro per elemosine. Ma “va nascostamente, perché diceva di non voler essere veduto da persona alcuna e ho osservato che, quando andava elemosinando, caminava forte, e sempre si voltava verso dietro, e non cercava l’elemosine a tutti, se non a qualche persona particolarmente o casa particolare” [73].

Quando può, discute con la gente sedendosi su una sedia in mezzo alla strada, facendo così accorrere uomini, donne e bambini dei dintorni; la sera, poi, la gente va a trovarlo nel cortile di Salvatore Preite e lui organizza veglie spirituali a carattere fortemente penitenziale.

“Fece spogliare, in più volte, più figliuoli ignudi, di età da circa 12 anni, et in sua presenza fattoli disciplinare, lui dicendo la litania, doppo disse essersi placata l’ira di Dio, e sarebbero buoni …” [74].

227. Comincia così ad essere conosciuto in paese: la gente gli chiede brandelli della sua veste per farne delle reliquie; a chi va da lui, rivela i peccati gravi commessi in passato e predice, per il futuro, la salvezza per alcuni e la dannazione per altri, se non si pèntono; distribuisce oggettini di cera, da lui benedetti, per allontanare le disgrazie dalle case …

A Salvatore Preite da’ un poco di cera “dentro della quale vi stava un poco di tela vecchia che diceva essere il sacco di S. Francesco”; anche i vicini accorrono per avere quella cera e lui ne da’ anche a loro, “e diceva che avessimo operato bene, atteso che detto sacco con detta cera chi lo portava addosso era libero da ogni travaglio” [75]. Ma qui il parroco lo viene a sapere ed interviene facendo bruciare pubblicamente gli amuleti.

228. Sempre nel cortile di Salvatore Preite, Don Francesco fa recitare le litanie della Vergine e, quando sono terminate, Salvatore gli mostra il suo figliolo Carminiello “il quale è molto obbediente e buono figlio” ma lui rifiuta di riceverlo dicendo che il ragazzo ha commesso un grave peccato, senza peraltro specificare quale; il padre insiste, chiedendo di perdonarlo e di benedirlo; e lui, dopo molte insistenze, fa spogliare il ragazzo, fa inginocchiare i presenti, e si mette a frustare il ragazzo sulla schiena con una cinghia di cuoio mentre gli astanti recitano in coro le litanie della Vergine; alla fine, dichiara che il ragazzo è stato perdonato e gli accorda l’assoluzione e la sua benedizione [76].

229. L’inchiesta del Tribunale, a quanto pare, si svolse anche nei Casali di Marano e di Quarto, a nord di Napoli, e nel villaggio di Panecòcolo, sempre su denuncia dei rispettivi parroci che segnalavano la presenza di Don Francesco sul loro territorio; ma non sortì comunque alcun ésito, perché nel frattempo il nostro si era reso irreperibile, né risulta d’altronde che siano stati fatti tentativi per ritrovarlo.

230. La vicenda di questo strano prete, non eretico né moralmente riprovevole ma “al di fuori dei ranghi”, può servire, forse, a mostrarci quale fosse il grado di organizzazione e di preparazione ormai raggiunto, alla fine del Seicento, dai parroci che si erano formati nei Seminari post-Tridentini.

A quanto pare, essi, da una parte, avevano il pieno controllo del territorio e nulla gli sfuggiva; d’altra parte, erano perfettamente in grado di proporre ai loro fedeli un tipo di esperienza religiosa, ben fondata dogmaticamente e ben regolata moralmente, che tendeva ad elevarli al di sopra dell’ignoranza e della superstizione medioevali.

Provenienti dal popolo contadino e ad esso legati, sono i parroci gli “intellettuali organici” del popolo, alla fine del Seicento, e ne hanno la direzione culturale e morale.

In definitiva, nel contesto di sfruttamento e di emarginazione in cui quel popolo si trovava [77], quei “pastori”, pur con tutti i loro limiti e le loro debolezze, erano praticamente gli unici che non volevano solo tosare [78] e portare alla guerra [79] le “pecorelle”, ma le avevano a cuore e se ne prendevano cura.


Cronologia dei Viceré Spagnoli di Napoli

(Nel Seicento)

Sotto il Regno di Filippo III (1598-1621):

1599-1601 Fernando Ruiz de Castro, conte di Lemos

1599 - Fallito tentativo di rivolta popolare organizzato in Calabria dal frate domenicano Tommaso Campanella (1568-1639). Rimane 27 anni in carcere a Napoli (1599-1626).

1601-1603 Francesco de Castro, conte di Lemos (figlio del precedente)

1602 - Tommaso Campanella, in carcere, scrive “La città del sole”.

1603-1610 Juan Alonso Pimentèl de Herrera, conte di Benavente

1610-1616 Pedro Fernandez de Castro, conte di Lemos (altro figlio di Fernando)

1616-1620 Pedro Tèllez Giròn, duca di Osuna (secondo)

1620-1622 Cardinale Antonio Zapata y Cisneros

Sotto il Regno di Filippo IV (1621-1665):

1622-1629 Antonio Alvarez de Toledo, duca d’Alba (secondo)

1629-1631 Fernando Afàn de Ribera, duca d’Alcalà (secondo)

1631-1637 Manuel de Zuniga y Fonseca, conte di Monterey

1637-1644 Ramiro Nunez de Guzman, duca di Medina de las Torres

1644-1646 Juan Alonso Enriquez, ammiraglio di Castiglia

1646-1648 Rodrigo Ponce de Leon, duca d’Arcos

1648-1653 Inigo Vèlez de Guevàra, conte di Onate

1653-1659 Garcia de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo

1659-1664 Gaspar de Bracamonte y Guzman, conte di Penaranda

1664-1666 Cardinale Pasquale d’Aragona

Sotto il Regno di Carlo II (1665-1700):

Carlo e Maria Luisa

1666-1672 Pietro Antonio d’Aragona

1672-1675 Pedro Alvarez de Toledo, marchese di Astorga

1675-1683 Fernando Fajardo, marchese de Los Velez

1683-1687 Gaspar de Haro, marchese del Carpio

1688-1696 Francisco de Benavides, conte di Santisteban

1696-1702 Luis de la Cerda, duca di Medinaceli

Sotto il Regno di Filippo V (1700-1707):

1702-1707 Giovanni Emanuele Fernandez Pacheco, marchese di Villena


Cronologia degli Arcivescovi di Napoli

(Nel Seicento)

1596-1603 Card. Alfonso Gesualdo

1605-1612 Card. Ottavio Acquaviva

1613-1626 Card. Decio Carafa

1626-1641 Card. Francesco Buoncompagno

1641-1666  Card. Ascanio Filomarino

1667-1685  Card. Innico Caracciolo

1686-1691  Card. Antonio Pignatelli

1691-1702  Card. Giacomo Cantelmo


Note

[1] Vedi il paragrafo “Documenti e dati” in “Il periodo Aragonese (1443-1501)”.

[2] Vedi il paragrafo “Documenti e dati” in “Il periodo Angioino (1266-1442)”.

[3] Vedi il paragrafo “Padulani, cafoni e lazzari” nel capitolo dedicato a “ La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[4] Giuseppe Ceci – “Un mercante mecenate del secolo XVII-Gaspare Roomer” in “Napoli nobilissima”, n.s. 1921, pag.161.

[5] G. Ceci, op. cit.

[6] G. Ceci, op. cit.

[7] Vedi il paragrafo “La politica fiscale: gabelle, arredatori e paranze” nel capitolo dedicato a “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[8] Vedi il paragrafo “Grazie ed disgrazie nel periodo di Don Perafan (1559-1571)” nel capitolo dedicato a “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[9] Teresa Colletta – “La villa Sanseverino di Bisignano e il Casale napoletano della Barra”, in “Napoli nobilissima”, volume XIII, fascicolo IV, luglio-agosto 1974.

[10] L’ipotesi non è sicuramente documentabile; si può solo osservare che, ancora oggi, due corti che si trovano lungo il Corso Sirena, prima del rione e del palazzo Bisignano, recano il nome e l’iscrizione “Cocozza”.

[11] Anna Giannetti e Benedetto Gravagnuolo in “I Casali di Napoli”, Ed. Laterza, Bari,1984, 1989.

[12] Teresa Colletta, op. cit.

[13] Teresa Colletta, op. cit.

[14] P. Saverio Santagata – “Storia della Compagnia di Gesù nel Regno di Napoli”, Parte V – Manoscritto citato da Davide Palomba in “Memorie storiche di S. Giorgio a Cremano”, Napoli, 1881.

[15] Citato da D. Palomba, op. cit.

[16] Alonso de Contreras – “Avventure del capitano A. de Contreras” (1631) – Ristampato in Milano, 1946.

[17] D. Palomba, op. cit.

[18] D. Palomba, op. cit. - Alcuni religiosi “mandati dal cardinale per aiuto e conforto, trovarono arso e consumato il tabernacolo e dentro a quello le pissidi divenute nere, e nel toccarle, divenivano cenere”.

[19] Citato da Nicola Lapegna – “Origini e storia di Barra”, Napoli, 1929.

[20] Vedi il paragrafo “Casavaleria nel Cinquecento” nel capitolo dedicato a “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[21] Si veda: Giovanni Alagi – “Ricerche su Casavaleria, antico Casale dell’agro vesuviano” in “Asprenas”, anno X, n°4, 1963.

[22] Vedi Cesare De Seta – “I Casali di Napoli”, Ed. Laterza, Bari 1984, 1989.

[23] D. Palomba, op. cit.

[24] Citato da D. Palomba, op. cit.

[25] D. Palomba, op. cit.

[26] C. De Seta, op. cit.

[27] Citato da Gabriele Monaco – “Piazza Mercato: sette secoli di storia”, Ed. Athena Mediterranea, Napoli, 1970.

[28] Bartolommeo Capasso – “Masaniello” (1919), ristampa Ed. Luca Torre, Napoli, 1993.

[29] B. Capasso, op. cit.

[30] Citato da G. Monaco, op. cit.

[31] “Nell’antico spagnolo, si trova lacerìa, così nel senso di lebbra come in quello di miseria. I lazarillos erano… los muchachos que se curan de la tina en los hospitales de San Lazaro. Lazaro, poi, ha il significato di pobre andrajoso, cioè a dire pezzente cencioso” (Benedetto Croce).

[32] B. Capasso, op. cit. Il motivo di tale onorabilità era anche di natura religiosa: pensavano infatti che il soprannome discendesse direttamente dal famoso Lazzaro di cui si parla nel Vangelo (Lc 16,19-31).

[33] Vedi G. Ceci, op. cit.

[34] B. Capasso, op. cit.

[35] G. Monaco, op. cit.

[36]  N. Lapegna, op. cit.

[37] Il Capasso riferisce, ad esempio, di Girolamo Letizia, uno degli affittatori dell’arrendamento della farina, il quale...”uomo senza misericordia, non perdonava in alcun modo a chi, entrando nella città con un poco di farina o con due pagnotte di pane, non ne avesse pagato prima il dazio corrispondente. Narravasi di lui che una volta, per un contrabbando di pochissimo momento, avesse fatto condannare alla frusta due povere contadine de’ Casali di Napoli ”.

[38] Salvatore de Renzi - ”Napoli nell’anno 1656”- Tip. di Domenico De Pascale, 1867.

[39] Vedi il paragrafo “La peste nera (1347-1350)” in “Il periodo Angioino (1266-1442)”.

[40] Vedi D. A. Parrino “Teatro eroico e politico dei viceré del regno di Napoli”.

[41] D. A. Parrino, op. cit.

[42] G. Monaco, op. cit.

[43] G. Monaco, op. cit.

[44] D. Palomba, op. cit.

[45] D. Palomba, op. cit.

[46] D. Palomba, op. cit.

[47] D. Palomba, op. cit.

[48] Vedi il paragrafo “Odetto di Foix, visconte di Lautrec, sconfitto dalle parùle nel 1528”, nel capitolo dedicato a “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[49] La Madonna di Costantinopoli è raffigurata su una nuvola che sovrasta la città, ed è circondata da angeli che trasportano brocche d’acqua per spegnere un incendio, rappresentando così il grande acquazzone che pose fine all’incendio della città stessa. Di per sé, quindi, l’immagine si riferisce alla salvezza da un incendio, ma a Napoli, per i motivi detti, fu riferita alla salvezza dalla peste.

[50] “Napoli sacra”, Ed. Elio De Rosa, Napoli, !996, 3° itinerario. Questo era ciò che avveniva nei momenti di devozione; un altro osservatore dell’epoca, evidentemente più malevolo, riferisce invece delle donne di Chiaia (allora piccolo borgo di pescatori) le quali, anche se “si piccano con tanta virulenza dell’onore che pianterebbero una scenata ad un uomo nel mezzo della strada, solo che le avesse guardate o salutate... sono ciononostante tutte puttane, e si fanno fòttere principalmente la notte, quando vanno a trovare gli uomini mentre i loro mariti sono andati a pescare, o di giorno, ma a Napoli, soprattutto il martedì quando vanno alla Madonna di Costantinopoli” (Bouchard, 1632).

[51] Vedi il paragrafo “I gemelli Musella allo Scassone (1849-1854)” nel capitolo dedicato a “L’epoca delle rivoluzioni borghesi (1790-1860)”.

[52] Vedi il paragrafo “Il gioco del lotto” nel capitolo dedicato a “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[53] Vedi il paragrafo “Le fasi della rivolta dopo la morte di Masaniello” nel presente capitolo, in particolare i nn°70-71-72.

[54] Gian Battista Vico ne scrisse in seguito la storia: “Principum neapoletanorum coniuratio”, scritta nel 1703 per incarico del marchese di Villena (1702-1707), ultimo viceré spagnolo di Napoli.

[55] Pietro Colletta – “Storia del reame di Napoli”, 1825.

[56] Carla Russo, op. cit.

[57] Vedi i paragrafi “L’estaurìta di Sirinum viene data in feudo” e “La contésa” in “Il periodo Angioino (1266-1442)” nonché il paragrafo “La parrocchia Ave Gratia Plena (detta di S. Anna)” nel capitolo dedicato a “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[58] D. Palomba, op. cit.

[59] Carla Russo, op. cit.

[60] P. Cozzolino, op. cit.

[61] P. Colletta, op. cit.

[62] Limatola è oggi un paesino di circa 3500 abitanti, in Provincia di Benevento, che conserva ancora i resti dell’antico castello e borgo.

[63] S. Rosa da Lima, di cui sopra, non va confusa con S. Rosa da Viterbo la quale, invece, nacque appunto a Viterbo nel 1233 ed ivi morì il 6 marzo 1251, all’età di soli 18 anni. S. Rosa da Viterbo vestì, anche se solo per alcuni mesi, l’abito del Terz’Ordine francescano, fu proclamata ufficialmente Santa nel 1258 e la sua festa ricorre il 4 settembre: viene solennizzata con il trasporto della statua della Santa sulla cosiddetta “Macchina di S. Rosa”, un obelisco alto 30 metri e pesante 50 quintali, effettuato a spalla da circa 100 facchini lungo un percorso di circa 2 chilometri. S. Rosa da Viterbo è la patrona della Gioventù francescana e della Gioventù di Azione Cattolica italiana.

[64] Anna Giannetti e Benedetto Gravagnuolo in “I Casali di Napoli”, Ed. Laterza, Bari,1984, 1989.

[65] Vedi i nn°133 e seguenti in “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[66] J. Mazzoleni- “Archivi di monasteri benedettini conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli”, in “Monastica” IV, Montecassino 1983, pp. 85-190. Si veda anche: A. Speme- “Il monastero di S. Benedetto a Chiaia”, in “Benedictina” 11, 1957, pp. 235-274.

[67] Ugo Dovere - “Presenze monastiche a Napoli in età moderna”, in “Campania sacra” 18/1, 1987, pp. 101-102.

[68] Il monastero di S. Benedetto a Chiaia fu poi soppresso e venduto durante il decennio francese, nel settembre 1806.

[69] Romano Marino – “ Barra da riscoprire e … altre storie”, Napoli, 2008.

[70] Deposizione di Giovanni Nappo del 5 luglio 1694: “che l’avesse tenuto secreto, perché era fratello di detto fra’ Antonio”.

[71] Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo Sant’Ufficio, 255-786/A: inchiesta per “santità simulata”.

[72] Deposizione di Salvatore Preite, del 5 luglio 1694.

[73] idem

[74] Denuncia del parroco Don Giuseppe Carlino, del 3 luglio 1694.

[75] Deposizione di Salvatore Preite, del 5 luglio 1694.

[76] idem

[77] Vedi nn°16-17 e seguenti, in “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[78] Vedi nn°36-38 in “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[79] Vedi nn°27-29 in “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, settembre 2016

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