L’indipendenza
1. Nel 1734, dopo più di due
secoli di dipendenza da altre nazioni,
Napoli ridiventò un regno autonomo e tale
rimase fino all’annessione al regno
d’Italia, avvenuta nel 1860.
2. L’indipendenza, per la
verità, non fu una conquista dei Napoletani,
ma solo una delle conseguenze delle
cosiddette “guerre di successione”, cioè
delle guerre (e relative trattative
diplomatiche) attraverso le quali le varie
dinastie aristocratiche e case regnanti si
contendevano l’Europa.
3. In particolare, in seguito
alla guerra di successione polacca, l’abile
ed ambiziosa Elisabetta Farnese
riuscì ad ottenere che il regno di Napoli
venisse assegnato a Carlo di Borbone,
figlio suo e di Filippo V, re di Spagna, che
l’aveva sposata in seconde nozze. Iniziava
così la dinastia dei Borbone di Napoli, il
cui primo e migliore esponente fu proprio
Carlo, in età di soli 18 anni quando ascese
al trono.
Carlo III di Borbone
4. “Aveva per natura cuor
buono, senno maggiore dell’età, sentimento
di giustizia e di carità verso i soggetti,
temperanza, desiderio di grandezza, cortesia
nei discorsi: piacevole di viso, robusto e
grande di persona, inclinato agli esercizi
di forza ed alle arti della milizia”
.
“I prìncipi rappresentano
spesso il secolo che in essi si personifica.
E Carlo III, con arte dolce non astuta e col
senno dei migliori, governò. Guadagnò i
nobili con gli onori, le classi civili colle
riforme, il popolo col lavoro ed i commerci.
Ed ai guadagni del popolo Carlo III volgeva
il lusso dell’aristocrazia...
Nessuno osò negare la grandezza
del suo regno. Il popolo, che ama spesso i
vizi dei prìncipi, ne rispetta sempre le
virtù. E perciò Carlo III è rimasto sempre
grande nella fama de’ posteri”
.
L’epoca delle riforme
(1734-1790)
5. Gli anni di Carlo III di
Borbone (1734-1759) e quelli della prima
parte del regno di suo figlio Ferdinando
IV (fin circa il 1790), furono per
Napoli l’epoca classica dell’ assolutismo
illuminato: l’asse del potere era
costituito dall’alleanza fra il potere
indiscusso ed indiscutibile del monarca e la
parte più attiva e colta dell’ aristocrazia,
del clero e della ascendente borghesia, che
dibatteva e promuoveva le idee nuove, di
riforma intellettuale e sociale, provenienti
soprattutto dalla Francia.
6. Mediatore ed interprete
politico di questa alleanza fu soprattutto
il celebre ministro Bernardo Tanucci
(Stia di Arezzo, 1698 – S. Giorgio a
Cremano, 1783) che ascese con Carlo ai
massimi gradi del potere ed a lungo vi
rimase, come presidente del consiglio di
reggenza nel periodo della minore età di
Ferdinando (1759-1767), e poi ancora dopo,
finchè non ne venne allontanato nel 1776, ad
opera soprattutto di Maria Carolina
d’Austria (1752-1814), sposata da
Ferdinando nel 1768 e, da quel momento,
sempre più arbitra delle sorti del regno.
Un periodo di
progresso nazionale
7.
In
quest’epoca, scrive il Croce, “i dotti erano
consultati ed adoperati: al Genovesi
[3] si diè l’incarico di proporre
le scuole da fondare o da riformare dopo
l’espulsione dei Gesuiti e l’incameramento
dei loro beni
[4]; al Pagano
[5] si chiesero lumi per la
riforma dei processi criminali; il Galanti
[6] venne inviato a studiare la
condizione delle provincie e a proporre i
modi da tenere per riordinarle nella
giustizia e nell’economia… Il
Filangieri
sentiva che la sua opera di studioso sarebbe
stata feconda di effetti pratici: La
gloria dell’uomo che scrive (così
nell’introduzione del suo libro) è di
preparare i materiali utili a coloro che
governano...
8. Era un periodo di progresso nazionale e ciò tutti
riconoscevano... Come dappertutto allora in
Europa, nel ripensare il passato e nel
vedere i miracoli della cultura e delle
illuminate monarchie, il petto si allargava
a un respiro di soddisfazione e di fiducia.
Anche tra i forestieri, che in gran numero
venivano a Napoli per viaggi d’istruzione e
di curiosità e scrivevano libri per riferire
e commentare ciò che avevano veduto, i più
seri concorrevano nello stesso giudizio.
9. Non già che rimanessero
nascosti i mali, che erano grandi e si
mostravano soprattutto a coloro che, come lo
Swinburne, vollero visitare le provincie; e
la plebe e il lazzaronismo di Napoli,
divenuti di fama mondiale, salirono quasi
agli onori della leggenda.
10. Ma alla miseria, alla
ignoranza, alla barbarie... non facevano
solo compenso la bellezza della città e del
golfo, i ricordi classici (riapparvero
allora, agli occhi meravigliati del mondo,
le dissepolte città di Pompei ed Ercolano),
la magnificenza della corte e della nobiltà,
e quello che si considerava come le
triomphe des napolitaines, cioè
la musica...
11. Quei viaggiatori trovavano
qui uomini studiosi e dotti e gente
coltissima, coi quali conversavano e
s’intendevano; avvertivano l’affetto dei
popoli per la monarchia ad essi benefica;
vedevano che si era occupati intorno ai modi
di migliorare l’agricoltura, aprire le
comunicazioni, difendere le coste con una
vera marina, dare forza alle leggi ed
introdurre in questo bel paese
l’abbondanza e la prosperità...”
.
Il “miglio d’oro”
12. In questo contesto, dunque,
nacque il famoso “miglio d’oro” delle ville
vesuviane: più di 100 dimore aristocratiche
,
dotate di splendidi parchi e discese sulla
spiaggia, luoghi di residenza o di sola
villeggiatura per le più nobili famiglie del
Regno.
Le ville erano poste tra il
Vesuvio ed il mare, nel tratto della
litoranea “strada delle Calabrie” compreso
fra S.Giovanni a Teduccio e la Torre del
Greco, avendo come baricentro la reggia di
Portici fatta costruire da Carlo III.
La fondazione
della règgia di Portici
13. Le circostanze, infatti,
della fondazione della reggia di Portici,
riportate da vari autori, furono le
seguenti.
Nell’anno 1738, Carlo III di
Borbone contrasse matrimonio con Maria
Amalia Walburga di Sassonia, figlia del
re di Polonia: “giovinetta che non compiva
15 anni, modesta e di costumi pura e devota”
.
Fu questo uno dei rari casi nei quali un
matrimonio combinato per ragioni di stato,
come allora sempre avveniva nelle case
regnanti, si rivelò anche di felice armonia
tra i due diretti interessati. “Rallegrava i
due sposi gioventù di entrambi, regno
felice, cuor pio, sacro nodo, piaceri vicini
ed innocenti”
.
14. Un giorno di maggio dello
stesso anno 1738, tornavano insieme da
Castellammare, dove avevano assistito alla
pesca dei tonni, per la via di terra, e...
“Alla regina parvero così belle
le campagne, le quali specialmente
sull’avvicinarsi a Napoli le si dispiegavano
agli occhi, e l’aria la quale vi si
respirava per cotal maniera soave, che non
si potendo più contenere: Oh che
bell’aria! – disse - oh che bei siti!
qui ci dovrebbe essere una villa, qui ci
dovrebbe essere una villa!
Anche al re cominciò a parerne
così, tanto maggiormente che quivi presso
doveva trovarsi buona caccia e buona pesca,
delle quali due cose egli si dilettava
moltissimo”
.
15. “Il re, la sera, raccontò
ai cavalieri gli avvenimenti del giorno,
l’andata per mare, il ritorno per terra, e
l’aver veduto dei bei casini alla Torre
della Nunziata e del Greco, ed a Portici; e
domandò al medico Buonocore se quelli erano
luoghi di buona aria.
Costui gli rispose di sì, e che
infatti il principe di Elbeuf si aveva
fatto, vicino ai Padri Alcantarini al
Granatello, quel bel palazzo che poi passò
in potere di Carlo e fu convertito in
peschiera.
Se non che, vi fu chi fece
riflettere al Vesuvio vicino ed al danno che
aveva fatto alle città sepolte ed a quello
che faceva di volta in volta con le sue
strepitose eruzioni. Ma a questo -
rispose il re - Iddio, Maria Immacolata e
S.Gennaro ci penseranno. Allora la
regina: Dunque, resta risoluto? Ed il
re, pieno di buona grazia: Risolutissimo”
.
E così avvenne che la Barra…
16. “Questo esempio di Carlo,
avvalorato dalla fiducia posta da lui nella
protezione del cielo, mosse parecchi ad
imitarlo. E così avvenne che la Barra,
e più che la Barra, Resina, Portici, Cremano
e S.Giorgio, cominciarono a popolarsi di
nobili casini, ed abitarsi da molti,
anche di altissimo grado, i quali presero a
venire da queste parti per starvi a
diporto, e taluni anche a domicilio,
piuttosto che andare altrove, come usavano
prima”
.
La vita dei nobili: il lusso e gli sprechi
17. La vita che i nobili
conducevano in queste ville era in generale,
come può immaginarsi, una vita di ozio e di
lusso, di ricevimenti e feste, di sprechi e
di ostentazioni ...
18. “Il nobile di corte”
osservava Gaetano Filangieri “non sa vivere
senza essere riscaldato dai raggi del trono.
Quest’astro, che lo oscura, che lo tormenta,
che lo degrada, è l’unico oggetto della sua
vile ambizione. Per essergli vicino, egli
trascura i suoi interessi, egli mantiene uno
stuolo prodigioso d’oziosi che servono più
al suo fasto che al suo comodo, egli consuma
le sue rendite e quelle della sua
posterità...”.
19. Così, ad esempio, di Teresa
Lembi, moglie del principe D. Tommaso di
Caramanico che aveva villa in S. Giorgio a
Cremano, si racconta che spendeva così
pazzamente che in una sola notte giunse a
giocarsi più delle sue rendite di un anno,
vale a dire 80 mila ducati!
Il giorno dopo, il principe suo
marito le mostrò un gran mucchio di sacchi
sopra una tavola, pieni di monete d’argento;
richiesto dalla principessa di cosa fossero,
le rispose che voleva solo farle vedere gli
80 mila ducati da lei giocati poche ore
prima!
E’ ben vero, però, che “la
lezione dei sacchi, dàtale dal principe,
scosse fortemente la principessa, la quale,
quinci a qualche tempo, ammalò ed infine
morì”!
.
20. Dello stesso principe di
Caramanico si racconta che si era fatto
costruire una bara, che teneva gelosamente
custodita nella sua villa; a chi gliene
chiedeva il motivo, rispondeva che aveva
dovuto pensare lui stesso a quella spesa,
perchè non sapeva se sarebbe stato in grado
di farla qualcuno dei suoi, dopo la sua
morte!
21. Il drammaturgo Niccolò
Amenta, dal canto suo, esaltò l’imponenza
dei palazzi vesuviani specialmente
impressionato dagli impianti igienici: acqua
corrente nelle cucine e “un cesso in ogni
stanza, che vi stan dei pitàli dove agiàto
cacàr ti vien permesso”. “Si può capire,
Amenta soffriva di dissenteria. Ma i
particolari da lui registrati (pur
maleodoranti) sono, per l’epoca, indici di
grande agiatezza e modernità”
.
La vita dei nobili: la cultura
22. Del resto, le ville
vesuviane non erano soltanto luoghi di
spreco e di ostentazione.
Nell’area vesuviana, alcune
ville furono, fin dal Quattrocento,
importanti sedi accademiche fra cui quella
di Antonio Beccadelli detto il Panormita,
ubicata presso il convento di S. Francesco
in Portici
.
Nel secolo successivo, la
tradizione continuò nella villa di
Bernardino Martirano, la celebre
Leucopetra
,
che fu anch’essa una delle più importanti
sedi accademiche, luogo di incontro di
letterati, filosofi e uomini di scienza,
come Scipione Capéce, Agostino Nifo e
Bernardino Telèsio.
Tra fine Seicento ed inizio
Settecento, il Niccolò Amenta di cui sopra
non si occupava solo di “cessi” e di “pitàli”:
egli racconta, fra l’altro, come fosse
solito intrattenersi con il filosofo Paolo
Mattia Doria in lunghe discussioni nella
prestigiosa biblioteca del Palazzo Capuana,
in Portici, ricca di manoscritti del
Cinquecento.
23. “Infine, nel Settecento…
molti giardini delle ville vesuviane
appartenenti a famiglie illustri della
nobiltà, furono luoghi di riunione, di
ritrovo e dibattito sulle arti, le scienze,
la musica...
In particolare, un tratto
comune a molti esponenti della nobiltà
partenopea fu l’interesse per le scienze
ermetiche e per l’alchimia, e
tali interessi e curiosità condizionarono
fortemente la stessa progettazione di
molte ville e giardini …
Alla Barra, riferimenti
simbolici si ritrovano, ad esempio, nel
giardino del Principe di San Nicandro,
precettore di Ferdinando IV di Borbone, ove
compare nella forma di alcune aiuole il tema
dell’uovo filosofico riconducibile
alla mònade geroglìfica di John Dee …
o nel giardino annesso al palazzo del
Principe di Bisignano, ove le matrici
compositive denotano figure di costruzione
riferibili ad opere di Giordano Bruno.
Sempre a Barra, va ricordato
l’ampio giardino del palazzo dei
Pignatelli di Monteleone, ove i rondò,
posti nei punti di incontro della griglia
dei viali, furono disposti in modo da
comporre un albero sefiròtico”
.
La vita dei contadini
24. La presenza delle ville
comportò anche un complessivo miglioramento
delle condizioni di vita nei Casali
interessati.
25. Numerosi contadini
abbandonarono il duro lavoro dei campi e
vennero assunti, a vario titolo, come servi
nelle ville dei “signori”: meglio vestiti,
meglio alloggiati e con attività comunque
meno gravose, poterono così condurre una
vita mediamente più agiata ed entrare in
contatto con usi e mentalità, nel bene e nel
male, più “civili”.
26. Analogamente, potè
svilupparsi, per le esigenze di “signori”
magari capricciosi ma che potevano
permettersi di pagare bene, un artigianato
più diffuso e meglio qualificato: si pensi
solo a falegnami, sarti, “mannési”
,
maniscalchi, vetrai, muratori, decoratori,
fiorai... tutto un composito mondo popolare
che traeva di che vivere dalle esigenze, e
dagli stessi sprechi, dei “signori”; sicchè
davvero “il lusso dell’aristocrazia volgeva
ai guadagni del popolo”, secondo
l’espressione del Palomba.
27. Anche quei contadini, ed
erano naturalmente la maggioranza, che
continuarono a lavorare la terra
(demaniale), disposero comunque di
migliorate condizioni: la frutta e gli
ortaggi, già di per sé merce pregiata,
poterono ora essere venduti anche, senza
bisogno di andare ogni giorno in città, ad
un mercato “locale” (le mense dei
“signori”), tendenzialmente abbondevole e
“magnifico”.
28. La presenza di tanti nobili
procurava poi anche la necessità, da parte
loro, di avere un contesto complessivamente
più decoroso: strade un po' più pulite ed un
tantino meglio illuminate, una migliore
difesa del suolo e canalizzazione delle
acque piovane, il proseguimento dell’opera
di bonifica delle paludi ... e tutto questo
tornò ovviamente a vantaggio dell’intera
popolazione.
Barra: Casale règio della
città di Napoli (1797)
29. Anche Barra, quindi,
inserita nel contesto del miglio d’oro, vide
alquanto migliorate le proprie condizioni e
raggiunse in quest’epoca la sua classica
configurazione di “Casale règio”, che
vediamo disegnata nella carta topografica
del duca del Noja (1775) e così descritta
dal Giustiniani nel suo “Dizionario
geografico ragionato del regno di Napoli”
(1797):
30. “BARRA - Casale règio della
città di Napoli, alla distanza di miglia 3
in circa, e situato in luogo piano...
L’aria che si respira in detto
casale in certi tempi dell’anno è un poco
umida, e talvolta i venti vi menano le
cattive esalazioni delle paludi, che
gli sono d’intorno a picciola distanza.
Nulladimeno, vi si veggono
belle casìne, con eleganti ville di Signori
napoletani, e specialmente quelle del
principe di Sannicandro, del conte
dell’Acerra, e di altri.
Fin dallo scorso secolo,
Gaspare di Roomer, fiammingo e ricco
negoziante, vi fabbricò un grande
edificio, ove alloggiò poi la regina di
Ungheria nel passaggio all’impero, il quale
dopo la sua morte fu abitato dal principe
della Roccella Caraffa ed indi dal conte
di Chiaromonte Sanseverino.
Il suo territorio produce buoni frutti, e vi
allignano assai bene gli agrumi.
I vini, però, non han che fare con quelli di
altri paesi, che si avvicinano più alle
radici del Vesuvio. In que’ libri, ove
trovasi notato che la Barra fa esquisiti
vini e lagrime, è un errore de’ loro
scrittori. Gli ortaggi sono similmente
buoni.
La sua popolazione ascende a
circa 5.490 individui e, oltre
dell’agricoltura, non vi trovo tra essi
altra degna manifattura”.
31. Dunque, alla fine del
Settecento, gli elementi che più apparivano
caratterizzare il Casale erano
l’agricoltura (frutta e ortaggi) e le
ville signorili.
Classificazione storica delle
ville Barresi
32. Le ville signorili
barresi possono essere classificate in tre
periodi storici:
-
le
ville-masseria del Seicento
(villa Amalia, villa Filomena e villa
Mastellone: vedi nn°13-15 de “La Barra
nel Seicento);
-
le ville “di
delizia”, edificate ex-novo o
radicalmente ristrutturate nel
Settecento (villa Roomer-Bisignano,
villa de Càrdenas-Spinelli, villa
Pignatelli di Monteleone, villa San
Nicandro-Giulia, villa
Puoti-Salvetti-Torricelli, villa De
Cristofaro, villa Quaranta-Finizio);
-
le ville
nobili che non compaiono nella mappa del
duca di Noja e sono perciò successive
al 1775 (villa Letizia e villa S.
Anna all’Abbeveratoio).
A queste vanno poi aggiunte,
più piccole e più numerose, le ville
borghesi, quelle cioè appartenenti a
famiglie benestanti ma non-nobili, edificate
soprattutto nel periodo del Decennio
francese (1805-1815) ed in quello successivo
all’unità d’Italia (1860).
La Villa Sanseverino di Bisignano
33. Pochi anni dopo la
sollevazione di Masaniello, Gaspare Roomer
cedette la sua splendida villa di Barra
non “al principe della Roccella
Caraffa”, come erroneamente dice il
Giustiniani (vedi sopra, n°30) bensì
alla famiglia dei marchesi d’Avalos del
Vasto, in cambio di un loro palazzo
costruito nel 1581 e sito in Napoli tra via
Toledo e via Quercia
.
Così, nel 1692, il Celano menziona il
palazzo “del fu Gaspare Roomer, fiammingo,
ora posseduto dal marchese del Vasto,
per commutazione fatta della sua casa, come
si disse: questo non ha che desiderare, sì
nella magnificenza delle statue come nella
amenità de’ giardini”
.
34. Successivamente
(ma certo prima del 1709, secondo
l’indicazione del Parrino) la villa passò a
Girolamo Pignatelli (1641-1701), I
prìncipe di Màrsico Nuovo
.
A conferma di ciò,
dai Registri parrocchiali di Barra si desume
che il 29 maggio 1706 vi si celebrarono
fastosamente le nozze tra la figlia
primogenita di questi, Ippolita Pignatelli,
e Francesco Spinelli (1681-1752) VII
prìncipe di Scalèa.
35. Infine, con
documento datato 1 maggio 1765,
Girolamo Pignatelli (1721-1777), III
prìncipe di Marsico Nuovo e I prìncipe di
Moliterno, e il suo figlio ed erede Giovanni
Battista (1740-1805), in cambio delle
rendite di vari “arrendamenti”, cedettero
l’edificio di Barra alla famiglia dei
Sanseverino, e precisamente a Pietro
Antonio II Sanseverino (1724-1772),
conte di Chiaromonte e XI principe di
Bisignano
,
ed a sua moglie Aurelia Caracciolo dei
principi di Terranova.
36. L’acquisto
della villa da parte di Pietro Antonio
Sanseverino, conte di Chiaromonte nonché
principe di Bisignano, è ricordato (oltre
che dal grande stemma della famiglia
Sanseverino di Bisignano, che è tuttora
visibile sopra il portone d’ingresso) anche
nella lapide che si trova ancora adesso
nell’atrio della villa, a sinistra di chi
entra, e che reca la scritta
:
AEDEM
VETUSTATE CORRUPTAM
PROXIMIQUE
VESEVI FURORIBUS
SAEPIUS
LABEFACTATAM
QUAM SIBI
POSTERISQUE SUIS EMIT
SAECULO
XVIII VERTENTE
PETRUS ANT.
SANSEVERINUS
CLAROMONTIS
COMES
ALOISIUS
SANSEVERINUS
BISINIANENSIUM PRINCEPS
PRISCO
ARTIUM NITORI
RESTITUENDAM
CURAVIT
A. M DCCC
LXX VI
CAJETANO DE
HENRICO
OPERIS REGUNDI PRAEFECTO
Traduzione:
LA CASA,
ROVINATA DAL TEMPO
E DAI FURORI
DEL VICINO VESUVIO
PIU’ VOLTE
DISTRUTTA,
CHE PER SE’
E PER I PROPRI DISCENDENTI ACQUISTO’,
NEL CORSO
DEL 18° SECOLO,
PIETRO
ANTONIO SANSEVERINO
CONTE DI
CHIAROMONTE,
LUIGI
SANSEVERINO
PRINCIPE DI
BISIGNANO
ALL’ ANTICO
ARTISTICO SPLENDORE
CURO’ CHE
RITORNASSE
NELL’ANNO
1876,
GAETANO DE
ENRICO
ESSENDO
DIRETTORE DEI LAVORI
37. La lapide, come si nota, fu
apposta solo nel 1876 (quindi, dopo l’unità
d’Italia), quando, evidentemente in
occasione del primo centenario della
conclusione dei lavori di restauro eseguiti
dai Sanseverino nel periodo 1765-1776, venne
effettuato un nuovo restauro, per volontà di
Luigi III Sanseverino (1823-1888), XV
ed ultimo principe di Bisignano, ed a cura
di Gaetano De Enrico.
|
Assonometria del palazzo Bisignano (a
cura di M. Liaci) |
38. In effetti, quel 1°maggio
1765, i Sanseverino ricevettero la villa in
condizioni parecchio dissestate, ma la
riportarono in poco tempo all’antico
splendore, adeguandola alle nuove esigenze
di “villa di delizia” per una delle più
cospicue famiglie del regno, quali essi
erano.
39. “Nel giardino più che nel
palazzo, si scorge il danaro profuso
dall’eccellentissima famiglia di Bisignano
per il miglioramento di una proprietà tanto
cospicua, destinata unicamente al diporto di
nobili personaggi. Templi, colonnati,
fontane, grotte, sedili di marmo, piante
botaniche di ogni specie, frutti scelti...
per una prospera vegetazione... il tutto
immaginato e distribuito con proprietà e
doviziosità”
.
40. In particolare, i
Sanseverino di Bisignano trasformarono il
giardino, già esistente, in un vero e
proprio “Orto botanico”, secondo quella
nuova sensibilità “scientifica” che si
andava diffondendo, col pensiero
illuminista, nella parte più colta
dell’aristocrazia napoletana.
L’orto botanico del principe
di Bisignano alla Barra
41. Al principio del
Settecento, esisteva in Napoli un piccolo
Orto botanico privato, che trae la sua fama
ed importanza dal nome illustre di
Domenico Cirillo (1739-1799), lo
scienziato e patriota napoletano che
partecipò alla vicenda della Repubblica
napoletana del 1799 e fu condannato a morte
nella successiva repressione borbonica.
42. Questo Orto era situato nel
giardino di casa Cirillo, in località Ponte
Nuovo, ed era stato costruito e pre-ordinato
dallo zio di Domenico, Nicola Cirillo
(1671-1734), professore di fisica e
medicina nell’Università di Napoli, che
teneva corrispondenza col celebre Micheli ed
aveva quindi buone cognizioni botaniche.
Fu proprio in quest’Orto che
Domenico Cirillo fu educato e istruito,
dallo zio, alla conoscenza e all’amore delle
piante. Avendo trovato l’Orto ordinato
secondo il metodo Tournefort, egli lo
ricompose secondo quello di Linneo, lo
arricchì di specie indigene ed esotiche e ne
fece strumento di ricerca per sé e per i
suoi numerosi collaboratori. L’Orto
cirilliano andò purtroppo disperso in
seguito ai turbinosi avvenimenti del 1799 e
alla morte dello stesso Domenico Cirillo.
43. “Saliva intanto
in fama il giardino che prima il conte di
Chiaromonte e poi il figlio di lui, principe
di Bisignano, piantar facevano nella loro
villa di Barra”
[28]. Barra ebbe quindi un
Orto botanico ben prima che venisse fondato
quello di Napoli
[29].
44. In effetti, fu nell’Orto di Barra che fece le prime
osservazioni e la prima esperienza botanica
Vincenzo Petagna (1734-1810),
successore di Cirillo nel 1779 alla cattedra
di botanica dell’Università di Napoli. Grato
ai Sanseverino dell’ospitalità, egli dedicò
a loro il genere Sanseverinia, che
poi venne mutato da Willdenow nel più noto
genere Sanseviera.
45. Vincenzo
Petagna fu quindi il primo direttore
dell’ ”Orto del Principe di Bisignano alla
Barra” e se ne occupò in permanenza, anche
perchè era “medico ordinario” di quel
Casato, cosicchè l’istituzione “acquistò
forma di scientifico stabilimento”
.
46. Successivi direttori
dell’Orto di Barra furono il celebre
Michele Tenore (1780-1861), allievo del
Petagna, che da giovane “ne pose a stampa
due copiosi cataloghi” (nel 1805 e nel
1809), e quindi il Gussone
.
47. Nel frattempo (aprile 1783) il principe Luigi II,
figlio di quel Pietro Antonio II Sanseverino
che aveva acquistato la villa, trovandosi in
malfermo stato di salute, fece cessione dei
feudi e dei titoli dei Bisignano al fratello
minore Tommaso, venendo poi a morte il 1°
ottobre del 1789, all’età di soli 31 anni.
Il garofano di Bisignano
48. Tommaso Sanseverino (1759-1814) fu dunque il XIII
principe di Bisignano; egli si rese
benemerito della cultura ed in particolare
di quella scientifica. Mentre suo padre e
suo fratello erano stati solo dei colti
mecenàti, egli, a contatto con il Petagna e
con il giovane Michele Tenore, divenne un
vero e proprio studioso di botanica:
arricchì il suo giardino di Barra con piante
importate da ogni dove e creò
personalmente una nuova varietà di
garofano (color rosso chiaro, con stelo e
foglie èsili) che da lui prese il nome di
garofano di Bisignano.
49. Il principe Tommaso
perdette i suoi feudi nel 1806, in seguito
alla legge di abolizione della feudalità
emanata, nel decennio francese (1805-1815),
proprio da quello stesso re Giuseppe
Bonaparte che, nel 1807, iniziò la
costruzione dell’Orto botanico di Napoli.
Gli rimasero, naturalmente, tutti i titoli
nobiliari, oltre che una cospicua fortuna
come “libero proprietario” di terre e di
altri beni mobili ed immobili. Fu anche
Consigliere di Stato, Gran Cancelliere
dell’Ordine Reale delle due Sicilie nonché
socio onorario della Reale Accademia di
Storia e di Belle Lettere.
La lenta decadenza
50. Con la sua morte (23
settembre 1814) e la quasi contemporanea
apertura dell’Orto botanico napoletano
(1817), iniziò la lenta decadenza del
giardino della Villa Bisignano in Barra,
anche se, ereditato da Pietro Antonio III
(1790-1865), XIV principe della casàta,
esso rimase molto famoso per tutto
l’Ottocento e, fino ad alcuni decenni fa,
ancora ne durava il ricordo.
51. Dopo la
catalogazione fàttane da Michele Tenore nel
1805 e nel 1809, un completo elenco di tutte
le piantagioni in esso contenute fu rifatto
dopo l’unità d’Italia, nel 1863, in un
“Inventario delle piante coltivate nell’Orto
botanico”, oggi custodito presso l’Archivio
di Stato di Napoli
.
Cenni descrittivi della Villa
Sanseverino di Bisignano
52. Teresa Colletta sottolinea
l’importanza della villa del Roomer “quale
testimonianza di architettura civile
sub-urbana del primo Seicento”, di tipo
intermedio tra il grande modello
rinascimentale (di cui Napoli vantava esempi
famosi, come le ville Aragonesi di
Poggioreale e della Duchesca) e le “ville di
delizia” vesuviane settecentesche.
53. La pianta del palazzo è ad
U. Esso è chiuso sul fronte strada del Corso
Sirena (sul quale domina “con la sua rossa
mole e la svettante torre”) e con
in-interrotto muro (che cingeva anche il
giardino retrostante) lungo la attuale via
Villa Bisignano, ma aperto all’interno in un
ampio cortile porticato con tre arcate,
collegato al giardino retrostante mediante
un altro lungo portico con sette grandi
arcate.
|
Villa Bisignano nella pianta del duca di
Noia |
54. Sul portico, come sulle ali
laterali del cortile, con grande effetto
scenografico, corre una vasta terrazza,
arricchita da una preziosa balaustra con
pilastrini in piperno finemente scolpiti di
gusto “fiammingo”, fra i quali quello
raffigurante l’aquila bicipite degli
Asburgo, realizzato in occasione della
visita (dall’8 agosto al 19 dicembre 1630)
di Donna Maria Anna d’Austria, sorella del
re di Spagna Filippo IV, che andava sposa al
re d’Ungheria. Dalla terrazza si coglieva la
veduta del Vesuvio (in asse con il viale
centrale del giardino), della verde campagna
circostante e, nei giorni di cielo limpido,
anche del mare.
55. E’ da notare che, prima
della sopra-elevazione settecentesca, la
parte centrale della facciata (lungo il
Corso Sirena) era costituita solo dal piano
terra, destinato ai servizi, e dal piano
nobile, con una “grande galleria” (che
comprendeva tutta la parte centrale del
piano nobile) e una “loggia coverta”, con
tre mirabili archi tuttora visibili.
La pecularietà dell’edificio
consisteva proprio nell’evidenziare tale
parte centrale, coperta a tetto all’altezza
del piano nobile: solo i corpi laterali
presentavano un secondo piano. Tale
originalità andò purtroppo perduta con la
ristrutturazione operata dai Sanseverino di
Bisignano nel Settecento.
56. I Sanseverino, nell’operare
la trasformazione del giardino in Orto
botanico, aggiunsero anche un edificio “per
le stufe delle piante” che, con una
magnifica facciata comprendente anche un
grande orologio, faceva da confine tra il
giardino e la masseria retrostante. Questo
edificio è andato purtroppo completamente
distrutto e si può vedere solo nei disegni
conservati nell’Archivio privato dei
Sanseverino di Bisignano, riportati da
Teresa Colletta nel suo articolo.
|
Fabbricato per le stufe delle piante |
57. La “grande galleria” del
piano nobile era riccamente ornata e
affrescata con scene bibliche (“Storie di
Mosè”), opera del pittore napoletano
Aniello Falcone (1607-1656), che era in
effetti grande amico (e fornitore) di
Gaspare Roomer il quale, secondo la
testimonianza del De Dominici, “prendeva
tanto diletto delle opere e del conversare
faceto e bizzarro di Aniello, che spesso lo
andava a ritrovare in casa, e quando trovava
ivi un dipinto di suo genio, lo comperava,
benché fatto di altrui commissione”.
58. La galleria comprendeva
certamente molti dipinti, raccolti dal
Roomer e poi dai Sanseverino di Bisignano:
si ha testimonianza sicura, riportata da
Teresa Colletta, di “un gran quadro di
storie, dipinto ad olio di buona maniera dal
nostro Cestari
,
la cui altezza è frammezzata da due
cornicioni dorati”.
59. Lo storico di Barra
Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889,
accenna anche ad una “cappella gentilizia”
istoriata dal “parmigiano Lanfranco”
.
60. La merlatura traforata
della torre, di stile neo-medioevale, risale
invece con ogni probabilità al restauro
compiuto nel 1876.
L’ombra di Giordano Bruno sul
palazzo?
61. L’architetto Filippo
Barbera, nel suo bel volume citato in nota
19, parla dell’ombra di Bruno nel
progetto del palazzo, scrivendo: “Da una
attenta analisi, ho riscontrato che il
rettangolo del palazzo, comprensivo di
edificio e portico, viene ricavato da una
fonte iconografica riconducibile ad alcuni
schemi geometrici disegnati da Giordano
Bruno (1548-1600).
62. E precisamente, il palazzo
fu disegnato assumendo come riferimento la
celebre Tavola XIX pubblicata da Giordano
Bruno negli Articuli centum et sexaginta
ove si rappresenta un quadrato, ripartito in
moduli quadrati più piccoli, che risulta
racchiuso in un rettangolo avente lato
minore uguale a quello del quadrato. Lo
stesso disegno fu pubblicato da Bruno anche
sulla Tavola XXXII del De triplici minimo
et mensura.
|
Il Fondamentum di Giordano Bruno |
63. Si tratta del frazionamento
verso il minimo di un quadrato, in ragione
dei triangoli in cui è scomponibile.
L’immagine è denominata Fondamentum.
La costruzione geometrica riprende quella
analoga del De limis insecabilis
secondo l’edizione giuntina di Aristotele
(Vol.VII, c. 165.r).
64. In altri termini, l’ignoto
architetto artefice del palazzo disegnò il
rettangolo, che va dal profilo posto sul
Corso Sirena fino al profilo del porticato
che dà sul giardino, nelle stesse
identiche dimensioni del rettangolo
disegnato da Giordano Bruno. È come se, tra
gli infiniti modi di disegnare un
rettangolo, si fosse scelto proprio il
Fondamentum bruniano”.
L’armonia musicale nelle
finestre della torre
65. Lo stesso Barbera aggiunge
poi: “Di un certo interesse è anche la torre
a pianta quadrata, nella quale è ubicata la
scala di collegamento ai piani superiori, la
cui caratteristica è nelle piccole
finestre ad archi che s’affacciano nel
cortile del palazzo. Nessuno ha finora
prestato attenzione al fatto che, pur
mantenendo costante la loro larghezza, le
altezze, calcolate dal bàsolo in piperno
fino alla chiave dell’arco, risultano tutte
diverse l’una dall’altra seguendo una
proporzione aritmetica basata sulle leggi
dell’armonia musicale di ascendenza
pitagorica”.
Anche sul giardino l’ombra di
Bruno?
66. Anche nella progettazione
del giardino, secondo il Barbera, è
ravvisabile l’ombra di Bruno.
|
Planimetria del giardino della Villa
Bisignano |
Il giardino annesso alla villa
si sviluppava su un’area di forma
rettangolare la cui lunghezza era pari a due
volte la larghezza. Esso presentava quattro
grandi parterre, di pianta
rettangolare, lungo gli assi di due viali
disposti a croce ed al centro della croce
compariva un rondò con fontana: l’insieme
definiva una scacchiera costituita da otto
quadrati, che definivano a loro volta i
centri dei piccoli cerchi, smussanti gli
angoli dei parterre, visibili nel
disegno riportato sulla mappa del duca di
Noja.
67. La ripartizione modulare
del giardino sembra richiamarsi, anche in
questo caso, a figure geometriche che
ritroviamo in opere di Giordano Bruno. La
memoria va alla Tavola XX del De minimo
denominata Atrium Minervae, disegno
che corrisponde poi alla Figura
intellectus presente negli Articuli
centum et sexaginta.
|
La rosa di Bovillus |
68. Lo schema geometrico che
ricorre in tali figure bruniane fu ispirato
alla Geometrica Rosa illustrata nel
Libellus de mathematicis rosis di
Carolus Bovillus (Charles De Bovelles) che
pubblicò la sua opera a Parigi nel 1510 e
che fu appunto all’origine di questo schema
geometrico, “molto diffuso nella
progettazione del Rinascimento”. E si sa che
Bovillus fu autore da Bruno molto
apprezzato.
L’opinione di Filippo Barbera
…
69. La conclusione di Filippo
Barbera è che i richiami che appaiono sia
nel progetto del palazzo sia in quello del
giardino “palesano una evidente conoscenza
delle opere di Bruno da parte dell’ignoto
progettista del palazzo e del suo illuminato
committente (e forse anche del primo
committente cioè il Roomer), e
l’assunzione dello schema geometrico
bruniano potrebbe spiegarsi come un
generoso omaggio tributato all’opera del
filosofo … per manifeste simpatie verso le
sue dottrine filosofiche”.
… e quella dell’autore
70. Personalmente, da un punto
di vista più direttamente storico, ritengo
che sia da escludere l’ombra di Bruno
per quanto riguarda l’edificio voluto da
Gaspare Roomer all’inizio del Seicento.
Il Roomer era infatti un fervente cattolico
e un devotissimo praticante, personalmente
legato da rapporti di amicizia con vari
esponenti della gerarchia ecclesiastica, e
pertanto non avrebbe mai potuto volere nel
suo palazzo qualcosa che richiamasse, anche
indirettamente, un frate domenicano eretico
bruciato sul rogo pochi anni prima (1600)
dell’inizio della costruzione del palazzo
stesso (intorno al 1620). Inoltre, per
quanto ne sappiamo, Roomer era anche uno che
sapeva scegliersi molto bene i suoi
collaboratori …
71. Mi sembra invece senz’altro
possibile, ed anzi probabile, che quando i
Sanseverino di Bisignano, nella seconda
metà del Settecento, fecero
ristrutturare parzialmente il palazzo e
totalmente il giardino, fossero a
conoscenza (almeno di alcune) delle
opere, per quanto proibite, di Giordano
Bruno e pensassero di far tributare, dal
loro ignoto architetto, un generoso
omaggio alla figura del filosofo nolano.
A quell’epoca, infatti,
Raimondo di Sangro, VII principe di
Sansevero (1710-1771) nonché capo
carismatico della Massoneria napoletana,
svolgeva con successo una attiva propaganda
delle idee massoniche presso i ceti colti in
generale e in particolare presso la nobiltà
napoletana. Ed anche se la figura di
Giordano Bruno divenne una sorta di
“bandiera ufficiale” della Massoneria solo
nella seconda metà dell’Ottocento, attirava
tuttavia fin dal secolo precedente la
“studiosa curiosità” di molti Massoni.
Villa De Càrdenas di Acerra – Spinelli di
Scalèa
72. Il
Parrino, scrivendo nel 1709, attesta
che già allora era presente in Barra una
villa del “conte dell’Acerra de Càrdenas” ed
il Giustiniani conferma la presenza di una
villa “del conte dell’Acerra” nel 1797.
73. Lo storico di Barra
Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889,
riferisce poi: “Quivi ancora, inverso la
metà del secolo passato (quindi, verso la
metà del Settecento), vennero a piantare
le loro tende estive, con edifizio vistoso,
i famosi Conti di Acerra, i quali pur
nell’oggi (1889) vantano una Villa
ricercatamente mantenuta ed oltremodo
piacente!
E fra questi due edifizi: dei
Sanseverino, principi di Bisignano, e dei
Spinelli, conti di Acerra, dovette
estendersi la Barra dei Coczis posta
in territorium Tresano, ossia la così
detta Barra di sopra, la quale doveva
finire a Giambattista Vela… e… anche
nell’oggi vi termina idealmente…”.
74. Occorre qui precisare che
il titolo e il feudo di “conte di Acerra”,
insieme a quello di “marchese di Laìno”,
appartenevano di per sé alla famiglia di
origine spagnola de Càrdenas:
Ferdinando I (Ferrante) de Càrdenas
(1450-1511) ne ricevette l’investitura
da Federico III d’Aragona (1496-1501),
ultimo re della dinastia aragonese in
Napoli, e la famiglia de Càrdenas ne rimase
in-interrottamente titolare per più di tre
secoli, fino cioè alla legge di abolizione
della feudalità nel 1806.
75. Nel corso di questi tre
secoli, però, la famiglia de Càrdenas si
imparentò in maniera molteplice con la
famiglia Spinelli: quasi ad ogni
generazione, troviamo qualcuno (a) dei de
Càrdenas che sposa qualcuno (a) degli
Spinelli.
|
Stemma Spinelli - de Cardenas |
76. Conseguentemente, quando la
famiglia de Càrdenas si estinse, il che
avvenne con Maria Giuseppa de Càrdenas,
ultima superstite, che il 7 ottobre 1792
sposò il generale Francesco Pignatelli di
Stròngoli (1734-1812) e che morì nello
stesso anno del marito (1812), il titolo di
“conte di Acerra e marchese di Laìno” passò
nella famiglia Spinelli: il 21 aprile 1895,
poco prima di morire, Francesco Spinelli
(1820-1897) ne ebbe il riconoscimento
ufficiale dal re d’Italia con apposito
Decreto Ministeriale.
L’origine della villa
77. L’origine della villa
Barrese può quindi situarsi nel periodo del
vice-regno spagnolo, ed in particolare già
nella prima metà del Seicento, ad
opera della famiglia de Càrdenas, conti
di Acerra e marchesi di Laìno.
78. Infatti,
già il 30 dicembre 1640, risulta
morta in Barra Donna Isabella Spinelli
(1602-1640) che il 10 luglio 1625 aveva
sposato Alfonso III de Càrdenas, VI conte
di Acerra e marchese di Laino. Ed il
17 marzo 1641 muore a Barra il padre di
Alfonso III e cioè Carlo I de Cardenas
(1560-1641), V conte di Acerra e marchese di
Laino.
79. Abbiamo
poi il matrimonio, celebratosi in Barra
il 14 aprile 1652 fra Troiano
II Spinelli (IV principe di Oliveto, V
duca di Aquara e VII marchese di Vico) e
Maria de Càrdenas (figlia di Alfonso III
de Cardenas, di cui sopra). Questo
matrimonio, come detto, risulta celebrato a
Barra, ed inoltre uno dei figli che ne
nacquero, cioè la quartogenita Faustina,
risulta anch’essa nata a Barra, il 12
luglio 1658.
80. Sembra dunque del tutto ovvio che già
alla metà del Seicento esistesse in Barra
una dimora de Càrdenas-Spinelli,
prevalentemente, anche se non soltanto, ad
uso di “villeggiatura”. Quasi contemporanea
alla villa del Roomer, ed insieme ad essa, è
perciò la più antica tra le
grandi ville “di delizia” di Barra, anche se
ha ovviamente subìto varie modifiche nel
corso del tempo e, in particolare, un
evidente rifacimento Settecentesco.
81. Ciò è
confermato dai dati relativi ad un altro
matrimonio, della generazione successiva:
questa volta è lo stesso titolare in carica
del feudo di Acerra ovvero Carlo II de
Càrdenas, VII conte di Acerra e marchese
di Laìno, che impalma, in data 15 maggio
1674, Donna Francesca Spinelli,
una delle sorelle minori di Antonio I
Spinelli, VI principe di Scalèa. Due dei tre
figli nati da questo matrimonio, ovvero il
secondogenito Troiano ed il terzogenito
Pietro, risultano nati a Barra: Troiano, in
data 11 settembre 1685; e Pietro, in data 9
maggio 1689. E la stessa Donna Francesca
Spinelli risulta morta in Barra il 6
aprile del 1725.
Il “ramo Barrese” della
famiglia Spinelli
82. E’
tuttavia intorno alla metà del Settecento,
come dice il Cozzolino, che inizia la
vicenda degli Spinelli più propriamente
“Barresi”: il 28 febbraio 1745, Antonio
II Spinelli (1715-1787), VIII principe
di Scalea, sposa Giovanna de Càrdenas
(1722-1779), figlia di Alfonso IV, VIII
conte di Acerra e marchese di Laino.
83. E’
evidentemente intorno a questa data (1745),
ed in relazione a questo matrimonio, che la
pre-esistente dimora Barrese de
Càrdenas-Spinelli diventa “l’edifizio
vistoso” di cui parla il Cozzolino, ed
assume la planimetria riportata nella mappa
del Noja e l’aspetto Settecentesco,
sostanzialmente pervenuti fino a noi.
84. In
questo periodo (vedi sopra, nn°5-6) gli
Spinelli, famiglia di antica nobiltà
napoletana, erano “particolarmente attivi
nel fare gli onori al re; strettamente uniti
fra di loro e numerosi, rappresentavano un
partito e una forza che Tanucci indicava
come la Spinellerìa”
.
Lo stesso
cardinale arcivescovo di Napoli fu, dal 1734
al 1754, quasi in perfetta contemporanea con
gli anni di regno di Carlo III di Borbone,
un componente della Spinelleria:
Giuseppe Spinelli dei marchesi di Fuscaldo
(1694 - 1763).
|
Card. Giuseppe Spinelli |
Nella chiesa
di S.Caterina a Formiello, vicino alla Porta
Capuana, tuttora si possono vedere i
monumenti sepolcrali degli Spinelli più
illustri, compresi alcuni fra quelli che
andiamo citando.
85.
Comunque, a partire dal matrimonio del 28
febbraio 1745, possiamo seguire più da
vicino le vicende di quel ramo della
famiglia Spinelli che, con maggior
frequenza, stette in Barra.
86. Da quel
matrimonio, nacquero 8 figli, di cui 6
femmine. Dei due maschi, il primogenito fu
Vincenzo Maria (1746-1810), pertanto IX
principe di Scalea; quello che abbiamo
chiamato il “ramo Barrese” trae però origine
dal fratello minore di Vincenzo Maria e cioè
Francesco Spinelli (1749-1807).
Antonio Spinelli (1795-1884)
87.
Francesco Spinelli (1749-1807), già più che
quarantenne, sposò Maria Giuseppa Caterina
Ungaretti da Gaeta e ne ebbe 6 figli (4
maschi e 2 femmine), il primo dei quali fu
Antonio Spinelli (1795-1884), nato a
Capua, il quale divenne una personalità di
primo piano nella politica e nella cultura
napoletane, nel periodo successivo al
Congresso di Vienna e alla seconda
restaurazione borbonica.
88. Nel 1820
fu nominato direttore del Grande Archivio di
Napoli e, nel 1826, Sovrintendente
generale degli Archivi del Regno. In
tale veste, si oppose energicamente al
progetto di affidare tutti gli Archivi dello
Stato ai monaci di Montecassino e promosse
“la grande organizzazione degli Archivi del
Regno”.
89. Questo
suo impegno raggiunse il culmine nel 1845
quando, in occasione del VII Congresso degli
scienziati italiani, che si tenne a Napoli,
presentò il “Ragionamento degli Archivi
napoletani”, pubblicato dalla Stamperia
reale, e riuscì ad ottenere il trasferimento
dell’Archivio di Stato di Napoli dalla
vecchia sede di Castel Capuano alla nuova e
più idonea sede nel monastero dei SS.
Severino e Sossio, dove ancora attualmente
si trova.
90. Per due
bienni (1833-35 e 1840-42), partecipò alla
vita politica a livello locale, in qualità
di “decurione” della città di Napoli e
successivamente partecipò alla stipula dei
Trattati di commercio e di navigazione fra
il Regno di Napoli e diversi paesi esteri,
finché nel 1847 fu nominato Ministro
dell’Agricoltura e del Commercio
(Ministero che prevedeva però anche
competenze in materia di musei, scavi
archeologici, belle arti, pubblica
istruzione, etc.). Da questo incarico di
governo si dimise dopo breve tempo, nel
famoso 1848, ritirandosi a vita privata.
91. Il 25
giugno del 1860, l’ultimo Re di Napoli,
Francesco II di Borbone, lo richiamò alla
politica attiva, nominandolo Primo
ministro e Segretario di Stato proprio
nel momento più critico per il Regno
napoletano, mentre era in corso la
spedizione dei Mille.
92. “Dei
nuovi ministri, la maggior forza morale era
quella del presidente del consiglio Antonio
Spinelli, vissuto 12 anni fuori dalla vita
pubblica … Era uomo di forte carattere e di
grande dirittura d’animo. Sperò, accettando
la presidenza del ministero costituzionale,
in una resurrezione del Regno di Napoli,
confederato col Piemonte. Ma, al punto
in cui erano giunte le cose, non se ne
nascondeva le difficoltà.
Il conte
d’Aquila, che si dette un gran da fare per
mettere insieme quel ministero, andò a
chiamarlo da parte del Re. Lo Spinelli
era alla sua villa di Barra.
E pur
sentendo la gravità del sacrificio, accettò
con la coscienza di sacrificarsi per il bene
del paese. Liberale e costituzionale
convinto, disse, agli amici che gli
facevano premura di accettare, costargli
poco l’annullamento della sua persona,
perché, ove mai la rivoluzione trionfasse,
egli non sarebbe venuto mai meno agli
obblighi morali che lo legavano alla
dinastia pericolante. E così fu”
.
93. Il 6
settembre 1860, alla vigilia
dell’entrata di Garibaldi a Napoli, Antonio
Spinelli convocò nella sua casa di Barra gli
amici Nicola Caracciolo di Torella e Giacomo
de Martino, per concordare i provvedimenti
necessari per salvare la città ed evitare un
inutile spargimento di sangue.
Francesco II
di Borbone, prima di lasciare Napoli, lo
decorò con la croce di Cavaliere
dell’Ordine di S.Gennaro.
94. “Coi
tempi nuovi, non accettò alcun ufficio ma fu
largo di consigli a quanti gliene chiesero …
Dal giorno che Francesco II partì, rientrò
nella vita privata, ricusò onorificenze e la
nomina a senatore. Morì a 89 anni, il 9
aprile del 1884, assistito amorevolmente dai
suoi figliuoli e rimpianto dai molti amici”
.
Lasciò una
“Lettera ai figli” nella quale si
contenevano le sue riflessioni circa la fine
del Regno borbonico e l’esperienza politica
da lui vissuta.
Cenni descrittivi della villa
e del “bosco” Spinelli
95. La
facciata principale, sul Corso Sirena, è a
tre piani; vi si apre il bel portale con
stemma della famiglia Spinelli.
|
Stemma Spinelli di Scalea |
La
planimetria (ancora del tutto identica a
quella riportata nella mappa del duca di
Noja) è rettangolare, con due cortili
interni, comunicanti fra loro per mezzo di
arconi e prospicienti il giardino
retrostante.
96. “Dei due
cortili, il primo, a forma quadrata e aperto
su due lati, serviva da accesso e da cortile
d’onore della villa; il secondo, a forma
rettangolare allungata, fuori dell’asse
prospettico del giardino, era invece
destinato alle funzioni di servizio.
Il primo cortile, quello cui si
accede dal vestibolo d’ingresso, presenta
tre arcate (di cui, oggi, le due laterali
tompagnate) che collegavano il palazzo col
giardino. Interessante è la scala aperta,
alla quale si accede dal vestibolo
d’ingresso, esempio tipico di scale
settecentesche napoletane.
97. La parte
meglio conservata è il bosco ovvero
il giardino di pertinenza retrostante, al
quale oggi si accede dal cancello su Via
Gian Battista Vela o attraverso il Centro
Ester.
Vi sono
splendidi esempi di piante secolari e di
altissimo fusto (lecci, palme, pini
marittimi…), sebbene la regolare
disposizione settecentesca del verde sia
stata complicata da un assetto più mosso e
tortuoso dei vialetti, e vi si può ancora
ammirare una bella vasca in piperno.
E’ presente
in esso una palazzina di gusto neoclassico,
alla quale è collegata una moderna cappella”
.
Le “monache francesi”
98. Il palazzetto a pianta
quadrata, di fronte alla villa, visibile
nella mappa del Noja e tuttora presente, è
invece l’ ex-convento delle cosiddette
“monache francesi”, ovvero le Suore della
Carità, fondate dalla francese S.Giovanna
Antida Thouret (1765-1826), che giunsero in
Napoli (ed in Barra) durante il regno di
Gioacchino Murat (1808-1815), su richiesta
addirittura di Letizia Bonaparte, madre di
Napoleone.
99. Le “monache francesi”
furono il primo Istituto religioso femminile
insediato a Barra ed educarono varie
generazioni di fanciulle Barresi, finché
abbandonarono il territorio dopo il
terremoto del 1980; il loro ex-convento, pur
notevole per antichità e fattura, versa
attualmente in grave decadenza, ridotto alla
impropria funzione di malgestito condominio
popolare.
Villa Pignatelli di
Monteleone
100. E’ la più grande fra
quelle esistenti sul territorio di Barra, ma
anche fra quelle che versano in condizioni
di più grave decadenza. Del suo antico,
magnifico splendore (“Villa e delizie dei
Pignatelli di Monteleone”), ben evidente
nella mappa topografica del duca di Noja
(1775), ben poco oggi rimane.
Quasi nulla è stato risparmiato
dal tempo trascorso nell’incuria degli
uomini: i locali del piano nobile e dei
cortili sono impropriamente occupati da un
numero pressoché indefinibile di inquilini e
piccoli proprietari, che hanno pesantemente
manomesso la struttura, sia all’esterno che
all’interno; l’ampio e magnifico parco
retrostante è stato parzialmente occupato da
costruzioni abusive (poi, inspiegabilmente,
“condonate”) e parzialmente (ancora per
poco) adibito a destinazione agricola; lo
splendido portale esterno, opera di
Ferdinando Sanfelice, è stato sostituito, in
seguito al terremoto del 1980, da uno
squallido sostegno in cemento armato (ma
rimane tuttora visibile quello che da’ sul
cortile interno).
101. Si è salvata
solo la cappella gentilizia, aperta
ufficialmente al pubblico nel 1774, ed
attualmente parrocchia con il titolo di
“Maria SS. di Caravaggio”.
La famiglia Pignatelli di
Monteleone e la costruzione della villa
102. Ricordiamo
anzitutto, a titolo informativo, che
Monteleone Càlabro era un tempo il nome
dell’attuale città di Vibo Valentia. Il
relativo titolo feudale di Duca di
Monteleone era, con tanti altri, nella
famiglia Pignatelli, antica casata nobiliare
di origine longobarda. Il primo Duca di
Monteleone, creato ufficialmente
dall’Imperatore Carlo V nel 1527, fu Ettore
Pignatelli (circa 1465-1536).
103. La costruzione
della villa in Barra nel Settecento
impegnò tre generazioni di Duchi di
Monteleone: fu iniziata nel 1728 (nel
periodo del vice-regno austriaco) da
Diego I Pignatelli Tagliavia d’Aragona
Cortès (Madrid, 1687 - Palermo, 1750), IX
duca di Monteleone; continuata da suo
figlio, Fabrizio III (Napoli,
1718-1763), X duca di Monteleone; e portata
a termine nel 1766 (sotto il regno di
Ferdinando IV di Borbone) da Ettore V
(nato a Monteleone Càlabro il 28 settembre
1741 e morto a Barra il 27 febbraio 1800),
XI duca di Monteleone.
104. Si trattò
dunque di una edificazione assai graduale
(circa quaranta anni), con numerose
interruzioni dovute a vari motivi, e che
vide l’intervento di due architetti,
entrambi di grande prestigio: prima, del
napoletano Ferdinando Sanfelice
(1675-1748) e poi, dopo la morte di
questi (avvenuta il 1° aprile 1748), del
fiorentino Ferdinando Fuga (1699-1781)
che diede alla villa e al parco il loro
impianto definitivo, visibile nella mappa
del duca di Noja del 1775. L’intervento del
Fuga si situa nel periodo 1761-66;
nell’intermezzo, e precisamente nel 1754, il
napoletano Tagliacozzi Canale (1691-1764)
effettuò dei lavori in alcuni appartamenti e
per la fontana del parco.
105. La famiglia
Pignatelli era fra le più antiche e
prestigiose della nobiltà napoletana e, dopo
secolari vicende, si era ben “acclimatata”
anche sotto il vice-regno austriaco
(1707-1734).
|
Marianna Pignatelli contessa di Althann |
Basterà ricordare,
emblematicamente, che una nobildonna della
famiglia, Maria Anna Pignatelli, andò
sposa il 12 febbraio 1709 al conte Michele
Giovanni di Althann (1679-1722), fratello di
quel cardinale Michele Federico di Althann
(1682-1734) che svolse le funzioni di
viceré austriaco di Napoli dal 1722 al
1728.
106. Marianna
Pignatelli, contessa di Althann (nata a
Alcudia il 26 luglio 1689 e morta a Vienna
il 1°marzo 1755), è ben nota anche nella
storia della letteratura per essere stata,
per 25 anni, amica e fedele protettrice di
Pietro Trapassi, detto il Metastasio
(1698-1782): fu grazie a lei che il
Metastasio, nel 1730, venne chiamato a
Vienna, quale “poeta cesàreo” alla corte
dell’imperatore austriaco Carlo VI
(1711-1740).
|
Pietro Trapassi (Metastasio) |
107. A sua volta,
il sopra citato Diego I Pignatelli, IX duca
di Monteleone, fu uno degli aristocratici
più in vista e più potenti nel periodo del
vice-regno austriaco: secondo, forse, solo
al viceré, in quanto a potere; ma primo,
quasi certamente, in quanto a ricchezza.
|
Diego I Pignatelli di Monteleone |
108. Un suo zio (=
fratello di suo padre, Nicola Pignatelli,
VIII duca di Monteleone) Francesco
Pignatelli (Senise, 1652 – Napoli, 1734)
fu cardinale arcivescovo di Napoli per tutto
il periodo del vice-regno austriaco, dal
1703 al 1734.
|
Card. Francesco Pignatelli |
109. Da notare che,
dal 1691 al 1700, anche il papa fu un
Pignatelli, anche se di altro ramo della
famiglia: Antonio Pignatelli, dei marchesi
di Spinazzola, nato nel 1615 e papa con il
nome di Innocenzo XII.
110. Fu dunque in
un periodo di grande prestigio per la
famiglia che il duca Diego decise di
costruire, a complemento del palazzo grande
dei Pignatelli in Napoli, una residenza “di
delizie” per i mesi più caldi.
La scelta cadde sul
sito Barrese, posto in luogo ameno ed
elevato, dal quale si poteva godere ampia
veduta sia del Vesuvio che del mare;
probabilmente, fu suggerita anche dalla
vicinanza dell’altra grande villa di Barra,
quella costruita da Gaspare Roomer
all’inizio del Seicento e che, in quel
periodo, apparteneva ad un altro ramo della
famiglia Pignatelli, quello dei prìncipi
di Marsiconuovo (vedi sopra, nn°33-35).
La scelta del sito
di Barra è invece chiaramente indipendente,
perché anteriore, dalla decisione del re
Carlo Borbone di costruire la reggia a
Portici (1738): decisione che sarà poi
cruciale per la nascita del “miglio d’oro”
delle ville vesuviane.
111. Il duca Diego
comprò i primi “quattro moggia di terreno,
posto nel luogo detto li Sfazioni già
appartenute a Giovanna Santoriello” il 21
marzo 1728 ed affidò il progetto della villa
a Ferdinando Sanfelice, che aveva da poco
(1726) terminato di lavorare per il palazzo
grande in piazza Gesù Nuovo.
Si susseguirono
poi, da parte dei Pignatelli, gli acquisti
di terreni confinanti, allo scopo di
ingrandire il sito: fino al 1747, ad opera
dello stesso duca Diego e poi, dopo la sua
morte, a partire dal 1751, ad opera di suo
figlio Fabrizio.
112. L’ultimo
acquisto venne fatto nel 1760 e riguardò la
masseria Volpe, “nel luogo detto lo
Catavone seu la Sciùlia”,
confinante proprio con quei terreni del
principe di San Nicandro, Domenico Cattaneo,
sui quali l’anno seguente (1761) Luigi
Vanvitelli avrebbe ultimato la edificazione
di un’altra magnifica villa Barrese: la
villa, appunto, del principe di San Nicandro,
detta poi anche villa Giulia.
Questa masseria
Volpe si trovava là dove attualmente si vede
la piazzetta Monteleone: l’edificio dei
Volpe venne abbattuto e lo spazio destinato
a “serraglio dei cinghiali del duca di
Monteleone”.
113. Questo
conferma la presenza, sui terreni di
pertinenza della villa, di una specie di
“riserva di caccia” privata, che fu una di
quelle alle quali si attinse per rifornire
il bosco della reggia di Caserta di “caccia
di pelo”, per assecondare il desiderio del
re Carlo Borbone.
114. Dal 1761 al 1766, si colloca
l’intervento di Ferdinando Fuga, richiesto
sia dalle precarie condizioni statiche nelle
quali si era venuta nel frattempo a trovare
la primitiva realizzazione del Sanfelice,
sia dall’esigenza dei Pignatelli di adeguare
la loro villa alle nuove concezioni della
residenza estiva aristocratica, scaturite
dalla presenza della reggia di Portici.
115. Nel gennaio
1767, il già citato duca Ettore V,
figlio di Fabrizio III, ottenne dal papa
Clemente XIII (Carlo Rezzonico, di Venezia,
papa dal 16 luglio 1758 al 2 febbraio 1769),
con apposito decreto, la concessione del
beneficio dell’indulgenza in suffragio delle
anime di tutti i defunti della sua famiglia,
ogni qual volta si fosse celebrata la Messa
nella cappella gentilizia annessa alla
villa; e nel 1774 la cappella venne
ufficialmente aperta al pubblico.
Carlo III di Borbone alla
Barra
116. Già nella
prima fase di costruzione della villa,
quella dal 1728 al 1748 ad opera del
Sanfelice, vivente il IX duca di Monteleone
Diego I, lo stesso Re Carlo vi si recava
spesso.
Leggiamo così nella
Gazzetta degli Avvisi n°41 del 27 settembre
1735: “Sabbato Sua Maestà s’andò a
divertirsi nel Casino della Barra del Duca
di Monteleone, ad ore 22, restando molto
appagato, nell’entrare al giardino del
medesimo, della sua vaghezza, essendo fatto
all’uso francese con diversi lavori di bassi
agrumi e di statue”.
“Nella villa del
Signor Duca di Monteleone alla Barra il re
si recava spesso, per divertirsi di vedere
la lotta del toro contro l’orso,
posti insieme in un gran spettacolo, e dopo
copiosi rinfreschi, passando per il
delizioso giardino nel boschincello di detta
villa, tirava più colpi a conigli e dàini.
Una sorella del Duca di Monteleone, che
aveva sposato il Principe Spinelli della
Scalèa, faceva gli onori di casa”
.
Il duca Ettore V e Barra
117. Tuttavia, fra
i duchi di Monteleone, quello che più amò il
sito di Barra fu Ettore V. Già suo padre
Fabrizio III vi aveva dedicato, come abbiamo
visto, molte cure, e due figlie di questi (e
dunque sorelle di Ettore) erano nate a
Barra: la primogenita Margherita
(1740-1810), che poi andò sposa nel 1767 a
Riccardo Carafa duca di Andria, e la
quintogenita Caterina (1747-1829) che nel
1768 entrò nel monastero di clausura di
S.Gregorio Armeno in Napoli.
118. Fu però il
duca Ettore quello che più abitò a Barra:
qui visse alcuni dei momenti più belli dei
suoi primi anni di matrimonio, e non a caso
fu lui a voler impreziosire ulteriormente il
già magnifico giardino della villa
introducendovi, dopo il 1775, le tre famose
coffee-houses (vedi oltre, nn°136-138)
come piacevoli luoghi di sosta e di
conversazione all’aperto.
|
Ettore V Pignatelli di Monteleone |
119. A Barra, però,
egli visse anche i suoi momenti di maggior
dolore. E qui occorre dire che il duca
Ettore V si sposò il 15 dicembre 1767 con
Anna Maria Piccolomini d’Aragona e ne ebbe
ben 12 figli, 4 dei quali però morirono in
tenera età (Fabrizio, Costanza, Pompeo e
Gerardo): a Barra, diversi suoi figli
nacquero e qualcuno, purtroppo, vi morì
ancora infante.
120. Si comprende,
dunque, quale particolare affezione e cura
egli avesse per la sua cappella di famiglia
alla Barra nella quale, proprio al di sopra
del quadro della Vergine di Caravaggio
sull’altar maggiore, aveva predisposto “il
loculo per le piccole ossa” già dei suoi zii
Nicola e Elisabetta, morti anch’essi in
tenera età.
E sarà questo
stesso loculo che accoglierà anche le sue
ossa, quando anch’egli si spegnerà, nella
notte fra il 26 ed il 27 febbraio 1800,
travagliato dalla preoccupazione per il
processo al quale era in quel momento
sottoposto il suo giovane figlio ed erede
Diego II (1774-1818), coinvolto negli
avvenimenti della Repubblica napoletana del
1799, come a suo luogo si dirà.
Cenni descrittivi della villa: l’opera del
Sanfelice
121.
L’architetto che progettò l’impianto
originario fu, come detto, Ferdinando
Sanfelice: tale è la conclusione cui
arrivano il Pane ed il Venditti, “esaminando
la fabbrica così come essa ci è pervenuta,
alcuni elementi, quali il portale (che è
un’esatta replica di quello del palazzo
Sanfelice alla Sanità) e lo stesso impianto
scenografico nel suo insieme” .
123. E’ da
notare che il Sanfelice era stato uno
degli allievi del grande Francesco Solimena,
che risiedeva abitualmente nella bella villa
che aveva in Barra (lungo la via attualmente
denominata “pini di Solimena”): conosceva
già, quindi, il Casale della Barra ed il
fascino ispiratore che esso sapeva
esercitare sugli spiriti creativi.
124.
L’edificio realizzato dal Sanfelice “non era
a contatto della strada, ma arretrato
rispetto a questa (come lo era, appunto,
la villa del Solimena), secondo un
giusto concetto abitativo che ben di rado è
presente nelle ville vesuviane; esso godeva
infatti di un certo isolamento dalla via,
per l’interposizione di un corpo basso a C,
ad un piano, con funzioni di servizio, che
lo circondava da tre lati: in questo, in
asse con la villa, si apriva il portale,
attraverso il quale, dopo un piccolo androne
a pianta rettangolare, si accedeva in un
vasto cortile”.
125. L’edificio vero e proprio “doveva
essere costituito da un piano seminterrato
destinato ai servizi … da un piano rialzato
o nobile con gli ambienti di rappresentanza
e forse da un piano ammezzato … destinato
all’alloggio della servitù, con un
collegamento fra i tre livelli ottenuto
mediante scale a chiocciola”.
Cenni descrittivi della villa: l’opera del
Fuga
126. Nella
mappa topografica del duca di Noja (1775) si
vedono invece i cambiamenti apportati
dall’intervento dell’altro Ferdinando, il
Fuga, a partire dal 1761.
|
Villa Pignatelli di Monteleone nella
pianta del duca di Noia |
127.
Ferdinando Fuga, pur lasciandola incompleta,
portò la facciata principale dell’edificio a
contatto con la strada, come si vede adesso.
Per fare ciò, “la bassa costruzione
pre-esistente a confine di strada venne
ampliata dalla parte del cortile ed
innalzata di tre piani; ma poiché questi
gravavano sul vecchio muro, se ne aumentò lo
spessore: può così spiegarsi la attuale
posizione del portale, incassato invece che
sporgente rispetto al fronte esterno”.
128. Si
crearono, di conseguenza, altri due
problemi: quello di prolungare l’androne e
quello di realizzare le scale.
“Il primo
problema venne risolto innestando
all’ambiente rettangolare dell’antico
ingresso un vano a pianta ellittica, coperta
con una volta lunettata, il cui fòrnice
prospettante sul cortile è dilatato per
mezzo di un ampio arco a sesto ribassato,
sostenuto da colonne su alto zoccolo
staccate dalla muratura”.
Il secondo problema fu risolto invece con
“due scale simmetriche a pianta
rettangolare, a loro volta innestate al vano
ellittico, svolgentisi su archi rampanti
sostenuti da quattro pilastri negli angoli
interni”.
129. Il Fuga realizzò inoltre due corpi
bassi rettilinei, per collegare la nuova
facciata con il pre-esistente corpo
posteriore: in tal modo, si venne a creare
la pianta a tre cortili che si vede nella
mappa del Noja.
Il giardino della villa: la croce copta
130. Filippo Barbera, nell’opera già citata,
osserva: “A ridosso del corpo più basso del
palazzo, si diparte il viale principale del
parco che taglia in due un ampio parterre
disposto in posizione centrale. Il
parterre appare decorato all’interno con
siepi di bosso ed arabeschi in modo da
formare una grande croce. Il rondò centrale
non fu però ubicato nel punto di incontro
degli assi della croce ma fu disposto in
modo che restituisse in pianta la sagoma di
una croce egizia ovvero copta.
Inoltre, questo parterre centrale a
forma di croce egizia era posto ad una quota
più elevata rispetto agli altri giardini
circostanti, come si evince dalla presenza
di due piccole scale”.
131. Ma come mai questo segno, e così in
evidenza? Diciamo anzitutto che si tratta di
un simbolo in uso nell’antico Egitto, dove
veniva chiamato ankh ed era
semplicemente il geroglifico che significa
“vita”: gli dèi egizi sono spesso
raffigurati con un ankh in mano o
portato al gomito o sul petto.
Successivamente, con il diffondersi del
cristianesimo, la chiesa egiziana (= copta)
lo fece proprio, opportunamente
reinterpretato e adattato nel senso che la
vera “vita” è quella che scaturisce dalla
croce di Cristo: in latino, venne anche
chiamata crux ansàta.
|
Ankh |
132. Osserviamo poi che il monumento funebre
del papa Pignatelli, Innocenzo XII, che si
trova all’interno della Basilica Vaticana, è
opera proprio di Ferdinando Fuga ovvero lo
stesso architetto che successivamente
progettò il giardino della villa Pignatelli
in Barra.
Ora, dalla biografia di Innocenzo XII
apprendiamo che questo
pontefice, fra le meritorie opere sue, cercò
anche di riconciliare con la Chiesa
cattolica romana la Chiesa copta,
ovvero la gloriosa comunità dei cristiani
egiziani che fa capo al Patriarcato autonomo
di Alessandria d’Egitto ed il cui fondatore
è lo stesso S. Marco evangelista.
Innocenzo XII inviò, a tale scopo, una
delegazione dei Padri minori riformati di S.
Pietro in Montorio a Roma in udienza presso
il Patriarca di Alessandria d’Egitto. Il
Patriarca si manifestò disponibile ad aprire
un dialogo, senza peraltro sottacere le ben
radicate divergenze esistenti fra le due
Chiese, e comunque consentì che un gruppo di
missionari cattolici provenienti dall’Italia
si stabilisse al Cairo.
133. E’ plausibile quindi che sia la
famiglia Pignatelli sia l’architetto
progettista abbiano esplicitamente voluto
inserire nel grande parco un segno per
onorare il defunto pontefice ricordando
questo suo tentativo “ecumenico” veramente
all’avanguardia per l’epoca e che comunque
dovette impressionare parecchio i
contemporanei.
Il giardino della villa:
l’albero sefiròtico
134. Ai due lati del grande parterre
centrale erano ubicate due scacchiere
verdi, costituite da una aggregazione di 15
settori per lato, destinate ad aranciere.
|
Albero sefirotico |
Le restanti parti del parco erano invece
destinate a boschetti, separati
anch’essi da una orditura geometrica di
viali, e i rondò circolari che delimitavano
gli incroci dei viali richiamano,
evidentemente anche se non perfettamente,
l’albero delle dieci sefirot ovvero
“l’albero della vita” nella mistica ebraica,
la cosiddetta Kabbalàh.
135. Vediamo quindi che, nel suo insieme, il
parco è come strutturato in due grandi
parti, richiamanti l’antico ed il nuovo
testamento, disegnate l’una con il
grande simbolo ebraico dell’albero
sefirotico e l’altra con il grande
segno cristiano della croce, ed entrambe con
riferimento alla “vita”, la vita eterna che
sconfigge la morte.
Cenni descrittivi della
villa: le tre
coffee-houses
136. Dopo il
1775, per desiderio del duca Ettore, nel
giardino vennero introdotte due
coffee-houses simmetriche, collegate, da
una parte, alle costruzioni centrali
medianti due mossi corpi di fabbrica, e,
dall’altra, direttamente innestate su bracci
protesi verso la villa, con andamento ad L.
137. Infine,
al termine dell’asse principale del
giardino, venne posta una terza
coffee-house: “un padiglioncino a pianta
quadrata, a due piani, coperto da una
piccola cupola su tamburo ottagonale, che
domina per la sua altezza il paesaggio
circostante”.
138. Queste
tre coffee-houses costituivano
piacevoli luoghi di sosta e di conversazione
all’aperto.
139. Da
notare, infine, che le decorazioni murarie
delle costruzioni del giardino sono (erano?)
uno degli esempi napoletani ancora
superstiti di applicazione della tecnica
rocaille.
Cenni descrittivi della
villa: la piazza Monteleone
140. Lo
spazio semicircolare davanti alla villa,
l’attuale piazza Monteleone, non poteva
naturalmente, dopo lo spostamento della
facciata principale operato dal Fuga,
rimanere ancora un “serraglio dei cinghiali”
(vedi sopra, n°112-113) e diventò pertanto
uno spazio per la sosta e la manovra delle
carrozze.
La cappella dei Pignatelli di
Monteleone (Maria SS. di Caravaggio)
141. Entrati nella chiesetta
dedicata a “Maria SS. di Caravaggio” in
Barra, una iscrizione posta sul muro ci
avverte:
DEO VOLENTE
ANNO MCMXLV
DECEMBRIS DIE XXIII
AB ALEXIO
CARD. ASCALESI
IN PAROECIAM ERECTUM EST
TEMPLUM HOC
AB
ARCHIEPISCOPO AUTEM NEAPOLITANO
CARD.
MARCELLO MIMMI
DIE SECUNDA
JULIIS MCMLIII
CONSECRATUM
Traduzione:
DIO VOLENTE,
IL GIORNO 23
DICEMBRE DELL’ANNO 1945
DAL CARD.
ALESSIO ASCALESI
QUESTA
CHIESA
FU ELEVATA A
PARROCCHIA.
IN SEGUITO,
DALL’ARCIVESCOVO NAPOLETANO
CARD.
MARCELLO MIMMI
IL GIORNO 2
LUGLIO 1953
FU
CONSACRATA.
142. In effetti, la cappella
dei Pignatelli di Monteleone fu restaurata
ed eretta a parrocchia, il 23 dicembre 1945,
dal card. arcivescovo di Napoli Alessio
Ascalesi (1924-1952), che la affidò alle
amorevoli cure del parroco Mons. Michele
Barbato, una delle figure più
rappresentative del clero Barrese nel
Novecento, il quale la resse per oltre 40
anni, fino al 31 agosto del 1986. La
chiesetta fu poi di nuovo magnificamente
restaurata nel 1994, a cura del successivo
parroco Don Enrico Aleotti.
143. Un’altra iscrizione, però,
ci porta molto più indietro nel tempo:
D. O. M.
HOSPES ATTENDE
TEMPLUM
QUOD RURALE VIDES
PONTIFICIA
MUNIFICENTIA
DITISSIMUM
ESSE
SCITO
ANIMABUS
ENIM EORUM EX FAMILIA
QUI VEL FATO
FUNCTI SUNT
VEL QUI
ADHUC LUCEM HANC ASPICIUNT
MISSAE
SACRIFICIUM
IDEO
MISERICORDITER CONCEDENTE
SUFFRAGATUR
ADEO
AC SI
PRIVILEGIATO ALTARI
CELEBRETUR
M DCC LXX
IIII
Traduzione:
A DIO OTTIMO MASSIMO.
O FORESTIERO, FERMATI.
QUESTA CHIESA
DI CAMPAGNA CHE VEDI,
SAPPI CHE E’ RICCHISSIMA
PER GENEROSITA’ PONTIFICIA.
IL SACRIFICIO DELLA MESSA
E’ IN SUFFRAGIO
DELLE ANIME DI COLORO CHE,
O SIANO GIA’ MORTI
O ANCORA VEDANO QUESTA LUCE,
APPARTENGONO ALLA FAMIGLIA
COSI’ MISERICORDIOSAMENTE CONCEDENTE,
COME CELEBRATA
SU UN ALTARE PRIVILEGIATO.
1774
L’iscrizione fu posta in
occasione della apertura della chiesa al
pubblico, avvenuta appunto nel 1774, e la
famiglia a cui si fa riferimento è
ovviamente quella dei Pignatelli di
Monteleone.
|
Stemma famiglia Pignatelli |
144. Proseguendo oltre, ed
entrando nella sacrestia dal lato destro
dell’altare, si può vedere sul muro una
lapide contenente un’ altra iscrizione, che
spiega più estesamente la vicenda legata
alla costruzione della chiesa:
NEAPOLITAN.
DECRETUM
Cum sicut humillime exponebatur Hector dux
Pignatelli
ecclesiam seu publicum oratorium sub titulo
B. Mariae
Virginis de Caravaggio nuncupatur in villa
La Barra nuncupatur
Neapolitanae dioecesis de sui suaeque
familiae jurepatronatus
Possideat, SS. mus D. nus NR CLEMENS PP.
XIII oratoris precibus
benigne inclinatus dummodo de asserto
jurepatronatus
coram E. mo et R. mo Archiepiscopo
constiterit clementer
indulsit, ut quandocumq(ue) sacerdos
aliquis saecularis vel regularis
missam pro
anima ipsius Hectoris quando viam universae
carnis
ingressus
fuerit cuiuscumque consanguineorum et
affinium
defunctorum vel aliorum quorumcumque
Christifidelium decedentium de supradicta
familia
quae Deo in
charitate conjuncta ab hac luce migraverint
ad altare
dictae B.M.V. in praefata ecclesia
celebrabit
animae huioi
(= huiusmodi) de thesauro ecclesiae
per modum suffragii
indulgentiam
consequantur non obstantibus in contrarium
facientibus
quibuscumque praesenti (Brevi) in
perpetuum valituro
voluitque
Sanctitas Sua hanc gratiam suffragari absque
huius brevi
expeditione lapideoque monumento inscribi.
Datum Romae
ex secreteria Sacrae Congregationis
Indulgentiarum die XX januarii MDCCLXVII.
Adest Sigillum N. Card. Antonellus Praef.
Gratis S. Borgia S. Cong.nis Indulg.m
Sec.rius
Traduzione:
DECRETO
NAPOLETANO
Come in
tutta umiltà si faceva presente,
possedendo
il duca Ettore Pignatelli il diritto di
patronato, suo e della sua famiglia,
sulla chiesa
ovvero oratorio pubblico sotto il titolo
della Beata Maria Vergine di Caravaggio,
nella villa chiamata La Barra della diocesi
di Napoli,
il
Santissimo Signor Nostro PAPA CLEMENTE XIII,
indotto
dalle preghiere dell’oratore, per quanto
riguarda l’asserzione del patronato
alla
presenza dell’ Eminentissimo e
Reverendissimo Arcivescovo,
concesse
benevolmente che
ogni qual
volta un sacerdote, secolare o regolare,
avesse celebrato,
all’altare
della detta Beata Maria Vergine nella
suddetta chiesa,
una messa
per l’anima dello stesso Ettore, quando
costui avesse intrapresa la via
(dell’aldilà) destinata ad ogni mortale,
o per quella
di qualsivoglia defunto consanguineo ed
affine,
ovvero di
qualsiasi altro fedele di Cristo che morisse
della suddetta famiglia,
e che,
congiunta a Dio nella carità, si fosse
allontanata da questa vita,
le anime in
tal modo (legate alla religione e per
parentela al duca)
conseguissero dal tesoro della Chiesa, a
modo di suffragio, un’indulgenza
senza che
nessuno, chiunque fosse, potesse opporsi al
presente Breve,
valido in
perpetuo;
e volle Sua
Santità che questa indulgenza fosse
suffragata
da questa
lapide di marmo, su cui vi fosse
un’iscrizione stilata
in
conformità di questo Breve.
Dato a Roma,
dalla segreteria della Sacra Congregazione
per le
Indulgenze, il giorno 20 gennaio 1767.
Cardinale
Antonello Borgia
Prefetto
della Santa Fabbrica (di S.Pietro)
Segretario
della Sacra Congregazione per le Indulgenze
VI E’
SIGILLO
GRATIS
145. Quindi, come si evince, fu
il duca Ettore V Pignatelli di Monteleone
(1741-1800) a far costruire (o semplicemente
a far ultimare) la chiesetta, come cappella
annessa alla grande villa che i Monteleone
stavano costruendo e progressivamente
ampliando in Barra, a partire dal 1728.
Si trattava di una cappella di
famiglia, destinata alle sepolture, come
allora si usava nella aristocrazia, ma
aperta anche a tutto il popolo per il culto
(infatti, nell’iscrizione, viene definita
anche “oratorio pubblico”), edificata dai
Pignatelli in virtù dell’antico diritto di
patronato sulle chiese che avevano i nobili
nei loro feudi.
Ultimata la costruzione, il
duca Ettore V si rivolse al papa Clemente
XIII (1758-1769) per ottenere il
“privilegio” dell’indulgenza di cui parla
l’iscrizione e lo ottenne, appunto, con il
“Breve” del 20 gennaio 1767; la
consacrazione ufficiale, ed apertura al
popolo, seguì nel 1774.
Perché Maria SS. “di
Caravaggio”?
146. La chiesa è intitolata
alla “Beata Maria Vergine di Caravaggio”.
Caravaggio è il nome di un paesino in
provincia di Bergamo (ma in diocesi di
Cremona). A Caravaggio nacque, nel 1573, il
celebre pittore Michelangelo Merisi
(1573-1610) che, proprio dal suo luogo di
origine, venne detto “il Caravaggio”.
147. Più di 100 anni prima
della nascita del pittore, però, nello
stesso paese si era verificato uno
straordinario evento: l’apparizione della
Beata Vergine Maria ad una povera contadina
di nome Giovannetta de’ Vacchi.
La donna, in età poco oltre i
30 anni, era moglie di Francesco Varoli,
contadino (o, secondo altre fonti, soldato):
erano sposati già da qualche anno ma non
avevano figli ed il marito, dèdito al bere e
alle cattive compagnie, la maltrattava
continuamente.
148. Al tramonto del lunedì 26
maggio 1432, mentre stava raccogliendo erba
per i suoi conigli sul prato Mazzolengo (o
Massalengo), lontano dal borgo, e si era
inginocchiata per recitare l’Angelus, si
vide innanzi “una matrona bellissima e
ammirabile” la quale, dopo averle assicurato
che il marito avrebbe cambiato vita, la
invitò a farsi ambasciatrice di pace presso
i potenti ed a richiamare tutto il popolo
alla conversione ed alla pratica delle virtù
cristiane.
Ella avrebbe dovuto, niente di
meno, convincere i governanti a far
cessare la guerra, allora in corso, fra
Veneti e Milanesi; ed inoltre esortare le
autorità ecclesiastiche a far cessare la
divisione fra le Chiese d’Occidente e
d’Oriente, ovvero fra cattolici e ortodossi.
149. Sul luogo della visione,
la Vergine lasciò l’impronta dei suoi piedi
e da lì sgorgò all’improvviso una sorgente
d’acqua: in essa, poco dopo, fiorì un ramo
secco gettatovi, in atto di sfida, da un
miscredente.
150. Giovannetta, per compiere
la missione affidatale, non esitò a mettersi
in viaggio, presentandosi a Filippo Maria
Visconti, Signore di Milano, ed a Francesco
Fòscari, doge della Repubblica Veneta: un
anno dopo, nel 1433, i due nemici firmarono
un trattato di pace.
151. Successivamente, la povera
contadina venne accompagnata dai Veneziani
fino a Bisanzio, dove si presentò, con una
brocca dell’acqua miracolosa, all’imperatore
Giovanni Paleologo: pochi anni dopo, nel
1439, si svolse il Concilio di Firenze che
sancì la ri-unificazione tra la Chiesa
cattolica e quella bizantina.
152. Anche se, purtroppo, né la
pace fra Veneti e Milanesi, né la
riunificazione delle Chiese d’Oriente e
d’Occidente, durarono a lungo, rimane più
che mai attuale il significato di
quella apparizione: la Beata Vergine, nel
consolare una povera donna afflitta dalle
sue familiari disgrazie, la invitava nel
contempo ad allargare lo sguardo, ad
attingere una visione più ampia, addirittura
ad intervenire nelle grandi dispute
politiche e religiose allora in corso,
portando un messaggio di pace e di
riconciliazione.
Ritroviamo qui, dunque, un
grande tema biblico: il Signore sceglie
proprio i poveri, proprio coloro che nel
mondo sono considerati “nulla”, come il
popolo di Israele schiavo in Egitto, per
annunciare, attraverso di loro, la
liberazione e la salvezza per tutti.
153. Il santuario della Madonna
di Caravaggio, costruito più di un secolo
dopo sul luogo delle apparizioni
dall’architetto Pellegrino Tibaldi de’
Pellegrini (1527-1596) per volontà
dell’arcivescovo di Milano S.Carlo Borromeo
(1538-1584), è tuttora fiorente e molto
popolare, soprattutto in Lombardia e Veneto.
La Madonna “di Caravaggio” a Napoli
154. La devozione alla “Madonna
di Caravaggio” si diffuse, comunque,
abbastanza rapidamente anche nel napoletano.
In particolare, nel 1627, i
Padri Scolòpi di S. Giuseppe Calasanzio
furono invitati da un giudice della Règia
Camera, di nome Felice Pignella, ad
instituire una delle loro “Scuole per i
poveri” nell’allora Largo Mercatello
(attuale piazza Dante), in un edificio, con
annessa chiesetta, da lui donato.
In occasione
dell’inaugurazione, avvenuta nel 1628, gli
Scolòpi esposero per la prima volta nella
chiesa un quadro della Madonna di
Caravaggio, dal quale la chiesa stessa prese
il nome, che tuttora conserva.
155. Nella prima metà del
Settecento, convento e chiesa degli Scolòpi
furono completamente riedificati su progetto
di Gian Battista Nauclerio ed in quella
circostanza anche a Francesco Solimena venne
commissionata una tela, raffigurante la
“Morte di S. Giuseppe”, che tuttora si trova
in una delle cappelle laterali della chiesa.
La Madonna “di Caravaggio” a
Barra
156. I lavori di riedificazione
durarono a lungo (terminarono nel 1758-59)
e, in quel lasso di tempo, anche i
Pignatelli di Monteleone ebbero certo modo
di vedere il fervore che circondava
l’immagine della Madonna di Caravaggio in
Napoli e pensarono evidentemente di
introdurre quella devozione anche nella loro
cappella in costruzione a Barra.
157. Commissionarono pertanto
al grande Solimena una tela che raffigurasse
l’apparizione di Maria Vergine a Giovannetta
e l’artista la eseguì, certo aiutato dai
suoi discepoli, nell’ultimo anno della sua
lunga vita, datandola 31 dicembre 1746, e
raffigurando sullo sfondo sia una torre con
mura (che rappresenta il paese di
Caravaggio) sia una torre quadrata senza
cinta murale (che rappresenta invece il
paese di Barra).
158. Alcuni anni dopo la morte
del Solimena, quando la cappella venne
ultimata, arricchita di pontificia
indulgenza (1767) e definitivamente aperta
al pubblico (1774) a cura del duca Ettore,
la tela venne finalmente posta sull’altar
maggiore della cappella stessa, sovrastata
da una lapide che reca la seguente scritta,
attualmente poco visibile ma decifrata con
grande attenzione dal prof. Enrico Paoletta
:
SI
FANATICIUS TUM NUMINIS ADSTITIT ERROR,
EFFECIT
STUDIO FUTILEM ET IPSE PARI.
IS SACRA
IUSSA OPERATUR ET AEDEM VOTAQUE MATRI
IMPLET ET
OSSICULO DAT LOCULUM IPSE SUO.
ILLUM SERVA
ET LUX FULGAT SECURA PER AEVUM
HECTORIS ARTICULIS, O DOMUS ALMA, TUIS.
Traduzione:
SE NEL PASSATO ALLA DIVINITA’ RIMASE
ATTACCATO UN ERRORE SUPERSTIZIOSO,
(IL PATRONO)
LO RESE VANO CON PARI ZELO.
EGLI ESEGUE LE SACRE DISPOSIZIONI E PORTA A
COMPIMENTO LA CAPPELLA E LE PROMESSE FATTE
ALLA MADRE,
E DA’ ALLE PICCOLE OSSA IL SUO STESSO
LOCULO.
TU CUSTODISCILO, E LA LUCE DI ETTORE
RISPLENDA SICURA PER SEMPRE, SULLA BASE, O
SACRA DIMORA, DEI TUOI ARTICOLI.
L’interpretazione
dell’epigrafe
159. L’interpretazione di
questa epigrafe è certamente più complessa
di quella delle altre tre, riportate in
precedenza. Si può ritenere che essa
contenga diversi significati, peraltro fra
loro complementari.
160. Osservando l’albero
genealogico della famiglia Pignatelli,
possiamo notare che la data di concessione
del Breve pontificio (20 gennaio 1767) ci
conduce allo stesso anno del matrimonio del
duca Ettore con Anna Maria Piccolomini
d’Aragona (che avvenne il 15 dicembre 1767).
161. Suo padre, il duca
Fabrizio III, era morto pochi anni prima (28
settembre 1763) dopo che due fratelli dello
stesso Fabrizio erano morti, entrambi nel
1724 ed entrambi in tenera età: Nicola
(morto a 10 anni) ed Elisabetta (morta a 2
anni). Era dunque anzitutto a loro tre che
il duca Ettore pensava, quando richiedeva al
Pontefice l’indulgenza in suffragio delle
anime dei defunti della famiglia Pignatelli.
162. Ma non solo: il 1774,
quando la cappella venne definitivamente
ultimata ed aperta al pubblico e venne posta
l’iscrizione, è anche l’anno in cui venne a
morte, il 23 di ottobre, Margherita
Pignatelli, V Duchessa di Bellosguardo, che
era proprio la madre sia di Fabrizio III sia
dei due morti infanti (Nicola ed Elisabetta;
per la precisione, Nicola era figlio della
prima moglie del duca Diego I, ma era
comunque morto fra le sue braccia, a 10 anni
di età).
163. Si può dunque interpretare
l’iscrizione nel senso che il duca Ettore
esegue le sacre disposizioni (del Breve
pontificio) portando a compimento la
cappella e sciogliendo nel contempo una
promessa (“voto”) fatta alla “madre”, cioè a
Margherita Pignatelli morta proprio in
quell’anno, di dare adeguata e solenne
sepoltura ai figli di lei nella nuova tomba
di famiglia alla Barra.
164. Molto probabilmente, del
resto, era stata proprio Margherita
Pignatelli, in precedenza (1746), a
commissionare a Francesco Solimena il quadro
della Madonna di Caravaggio, perché in esso
sono raffigurati come angioletti i piccoli
defunti della famiglia Pignatelli: SEMEN
FAMILIAE PIGNATELLIAE (seme della famiglia
Pignatelli) è scritto infatti sulla tela, in
alto, sotto gli angeli, che sono
caratteristicamente raffigurati con volto da
adulti, come se la morte non avesse mai
troncato la loro crescita umana.
165. Ciò detto, come si possono
però interpretare le prime due righe
dell’iscrizione:
SE NEL
PASSATO ALLA DIVINITA’ RIMASE ATTACCATO UN
ERRORE SUPERSTIZIOSO,
(IL PATRONO)
LO RESE VANO CON PARI ZELO ?
Si può, a tal proposito,
seguire l’interpretazione proposta dal prof.
Erminio Paoletta.
L’interpretazione del prof.
Erminio Paoletta
166. La tela e la lapide con
l’iscrizione sono disposte in modo che non è
possibile guardare l’una senza l’altra,
evidentemente perchè il duca volle che esse
formassero come un tutt’uno, recante un
preciso messaggio che egli intendeva
trasmettere ai suoi contemporanei ed ai
posteri, sia pure in forma simbolica ed
allusiva.
167. Secondo la suggestiva
interpretazione di Paoletta, il dotto e pio
duca si sentiva un predestinato, e perciò
investito di una sacra missione da
compiere, proprio a causa del nome che
portava: Ettore Pignatelli di Monteleone,
della cui valenza misterica egli si mostra
pienamente consapevole.
Infatti, Ettore, come
noto, è il nome di un personaggio
dell’Iliade di Omero, figlio della regina
Ecuba; ma il duca appare consapevole del
fatto che entrambi avevano, nella fase
pre-omerica, una dimensione divina: Ettore
come ipostasi del dio Attis e Ecuba come
ipòstasi della magna mater Cibele.
168. Il cognome Pignatelli,
a sua volta, può farsi derivare da pinea
tele = “riti misterici della pigna”, in
onore del dio Attis che aveva appunto la
pigna come emblema.
169. Monteleone, invece,
può farsi derivare da Amonthe (o anche
Amenthe), che è un’antica divinità egiziana
“doppia”, risultante dalla fusione del dio
Ammon con il dio Theuth: Ammon era un dio di
amore, patrono delle ierogamie (cioè delle
unioni sessuali sacre) mentre Teuth (che è
l’Ermes egizio, accompagnatore delle anime
dei defunti nell’aldilà) era un dio di
morte-resurrezione.
170. La sacra missione,
alla quale si accennava sopra e di cui il
duca si sentiva investito nel suo secolo,
era dunque quella di “recuperare e
riproporre, ma compiutamente trasfigurato,
purificato e sublimato in chiave cristiana,
un culto classico (quello di Attis/Ettore e
Cibele/Ecuba) a cui la sua famiglia era,
anche onomasticamente, rimasta legata”.
171. Alla luce di questo, il
significato della lapide è dunque che il
culto verso la grande madre era
legittimo e che soltanto vi era stato un
abbaglio (error) sul nome (Cibèle in
luogo di Maria SS.): error che adesso
lo zelante patrono della cappella (cioè
appunto il duca Ettore) intende
definitivamente fugare.
172. La tesi del prof. Paoletta
risulta ancora più suggestiva se collegata
all’ipotesi che, nel Casale della Barra,
proprio alla fine del Seicento e nel
Settecento (cioè sotto gli occhi del nostro
duca) si svolgessero (nella forma di
trasporto di un palo ornato e poi di
un obelisco) delle feste agrarie, “antenate”
della moderna “Festa dei gigli”, il cui
significato fàllico ed orgiastico, sebbene
non più esplicitamente avvertito dal popolo
dei contadini, era però pur sempre evidente
agli occhi del dotto duca, e le cui radici
affondano proprio nell’antico culto pagano
di Attis e Cibele
.
Un’altra interpretazione complementare
173. Infine, un altro elemento
storicamente interessante da tener presente
è che, nel corso del Settecento, si
combatteva in Napoli, come negli altri Regni
d’Europa, un’accanita battaglia ideologica,
che vedeva contrapposti, da una parte, la
Chiesa ufficiale (e soprattutto l’Ordine dei
gesuiti) e, dall’altra parte, la nuova
istituzione della Massoneria che veicolava,
sia pure in forme ancora di tipo mitologico
e misterico, la nuova religione illuminista
della “Ragione” e della “Umanità”, che di lì
a poco sarebbe poi sfociata nella
Rivoluzione francese e nelle altre
rivoluzioni borghesi dell’Ottocento.
174. La posta in gioco in tale
battaglia era, allora, lo svolgimento del
ruolo di “consiglieri del Principe”, svolto
tradizionalmente dai Gesuiti, ed ora ad essi
conteso dai nuovi pensatori più o meno
“illuminati” e massoni (vedi oltre, nn°223-226).
175. In questo contesto
conflittuale, che spaccava sovente al loro
interno le stesse principali famiglie nobili
del Regno, il capo della Massoneria
napoletana, il famoso Raimondo di Sangro
principe di Sansevero, stava facendo
sorgere, proprio in quegli anni, il “Tempio
della Virtù” ovvero la cappella gentilizia
della sua famiglia, che egli andava
decorando con illustrazioni monumentali che,
sotto le apparenze cristiane, celavano in
realtà una vera e propria “apologia
illustrata” delle idee massoniche.
176. Non si può pertanto
escludere, anche se è difficile dimostrarlo
su base documentale, che il duca Ettore V
Pignatelli di Monteleone, fedele cattolico,
abbia volutamente utilizzato nella sua
cappella di Barra (in una sorta di
“parallelismo alternativo”) lo stesso tipo
di linguaggio simbolico e “misterico”, per
sostenere però le tesi opposte ovvero la
religione e le idee tradizionali delle quali
si sentiva erede.
A ulteriore conferma di ciò,
abbiamo visto che anche il giardino della
villa venne progettato con un simbolismo
esplicitamente biblico e cattolico
(vedi sopra, n°130-135), forse proprio per
contrapporlo al simbolismo invece
bruniano e massonico del vicino
giardino dei Sanseverino di Bisignano (vedi
sopra, nn°66-71).
Villa San Nicandro (Villa
Giulia)
177. I Cattàneo Della Volta
erano una famiglia di banchieri e
arrendatori genovesi (vedi n°24 in “La
Varra di Serino nel Cinquecento”), con
cospicui interessi nel viceregno napoletano.
178. Nel 1643, il trentenne
Baldassarre Cattaneo Della Volta
(1613-1649), figlio di GiovanBattista e di
Maria Maddalena Grimaldi, si trasferì a
Napoli onde curare l'appalto delle imposte
di alcune province del meridione ed
acquistò il feudo di San Nicandro
(attualmente, San Nicandro Gargànico, in
provincia di Foggia).
179. Sei anni dopo morì, a 36
anni di età, lasciando come erede il suo
fratello maggiore e primogenito Domenico,
senatore e governatore di Genova, che si
trasferì stabilmente a Napoli solo nel 1660
ma che già dal 1650 venne, per primo,
ufficialmente insignito del titolo di “prìncipe
di San Nicandro”.
Domenico fu anche il primo che
comprò 50 moggia di terreno “alla Barra”: si
trattava semplicemente di terreni agricoli,
dei quali si limitava pertanto a riscuotere
la rendita
.
180. Successivamente, un altro
Baldassarre Cattaneo Della Volta ( ? –
1739), figlio di Domenico e pertanto II
prìncipe di San Nicandro, acquistò in
aggiunta un “casino di campagna” alla Barra,
a complemento del palazzo grande dei San
Nicandro in Napoli, alla salita Stella, da
lui acquisito nel 1715.
Questo II principe di San
Nicandro fu in buoni rapporti di
committenza e di amicizia con Francesco
Solimena, che molto lavorò al suo palazzo
napoletano e probabilmente ispirò la scelta
di quel “casino di campagna” proprio alla
Barra.
La cappella in villa San
Nicandro
181. Dagli Atti di Santa Visita
del Card. Giacomo Cantelmo (1691-1702) e da
quelli del Card. Giuseppe Spinelli
(1734-1754), apprendiamo della esistenza di
una cappella posta al pianterreno di questo
“casino di campagna”, intitolata alla
Annunciazione della Beata Vergine Maria,
costruita “dalle fondamenta” dal II prìncipe
di San Nicandro, Baldassarre Cattaneo della
Volta ( ? – 1739) e da lui “dotata per
la celebrazione di una Messa ogni giorno
festivo”.
182. “L’ampiezza di detta
cappella è di palmi 38 in lunghezza e palmi
18 in larghezza ... il tetto è concamerato e
le pareti imbiancate … vi sono due finestre
munite di cancelli di ferro e di specchi di
vetro per ricevere la luce … due fondi per
l’acqua lustrale, di marmo … la sede
confessionale … un solo altare sopra il
quale spicca una tela dipinta, ornata di
cornice dorata, la cui immagine riporta il
mistero dell’Annunciazione della Beata
Vergine Maria … dietro l’altare è posta la
sacristia, della lunghezza di palmi 16 e
larghezza di palmi 12, con due finestre
anche munite di cancelli di ferro e di
specchi di vetro per ricevere la luce … con
armadio, genuflettorio e tabella della
preghiera ... Vi è una porta che guarda
verso occidente … e sopra la porta la torre
campanaria con due piccole campane ...”
183. La cappella risulta
visitata la prima volta il 4 dicembre 1704,
poco tempo dopo la sua fondazione, dal
Vicario Generale Don Giacomo Maria Rossi,
vescovo di Massalubrense, evidentemente
nell’àmbito della Santa Visita Cantelmo
anche se portata a termine dopo la morte di
questi nel 1702, e quindi sotto il nuovo
Card. Francesco Pignatelli (1703-1734).
“L’illustrissimo Signor
Visitatore trovò la cappella bene ornata e
abbondantemente provvista di tutte le sacre
suppellettili e preziosi. Circa l’unico
altare comandò che la mensola di esso sia
fatta di marmo … rimossa la tavola, e sopra
l’ara sacra sia posta una tela cerata.
Circa il coro, posto sopra la
porta della cappella di dentro, dal quale si
ha accesso alle case dei secolari, comandò
che esso non venisse usato senza prima aver
ottenuto il Breve Apostolico ed inoltre
comandò che il signor compatrono curi di
esibire l’inventario di tutti i mobili della
cappella predetta”.
184. In seguito, il quadro
della Annunziata sopra l’altare fu
sostituito da quello della “Vergine dei 7
dolori”, visto evidentemente che la cappella
aveva anche iniziato a svolgere il consueto
ruolo di tomba di famiglia. Nella cappella
furono anche apposte delle lapidi con
epigrafi, come a suo luogo si vedrà.
Domenico Cattaneo, III
principe di San Nicandro
185. Infine, Domenico Cattaneo
Della Volta, III prìncipe di San Nicandro
(1696-1782), decise di trasformare il
“casino di campagna” in una villa, e l’opera
fu realizzata dal grande Luigi Vanvitelli,
come si evince da una incisione sul portone:
“1761 L.V.F.” (che sta per: “1761 Luigi
Vanvitelli fecit”).
186. Il principe era, come
allora si diceva, l’ “ajo” di Ferdinando IV
di Borbone, ossia il precettore,
l’educatore, il responsabile della
formazione del giovane re ed è pertanto
comprensibile che, per stare vicino al suo
pupillo, si facesse costruire una abitazione
“di campagna” che presentava il vantaggio di
essere poco distante sia dalla città sia
dalla reggia di Portici.
187. Occorre qui dire che,
allorquando nel 1759 Carlo di Borbone lasciò
il trono di Napoli per quello di Spagna, suo
figlio Ferdinando, erede designato, aveva
solo 8 anni. Stette pertanto sotto la tutela
di un “consiglio di reggenza”, fino al
compimento del 16° anno di età, nel 1767,
quando divenne re a tutti gli effetti.
|
Stemma Cattaneo |
Fra i componenti il “consiglio
di reggenza”, le personalità più spiccate
erano quelle del potentissimo primo ministro
(vedi sopra, n°6) Bernardo Tanucci,
che aveva la sua villa in S.Giorgio a
Cremano, e del nostro Domenico Cattaneo,
III principe di San Nicandro, che nel
1761 inaugurò la sua villa alla Barra.
188. Quest’ultimo viene
descritto dal Colletta come “onesto di
costume, ma ignorante delle scienze o
lettere ed unicamente voglioso di piacere
all’allievo”.
Un suo immortale anche se non
proprio lusinghiero ritratto, lo ha
tracciato Benedetto Croce, nella “Storia del
regno di Napoli”:
“La nobiltà si venne sceverando
in due elementi, che si possono vedere
spiccatamente dividersi e aggrupparsi negli
anni della reggenza (1759-1767): l’uno,
quello illuminato e operoso, intorno al
ministro Tanucci; e l’altro, non
veramente reazionario ma indifferente e
inerte, intorno al principe di San Nicandro,
ajo del giovinetto re Ferdinando, ed ajo
famoso per la sua ignoranza e più ancora per
l’amicizia che professava all’ignoranza,
persuaso com’era che ai gentiluomini, e al
sovrano dei gentiluomini, convenisse
coltivare unicamente le arti cavalleresche,
cioè gli esercizi del corpo, l’equitazione,
la guida dei cocchi, la caccia e i festini e
le partite di campagna, nelle quali
dell’abilità acquistata in tali arti si
poteva dar prova.
A quel tempo è più propriamente
da riportare l’origine di un certo tipo di
nobile napoletano, che non so se esista
ancora, ma certo sopravviveva alcuni decenni
addietro, e fin dopo il 1860: il nobile
plebeo, con favella e modi e gesti
plebei, animale di genere affatto diverso
rispetto ad un uomo di pensiero e di lavoro,
ma di specie assai affine a quella del suo
cocchiere, e bravo cocchiere esso stesso:
bonario, del resto, verso la plebe, e da
questa amato come “buon signore”, amato per
la sua spensieratezza e ammirato per il suo
lusso e fasto, facile a gareggiare con essa
in scherzi e lazzi, proprio come quel re che
quei nobili avevano educato e foggiato a
loro guisa e che, quantunque fosse un
Borbone, pronipote di Luigi XIV, figlio del
dignitosissimo Carlo, portava certamente da
natura singolare disposizione a riuscire
quel che riuscì: il re che essi avrebbero
dovuto considerare fondatore della lor gente
e lor nume tutelare, Ferdinando IV, dai
contemporanei denominato, senza punto
mancargli di riguardo, il re lazzarone
”.
continua