Documenti e
dati
1. A partire dal 554, la città di Napoli ed i
territori ad essa circostanti costituirono un
Ducato, prima dipendente dall’imperatore di Bisanzio
(Impero Romano d’Oriente) e poi, dall’anno 840, del
tutto autonomo.
2. Si possono quindi
giustamente definire i tre secoli compresi fra l’840
ed il 1140 (quando la città fu conquistata dai
Normanni) come “l’epoca più napoletana della storia
di Napoli”
,
nel senso che fu uno dei pochi periodi (forse
l’unico) nel quale i Napoletani governarono da soli
se stessi, senza essere soggetti ad alcuna dinastìa
straniera.
3. Come si vede dalla carta topografica redatta dal
Capasso, il territorio del Ducato di Napoli, intorno
all’anno 1ooo, era ripartito in cinque regioni:
Liburia; Territorium puteolanum; Ager neapolitanus;
Territorium nolanum; Territorium plagiense.
4. Nel “Territorium
plagiense”, che si trovava ad oriente del fiume
Rubeolum-Sebéto ed era perciò detto anche “Foris
flùbeum”, si trovavano
:
37. Quartum
38. Giniolum (col precedente, formò S.Giovanni a
Teduccio)
39. Casabalera
40. Tertium
41. Sirinum (dove ora è la Barra)
42. Ponticellum
43. Porclanum
44. Crambanum
45. Capitinianum ad S. Jeorgium (questo ed il
precedente formarono S.Giorgio a Cremano)
46. Portici
47. Resina
48. S. Andreas ad Sextum (dove ora è Pugliano)
49. Calastrum
50. Sola.
5. Forse all’epoca
ducale vi erano altri di questi gruppi d’abitazioni
(che non si possono ancora, in quest’epoca,
denominare “Casali”) ma, non essendo la loro
esistenza confortata da documenti, essi non si
trovano nell’ opera del Capasso
.
6. A titolo meramente indicativo, diremo che
Casabalera sorgeva in corrispondenza
all’attuale quartiere di S. Maria del Pozzo in
Barra; Tertium era a metà
strada fra Barra e Ponticelli attuali, laddove
ancora esistono la strada comunale e la strada
vicinale Tierzo, nonché la via e la cupa dell’Oliva;
Sirinum,
infine, era un minuscolo gruppo di abitazioni nella
zona delle attuali piazza Serino, via Serino e
piazza Crocella in Barra.
Fòris flùbeum - Territorio plagiense
7. Il “Territorio plagiense” del Ducato di Napoli
era detto anche “pars foris flubeum” perchè si
trovava, uscendo dalle mura, al di là del fiume
Rubeolum-Sebéto.
Era dunque,
in pratica, il lembo di terra, ad oriente della
città di Napoli, compreso tra il fiume, il Vesuvio
ed il mare.
8. Il primo elemento caratterizzante il territorio
era dunque il “flubeum”, il “fiume” per eccellenza,
indicato nelle carte di questo periodo con il nome
di Rubeolum o Ribium.
Esso, forse non nella sorgente ma certamente nel suo
letto e nella sua foce, si diversificava da quel
Sebéto di cui parlano le più antiche fonti greche e
lo stesso Virgilio.
Sarà solo successivamente,
con il rifiorire degli studi umanistici, che a
questo fiume verrà attribuito il classico nome
di Sebéto, a partire, a quanto sembra, dalla
citazione fàttane da Giovanni Boccaccio
.
9. Il Rubeolum o Ribium si snodava in direzione
Nord-est/Sud-ovest e sfociava in mare all’altezza di
quella che, attualmente, è la via Ponte della
Maddalena.
10. “La sua alimentazione è data principalmente dai
monti di Avella e di Sarno che, essendo costituiti
essenzialmente da rocce carbonatiche, costituiscono
dei grossi accumulatori di risorse idriche, che
rilasciano poi sia in forma di sorgenti, sia
attraverso filtrazione nella pianura adiacente.
La sorgente principale del fiume è quella della
Bolla, in località oggi Tavernanova di Casalnuovo.
Occorre però tener
presente che il Rubeolum-Sebéto è un corso d’acqua
di tipo “risorgivo”, che trae cioè la sua
alimentazione dalla risalita della falda: questo
fenomeno è segnalato in più punti ed infatti, oltre
alla sorgente principale, si trovano lungo il suo
percorso altre risorgive (sorgente Sanseverino,
sorgente Lamia, sorgente Cozzone, etc.)”
.
11. “La foce del fiume era probabilmente a delta, in
quanto le abbondanti acque della falda, sostenute
dalle acque di mare, notoriamente più salate e
quindi più pesanti, emergevano copiose dando vita a
paludi ed a più ramificazioni fluviali in prossimità
dello sbocco a mare.
Comunque, le paludi
erano probabilmente presenti anche in altre zone
diverse dalla foce”
.
12. Vi era quindi una vasta zona palustre (Territorium
padulanum), che si estendeva intorno al corso
del fiume: erano queste le famose “parùle”
(“paludi”) per scavalcare le quali, lungo la costa,
in corrispondenza della foce del Rubeolum-Sebéto, fu
costruito un rudimentale ponte, detto in quest’epoca
“pons padulis” (fu detto poi “ponte Guizzardo” in
epoca angioina e divenne infine, ricostruito ed
ampliato, il “ponte della Maddalena”).
13. L’acquitrinio paludoso era percorso ed
alimentato dalle cosiddette “lave dell’acqua”, ossia
dai torrenti d’acqua che, in occasione delle piogge,
scendevano sia dal monte Somma-Vesuvio che dalla
vicina città (vallone di S. Rocco, cavòne di Miano,
etc.): queste acque finivano per confluire in modo
disordinato nell’alveo del fiume, dopo essersi
aperta la strada scavando nel terreno le famose
“cupe”, i cui tracciati, pur dopo secolari
peripezie, sono in parte visibili fino ad oggi.
14. Oltrepassate le paludi, risalendo verso il
Somma-Vesuvio, l’ambiente naturale diventava bensì
più boscoso e salubre (Territorium tresàno)
ma un altro pericolo si faceva più incombente: le
eruzioni del vulcano.
15. L’eruzione famosa del 24 agosto del 79 d.C, che
distrusse Pompei ed Ercolano, inferse un duro colpo
alla vivibilità di tutta la zona, ma ricordiamo che
numerose altre eruzioni sono segnalate dagli
storici: esse fecero meno danni solo perchè nel
frattempo l’area si era largamente spopolata.
16. Limitatamente al periodo che stiamo esaminando,
vi furono almeno sette grandi “incendi del vulcano”,
di cui ben tre nel solo secolo XI.
Uno vi fu “sotto il pontificato di Benedetto II, nel
683, e fece una strage quasi simile a quella
avvenuta ai tempi di Tito.
Lo storico Gabro Ridolfo ne racconta un altro del
993.
Dalla Cronica dell’Anonimo Cassinese, il cui
autografo si conserva nel Monastero della SS.
Trinità della Cava, si rileva esservene stati altri
nel 1024 sotto il pontificato di Benedetto VIII, nel
1036 sotto Benedetto IX, nel 1049 sotto Leone IX,
nel 1138 sotto il re Ruggiero.
Il Falco Beneventano
ne descrive un altro nel 1139”
.
17. Nell’intervallo “dal 1037 al 1049 il fuoco non
solo dal culmine ma da’ fianchi mandò giù
precipitose le sue materie ardenti, spegnendole nel
mare.
Le tenebre di
cenere, più o meno per 40 dì, nel 1038 e nell’anno
seguente, attristarono la popolazione”
.
Ex oriente Sebéti,
fructus
18. Nondimeno, e paradossalmente, questi
“inconvenienti” naturali (le eruzioni del Vesuvio,
le “lave” di acqua piovana, le paludi, etc.)
costituivano anche la principale ricchezza del
territorio.
19. Nel Territorio
Plagiense-Foris flubeum, ci spiega infatti il
Sigismondo, “si fanno vini i più squisiti chiamati
da’ Napoletani Lagrima, e Greco, e frutta le più
dilicate; e ciò si attribuisce alle ceneri che
cadono dal Monte sul sottoposto terreno, le quali
impregnate di sali, e di solsi, e mischiate colle
acque piovane rendono fertilissime le campagne, e
più saporose l’erbe e le frutta”
.
20. Questo ci permette di sottolineare i due aspetti
specifici dell’agricoltura di questa zona:
1)
i terreni da coltivare dovettero essere
costantemente contesi dall’uomo al dominio delle
paludi, delle “lave dell’acqua” e di quelle del
Vesuvio, che sono state le secolari maledizioni di
questa terra, peraltro (proprio grazie ad esse)
fertilissima;
2)
la coltivazione è stata sempre, in modi diversi, in
funzione del consumo della vicina città, della quale
il territorio Foris flubeum rappresentava uno
dei più “naturali” serbatoi di viveri (in
particolare, vino, frutta ed ortaggi).
Abbandono e rinascita
del Territorio plagiense
21. La definitiva caduta dell’Impero Romano
d’Occidente (nel 476) e la lunga guerra fra i goti e
i bizantini (dal 535 al 553), con i relativi
sconvolgimenti, distruzioni e massacri, lasciarono
al Ducato napoletano una ben triste eredità.
22. La città dovette inoltre difendersi, assai
presto, dagli attacchi dei nuovi invasori
Longobardi, resistendo a ben tre assedi nel giro di
pochi anni (nel 581, nel 592 e nel 599).
23. Il territorio ad oriente del Rubeolum-Sebéto,
già sconvolto dalla eruzione del 79 d.C. (ma
ricordiamo che ve ne fu un’altra nel 683 e poi nel
993), venne in pratica del tutto abbandonato.
24. “Le vecchie costruzioni crollarono o furono
coperte da selvaggia vegetazione, da alluvioni, da
detriti di ogni genere.
Ormai, sulle pendici del Vesuvio, non era più
pensabile la vita di una comunità capace di
sopravvivere alla violenza delle catastrofi
naturali, alla mancanza di un minimo di sicurezza
sociale, alle continue minacce di barbari, di
banditi, di pirati che sbarcavano sulla costa senza
alcuna difficoltà.
Solo quando il Ducato di Napoli acquistò una
effettiva autonomia e fu in grado di assicurare una
certa protezione, si dovettero cominciare a
disboscare le zone più vicine alla città e
all’antica via costiera.
Il lavoro di
risanamento non dovette essere facile e solo
lentamente si dovettero riconquistare le falde del
Vesuvio alla coltura e ad una rudimentale vita
associata.
Nel secolo X
probabilmente i risultati dovevano aver raggiunto
una certa consistenza...”
.
25. Cominciarono ad
essere di nuovo alquanto praticabili le due
strade principali che percorrevano il
territorio: la “via costiera” che, uscendo da Porta
Nolana, per il ponte delle paludi, per Pazzigno,
Portici, Ercolano, arrivava fino a Pompei; e l’altra
via che, dipartendosi da quella costiera all’altezza
di Pazzigno, attraversava
gli attuali territori di Barra, Ponticelli, etc. e
portava fino a Nola.
26. In effetti, gli storici sono concordi nel
parlare di una generale rinascita economica e civile
di tutta Europa, intorno all’anno 1000.
“Si ripopolarono le
campagne, si dissodarono terreni, si prosciugarono
paludi, si scavarono canali, si tracciarono strade,
si piantarono alberi da frutta disboscando foreste”
.
27. Cessata la famosa “paura” della fine del mondo,
che secondo alcuni doveva avvenire proprio allo
scadere del primo millennio cristiano (tale paura,
se non fu così generalizzata né così intensa come a
volte si dice, ebbe tuttavia la sua influenza su
larghi strati di popolazione), si registrò un
sensibile aumento demografico.
28. Contemporaneamente, si ebbe la scoperta di
nuovi strumenti di produzione (quindi, uno
sviluppo delle forze produttive), che alleggerirono
e resero più efficiente il lavoro manuale dell’uomo.
29. Le principali innovazioni tecnologiche,
veramente rivoluzionarie per quell’epoca, furono:
1)
Il passaggio dalla trazione iugulare
a quella pettorale per gli
animali da tiro. In precedenza, cavalli, asini o
buoi tiravano l’aratro o i carri con la briglia
al collo e non potevano quindi sopportare
carichi troppo pesanti, pena il soffocamento; da
allora, invece, carri ed aratri vennero muniti di
una stanga, coronata da un pezzo di legno
perpendicolare che poggiava sul petto
dell’animale. Questa semplice e geniale innovazione
consentì di rendere più veloce l’aratura dei campi e
di rendere più agevole il trasporto sui carri, sia
di merci che di attrezzature.
2)
L’abitudine di ferrare i cavalli.
In tal modo, con gli zoccoli aderenti al terreno, i
cavalli poterono trottare più agevolmente e più a
lungo senza stancarsi.
3)
L’invenzione del mulino ad acqua.
Al posto dei vecchi mulini a màcina,
di epoca romana ed anche anteriore, che dovevano
essere fatti girare a forza muscolare da animali o
da schiavi, subentrò così un congegno che era
azionato dal semplice scorrere dell’acqua.
4)
L’applicazione del pedale al telaio.
Quest’altra semplice ma poderosa innovazione agevolò
enormemente il lavoro di tessitura e pose le
premesse del suo sviluppo come ramo autonomo della
produzione.
30. Entrambe le cose (aumento della popolazione e
sviluppo delle forze produttive) contribuirono a
modificare i rapporti sociali, nel senso
che i signori feudali dei grandi latifondi
“consentirono” alla popolazione in esubero di
installarsi su parti fino ad allora incolte dei loro
possedimenti, al fine di bonificarle.
Questa concessione permetteva ai contadini “in più”
di sopravvivere ed ai feudatari di incrementare le
proprie rèndite.
31. Tali “nuove” condizioni di lavoro si
registrarono allora in un vero e proprio contratto,
detto di solito “libellum”, in quanto costituito da
un piccolo libretto con due facciate.
32. Con il “libellum”, il signore feudale concedeva
la terra al contadino per tre generazioni, quindi
per un secolo circa; in cambio di tale stabilità e
della protezione da parte delle milizie armate del
feudatario, il contadino si impegnava a migliorare
il terreno, a costruirsi da solo la casa ed a cedere
al signore una parte del raccolto oltre ad un cànone
in denaro.
I canali e
i mulini
33. Queste nuove condizioni di lavoro si
instaurarono anche, in particolare, nel nostro
“Territorio plagiense-Foris flubeum” che era appunto
in via di recupero.
34. Qui, tutto il sistema ruotava attorno al fiume
Rubeolum-Sebéto e all’utilizzo delle sue acque.
35. Gli appezzamenti di terreno, concessi dal
signore feudale in “contratto di pastinato”,
venivano detti “clusùrie”, in quanto di solito
racchiusi da folte siepi per tre lati e, per il
quarto lato, dal “fossàtus”, che era il canale
necessario per l’irrigazione ed era percorso
naturalmente da acqua che proveniva dal Rubeolum e
ad esso, in qualche modo, faceva ritorno.
36. Esisteva quindi una fitta rete di canali,
collegati al fiume, che ricoprivano tutta la zona
che veniva, man mano, conquistata ad una stabile
agricoltura.
37. I canali più grandi, inoltre, svolgevano anche
un’altra funzione: quella di far girare gli
ingranaggi dei mulini ad acqua, che trasformavano il
grano in “bonum siccum paratum” (“buon grano
macinato”, quindi “farina”).
38. Occorre tener presente che, in quest’epoca, i
signori feudali avevano tra l’altro anche il
cosiddetto “diritto di banno” sui mulini (ma anche
sui frantoi per l’olio ed i torchi per il vino,
almeno i più grandi): tutti i contadini che
risiedevano su terre vicine, appartenenti al
medesimo signore, erano obbligati a recarsi a far
macinare il grano (o, rispettivamente, le olive o
l’uva) nel suo mulino, pagando naturalmente a lui un
ulteriore tributo.
Ciò era dovuto al fatto che le spese per la
costruzione del mulino (o del frantoio, o del
torchio) erano di solito sostenute dal signore
stesso, che se ne considerava quindi pienamente
proprietario.
39. Si spiega quindi che esistessero alcune clusùrie
“strategiche”, che venivano dette “centi-mola” (da
centa=unione di dieci famiglie e mola=mulino):
all’interno di esse si trovava anche il mulino
“banale”, del quale dovevano evidentemente far uso
almeno dieci famiglie di contadini dei paraggi,
servi del medesimo signore.
40. E’ in queste clusùrie particolari che si
edificava (e se ne poteva ancora vedere qualcuna,
fino a pochi decenni fa) la caratteristica
“massarìa sul Sebéto” ossia la casa agricola che
era costruita su archi, al di sotto dei quali
scorreva l’acqua necessaria per azionare il mulino.
La lavorazione del lino
41. Una ulteriore importantissima funzione svolta
dal Rubeolum-Sebéto e dai suoi canali era collegata
alla lavorazione del lino.
42. Già prima dell’anno 1000, alcuni famosi
viaggiatori arabi (Edrisi e ‘Ibn Hawqal) definirono
Napoli “la città del lino” e, in effetti, i panni di
lino costituirono forse la principale merce di
esportazione non solo prima del 1000 ma anche nei
secoli XI e XII.
43. Il lino (Linum usitatissimum) è, come
noto, una pianta erbacea, coltivata sia per le fibre
tessili fornite dalla sua corteccia (lino da fibra)
che per l’olio che si può ricavare dai semi (lino da
seme).
Ha foglioline lineari e bei fiori, celesti o
bianchi, a cinque petali.
Dai semi, opportunamente pestati, si ottengono anche
farine per decotti e cataplasmi caldo-umidi; i semi
cotti vengono usati, altresì, come rimedio esterno
nelle infiammazioni acute.
44. Il lino da fibra era conosciuto e coltivato
dagli Egizi già nel V millennio a.C., ben prima che
iniziasse l’uso della lana (IV millennio a.C.) e
quello del cotone e della seta (III millennio a.C.).
45. Al lino da fibra non si lasciano maturare i
frutti, ma lo si estirpa prima, per evitare un
eccessivo indurimento legnoso degli steli.
Gli steli, infatti, vengono raccolti in fasci e
sottoposti a “macerazione”, allo scopo di distaccare
ed estrarre la fibra dalla parte legnosa.
La macerazione consiste nel tenere, per parecchi
giorni, i fasci di steli immersi in acqua,
generalmente in speciali vasche (dette “maceratoi”)
o dentro stagni naturali; per ottenere una fibra più
bianca, è preferibile effettuare l’operazione in
acqua corrente, in modo che i fasci di steli,
durante la macerazione, siano sempre a contatto con
acqua pulita.
46. Dopo la macerazione, i fasci vengono estratti
dalle vasche e lasciati essiccare; dopo di che, la
parte legnosa viene sminuzzata per schiacciamento
nonché sbattuta, per liberare completamente le
fibre.
47. Si
ottengono così filacce grezze di lino, lunghe da 50
a 90 cm, da avviare poi alla “filatura”: operazione
complessa e composta a sua volta da varie fasi, che
porta alla produzione di matasse di “filato”, pronto
per la tessitura.
48. Così stando le cose, ben si comprende che la
zona intorno al Rubeolum-Sebéto, con i suoi stagni
paludosi e soprattutto i suoi canali di acqua
corrente con portata praticamente costante, fosse
particolarmente indicata per la macerazione del lino
e le operazioni immediatamente successive.
49. Il luogo privilegiato fu anzitutto la zona
intorno alla foce del fiume, presso il già
menzionato “pons padulis” (ponte delle paludi).
50. Così, ad
esempio, il Capasso, in un contratto datato 29
agosto 1094, rileva l’esistenza di un maceratoio
(tali maceratoi venivano chiamati anche “fusàri”)
posto “foras flubeo qui vocatur Rubeolum, foris
istam urbem et ipsa padula quae vocatur
Zappacatina...et cum ipsa terra est pons padulis”
,
ma numerosi erano i fusàri in tutto il territorio ad
oriente della città.
51. Il territorio si prestava allo scopo anche
perchè scarsamente abitato: essendo la macerazione
un processo che emana uno specifico puzzo e che
ammorba l’aria, potendo provocare malattie anche
serie, era opportuno che i fusàri stessero fuori
dalla città e comunque lontano da centri molto
abitati.
Quando, più tardi, la zona cominciò a popolarsi
maggiormente, si pose infatti il problema di
“de-localizzare” i punti di macerazione del lino.
Alcuni contratti
52. I tre elementi che abbiamo delineato (una
agricoltura “nuova” in via di espansione; i mulini;
la lavorazione del lino) descrivono sufficientemente
quella che era la vocazione economica del territorio
“Foris flubeum” in epoca ducale.
53. Una ricognizione
più particolareggiata, sulla base di una rigorosa
documentazione, è stata magistralmente condotta
dallo studioso di Ponticelli Giorgio Mancini, nella
sua appassionata e lucidissima opera riguardante il
fiume Sebéto
.
54. Il Mancini,
“rileggendo i contratti integrali, pubblicati nei
Regii Neapolitani Archivi Monumenta, quelli
riassuntivi del Capasso e seguendo le indicazioni
del Chiarito
”
ricostruisce una vera e propria mappa del
“Territorium plagiense-Foris flubeum” al tempo del
ducato
.
55. Così, ad esempio, documenta l’esistenza di
almeno 8 mulini “ubicati nell’alta valle del Sebéto,
cioè tra la probabile sorgente ed il Casale di
Tertium”.
56. Documenta altresì quali erano i principali
prodotti dell’agricoltura della valle (oltre al
grano ed al vino, alberi fruttiferi di varie specie
e poi soprattutto ortaggi: fagioli, rape, cavoli,
bietole, ravanelli, sedano, cipolle, etc.), prodotti
che “da sempre hanno alimentato abbondantemente le
mense napoletane”: di frutta, ortaggi, legumi e
verdure in genere si alimentava, infatti, la maggior
parte della popolazione, mentre solo pochi
privilegiati (nobili, abati, alto clero) potevano
aggiungere anche la carne, in forma di cacciagione,
ed il pesce.
57. Il Mancini cita, infine, alcuni esempi di
“contratti”, che ci permettono di cogliere “dal
vivo” quali fossero i rapporti sociali allora
esistenti.
58. Riporto qui di seguito, a titolo illustrativo, i
termini di due di essi.
1) Contratto datato 7 aprile 990.
Il monastero dei SS. Sergio e Bacco concede per sei
anni ad Urso, figlio di Pietro Russo, una clusùria
che si trovava a Tertium, con relativo mulino del
monastero; Urso deve, oltre a coltivare la terra,
sostituire gli ingranaggi logorati del mulino ed
assumere una o più persone in aiuto (il tutto a suo
carico); deve inoltre consegnare al monastero 75
moggi (cioè circa 7 quintali) di farina il giorno
dell’Assunta (15 agosto), 19 chili di pane bianco
per la festa di S. Sebastiano ed altri 10 chili ogni
Giovedì Santo.
2) Contratto datato 3 giugno 1083.
I monasteri dei SS. Gregorio e Sebastiano e dei SS.
Anastasio e Basilio concedono l’uso dei loro mulini
(almeno due); lungo i canali, che portavano l’acqua
del Sebéto ai mulini, erano stati costruiti vari
maceratoi-fusàri per la preparazione del lino ed i
mugnai si impegnano a costruire a proprie spese un
nuovo maceratoio, in cambio dell’esenzione per sei
anni da ogni tipo di tassazione; dopo di che, devono
corrispondere quanto dovuto per tutti i maceratoi,
aggiungendo la lavorazione gratuita di 250 fasci di
lino.
Servi e signori - Il
posto della Chiesa
59. L’Alto Medioevo è, in Europa, come noto, l’epoca
classica dell’economia feudale chiusa. La terra è
l’unica fonte di sostentamento e l’unica sorgente di
ricchezza ed i rapporti con essa definiscono le
gerarchie sociali.
60. Una piccola minoranza di privilegiati, laici o
ecclesiastici, ne detiene la proprietà anzi ne è
“signore”; tutti gli altri sono o “vassalli” (legati
da un giuramento di fedeltà) o “servi”; infatti, il
termine “villano” designa tanto il contadino di un
feudo (villa) che il servo in generale.
61. Lo scambio e la circolazione dei beni sono al
livello più basso mai raggiunto ed il commercio è
quasi azzerato.
62. Di conseguenza, il signore feudale deve non solo
vivere esclusivamente dei prodotti della sua terra e
del lavoro dei suoi contadini, ma anche fare in modo
che, nei suoi feudi, si producano tutti gli
attrezzi, indumenti, utensili, necessari alla
coltivazione della terra e all’abbigliamento e vita
quotidiana dei “suoi uomini” che la fanno fruttare.
63. La forma sociale tipica di quest’epoca è il
latifondo: vastissimo (in media 4000 ettari) ma
quasi sempre estremamente frazionato, di modo che i
vari possedimenti, incastrati gli uni negli altri,
producono spesso un groviglio tale che uno stesso
villaggio può trovarsi a dipendere da due o tre
signori diversi.
64. Il fatto è che la grande proprietà non si è
formata secondo un piano precostituito: sono stati i
matrimoni e le eredità (per i signori laici) e le
successive donazioni di moltissimi benefattori (per
la Chiesa) a darle la sua bizzarra conformazione.
65. Il centro del feudo è l’abitazione del signore
(di solito, un castello o una abazia monastica). Da
questo centro dipendono varie circoscrizioni, ognuna
delle quali comprende uno o più villaggi. Ogni
circoscrizione è dotata di una curtis, nella
quale sono radunati gli edifici necessari al lavoro
comune (granai, stalle, scuderie, etc.) ed i servi
addetti a questo lavoro. Nella curtis,
inoltre, risiede il villicus, ossia la
persona di fiducia, incaricata dell’amministrazione,
da parte del signore.
66. La terra del feudo si divide in terra
dominicale, cioè lavorata dai contadini ad
esclusivo usufrutto del signore, e piccoli
appezzamenti (detti in genere mansi), ognuno
dei quali attribuito ad una famiglia e sufficiente
alla sua sussistenza, sui quali grava comunque
l’obbligo di versare canoni in natura al signore.
67. Il feudatario ha l’obbligo morale di difendere
con la sua spada ed il suo castello, in caso di
aggressione, i contadini delle sue terre; esercita
l’autorità giudiziaria civile e penale (le leggi,
del resto, sono dettate dalle consuetudini o
altrimenti coincidono con la sua volontà); fa
costruire in ogni circoscrizione una chiesa o
cappella, sulla quale esercita il patronato.
68. I suoi contadini non possono sposarsi senza
prima avergli versato una tassa, non possono sposare
una donna di altro feudo senza la sua autorizzazione
ed egli può imporre loro, in caso di necessità ed a
suo giudizio, tassazioni speciali (dette di solito
taglie).
69. In questa società così gerarchizzata, la Chiesa
occupa il posto più importante, sia dal punto di
vista economico che da quello morale.
70. I suoi possedimenti terrieri, infatti, superano
per estensione quelli della nobiltà laica ed in più
soltanto la Chiesa dispone, grazie alle donazioni
dei fedeli e alle elemosine dei pellegrini, della
fortuna monetaria che in casi di necessità
(carestie, guerre, etc.) le consente anche di
prestare denaro ai laici bisognosi e agli stessi
nobili.
71. Inoltre, essa detiene in pratica il monopolio
della cultura (la lettura e la scrittura) e quindi
nel suo seno nobili e re devono necessariamente
reclutare tutto quel personale colto di cui non
possono assolutamente fare a meno (cancellieri,
notai, segretari, etc.).
72. Di conseguenza, dal IX al XI secolo, tutta
l’alta amministrazione è di fatto nelle sue mani: il
suo spirito vi domina come domina nelle arti.
D’altra parte, l’organizzazione dei suoi feudi è un
modello che invano i feudi della nobiltà cercheranno
di emulare, poiché solo nella Chiesa si trovano
uomini capaci di tenere registri contabili, di
calcolare spese ed entrate e pertanto mantenerle in
pareggio.
73. In sintesi, la
Chiesa occupa, in modo incontestato, il posto
centrale nel mondo terreno dell’epoca e detiene
inoltre, per consenso ugualmente incontestato, le
chiavi di accesso al mondo celeste
.
Le tre radici
dell’albero: Casabalera, Sirinum e Tresàno
74. Anche le terre ad oriente di Napoli erano
perciò, nel periodo che stiamo esaminando, quasi
esclusivamente:
a)
terre feudali delle principali famiglie nobili della
città;
b)
terre feudali dei grandi complessi monastici che
avevano in città la loro sede principale (SS.
Severino e Sossio, SS. Sergio e Bacco, S. Salvatore
in insula maris, etc.)
75. Sirinum è un esempio del tipo a);
Casabalera del tipo b).
Di ognuno di questi due gruppi di abitazioni diremo
adesso qualcosa; diremo altresì del territorio
Tresano o Tresana.
Casabalera, Sirinum e Tresano sono infatti, come si
vedrà, le tre radici dell’albero del Casale della
Barra.
Casabalera, vigna
monastica
76. Con contratto datato 8 marzo 1135, Bonifacio,
abate del monastero dei SS. Sergio e Bacco, concede
(vita natural durante) a Sergio, suddiacono della
Santa Chiesa di Napoli, alcune clusùrie del
territorio “foris flubeum” e, fra queste:
“integra corrigia de terra insimul propria
memorati monasterii, positum vero in loco qui
nominatur Casabalera quod est parte foris flubeum,
insimul cum arboribus et cum palmentas et
subsceptorias suas, quae sunt intus...memoratam
clusuriam de memorata Casabalera....
Memoratum fundum de loco Casabalera iterum coheret
sibi a parte orientis bia publica, et a parte
occidentis est terra memorati de Pinum sicuti inter
se sepis exfinat, et a parte septentrionis est
fundum memorati Iohannis de Pinum ubi est memoratu
puteu communi sicuti inter se sepis et terra
exfinat, et a parte meridie est fundum diaconie
ecclesie S. Georgii de platea Hagustali et de
monasterium ad Baianum”
.
77. Dunque, la clusùria concessa a Sergio si trovava
in luogo detto Casabalera, ricco di alberi e con
palmentas et subsceptorias (=torchi fissi per il
vino, con relative coperture).
La clusùria, ben racchiusa da siepi, confinava ad
oriente con la via pubblica, ad occidente ed a
settentrione con la terra di tale Iohannis de
Pinum ed a meridione con terra della chiesa di
S. Giorgio.
78. E’ caratteristico il fatto che, nel fondo di
Iohannis de Pinum, si trovi un puteu communi
(=un pozzo comune), che era evidentemente di grande
importanza per i contadini della zona.
79. Abbiamo detto in precedenza che i torchi fissi
per il vino erano “banali”, cioè costruiti a spese
del signore feudale (in questo caso, l’abate del
monastero), con l’obbligo per tutti i contadini
vicini, residenti su terre del monastero, di
servirsene e di pagare il relativo tributo in
natura.
80. E’ molto probabile che anche il pozzo sia stato
scavato, all’inizio dell’opera di colonizzazione
della zona, per interessamento del monastero e con
il lavoro comune dei contadini residenti.
Pertanto, poteva essere utilizzato da tutti i coloni
di Casabalera sottoposti alla signorìa dell’abate:
per far ciò, non risulta che essi dovessero pagare
alcunché.
81. Il P. Alagi avanza l’ipotesi, del tutto
ragionevole, che tale pozzo (tuttora esistente,
anche se non più attivo, nei locali attigui alla
chiesa di S. Maria del Pozzo a Barra) sia stato
all’origine della chiesetta omonima:
“Nulla vieta che presso il pozzo fosse posta una
immagine della Madonna, quasi a protezione
dell’acqua viva e fresca, tanto utile agli abitanti
del luogo.
Nulla vieta, d’altra
parte, che la Madonna, posta a custodia del pozzo
prezioso, abbia manifestato la sua materna
protezione non solo preservando il pozzo dalla
sterilità o dall’inquinamento, ma anche evitando a
qualche malaccorto di precipitare nella profonda
buca (una ventina di metri: mica uno scherzo!). La
gratitudine dei fedeli li avrà spinti a costruire
prima una cappellina, poi addirittura una chiesa in
onore della Madonna”
.
82. Così, quando il
territorio venne sottratto alla signorìa dell’abate,
nel periodo svevo, ed incamerato al règio demanio,
la chiesetta divenne quasi naturalmente la sede
della estaurìta di Casabalera ed il centro del
casale
.
83. Occorre qui
notare che Casabalera aveva anche un’altra
chiesetta, dedicata a S. Martino, che risulta però
documentata solo a partire dal periodo angioino
.
Sirinum, il suo stemma, la sua chiesa
84. Non è documentato a quale famiglia nobile
appartenesse il territorio di Sirinum.
Si conosce, però, lo
stemma del Casale di Sirinum, raffigurante una
Sirena (la Sirena Partenope è, come noto, simbolo di
Napoli) con corona ducale. Tale stemma rimase
proprio del casale fino alla fine del secolo XV,
quando Sirinum si unì con la Barra de’ Coczis, sorta
nel periodo angioino, e portò in dote al casale
unificato anche il proprio stemma, che venne nell’
occasione ritoccato, rendendo la Sirena bi-càuda, a
significare l’unione dei due nuclei abitati
.
85. E’ noto,
altresì, che in Sirinum vi era una chiesa
,
dedicata a S. Atanasio, vescovo di Napoli dal 849 al
872 e personaggio emblematico del periodo ducale
.
86. Questi dati ci permettono di avanzare l’ipotesi
che la famiglia nobile, alla quale Sirinum
apparteneva in signorìa feudale, fosse proprio la
famiglia ducale.
87. Il duca di Napoli non era un nobile qualsiasi ma
era il capo civile e militare della intera città, al
quale tutti gli altri nobili dovevano fedeltà ed
obbedienza.
Il titolo ed il connesso potere divennero ereditari
(quindi, trasmessi da padre a figlio primogenito,
all’interno di un’unica famiglia cittadina) a
partire dal duca Sergio I, nel 840, e fino alla
conquista di Napoli da parte dei Normanni, nel 1140.
88. Il fatto di essere il capo dell’ intera città
non escludeva, però, che il duca avesse anche delle
terre “proprie”, che costituivano il patrimonio e la
rendita feudale della sua famiglia in quanto tale.
E’ abbastanza naturale che queste terre “di
famiglia” recassero come stemma la Sirena (simbolo
della città della quale il duca era il capo e con la
quale la sua famiglia ereditariamente si
identificava), cinta appunto dalla corona ducale.
89. D’altra parte, nessun altra famiglia napoletana,
per quanto nobile ed importante, avrebbe potuto
permettersi di usurpare nel proprio stemma la corona
propria del duca e della sua progènie.
90. Possiamo quindi ragionevolmente ipotizzare che
il primo nucleo abitato di Sirinum fosse costituito
da famiglie di contadini che avevano ricevuto, con
apposito libellum, il compito di colonizzare
terre incolte appartenenti alla famiglia ducale
napoletana, alle condizioni che abbiamo già
descritto e che erano proprie di quel periodo.
91. Questo piccolo gruppo di famiglie poteva
fregiarsi delle insegne del proprio signore, che era
lo stesso duca di Napoli, e si distingueva pertanto
dalle famiglie insediate su terre vicine,
appartenenti a monasteri o ad altri aristocratici
della città, al punto che lo stesso nome di
“Sirinum” può essere fatto derivare dalla “Sirena”
raffigurata nello stemma.
92. L’opera di colonizzazione dovette iniziare già
nel secolo X, per poi svilupparsi progressivamente,
pur in mezzo alle traversìe proprie di quei tempi,
nei secoli XI e XII.
93. Se ciò è vero, il duca che diede inizio
all’opera fu probabilmente Giovanni II (915-919)
oppure Marino I (919-928): entrambi governarono in
un periodo relativamente tranquillo della vita del
ducato, nel quale non sono segnalate guerre o
invasioni di Saraceni o altre turbolenze, e perciò
favorevole alla nascita di nuovi insediamenti al di
fuori delle mura della città.
Oppure, ci si dovrà riferire al quarantennio di
governo del duca Giovanni III (928-968), che fu
periodo di relativa stabilità, prosperità e
fioritura culturale, anche se pur sempre agitato
dalle scorrerie saracene.
94. In ogni caso, chiunque sia stato il duca che
diede inizio alla colonizzazione del territorio di
Sirinum, l’ipotesi che il territorio appartenesse
proprio alla famiglia ducale spiega molto bene anche
il fatto che la chiesa di Sirinum fosse dedicata a
S. Atanasio (832-872).
95. Questo Santo,
infatti, era uno dei figli del duca Sergio I,
capostipite della dinastìa ducale
,
ed è quindi abbastanza naturale che i nobili
parenti, venuti dopo di lui, abbiano voluto
dedicargli la chiesa, sorta su un territorio che era
loro possedimento feudale e sulla quale essi
esercitavano il patronato
.
96. Quando poi il
territorio venne sottratto alla signorìa feudale,
nel periodo svevo, ed incamerato al règio demanio,
la chiesetta divenne la sede della estaurìta di
Sirinum ed il centro del relativo casale
.
Tresàno - Una
presenza ebraica
97. Già nel periodo ducale esisteva un territorio
denominato Tresàno (o anche Trasano, Tresana,
Tresani, Trasani…):
“Fin dai tempi di
Basilio il Macèdone, imperatore d’Oriente, nel nono
Secolo dell’Era Cristiana, alcuni fratelli di
Pomigliano ad Arco dichiararono tenere possidenza in
territorio di TRESANO o TRASANO, per come si rileva
dalla carta CCC XXXIIII (334) nell’archivio del
monastero di S. Sebastiano in Napoli”
.
98. Il Tresano (utilizzando i termini della
toponomastica attuale) iniziava dalle Vie
Giambattista Vela e Villa Bisignano e, avendo come
tratto inferiore la parte alta del Corso Sirena fino
a S. Aniello, proseguiva verso il Vesuvio lungo le
Vie Pini di Solimena e Pagliare/Cupa Mare, giungendo
fino al Pittore, a S. Sebastiano e forse oltre.
99. Circa l’origine del nome “Tresano”, il Cozzolino
dice:
”Fra tutto questo pandemonio di fuoco, di ceneri
incandescenti e di acque, che i secoli rovesciarono
su questa Piana Vesuviana, n’esce incolume dalla
notte medioevale una sola estensione: la sola non
cremata dalle lave incandescenti, la sola di
coltura non selvatica, la sola di terreno non
padulanum, sostantivata territorium,
ossia terreno in piano o falso piano, che è, e che
la tradizione ed il fatto ci ha rimandato sempre per
arbusto vitato.
E questo territorio
in dolcissimo displuvio, atteso la sua
eccezionalità, come la perla nelle rovine, era
com’è, talmente ridente e salutare, che lo si nomò
TRESANO
,
ossia tre volte sano, triplicatamente salubre!”.
100.
Successivamente, nel periodo angioino, su questo
territorio nacque la Barra de Coczis
ed il nome “Tresana” rimase solo alla parte più alta
della zona, quella che poi si chiamò “alli Galitti”
e fu descritta dal Palomba e da Ulisse Prota-Giurleo
.
101. Il Mancini
segnala, relativamente al Tresano, un contratto
concernente l’acquisto di un campo da parte di “un
sacerdote ebreo di nome Melì”
.
102. In effetti, questa presenza ebraica sul
territorio non stupisce, ove si consideri che,
nell’Europa del tempo, in cui il commercio era quasi
azzerato, solo gli ebrei lo praticavano invece con
regolarità.
103. “Nella lingua del tempo, la parole judaeus
e la parola mercator appaiono quasi sinonimi.
Il commercio cui si dedicano riguarda
prevalentemente le spezie e le stoffe pregiate che
laboriosamente trasportano, dalla Siria,
dall’Egitto, da Bisanzio, nell’impero carolingio.
Grazie a loro, le chiese possono procurarsi
l’incenso indispensabile alla celebrazione delle
funzioni e, di tanto in tanto, quelle ricche stoffe
di cui i tesori delle cattedrali hanno conservato
fino ai giorni nostri rari esemplari.
Importano pepe
(condimento divenuto così raro e così costoso che
talvolta lo si impiega come moneta), smalti e avori
di fabbricazione orientale che costituiscono il
lusso dell’aristocrazia”
.
104. In particolare,
la comunità ebraica di Napoli pare si fosse
specializzata nell’attività di tintura dei
filati allo stato grezzo e dei tessuti
,
che poi vendeva ai propri co-religionari che
provvedevano a commercializzarli in tutto il bacino
del Mediterraneo.
105. Poiché abbiamo detto che la lavorazione del
lino era molto diffusa nella zona delle paludi, è
del tutto spiegabile che il “sacerdote ebreo di nome
Melì” si sia procurato una presenza lì vicino, onde
poter seguire da presso la produzione di una fra le
più importanti “materie prime” della propria
attività.
Appendice: S. Atanasio, chi era costui?
106. Abbiamo detto (vedi n. 85) che la chiesetta di
Sirinum (a quanto pare, la più antica tuttora
presente in Barra) era dedicata a S. Atanasio e che
quest’ultimo fu un personaggio emblematico del
periodo ducale. Ma chi era esattamente S. Atanasio?
107. Le fonti per la sua biografia sono la “Vita di
S. Atanasio”, scritta da un autore anonimo nel
secolo X, e la “Cronaca dei vescovi napoletani”, di
Giovanni diacono, contemporaneo del Santo.
108. Costoro ci dicono che Atanasio nacque nell’anno
832 da Sergio, figlio di Marino e Euprassia e, a
quel tempo, conte di Cuma.
Sua madre era la nobile Brosa; suoi fratelli
maggiori furono Gregorio e Cesario.
109. Nell’anno 840, quando Atanasio aveva otto anni,
suo padre Sergio venne designato, per acclamazione,
dai napoletani quale duca della città, mettendo fine
ad un convulso periodo di torbidi.
110. Il padre lo mise allora alla scuola del santo e
dottissimo vescovo di Napoli Giovanni IV (detto “lo
scriba”, perchè specialista nella trascrizione degli
antichi codici) e Atanasio manifestò subito viva
propensione agli studi e alla vita religiosa.
Fu infatti da Giovanni IV ordinato diacono e
assegnato alla prestigiosa basilica napoletana di S.
Maria Maggiore.
111. Suo padre, intanto, si destreggiava nel governo
del ducato, che doveva difendere dai vicini
principati Longobardi e soprattutto dai Saraceni che
infestavano il mare e le coste del Tirreno.
112. Capo dell’esercito e della flotta di Sergio,
col titolo di console, era suo figlio Cesario (è
questi quel “Cesario console” al quale è oggi
intitolata una strada centrale di Napoli).
113. Cesario sconfisse i Saraceni, giunti fin sotto
le mura di Roma, nella battaglia di Gaeta (anno
846). Tre anni dopo, nel 849, i Saraceni si rifecero
vivi, con l’intento di saccheggiare Roma, ma Cesario
li sconfisse nuovamente nella celebre battaglia
navale di Ostia, definita dagli storici come la più
importante vittoria navale dei cristiani sui
musulmani prima di Lepanto e raffigurata secoli dopo
da Raffaello nelle stanze del Vaticano.
114. Nello stesso anno, moriva il vescovo di Napoli
e così Sergio poté chiedere al papa Leone IV
(847-855), riconoscente per lo scampato pericolo, il
titolo episcopale per il suo figlio minore Atanasio,
ed il papa fu ben lieto di concederlo, data anche la
fama di bontà e religiosità che già circondava
quest’ultimo.
115. Così, il 22 dicembre del 849, in Roma, con
unanime consenso, Leone IV ordinò Atanasio, in età
di appena 18 anni, quale vescovo di Napoli.
116. La giovane età non gli impedì, tuttavia, di
essere ottimo ed amatissimo prèsule, stimato per
santità e cultura.
Si ricordano le sue opere a beneficio dei poveri,
degli ammalati e per la liberazione dei prigionieri
nelle mani dei Saraceni.
Fece costruire in città un ospizio per i pellegrini
e per le persone in stato di necessità.
117. Arazzi preziosissimi e suppellettili di
inestimabile valore donò alla Stefanìa, che
era a quel tempo la chiesa cattedrale di Napoli e
nella quale già il suo predecessore Giovanni IV
aveva fatto trasportare le reliquie dei precedenti
vescovi della città, fino ad allora sepolti nelle
catacombe di S. Gennaro.
118. Sulle stesse catacombe, fece restaurare la
basilica di S. Gennaro detta “extra moenia” (“fuori
dalle mura”) e costruire un annesso monastero
benedettino.
119. Per i monasteri, a quel tempo autentico fulcro
della vita non solo religiosa della città, ebbe
particolare cura, cercando di mantenere
costantemente vive la spiritualità e la cultura dei
monaci e la loro disciplina, così come il benessere
dell’anima e del corpo dei contadini che vivevano
sulle terre monastiche.
120. Partecipò con grande prestigio, a fianco dei
papi Niccolò I (858-867) e Adriano II (867-872),
alla preparazione e alla celebrazione del IV
Concilio di Costantinopoli (869-870), che avviò la
composizione dello scisma del Patriarca Fozio e
confermò, contro l’iconoclastia, la liceità del
culto delle immagini.
121. Quando il duca Sergio morì, nell’anno 865,
poteva dirsi soddisfatto di essere riuscito a
consolidare la stabilità del ducato ed il potere
della sua famiglia su di esso: lasciava infatti il
governo ed il titolo di duca al suo figlio
primogenito, Gregorio III, ed il titolo di vescovo
tenuto con autorevolezza dall’altro suo figlio
Atanasio.
122. Gregorio III resse la città per soli 5 anni,
fino al 870, quando morì.
In questi anni, suo fratello Atanasio gli fu di
grande aiuto, morale e politico, e fu lui a salvare
Napoli dal pericolo dell’ occupazione da parte
dell’esercito dei Franchi, guidati da re Lodovico.
Lodovico, infatti, aveva conosciuto ed era diventato
amico ed estimatore di Atanasio a Roma, sicché
“Atanasio gli era divenuto talmente familiare che
non volle alla fine amareggiarlo esercitando il suo
potere” (Capasso).
123. Purtroppo, dopo la morte di Gregorio III, il
suo figlio e successore Sergio II inaugurò una
politica dispotica e crudele, giungendo fino a far
arrestare lo zio vescovo, che lo richiamava alle
virtù dei padri.
124. All’arresto di Atanasio, vi fu una ferma
risposta da parte del clero e dei monaci napoletani:
molti iniziarono un digiuno di protesta e, di fronte
alla insensibilità del duca, si proclamò la totale
sospensione di qualsiasi “servizio divino”, finché
il vescovo non fosse stato rimesso in libertà.
125. Sergio II dovette quindi liberare Atanasio ma,
con atto del tutto arbitrario, lo dichiarò comunque
decaduto dalla carica episcopale.
126. Atanasio rifiutò fermamente di dimettersi,
sostenuto dal clero e dal popolo, e si rifugiò nel
monastero di S. Salvatore in insula maris,
posto sull’isolotto di Megàride (dove oggi sorge il
Castel dell’Ovo).
127. Sergio II inviò l’esercito ad arrestare
nuovamente il vescovo, ma i monaci ed i contadini lo
difesero energicamente ed i soldati stessi, temendo
il sacrilegio, non osarono eseguire gli ordini del
duca.
128. Questi ricorse allora ad un incauto espediente:
si accordò con una banda di “infedeli” Saraceni, che
stazionava nelle vicinanze della città, affinché
fossero loro a catturare Atanasio, concedendogli in
cambio il diritto di saccheggiare il monastero che
lo accoglieva.
129. I Saraceni assaltarono S. Salvatore, ma monaci
e contadini difesero strenuamente per nove giorni le
mura del monastero, finché Atanasio non venne posto
in salvo, via mare, dalle navi amalfitane inviate
dal re dei Franchi, Lodovico, per aiutare ancora una
volta il suo amico vescovo.
130. Riparato a Sorrento, Atanasio apprese con vivo
sgomento i successivi sviluppi della situazione
napoletana: Sergio II cominciava ad impadronirsi dei
beni della Chiesa napoletana, ad arrestare monaci e
clero, a nominare abusivamente preti ed abati a lui
sottomessi, mentre il papa Adriano II (867-872)
lanciava la scomunica contro il duca, estendendola
all’intera città.
131. Atanasio decise allora di recarsi a Roma presso
il papa, per chiedergli di liberare i napoletani
dalla scomunica, ed affrontò un duro viaggio per
mare e per terra, nelle disagevoli condizioni dei
trasporti di quel tempo e col pericolo incombente
dei Saraceni, finché non si trovò alla presenza del
papa per intercedere a favore della sua città.
132. Adriano II accolse benevolmente la richiesta
del suo vescovo, ritirò la scomunica nonostante
l’indegno comportamento di Sergio II, e re-inviò
Atanasio a Napoli, ma accompagnato stavolta da un
robusto contingente di soldati Franchi.
133. Durante la marcia di ritorno, però, Atanasio,
stanco e malato, dovette prima far sosta a Veroli e
poi essere ricoverato nel convento di S. Quiricio,
poco distante da Montecassino. Qui morì, il 15
luglio del 872, all’età di soli 40 anni e dopo 23
anni di episcopato, senza poter rivedere la sua
amata città, ed il suo corpo venne traslato nel
monastero di Montecassino.
134. Con la sua morte, Sergio II ritenne di avere
finalmente partita vinta, tanto più che, quasi
contemporaneamente, si spegneva anche il papa che lo
aveva scomunicato, Adriano II.
135. Pensando di controllare completamente la
situazione, Sergio II ottenne dal nuovo papa
Giovanni VIII (872-882) la nomina come vescovo di
Napoli di suo fratello, anche lui di nome Atanasio,
che divenne, quindi, il nuovo capo della Chiesa
napoletana, col nome di Atanasio II.
136. I due prelati (papa e vescovo) non erano però
dei profeti disarmati come il povero Atanasio I ed
erano tutt’altro che santi come lui: si accordarono
quindi, segretamente, in una congiura ai danni di
Sergio II.
137. Atanasio II cominciò prima con il guadagnarsi
il favore del popolo e dell’esercito, fece
trasportare da Montecassino a Napoli le spoglie del
suo sfortunato predecessore (1 agosto 877), contro
la volontà del duca ma con grande concorso di clero
e di popolo, ed infine attuò il suo piano.
138. Nell’autunno dell’anno 877, con un colpo di
mano, fece arrestare ed accecare suo fratello Sergio
II e lo inviò prigioniero, ormai inoffensivo ed
incatenato, al papa Giovanni VIII a Roma.
139. Il papa rispose pubblicamente con una lettera
di congratulazioni per il felice esito
dell’iniziativa ed Atanasio II, col consenso dei
nobili napoletani e dello stesso papa, aggiunse alla
carica di vescovo anche quella di duca della città,
che mantenne fino alla morte, nell’anno 898.
140. Si consumò
così, con una tragica fàida familiare animata
dall’ambizione, una postuma vendetta per Atanasio I
che lui, il Santo, non avrebbe certamente voluta
.
CRONOLOGIA DEI DUCHI DI
NAPOLI
553 - Dopo la vittoria nella guerra contro i Goti, i
Bizantini decidono di insediare a Napoli, in forma
permanente, un “magister militum” cioè un capo
militare con il compito, appunto, di “ducere
militiam”: insomma, un dux (duca).
Questo duca è nominato (e dipende) dall’Esarca
d’Italia, ossia dal capo della provincia italiana
del vasto impero bizantino, che aveva la sua sede a
Ravenna.
Il primo duca nominato si chiamava, a quanto pare,
Scolastico e si insediò il 14 agosto del 554;
imperatore di Bisanzio era, in quel periodo, il
celebre Giustiniano I (527-565).
568 - I Longobardi passano le Alpi, sotto la guida
del re Alboino, e si riversano nella penisola
italiana.
581 - Il ducato bizantino di Napoli resiste al primo
assedio longobardo.
592 - Il ducato bizantino di Napoli resiste al
secondo assedio longobardo.
599 - Il
ducato bizantino di Napoli resiste al terzo assedio
longobardo.
DUCATO NAPOLETANO (DIPENDENTE DA
BISANZIO)
661-666
Duca Basilio (è il primo duca napoletano ed il
primo ad essere nominato direttamente
dall’imperatore di Bisanzio, Costante II
(641-668) ).
666-670 Duca Teofilatto
670-672 Duca Cosma
672-677 Duca Andrea I
677-684 Duca Cesario I
684-687 Duca Stefano I
687-696 Duca Bonello
696-706 Duca Teodosio
706-711 Duca Cesario II
711-719 Duca Giovanni I
719-729 Duca Teodoro
726 - L’imperatore di Bisanzio Leone III
Isàurico (717-741) emana un editto che impone
la distruzione di tutte le immagini sacre,
incontrando però una forte opposizione in
ogni parte dell’impero:
inizia la guerra “iconoclasta”
(“distruzione delle immagini”).
729-739 Duca Giorgio
739-755 Duca Gregorio I
DUCATO AUTONOMO (DI FATTO)
755-800 Duca Stefano II (nel 763,
consegue l’autonomia di fatto del ducato napoletano
da Bisanzio, anche se non ancora quella di diritto).
787 - Secondo Concilio di Nicea (VII Concilio
ecumenico), tenutosi grazie all’imperatrice Irene,
vedova di Leone IV e reggente per conto del
figlio minorenne Costantino VI. Si definisce
ufficialmente che l’adorazione è dovuta solo
a Dio, ma che, nei confronti delle icone, si deve
avere un atteggiamento di devota venerazione
(consistente, in pratica, in: accensione delle
lampade, incenso e prostrazione). Ma
la guerra “iconoclasta” continua.
800-801 Duca Teofilatto II
801-818 Duca Antimo
818- 821 Periodo di reggenza di Teoctisto,
nominato dallo stratega bizantino di
Sicilia
821-832
Duca Stefano III
831 - Sicone, principe longobardo di Benevento,
durante un vano assedio alle mura di Napoli,
s’impadronisce delle spoglie di S. Gennaro (che si
trovavano nelle catacombe della collina di
Capodimonte, dove erano state riposte, dal vescovo
di Napoli Giovanni I, tra il 413 ed il 432) e
le trasporta a Benevento, città di cui il Santo era
stato vescovo; a Napoli restano, però, il cranio e
le ampolle del sangue.
832-834 Duca Bono
834-834 Duca Leone
834-840 Duca Andrea II
DUCATO AUTONOMO
(EREDITARIO DI DIRITTO)
840- 864 Duca Sergio I (è il
primo con diritto di successione ereditaria e quindi
con autonomia di diritto oltre che di fatto).
843 - L’imperatrice di Bisanzio, Teodora (reggente
per conto del figlio Michele III), abolisce l’editto
del 726 che imponeva la distruzione delle immagini
sacre e pone così fine alla guerra
“iconoclasta” (l’evento è tuttora ricordato,
nella Chiesa ortodossa, con la “Grande festa
dell’Ortodossia” che si tiene la prima Domenica di
Quaresima).
846 - I Saraceni giungono a saccheggiare Roma, ma
vengono poi respinti, nella battaglia di Gaeta, dal
console Cesario, secondogenito di Sergio I.
849 - Ritorno dei Saraceni, che vengono di nuovo
sconfitti, nella battaglia navale di Ostia, dal
console Cesario. A Natale dello stesso anno, il papa
Leone IV (847-855) ordina vescovo di Napoli
Atanasio I (S. Atanasio), terzogenito di
Sergio I.
864- 870 Duca Gregorio III
870- 877 Duca Sergio II
872 -
(15 luglio) Morte di S. Atanasio, dopo un
aspro conflitto con Sergio II.
877- 898 Duca Atanasio II (è
anche vescovo, a partire dal 873; prende il posto di
suo fratello Sergio II, dopo averlo fatto accecare,
mandandolo poi prigioniero al papa Giovanni VIII).
898-915 Duca Gregorio IV
(nell’anno 900, ordina di evacuare e distruggere il
Castrum Lucullanum, per impedire che possa
essere utilizzato dai Saraceni di Sicilia come testa
di ponte durante un assedio).
915-919 Duca Giovanni
II
919-928 Duca Marino I
928-968 Duca Giovanni
III
968-977 Duca Marino II
977-998
Duca Sergio III
998-1002 Duca Giovanni IV
? - ?
Duca Sergio IV
1027 - Il principe longobardo Pandolfo di Capua
occupa Napoli e costringe alla fuga Sergio IV.
1029 - Sergio IV riconquista la città, grazie
all’aiuto di mercenari normanni guidati da Rainulfo
Drengot, che ottiene in cambio la contea di Aversa e
la mano di Sichelgaita, sorella di Sergio IV.
Aversa diventa il primo centro dell’espansione
normanna nell’Italia meridionale.
? - 1053 Duca
Giovanni V
1053 - Il papa Leone IX (1049-1054)
organizza una spedizione militare per contrastare i
Normanni, ma viene sconfitto nella battaglia di
Civitate; il papa stesso, pur trattato con grande
rispetto, rimane prigioniero dei Normanni a
Benevento per circa 9 mesi.
1053-1082 Duca Sergio V
1059 - Il papa Niccolò II (1058-1061), nel
Sinodo di Melfi, legittima le conquiste normanne,
dichiarando propri vassalli Riccardo di Aversa e
Roberto “il guiscardo”, che si impegnano, in cambio,
al pagamento di un tributo annuo nonché a difendere
l’autonomia della Chiesa rispetto alle ingerenze
dell’imperatore (d’Occidente) nella nomina dei
pontéfici.
1077-78
Napoli resiste all’assedio del normanno Roberto “il
guiscardo”.
1082-1107 Duca Sergio VI
1091 - S. Bruno di Colonia (1030-1101),
fondatore dell’Ordine dei Certosini, chiamato in
Italia meridionale dal papa Urbano II (1088-1099),
fonda un monastero nella località poi detta
Serra S. Bruno, in Calabria.
1107-1123 Duca Giovanni VI
1123-1137 Duca Sergio VII
1134 - Napoli respinge l’assedio della flotta
del normanno Ruggiero II d’Altavilla, già incoronato
nel 1130 “Re di Sicilia”.
1135-37 Napoli resiste per
l’ultima volta all’assedio di Ruggiero II.
1140 - Ruggiero II d’Altavilla
entra trionfalmente in Napoli dalla Porta Capuana.
Il
grande Bartolommeo Capasso (1815-1900) è
stato operosissimo ed appassionato studioso
di storia napoletana.
E’
autore, fra l’altro, di un’opera
fondamentale per la conoscenza del periodo
ducale: “Monumenta ad Neapolitani Ducatus
historiam pertinentia”, Vol. I (1881)
e Vol. II (pars prior, 1885;
pars altera, 1892).
In
questa opera, sono (per così dire) riassunti
i “Regii Neapolitani Archivi Monumenta”,
raccolta integrale delle membrane del
periodo ducale, èdita dalla Règia tipografia
in Napoli e suddivisa in:
-Vol.I, pars prima (anni dal 703 al 947)
èdita nel 1845
-Vol.I, pars àltera (anni dal 948 al 980)
èdita nel 1847
-Vol.II (anni dal 981 al 1000) èdita nel
1849
-Vol.IV (anni dal 1001 al 1048) èdita nel
1854
-Vol.V (anni dal 1049 al 1114) èdita nel
1857
-Vol.VI (anni dal 1115 al 1130) èdita nel
1861.
Come
si vede, il Vol.I, pars àltera, tiene luogo
di Vol.II, sicchè il Vol.II è in pratica il
III.
Altra opera importante per la conoscenza del
periodo è: Antonio Chiarito- “Comento
istorico-critico-diplomatico sulla
costituzione De instrumentis conficiendis
per Curiales dell’Imperador Federigo II” -
Napoli, 1772.
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La pianta di Napoli ducale (XI sec) di
Bartolommeo Capasso |