Il Casale della Varra di Serino
1. Gian Antonio Summonte,
nei primi anni del 1600, ci informa “...circa i
suoi (di Napoli) Casali, che latinamente
vichi o paghi son detti, che sono
al numero di 37, i quali fanno un corpo con la
città, godendo anch’essi l’immunitadi,
privileggi e prerogative di lei, havendo anco
luogo, in essi Casali, le Consuetudini
napolitane compilate per ordine di Carlo II. Hor
di questi casali ve ne sono molti di grandezza e
numero di habitatori a guisa di compìte
cittadi ... (fra cui) S. Giorgio a
Cremano, Ponticello, Varra di Serino e S.
Giovanni a Teduccio.
Questi Casali sono
abbondantissimi di frutti d’ogni sorte e
qualità, de’ quali se ne gode tutto l’anno: sono
anco fertilissimi di vini pretiosi e delicati,
di frumento, lino finissimo e cànnapo in gran
quantità, di bellissime sete, vettovaglie d’ogni
sorte, selve, nocellàmi, polli, uccelli, et
animali quadrupedi, così di fatica come da
taglio, e gli habitatori di questi Casali quasi
ogni giorno vengono in Napoli a vendere delle
loro cose, commodità veramente grandissima a’
cittadini ...”
.
2. La descrizione del Summonte
è, con tutta probabilità, un po' esagerata,
secondo “l’intonazione... costantemente
ottimistica” (Croce) propria degli storici
napoletani a quel tempo, ma non è del tutto
infondata.
3. In seguito all’unificazione,
il Casale della Varra di Serino ebbe, nel
Cinquecento, un periodo di rapida ed impetuosa
espansione demografica ed economica, nonché di
crescita civile, grazie alla base posta dalla
razionale sistemazione aragonese.
4. Inoltre, nel 1577 anche
Casavaleria si univa alla Varra di Serino
sicché, a fine secolo, questa poteva ormai ben
dirsi conformata “a guisa di compìta città”, e
contava
più di 1.000 abitanti: alla stessa data, S.
Giovanni a Teduccio ne aveva circa 1.200 e S.
Giorgio a Cremano circa 400.
5. Come già in precedenza
accennato, tutte le condizioni favorevoli del
periodo aragonese furono sostanzialmente
mantenute nel passaggio al vice-regno spagnolo.
Padulàni e cafòni
6. La Varra di Serino
continuava ad essere terra demaniale (per
“privilegio” confermato dal nuovo re, Ferdinando
“il Cattolico” di Spagna, il 15 ottobre del
1505), quindi non soggetta ad alcun feudatario
particolare; i contadini potevano coltivare
autonomamente la terra, che era stata
razionalmente sistemata nel periodo aragonese ed
era pertanto divenuta molto più produttiva;
godevano degli “usi civici” su di essa e
potevano venderne liberamente i prodotti
(soprattutto ortaggi, frutta e vino) nella
vicina città; le lavorazioni della lana, della
seta, della cànapa, del lino, avevano raggiunto
uno sviluppo più che discreto; gli abitanti non
pagavano l’imposta diretta (il focàtico), dalla
quale erano esentati come cittadini di Napoli,
ed erano inoltre esenti anche dalle imposte sui
beni di consumo, che invece gli abitanti della
città pagavano.
7. La condizione sociale dei
contadini nei Casali demaniali più vicini alla
città, e quindi anche nella Varra di Serino, pur
rimanendo un condizione di duro lavoro, era
dunque complessivamente più agiata rispetto a
quella degli altri contadini del vice-regno (non
a caso, avevano un nome proprio, “padulàni”, e
non “cafòni”):
‘N capa sempe ‘a còppola,
‘e piére sempe ‘e zuòccole,
dint’a panza sempe ‘e vruòccole.
8. Non è perciò del tutto privo
di fondamento concreto lo slancio lirico di
Bernardino Rota (1509-1575), uno dei poeti
napoletani più rappresentativi del periodo
,
che così èvoca i vari paesi della valle del
Sebéto, fra la città di Napoli ed il Vesuvio:
Inghirlandàto di canne, versi il Sebéto le sue
acque lucenti.
Qui i suoi
lauri abbondevolmente Resina,
là Portici prepari i
suoi mirti,
e Barra le uve, e le
sorbe Cremano.
Qui Somma
ne dia le corbezzole, e Trocchia i fichi,
là Pollena le ciriege, e
Fratta le fragole.
Incoronato
di pàmpini, a noi si mostri il Vesuvio
e dal fumante suo vertice una
novella fiamma risplenda.
O il pari slancio di
Bernardo Tasso (1493-1569), padre del più
celebre Torquato:
Quanta
invidia ti porto, o bel terreno,
dove Sebéto, colle lucid’onde
bagnando le sue rive alme e
feconde,
porta il pìcciol tributo al
gran Tirreno
.
... E fa bel ciò che riga e ciò
che bagna (di nuovo il Rota).
Padulàni e làzzari
9. Inoltre, la popolazione
contadina dei Casali poté e seppe mantenere una
sua sobria dignità ed una sua precisa identità
culturale anche rispetto alle condizioni, non
solo di atroce miseria ma spesso di abbrutimento
morale, che caratterizzarono invece il nascente
sotto-proletariato urbano dei “làzzari”, così
descritto dal Doria:
“La nuova detestabile plebe,
pittoresca soltanto per i suoi stracci e per la
grassa salacità del dialetto (non più quello
aureo e scarno di Loise de Rosa), infingarda,
subdola, vendicativa, bestemmiatrice (già il
Pontano, nel suo dialogo Antonius, aveva
notato come i Napoletani avessero contratto
dagli Spagnoli l’abito del turpiloquio),
religiosa a modo suo (cioè sempre più avviata,
senza alcuna elevazione spirituale, alle
pratiche superstiziose), turbolenta e insolente
e micidiale in condizioni favorevoli, spaurita e
strisciante nel momento del pericolo”
.
Oppure, visto con gli occhi
dell’aristocrazia e dei borghesi dell’epoca, dal
Capaccio, con accenti di disprezzo e di paura
insieme:
“Vil gente mendìca e
mercenaria, atta a disfare ogni buona
costituzione di ottima repubblica; canaglia da
cui è nato ogni tumulto popolare e ogni
sollevamento fatto in questa città, e alla quale
non si può porre altro freno che la forca...
perché più indiscreta e indisciplinata di questa
non ha tutto il mondo insieme...”
.
Padulàni e
cittadini
10. Occorre però notare che le
condizioni di favore sopra menzionate erano, in
realtà, a vantaggio non tanto dei Casali quanto
della città di Napoli, che da essi traeva quasi
per intero il proprio fabbisogno alimentare ed
aveva, quindi, tutto l’interesse ad evitare che
i contadini lasciassero le terre e andassero ad
aumentare la crescente popolazione cittadina.
11. Più
lucido, anche se ugualmente appassionato, sembra
perciò il Giulio Cesare Cortese
(1575-1627):
E chillo
bello mio sciummo Sebéto,
patre carnale de li cetatìne,
che bace a mare mo tanto coièto,
scorrènno a le padùle pe li
rine,
pe chi, pe no tornèse, taglio e
meto
torza che balerrìano tre
carrìne.
Perché,
Napole mio, dica chi voglia,
non sì Napole cchiù, si non
haie foglia
.
12. Nei versi del Cortese,
diversamente che in quelli degli aristocratici
Rota e Tasso, appare anche la fatica
degli abitanti delle “padùle”; di chi, per un
solo “tornese”, taglia e miete “torze” che in
realtà varrebbero almeno “tre carlini”; sicché,
è questa fatica che contribuisce a mantenere
“bello” il ”sciummo” ed a renderlo davvero
“padre carnale dei cittadini”, perché serve a
sfamare una intera città che si nutre
prevalentemente di “foglia” ovvero di prodotti
ortofrutticoli.
13. Si consideri che il
Cinquecento ed il Seicento, nonostante la grande
peste del 1656 che decimò la popolazione, furono
per Napoli il periodo della “alluvione
demografica” (Galasso) e della nascita della
plebe urbana (il ceto sociale dei famosi
“làzzari”, di cui prima si è detto), dovute
soprattutto al massiccio fenomeno di
immigrazione da tutte le provincie del regno.
14. Nei primi 50 anni del
vice-regno spagnolo, la popolazione di Napoli si
quintuplicò, passando dai circa 40.000 abitanti
della fine del Quattrocento ai circa 200.000
della metà del Cinquecento, per arrivare poi ai
500.000 intorno alla metà del Seicento.
15. Questa crescente
popolazione fu, fino al Seicento, una
popolazione di “mangia-foglie” (come si diceva)
e non di “mangia-maccheroni”, come invece
divenne solo a partire dal Settecento: foglia
con carne, per i signori; foglia senza carne,
per i poveri; foglia, con carne solo la
Domenica, per il medio ceto.
E tutta la “foglia”, per tutta
questa gente, veniva coltivata dai contadini
delle “padùle” (i “padulani”) di Barra, di
Ponticelli, etc. che si recavano poi, quasi ogni
giorno, in città con i loro carrettini per
smerciare, a prezzo assai tenue, il frutto delle
loro fatiche.
Padulàni, cafòni e làzzari
16. “Padulani”, “cafoni” e
“lazzari” erano, quindi, gruppi distinti fra
loro, ma insieme fondamentalmente uniti
nell’essere semplicemente la parte più povera
della popolazione, quella che sopportava il peso
maggiore nella società: i contadini (sia
padulani sia cafoni), perché erano sfruttati
direttamente ed erano quelli che lavoravano per
tutti; la plebe urbana, perché non produttiva e
quindi completamente abbandonata a se stessa e
costretta a sopravvivere di espedienti.
17. Per la sorte di questa
popolazione povera, nel suo complesso, ben poca
attenzione vi fu da parte dei viceré e tanto
meno della corte di Madrid, che erano di solito
“in tutt’altre faccende affaccendati”, come
adesso si dirà.
La politica fiscale: le gabelle
18. Per i non-nobili e
non-ricchi, la politica fiscale degli Spagnoli
costituì una nuova edizione, aggiornata e
peggiorata, di quella del periodo angioino e
produsse analoghi effetti
.
19. Vennero progressivamente e
costantemente aggravate, fin quando scoppiò la
rivolta di Masaniello nel 1647, le imposte
indirette sui beni di consumo, le cosiddette
“gabelle”: vi era la gabella sul grano, sulla
farina, sull’orzo e sull’avena; la gabella sulla
“neve” e quella alla “pietra del pesce”; la
gabelluccia sul vino alla mèscita; la gabella
sul sale e quella sul tabacco. Naturalmente, le
gabelle più pesanti, e più odiose per il popolo,
erano quelle sui generi alimentari di più largo
consumo: la frutta, la verdura e il pane.
20. Venne inoltre ripristinato
il pedaggio che si pagava per introdurre in
città vari tipi di merci, cioè in pratica il
vecchio “quartàtico” del periodo angioino.
La politica fiscale: arrendatòri
e parànze
21. Il sistema di riscossione
era quello dell’arrendamento: per ogni
gabella si faceva una gara d’appalto per
affidare a privati la riscossione della
medesima.
L’arrendatòre vincente
doveva versare nelle casse dello Stato la cifra
pattuita e provvedere poi in proprio a farsi
pagare dai contribuenti (cioè dal popolo); per
far ciò, egli aveva la sua parànza (come
si diceva), composta da soldati, contabili,
governatori e uomini di legge che dipendevano da
lui.
Naturalmente, una volta
raggiunta la cifra da versare allo Stato, tutto
il di più costituiva il guadagno dell’arrendatòre
e della sua parànza; questo guadagno, che
in teoria poteva arrivare fino al 20%, in
pratica sfuggiva ad ogni controllo e ciò era
fonte di gravi arbìtri ed abusi. Per di più,
sempre più spesso, i viceré cedettero agli
arrendatori l’intero introito di determinate
gabelle, che venivano “vendute” per ripianare
debiti dello Stato.
22. Essendo tali i sistemi di
riscossione, ed aggiungendosi la dilagante
corruzione dei funzionari, ben si comprende
l’affermazione del Croce: “delle somme spremute
al popolo, assai meno della metà perveniva al
règio eràrio”
.
Chi si arricchiva
23. Si comprende, forse, anche
il paradosso evidenziato da alcuni studiosi:
nonostante le cifre versate dalla popolazione
fossero notevoli in rapporto alla miseria di
gran parte degli abitanti, la Spagna finì
addirittura per rifondere del proprio in Italia
meridionale
.
24. In realtà, “se la ricchezza
scemava nei baroni, si accresceva e in gran
parte trapassava nel medio ceto o ceto civile,
nei due principali elementi di cui questo si
componeva: gli speculatori e gli
avvocati. Erano, i primi, soprattutto
appaltatori di gabelle, esportatori di granaglie
e di altri generi, banchieri e prestatori di
denaro, in parte indigeni, in più grande e
cospicua parte genovesi...”
ed altri forestieri.
La politica fiscale: i donatìvi
25. Oltre alle gabelle ed al
tradizionale focàtico, vi erano poi i cosiddetti
“donativi”, il tipo di tassazione forse più
emblematico del periodo.
26. Erano naturalmente delle
feroci imposizioni, ma la cerimoniosa ipocrisia
spagnolesca, tipica dell’epoca, le chiamava
“donativi” perché, formalmente, si trattava di
“doni spontanei” che la popolazione riconoscente
faceva al sovrano regnante, per venire incontro
alle “esigenze” (prevalentemente di guerra
e di rappresentanza) di quest’ultimo.
27. Ora, le esigenze di
guerra dei sovrani erano continue e
crescenti: prima Carlo V (contro Francesco I di
Francia), poi Filippo II (contro Elisabetta
d’Inghilterra), mantennero la Spagna in uno
stato di guerra permanente per tutto il
Cinquecento; ed i loro successori li imitarono,
con la rovinosa guerra detta “dei trent’anni”
(1618-1648) ed altre ancora, sostanzialmente
senza alcuna interruzione.
28. “Sua Maestà” spiegava ai
napoletani il viceré Don Pedro de Toledo
(1532-1553) “si impegna in grandi imprese per
difendere le cose sue e per offendere anchora
quelle del predicto inimìco” e naturalmente le
grandi imprese “non se possono fare senza il
nervo de la guerra, che è la pecùnia”
.
|
Il viceré Pedro de Toledo |
29. E circa un secolo dopo, il
viceré Manuel de Zuniga y Fonseca, conte di
Monterey (1631-1637), continuava a prodigarsi
per far comprendere ai napoletani (i quali,
evidentemente, non erano ancora del tutto
convinti) che “è mestieri che la città e il
regno di Napoli sopportino le spese della guerra
e ne sentano le molestie, le quali sono tutte
lievissime, paragonate a quelle che tutte le
altre provincie patiscono; ... per assicurar
loro la libertà, l’onore, le vite e le facoltà,
è necessario che aiutino e soccorrano, facendo
sforzi comuni”
.
30. Le esigenze di
rappresentanza, poi, erano se possibile
ancora più esorbitanti: il gusto delle “forme” e
delle “apparenze” era tipico dell’epoca e
proverbiale nei domìni spagnoli, nei poveri come
nei ricchi; ma nei ricchi, naturalmente, costava
di più! Poteva così accadere che, nel 1539, un
donativo di 285.000 ducati ne prevedesse 25.000
solo per le “pianelle dell’imperatrice”…
31. I donativi venivano
deliberati, a nome delle popolazioni, dai
cosiddetti “parlamenti” (a partire dal 1642, dai
“sedìli” della capitale, sostituiti ai
parlamenti), che si riunivano in media ogni due
anni ed in effetti parlavano quasi
esclusivamente di essi, del modo di riscuoterli
e di ripartirne il peso.
32. Essendo però i “parlamenti”
formati dai soli baroni delle province e dai
nobili della città più un solo “eletto del
popolo”, facilmente manovrabile e
corruttibile, la inevitabile conseguenza era che
i donativi finivano per ricadere quasi
esclusivamente sui ceti più poveri.
33. “Il popolo napoletano
odiava i baroni e i gentiluomini che, nei
parlamenti, riversavano sulla gente povera il
maggior peso delle imposizioni per donativi... e
votavano gabelle che esso popolo solo pagava,
mentre quei gentiluomini, sfuggendo ai dazi, si
riempivano le case di viveri e di merci d’ogni
sorta e, per di più, spesso guadagnavano con
assumere gli appalti”
.
34. In definitiva, secondo il
calcolo del Croce, dal 1504 al 1664 il
vice-regno versò 80 milioni di ducati, ed altri
5 milioni e mezzo dal 1664 al 1733, con una
punta massima “così nell’invio di soldatesche
(5.500 cavalli e 48.000 pedoni) come nei tributi
di danaro, al tempo della guerra dei trent’anni
(1618-1648), viceré il conte di Monterey
(1631-1637)...
35. Si susseguirono, per due o
tre decenni, inasprimenti di gabelle, sul sale,
sulla farina, sul vino, gravezze di
alloggiamenti militari, alterazioni della
moneta, estorsioni di donativi volontari...
finché, al tempo del viceré duca d’Arcos
(1646-1648), la nuova gabella sulla frutta
accese la scintilla della rivolta”
.
La politica fiscale: il gioco del
lotto
36. Dopo che la rivolta di Masaniello ebbe fatto
scorrere il sangue, si dovette porre maggior
cura nel non irritare il popolo; si giunse,
allora, fino ad escogitare forme di tassazione
“mascherate”, celebre fra le quali è il gioco
del lotto o, come allora si diceva, la
“beneficiata (o bonafficiata) reale”.
37. Il motivo dell’introduzione
di questo gioco in Napoli è molto chiaramente
espresso dagli autori dell’epoca:
“Essendo stati richiesti dalla
corte di Spagna a Sua Eccellenza (Antonio
Pedro Alvarez de Toledo, marchese di
Astorga, vicerè dal 1672 al 1675) la somma
di ducati 350.000, si va da lui cercando qualche
espediente per scorticare e non guastare la
pelle nel ritrovarli. Si è così proposto, da
un erudito ingegno forestiero, che si facesse la
beneficiata all’uso di Venezia e di Genova,
affinché col lecco di vincere alcuna cosa per li
cartelli che si mettono dai particolari, si
venghi a far il guadagno poi di alcun miglione...”
.
38. La prima
“beneficiata reale”
si tenne nel settembre 1672.
“Il Fuidoro ... nota che i
napoletani accorrevano in folla a comprare le
cartelle, nella speranza di guadagnare, con due
carlini, un rotolo di argento e senza
considerare che, insieme colle 5.000 cartelle
scritte, ne eran mescolate ben 95.000 bianche.
Egli raccoglie pure le voci
maligne, secondo le quali tutto ciò era un
ladroneccio stabilito a favore del barone Scioli
(“abruzzese senza terra e senza vassalli”),
appaltatore del giuoco, il quale si era
assicurato efficaci protezioni nella corte
vice-regnale.
Le estrazioni si fecero in
seguito nel salone della Règia Camera, nella
Vicarìa. A quella del 24 aprile 1675 il viceré
assistette incognito da un finestrino della
cappella, mentre la sala era addirittura stipata
di gente. Uscirono, chi ne avesse curiosità, i
numeri 18-36-41-46-70, apportando (secondo
afferma il Conforto) poca vincita ai giuocatori
e grosso guadagno agli appaltatori del giuoco.
Esso
fruttava all’erario pubblico 22.000 ducati
all’anno...”
.
Gabelle e donativi nella Varra di
Serino
39. In questo quadro generale
di vessazioni, è pur vero che gli abitanti della
Varra di Serino, raccolti nella loro estaurìta
di S. Atanasio su terra demaniale, non pagavano
le gabelle sui consumi primari (il pane, il
vino, la frutta, la verdura, etc.); non pagavano
la gabella alle porte di Napoli per introdurre
le loro merci in città; non pagavano il focàtico...
Non potevano
però sfuggire, ed era un peso considerevole, ai
famigerati donativi “spontanei” nei confronti
del re di Spagna!
Non poterono sfuggire,
purtroppo, neanche a quella che fu, per Napoli,
la più funesta tra le “grandi imprese” militari
dei sovrani, nella prima metà del Cinquecento, e
cioè la spedizione del Lautrec.
Odetto di Foix, visconte di
Lautrec, sconfitto dalle “parùle” nel 1528
40. Nel contesto della guerra
contro Carlo V, il re Francesco I di Francia
inviò in Italia uno dei suoi più valorosi e
spietati condottieri, Odetto di Foix,
visconte di Lautrec, il quale nell’aprile
del 1528 pose l’assedio alla città di Napoli,
mentre le navi dei mercenari genovesi, suoi
alleati, ne bloccavano il porto.
41. Governatore e comandante
della città, per parte spagnola, pur senza avere
ufficialmente il titolo di viceré, era in quel
momento Ugo di Moncada, che cercò di
spezzare l’assedio dalla parte del mare, uscendo
ad affrontare le navi genovesi al largo di
Salerno, ma fu sconfitto nello scontro di Capo
d’Orso, il 28 aprile 1528, ed egli stesso,
colpito da diversi proiettili d’arma da fuoco,
cadde in mare e morì.
42. Alla testa delle truppe
spagnole venne posto allora Filiberto di
Chalons, principe di Oranges, il
quale pensò di rompere l’assedio ricorrendo ad
una specie di “guerra batteriologica” ante
litteram e cioè “utilizzando” a scopo
bellico la peste, che aveva iniziato a
manifestarsi in città già dal 1526 e che era
d’altronde endemica, in tutto l’occidente
europeo, a partire dalla metà del Trecento
.
|
Filiberto di Chalons, principe di Oranges |
43. Lo schieramento francese,
dal lato orientale della città, andava dal
Poggio-reale (dove si trovava la famosa villa
aragonese) fino al mare, e si trovava perciò
proprio a ridosso dell’area delle paludi ed in
mezzo ai canali del fiume Sebéto
.
44. Esso, come scrive Francesco Guicciardini
(1483-1540) nella sua “Storia d’Italia” (Lib.19,
cap.4), si trovava già in gravi difficoltà, “per
le infermità causate, in grande parte, dallo
avere tagliato gli acquidotti di Poggioreale per
tôrre a Napoli la facoltà del macinare, perché
l'acqua sparsa per il piano, non avendo esito,
corroppe l'aria, donde i franzesi, intemperanti
e impazienti del caldo, si ammalarono”.
45. A ciò “aggiunsesi la peste, la contagione
della quale penetrò per alcuni infetti di peste
mandati studiosamente da Napoli (cioè da
Filiberto di Chalons) nello esercito”.
46. Vittima dell’epidemia
rimase, fra gli altri, lo stesso comandante
francese, Odetto di Foix visconte di Lautrec,
che morì il 17 agosto del 1528 ed ebbe poi
monumento funebre nella chiesa di S. Maria La
Nova. Accanto a lui riposa, ancor oggi, il suo
compagno in quella sfortunata impresa, il
capitano Pedro Navarro, soldato
micidiale, esperto di “mine”, che combatté prima
per Spagna e poi per Francia.
47. Decimato dalla malattia e
senza più alcuna guida, l’esercito francese in
breve si sbandò, cercando rifugio ad Aversa, da
dove in seguito gli spagnoli lo costrinsero a
ritirarsi definitivamente dal regno.
48. Naturalmente, come spesso
accade, nessuno dei “gloriosi” condottieri
combattenti si preoccupò più di tanto delle
povere popolazioni inermi e così i contadini dei
Casali (Varra di Serino, Ponticelli, S. Giovanni
a Teduccio, etc.) dovettero subire, in
quell’infausto 1528, prima l’usuale saccheggio a
scopo di rifornimento alimentare delle truppe
del visconte di Lautrec e poi le conseguenze
dell’epidemia alimentata dall’astuto principe di
Oranges, la quale naturalmente non colpì solo le
truppe francesi ma rimase ad infierire sulle
popolazioni del posto anche dopo, quando i
francesi si erano già messi in salvo ad Aversa.
49. Il brillante Filiberto di Chalons, principe
di Oranges, come premio per la sua vittoria,
ebbe da Carlo V il feudo di Melfi e Canosa, ma
(giustizia divina ?) ben poco poté goderne i
frutti, dato che venne a morte solo due anni
dopo (e precisamente il 3 agosto 1530) mentre
era impegnato nell’assedio di Firenze.
La morte di Jacopo Sannazaro
(1530)
50. A quanto pare, assai
consolato dalla morte dell’Oranges fu Jacopo
Sannazaro, il grande poeta del periodo
aragonese, che morì pochi giorni dopo di lui,
nello stesso anno 1530, come racconta l’Alvino
(“La collina di Posilipo descritta”- Napoli,
1845):
“Il poeta Jacopo Sannazaro ...
ebbe in dono dal suo re (Federico d’Aragona)
una tenuta alla punta di Mergellina. Quivi
fabbricò una torre ed una casa, e nella calma di
questi luoghi dolcissimi compose la maggior
parte delle sue opere ed il poema De partu
Virginis.
La casa venne demolita dal
viceré di Napoli Filiberto, principe di
Oranges, allorché, fedele al suo re
infelice, Sannazaro lo seguiva in Francia”.
Pertanto, “allegrezza profonda
e feroce” il poeta “esprimeva sul letto di
morte, allorché ascoltava la fine dell’odioso
principe di Oranges, caduto sotto Firenze
assediata da Carlo V. Allora, agonizzante,
esclamava gioioso: - Il Cielo ha finalmente
vendicato le Muse, a torto offese... e,
componendo il volto ad un sorriso, si moriva”.
|
Jacopo Sannazaro ritratto da Tiziano |
Alcune memorie dell’infausto
triennio 1526-1528
51. A lungo rimase, nella
memoria delle popolazioni, il ricordo del
triennio 1526-28 come periodo infausto di peste
e di guerra.
52. Durante la pestilenza, nel
1527, la città di Napoli fece pubblico voto di
costruire nel Duomo una nuova grande “Cappella
del Tesoro” in onore del patrono S. Gennaro, al
quale ci si era rivolti per ottenere protezione
e scampo. Fu solo nel 1601, però, che la
Deputazione, appositamente eletta dai Sedili
cittadini a partire dal 1527, stabilì di dare
inizio all’opera e ne ottenne l’assenso da un
“breve” di papa Paolo V. La costruzione della
Cappella del Tesoro di S. Gennaro si
protrasse poi per tutto il Seicento ed anche
oltre.
53. Anche la edificazione, da
parte del Sedile del Popolo, della chiesa di
S. Maria di Costantinopoli in Napoli, è
collegata alla peste del 1526-28, come riporta
Gennaro Aspreno Galante:
“I napoletani, scampati alla
peste che dal 1526 al 1528 desolò la città,
edificarono in questo luogo (la
attuale Via S. Maria di Costantinopoli) una
cappella in rendimento di grazie alla Vergine,
collocandovi un’immagine di Lei simile a quella
che salvò Costantinopoli da un incendio; ma
poscia l’edicola fu abbandonata e rovinò
affatto.
Nel 1575, nuovamente la peste
infierì in Italia e una pia donna, ispirata in
visione, ricordò ai napoletani la prodigiosa
immagine della Vergine, onde la cavassero dalle
ruìne e le edificassero un novello tempio, come
fu fatto, e la città e il Regno fu immune dal
flagello”
.
Sul frontone del tempio venne
posta la scritta, che tuttora si legge, MATRI
DEI OB URBEM AC REGNUM A PESTE SERVATUM.
A Pietrabianca nel 1535: Carlo V, Bernardino Martirano e
Nina Palumbo
54. Altro importante episodio
militare della prima metà del Cinquecento fu la
vittoria di Carlo V nella battaglia di Tunisi
(1535) contro i Turchi, in seguito alla quale
l’imperatore ritornò conducendo liberi 20.000
cristiani che erano schiavi degli “infedeli”.
55. Nel corso di questo
memorabile ritorno, Carlo V fece sosta a Napoli,
per la sua prima ed unica visita alla città,
fermandosi per tre giorni nel piccolo Casale di
Pietrabianca.
56. “Diceasi una volta
Leucopetra, ed anche oggidì ritiene il nome
di Pietrabianca... la contrada che dai
Due Palazzi in Portici (fatti fabbricare
nel Settecento da due dotti giureconsulti,
Vargas e de Stefano) discorre fino alla Madonna
del Soccorso (fondata nel 1517 in S. Giovanni
a Teduccio)... Io per me penso che la
natural qualità della pietra calcarea abbia
fatto dare quel nome a questo luogo”
.
“De muodo
ch’a Sebéto a mano manca
da na femmena bella, è Petra
Janca”
.
57. Bernardino Martirano,
segretario del regno e “uomo di molte lettere
ornato”, fece qui costruire verso il 1530 un suo
palazzo, che fu cenacolo di poeti ed erudìti,
continuando in tal modo quella tradizione di
“uso nobile del territorio” iniziata con la
villa aragonese di Poggioreale
.
58. “E’ da sapersi che questo
(il palazzo di Bernardino Martirano) è un
edificio molto grande, capace di una
numerosissima famiglia, con giardini, e viale al
mare; fu l’imboccatura di Portici nel venire da
Napoli, arricchito di acqua perenne...
Nel 1535 questo nobile palazzo
col suo delizioso giardino servì di alloggio per
tre giorni all’Imperador Carlo V, priacché
entrasse glorioso ed acclamato in Napoli, dopo
il ritorno della impresa di Tunisi, siccome
lèggesi in una iscrizione in marmo situata sotto
quella finestra, da cui affacciàtosi
l’Imperatore, concesse alcune grazie e privilegi
a’ nostri cittadini, a preghiere fàtteli da una
donna paesana, per nome Gelsomina o Nina Palumbo;
i quali privilegi, come di portare in Napoli
frutta, ed alcuni altri comestibili, senza pagar
gabella, gode anche oggi la nostra Università
(Portici)....”
Le concessioni di Carlo V
59. La popolana di Portici,
Nina Palumbo, ottenne quindi da Carlo V il
privilegio “di portare in Napoli frutta ed
alcuni altri commestibili, senza pagar gabella”
all’ingresso in città; in altri termini, ottenne
che venisse esteso anche al Casale di Portici il
beneficio di cui già godevano i Casali più
vicini alla città, fra i quali la Varra di
Serino.
60. Tale concessione da parte
di Carlo V non fu peraltro occasionale, ma
rientrava nel quadro delle direttive che egli
diede in occasione di quella sua visita al
vice-regno napoletano.
61. Nel riconfermare i benefìci
a favore dei Casali sancìti in epoca aragonese e
poi da Ferdinando il Cattolico, l’imperatore
ebbe modo anche di constatare che alcune terre e
Casali demaniali erano stati, con modalità non
sempre limpide, “infeudati” da nobili famiglie e
pensò di risolvere il problema concedendo alle
“Università” locali il cosiddetto “jus
praelationis”: i Casali infeudati potevano cioè
ritornare al demànio règio, versando al
feudatario l’equivalente del valore dei loro
terreni.
62. Ciò diede luogo, in
seguito, ad alcuni fenomeni paradossali,
giustamente celebri: interi paesi si
auto-tassavano pesantemente per raccogliere la
somma necessaria e finalmente si “riscattavano
al demànio”; ma, subito dopo, venivano
nuovamente venduti ad altri privati dai viceré,
pressati dall’esigenza di pagare i debiti
pubblici, per cui i paesi dovevano nuovamente
dissanguarsi per riscattarsi di nuovo, e così
via... Addirittura, alcuni Casali arrivarono a
“mettersi in vendita” da soli, allo scopo di
pagare i debiti che avevano contratto... per
riscattarsi.
63. Questi “giri viziosi” del
sistema feudale non facevano altro,
naturalmente, che togliere ai poveri per dare
ai ricchi, aggravando ancor più le
condizioni di vita delle popolazioni.
64. La Varra di Serino,
comunque, non venne a trovarsi in simili
spiacevoli situazioni, rimanendo senza
contestazione “in demànio”, almeno fino al
cruciale anno 1637, nel quale il viceré Manuel
de Zuniga y Fonseca, conte di Monterey
(1631-1637), pressato dai debiti e dalle
richieste della corte di Madrid, decise di
mettere in vendita indistintamente tutti i
Casali demaniali.
65. Le generali proteste,
sollevazioni e tumulti che vi furono in quella
occasione in tutti i Casali, e nei quali anche
la Varra di Serino fece la sua parte,
costituirono quasi il prologo e la prova
generale della rivolta, detta di Masaniello, che
avvenne dieci anni dopo (1647).
Bernardino Mendoza e il
rifacimento del ponte della Maddalena nel 1555
66. Il
cardinale Pedro Pacheco de Villena
(1488-1560) fu vicerè di Napoli dal 1553 al
1556. Negli ultimi mesi del 1555, egli dovette
assentarsi dalla città per partecipare, in Roma,
al “conclave” per l’elezione del nuovo papa,
dopo la morte di Giulio III.
67. Durante la sua assenza, fu
nominato governatore luogo-tenente Bernardino
de Mendoza, che tenne l’incarico solo per
pochi mesi, fino al febbraio 1556, quando arrivò
un nuovo viceré, Fernando Alvarez de Toledo,
primo duca di Alba (1556-1558).
68. Il breve periodo di
governatorato del Mendoza stette però a lungo in
benedizione nella memoria delle nostre
popolazioni, in quanto fu lui a promuovere
un’opera pubblica di fondamentale importanza per
i contadini, che dovevano andare in città a
vendere i prodotti degli orti delle “parùle”, e
cioè la ricostruzione del ponte sul fiume Sebéto,
detto “ponte della Maddalena”
,
che era andato distrutto qualche tempo prima a
causa delle piogge abbondanti.
69. Così ci
informa il Celano: “Fu questo ponte da un gran
diluvio rotto, e portato al mare; fu poscia
rifatto, nell’anno già detto (1555) da
Bernardino de Mendoza, governatore del Regno...”
.
Grazie e disgrazie nel periodo di
Don Perafàn (1559-1571)
70. Durante i 12 anni
(1559-1571) del vice-regno di Pedro Afàn de
Ribera, duca di Alcalà (detto, a
Napoli, “Don Perafàn”, abbreviazione di “Pedro
Afàn”), vi furono almeno tre annate di carestia
grave (nel 1559, nel 1565 e nel 1570) e ben
quattro terremoti, durante uno dei quali la
terra tremò quasi ogni giorno, in Napoli e nel
circondario, dal 25 luglio al 19 agosto del
1561.
71. Scarne
ma terribilmente efficaci sono, in proposito, le
celebri descrizioni del Summonte:
“Nel mese di febraio 1565, fu
in Napoli una grandissima penuria di pane, in
tanto che il grano valse carlini ventiquattro il
tumulo, e l’orzo un ducato; fu anche penuria di
verdume, di modo che si vendevano le frondi
delle verze vecchie per buoni càuli (cavoli),
e durò questa carestia, fuor e dentro Napoli,
fin al mese di maggio, che fu cagione di grande
calamità, e molti poveri si morivano di fame, et
altri per non morirsi vendevano la virginità
delle proprie figlie, con gran disservitio del
nostro Signore Iddio, non senza grave colpa
degli regij ministri”
.
72. Nel 1562-63 (dunque, fra il
terremoto del 1561 e la carestia del 1565), si
ebbe, sempre a detta del Summonte, un “general
contagio di catarri, onde ne seguì mortalità
tale, che spaventò gli animi delle genti, e ne
morirono le centinaia delle persone in poco
tempo... durò questo morbo quasi tutto il mese
di Gennaio 1563, e fu giudicato che morirono
solo in Napoli più di vintimila persone... e non
solo questa città sentì tal morbo, ma anche
quasi tutta Italia, che in ogni parte morì
numero infinito di persone di ogni età e sesso,
particolarmente i ricchi”.
Per il che, giudicandosi che
questa malattia provenisse da “distemperamento
d’aria, fu per ordine del viceré comandato, che
ciascheduna casa havesse a far fuoco la mattina
avante la porta per consumar una nebbia, che
ogni giorno per due hore nascondeva la luce del
giorno; e così fu fatto...”
.
73. Il
“contagio di catarri” doveva essere con tutta
probabilità una malattia tipo bronchite o
polmonite, dovuta, a quanto sembra, ad un
periodo non usuale di freddo e di umidità (la
nebbia); ma perché mai questa malattia colpiva
“particolarmente i ricchi”? sembrerebbe più
logico che essa colpisse particolarmente i
poveri, che avevano abitazioni (quando le
avevano) certamente più umide e meno riscaldate
di quelle dei ricchi.
74. Ad ogni modo, la vicenda è
emblematica, sia dei problemi dell’epoca, sia
dell’approssimazione con la quale le autorità
vice-reali si cimentavano con essi.
|
Pedro Afàn de Ribera, duca di Alcalà |
75. Un po’ meglio andò, quanto
a provvedimenti, nella successiva carestia del
1570; si segua ancora la narrazione del Summonte:
“Nel fine dell’anno 1569, con
buonissima parte del 1570, fu in tutto il regno
di nuovo grande carestia. Il grano valse a
quattro scudi il tomolo. I poveri contadini,
tanto maschi come femmine, venivano nella città
chiedendo pane, con sembianze più di morti che
di vivi.
76. In tanto che fu per li
Signori Eletti della città pigliato espediente,
che tutti i poveri fossero sustentati ed
alimentati nello spedale di San Gennaro fuori la
città, ove da mille poveri trattenuti furono,
sino a tanto che quella rabbia di carestia
mancata fusse. La bontà di Don Parafan de
Ribera, Vicerè del regno, fe’ fare una cerca di
danaro per elemosina per tutta la città,
donandogli egli buona somma di ducati, dei quali
molti poveri vergognosi della città sostenuti
furono, con molta lode sua e dei cittadini che
vi presero parte, i quali non nòmino acciò non
pèrdino presso Dio la lor mercède”
.
77. Annate di carestia,
terremoti, epidemie, erano gli eventi “notevoli”
per la popolazione contadina, quelli che
emergevano dallo scorrere ordinario delle
stagioni e dei lavori agricoli ad esse collegati
e, fra i poveri contadini che patirono queste
disgrazie, vi furono certamente anche quelli
della Varra di Serino.
La strada delle Calabrie (1562)
78. L’ epoca di Don Perafàn
merita però di essere ricordata anche per un
avvenimento di carattere positivo, di grande
importanza.
Infatti, nel 1562 (un anno dopo
il terremoto), il viceré promosse l’apertura
della “strada delle Calabrie”: la grande strada
che, riprendendo in parte il tracciato di epoca
romana e partendo proprio dal ponte della
Maddalena, univa Napoli a Salerno ed a Reggio
Calabria, procedendo lungo la costa tirrenica.
Essa non soltanto consentì un più agevole
sviluppo di tutti i paesi situati lungo la
costa, ma costituì la premessa del successivo
insediamento, nel Settecento, delle Ville
vesuviane dette del “Miglio d’oro”.
Anche per Barra, l’importanza
della “strada delle Calabrie” fu notevole, come
si dirà più estesamente in seguito
.
Nel 1585: l’Eletto Starace
79. I fatti accaduti nel 1585
in Napoli sono abbastanza noti.
Durante quella nuova annata di
carestia, il viceré in carica Pedro Tèllez
Giròn, primo duca di Osuna (1582-1586),
ricevette ordine di inviare a Madrid una
quantità supplementare di grano, per le esigenze
della popolazione spagnola.
Per fare ciò, fece ricorso ad
un espediente già altre volte adoperato a
Napoli: ridurre il peso della “palata” di pane,
lasciandone però inalterato il prezzo.
Più precisamente: per poter
inviare in Spagna 400 mila tòmoli “straordinari”
di farina, il peso della “palata” di pane in
vendita a Napoli venne dimezzato, da 48 a 24
“once”, uguale restando il prezzo di 4 “grana”.
80. Questa volta, però, la
“protesta dello stomaco” non rimase senza
effetti, ed il popolo cominciò a tumultuare.
La rabbia popolare si indirizzò
(o fu indirizzata…) non contro gli spagnoli, i
nobili o i ricchi borghesi, che speculavano sul
commercio del grano, bensì contro l’ “Eletto del
popolo” Giovan Vincenzo Starace, che venne
letteralmente fatto a pezzi dalla turba
scatenata.
81. D. Gaetano Parascàndolo, un
pio e dotto sacerdote di quei luoghi, pubblicò
nel 1858, in Napoli, una “Monografia del Comune
di Vico Equense”, dalla quale traiamo le
seguenti notizie:
“Giovan Vincenzo Starace
figlio di Andrea (e nativo di Vico, come
risulta dai registri della Curia di
quella terra), fu anche Eletto del popolo di
Napoli, al quale nel 1585 per false supposizioni
venne in odio, e ferito di stoccata fu sepolto
ancor vivo in una cappella di S. Agostino (la
chiesa di S. Agostino alla Zecca, in
Napoli); di là cavato, dopo la fuga delle
compagnie dei soldati, con barbara crudeltà
tornarono quei furibondi della plebe in varie
guise a tormentarlo; e finalmente lo
trascinarono, nudo, sanguinoso e semi-vivo,
verso la Sellerìa, ove dopo aver dato l’ultimo
spirito ai 9 maggio 1585, il suo cadavere venne
dilaniato e diviso fra la plebe…”
Aggiungiamo altresì che la sua
casa alla Sellerìa venne saccheggiata e poi data
alle fiamme.
82. Ora, è possibile che
Giovan Vincenzo Starace non fosse del tutto
esente da colpe, nello svolgimento del suo
ufficio di Eletto: è noto, infatti, che gli
Eletti del popolo erano, assai spesso, corrotti
dal viceré e dai nobili per ottenere il loro
voto favorevole, ed approfittavano in vari modi
del ruolo che ricoprivano, per arricchire se
stessi e le proprie famiglie. E’ certo
però che egli non era l’unico, né il principale,
responsabile della fame del popolo e
rappresentò, in quella circostanza, il classico
“capro espiatorio”.
83. In seguito a tali fatti, i
nobili della città uscirono in corteo per le vie
e, gettando monete alla plebe, annunciarono che
la “palata” di pane sarebbe presto ritornata al
peso consueto.
84. Calmate dunque in tal modo
le acque, il viceré procedette ad una feroce
repressione: istituìto un apposito tribunale
speciale, vennero individuate e processate, in
modo alquanto sommario, circa 500 persone, che
furono condannate, non formalmente per
l’omicidio dell’Eletto, ma “per sedizione contro
il rappresentante di Sua Maestà Filippo II di
Spagna” (cioè il viceré).
85. Furono condannate: 31
persone a morte, 71 alle galere e circa 400
all’esilio. Alcuni dei 31 condannati a morte,
subirono anche, prima dell’impiccagione, il
taglio delle mani, e dopo di essa, lo
squartamento del cadavere.
Le teste e le mani mozzate
furono poi esposte in gabbie di ferro, in una
sorta di terribile monumento commemorativo, sul
luogo degli eventi.
Per tale Giovan Leonardo
Pisano, mercante di spezie e capo-piazza alla
Sellerìa, si procedette anche, in aggiunta a
quanto sopra, a distruggere la sua abitazione ed
a cospargere di sale il terreno da essa
occupato.
Nel 1585: Virgilio Scognamiglio,
un Barrese nel tumulto
86. Dagli atti, risulta anche
quanto segue:
“Giustizia del 2 ottobre 1585.
Vergilio Scognamiglio, di mestiere
potecàro, da Barra, fu condannato ad essere
tenagliato, impiccato e squartato. Lasciò la
moglie Antonia Pàparo, una sorella nubile e la
madre Lucente”.
87. E’ poco probabile che il
nostro Virgilio Scognamiglio fosse un pericoloso
rivoluzionario, e nemmeno un semplice
capo-popolo arruffone, e nemmeno si sa,
peraltro, se partecipò direttamente
all’uccisione dell’Eletto.
Forse, era solo un poveretto
che si lasciò trascinare dall’onda del tumulto,
un po’ come Renzo Tramaglino, il protagonista de
“I promessi sposi”, durante la sommossa di
Milano, ma non seppe o non poté essere
abbastanza furbo da mettersi successivamente in
salvo, come invece riuscì a fare Renzo
Tramaglino, secondo il Manzoni.
88. D’altronde, come si vede,
nessuno andava tanto per il sottile.
Il popolo più povero, dopo
circa un secolo di ingiustizie e di vessazioni
da parte dei viceré e della complice classe
dirigente napoletana (nobili e borghesia
incipiente), cominciava a fare “giustizia”
sommaria, come accadrà poi in forma ancora più
estesa con la rivolta di Masaniello nel 1647.
Gli esponenti del potere
economico e politico (spagnoli e napoletani),
impauriti ma pur sempre arroganti ed
opportunisti, per salvaguardare se stessi
applicavano i criteri del diritto tribale:
individuazione del capro espiatorio da
sacrificare, rappresaglia indiscriminata, etc.
Ben lungi, quindi, dal cercare almeno di
attenuare i conflitti che sorgevano da un
sistema strutturalmente oppressivo, si gettavano
invece i semi di ulteriori tragedie future.
Comunque sia, a ricordo dei
drammatici fatti del 1585, rimane ancor oggi in
Napoli… una strada: la Via Eletto Starace,
traversa dell’attuale Corso Umberto I (il
“Rettifilo”).
Il Concilio di Trento nella zona
vesuviana
89. Il
Concilio di Trento (1545-1563), convocato dal
papa Paolo III (1534-1549) e concluso, dopo
varie sessioni, dal papa Pio IV (1559-1565) fu,
in ogni senso, l’evento centrale del secolo.
Con esso, la Chiesa cattolica,
da una parte, respingeva e condannava le tesi
teologiche avanzate dai “protestanti” e, d’altra
parte, iniziava una propria vigorosa riforma
interna, allo scopo di correggere quelle
rilassatezze morali che fornivano facile
pretesto agli “eretici”.
90. A Napoli, fu con il Sinodo
diocesano, aperto il 4 febbraio 1565 dal giovane
e sfortunato cardinale Alfonso Carafa
(1557-1565), che iniziò il recepimento e la
pratica attuazione dei decreti del Concilio.
91. E’ a partire dal 1565,
quindi, che s’incominciarono a tenere
obbligatoriamente, come stabilito a Trento, quei
registri parrocchiali che, con
l’annotazione delle nascite, dei matrimoni,
delle morti, etc. dell’intera popolazione,
costituiscono una fonte preziosa per la storia
dei nostri Casali. Da quella data, anche,
possediamo l’elenco dei parroci
.
92. A partire da allora, allo
scopo di rafforzare l’unità della Chiesa
locale attorno al suo Pastore nonché
l’autonomia della Chiesa stessa rispetto
alle ingerenze dei poteri mondani ai vari
livelli, il Vescovo fu tenuto, quale obbligo
grave del suo incarico, a risiedere nella
sua diocesi e ad effettuare periodicamente la
cosiddetta Santa Visita a tutte le chiese
di sua competenza. Di queste “Visite” si
conservano quindi gli Atti (altra preziosa fonte
storica).
93. Anche per la nostra zona,
il Concilio di Trento segnò uno sparti-acque
epocale, perché modificò radicalmente il modo di
essere della Chiesa e quindi dell’intera
comunità locale.
94. Fortunatamente, vi è
documentazione di una Santa Visita effettuata
(pur non essendo allora obbligatoria) prima
del Concilio.
La prima Visita alle chiese del
territorio vesuviano di cui si conservino gli
Atti è, infatti, quella ordinata
dall’arcivescovo di Napoli Francesco Carafa
(1530-1544) ed eseguita dal suo vicario
generale Leonardo de Magistris, vescovo
di Capri, negli anni 1542-1543.
Gli Atti di questa Visita
consentono di disegnare un quadro abbastanza
chiaro e preciso della situazione della Chiesa
nei nostri Casali prima del Concilio di
Trento (in particolare, il Casale della Varra di
Serino fu visitato il 25 febbraio del 1543).
Facendo poi il confronto con
quanto emerge dagli Atti di Santa Visita dei
cardinali Alfonso Gesualdo (1599), Decio Carafa
(1620) e Francesco Buoncompagno (1629), si ha la
possibilità di misurare quali e quanti mutamenti
furono introdotti in seguito al Concilio
stesso
.
La fine delle estaurìte
95. Prima del Concilio di
Trento, a tutto il 1542-43, sia la Varra di
Serino (con la chiesa di S. Atanasio) che la
vicina Casavaleria (con le chiesette di S. Maria
del Pozzo e di S. Martino) erano “estaurìte”
.
96. “Dopo il Concilio di
Trento, gli arcivescovi napoletani si diedero da
fare per ottenere questi due scopi principali:
- sottomettere alla propria
giurisdizione le estaurìte, mediante la Santa
Visita ed il controllo dei libri dei conti;
- riservare a sé la nomina dei
cappellani, a cui fu dato il titolo di parroci e
la inamovibilità”
.
97. Queste due cose
significavano però, in pratica, la fine delle
estaurìte come forme autonome ed originali di
organizzazione del laicato e quindi la fine di
un certo modello di Chiesa.
98. Le comunità locali, con i
loro “magistri”, cercarono pertanto di opporsi,
con tutti i mezzi a loro disposizione, a tali
“novità” che, dal loro punto di vista,
equivalevano a un “infeudamento” delle estaurìte
da parte dei vescovi.
99. Lo scontro fra arcivescovi
napoletani ed estaurìte durò a lungo, sino alla
fine del secolo ed oltre. La documentazione di
esso si trova nella grande raccolta (“quanto
laboriosa altrettanto gloriosa e degna d’eterna
ed immortal memoria”, a giudizio di Pietro
Giannone) degli atti concernenti i rapporti tra
il Regno di Napoli e la Santa Sede, nota col
nome di “Archivio della règia giurisdizione”
.
100. In forma sintetica, e
limitatamente ai paesi vesuviani, il contrasto è
descritto dal P. Giovanni Alàgi, nello studio
citato in nota
.
101. Per difendere la loro
autonomia, le estaurìte si appoggiarono
all’autorità civile, sotto la cui competenza (la
“règia giurisdizione”, appunto) esse rientravano
in quanto associazioni laicali, ma i viceré non
poterono resistere a lungo alle pressioni che
giungevano da molto in alto: addirittura, il
papa Pio V (1566-1572) se ne lamentò
ufficialmente con Filippo II, re di Spagna.
102. Né gli arcivescovi
napoletani andarono molto per il sottile: si
adoperò abitualmente l’arma della scomunica, per
convincere gli estauritari più riottosi ad
accettare la “Santa Visita” ed il relativo
controllo dei libri dei conti.
103. Contemporaneamente, e
conferendo nuovi contenuti a un nome antico, si
promuovevano nei Casali le “confraternite” o
“congregazioni”, come forme di associazionismo
laicale destinate a prendere il posto delle
antiche estaurìte.
La nomina dei parroci
104. Molto interessante è anche
la questione della nomina dei parroci.
Il Concilio di Trento (Cap.
XVIII della Sessione XXIV) aveva stabilito come
segue le norme per la nomina dei parroci: quando
una parrocchia viene a trovarsi priva di
parroco, il vescovo deve provvedere alla
sostituzione attraverso un concorso pubblico; i
candidati devono essere esaminati da una
commissione, formata da almeno tre esaminatori;
la commissione deve poi pubblicare l’elenco di
tutti coloro che sono stati approvati; infine,
fra tutti gli approvati, il vescovo sceglie
colui che gli sembra più adatto al governo di
quella determinata parrocchia.
105. “Tutto
ciò, quando il beneficio parrocchiale è di
libera collazione”.
Il Concilio prevede, però,
anche il caso di chiese parrocchiali nelle quali
i laici abbiano il diritto di presentazione
(e sarebbe stato proprio questo il caso delle
nostre estaurìte) purché colui che viene
presentato subisca l’esame e risulti idoneo,
essendo l’esame la condizione assolutamente
necessaria per poter ricevere il “beneficio”
parrocchiale cioè la rendita connessa
all’ufficio di parroco.
106. Ora, “gli arcivescovi
napoletani vollero ignorare, nella seconda metà
del Cinquecento, che le parrocchie dei Casali
rientravano nel numero delle chiese di diritto
patronato dei laici, e bandirono regolari
concorsi, e conferirono i benefici parrocchiali,
di loro propria ordinaria autorità, senza tenere
alcun conto dei diritti delle varie “Università”
(cioè delle comunità locali, con i loro
eletti laici). Naturalmente, ci furono molti
ricorsi e lamentele...
107. In fondo, la prassi degli
arcivescovi era questa: partivano dalla
presunzione che le parrocchie fossero di
libera collazione e si comportavano di
conseguenza, col regolare bando di concorso, le
Bolle di nomina, etc.
Quando gli estauritari si
lamentavano, non davano ascolto o, al più,
chiedevano che documentassero i loro diritti. Il
più delle volte, la documentazione scritta
mancava (non era mai servita per il passato,
tanto la cosa era pacifica) e allora si aveva
buon gioco per mettere a tacere le proteste e
magari accusare come usurpatori coloro
che, a quanto pare, non facevano che difendere
un loro antico e mai contrastato diritto.
Diritto che, a dir la verità, non era stato
abolito dalle disposizioni del Concilio di
Trento, ma solo, come abbiamo visto,
regolamentato.”
108. P. Alagi ritiene che: “gli
arcivescovi fecero un’opera meritoria,
liberandosi dalle importune ingerenze dei laici
in una faccenda tanto delicata qual è la nomina
dei nuovi parroci; tuttavia, il modo che essi
adoperavano per giungere a tale lodevole
risultato qualche volta appare un po' brusco”.
Le novità del Concilio
109. In definitiva, alla fine
del secolo (Atti di Santa Visita 1599, card.
Alfonso Gesualdo) troviamo le seguenti novità:
1) Nei volumi di Santa Visita,
si evitano i termini “estaurìta, estauritàri”,
che vengono sostituiti da “magistrantia,
magistri”.
2) Dove si può, si consiglia di
rinnovare i propri “Capitoli” o Regolamenti. I
nuovi “Capitoli” non contengono più il diritto
di nominare il “cappellano” e prescrivono di
amministrare i beni della comunità anzitutto a
scopo di culto (arredo delle chiese, salario del
parroco e del sacrestano, etc.) e, solo in
secondo luogo, a scopo di assistenza ai poveri
(malati, invalidi al lavoro, anziani, dote per
le fanciulle povere, etc.)
3) Gli arcivescovi insistono
affinché, al fianco della “magistrantia” della
chiesa, si istituisca anche la “Confraternita
del Santissimo Sacramento”, con propri maestri,
che si preoccupino di promuovere il culto al
Santissimo Sacramento. E’ evidente che questi
nuovi maestri indebolivano il prestigio e la
potenza degli antichi estauritari, che per il
passato erano stati i veri padroni della chiesa.
4) Scompare, d’altronde, il
termine “cappellano” e, al suo posto, compare
quello nuovo di “parroco”.
5) Il parroco è in-amovibile,
mentre per il passato, in quasi tutti i paesi
vesuviani, il “cappellano” era amovibile a
discrezione degli estauritari.
6) La nomina del parroco
diventa diritto esclusivo dell’arcivescovo.
7) L’amministrazione dei beni
della parrocchia, malgrado le lotte sostenute e
la istituzione delle Confraternite del SS.
Sacramento, resta ancora, tuttavia, nelle mani
dei laici: il parroco rimane un semplice
salariato da parte di questi ultimi e non può
disporre autonomamente dei beni della chiesa (in
seguito, però, anche questa limitazione
gradualmente scomparirà).
8) E’ tuttavia assodato che
anche le estaurìte, sebbene si preferisca
evitare questo nome, sono sotto la giurisdizione
dell’arcivescovo.
La parrocchia post-tridentina: il
parroco
110. In pratica, dunque, a
partire dal Concilio di Trento, iniziò anche nei
nostri paesi, nel bene e nel male,
l’instaurazione di un nuovo modello di Chiesa:
la parrocchia dell’epoca moderna,
destinata a vita almeno 4 volte centenaria (fino
al Concilio Vaticano II, che nel 1962-65
inaugurerà a sua volta una nuova fase nella
storia della Chiesa cattolica).
111. Da una parte, migliorava
decisamente il livello del clero, per la cui
formazione il Concilio di Trento stabilì
l’istituzione dei “Seminari” in ogni diocesi. Si
ebbero quindi: una migliore selezione ed una più
solida ed uniforme preparazione culturale dei
chierici; una maggiore attenzione all’obbligo
del celibato ecclesiastico; la stabilità e
continuità della cura pastorale in ogni
villaggio.
112. In corrispondenza, il
parroco diventava di diritto, e gradualmente
anche di fatto, il “monarca assoluto” della sua
parrocchia, della quale rispondeva solo al
vescovo, che però era lontano... e quindi il
centro, se non la massima autorità, di tutta la
vita del Casale.
Cosa faceva un parroco dei Casali
113. Egli era, nella maggior
parte dei casi, l’unico che sapesse leggere e
scrivere (in italiano e latino) e che avesse
rapporti con le istituzioni, civili e religiose,
esterne al paese.
All’interno della sua contrada,
non vi era in pratica alcun evento che non
passasse, direttamente o indirettamente, per le
sue mani: aveva la possibilità, anche grazie
alla confessione, di conoscere personalmente
tutte le sue pecorelle e di seguirle, ad una ad
una, dalla nascita alla morte (e anche nell’al
di là, con le Messe per i defunti).
Predicava; battezzava; curava
il catechismo e la rudimentale istruzione dei
bambini e di qualche giovane più idoneo allo
studio; vigilava sulla moralità delle fanciulle;
combinava molto spesso i matrimoni (specie in
casi particolari, come le gravidanze pre o extra
coniugali); sorvegliava i costumi (il giuoco, i
bevitori, i danzatori, le osterie...); mediava
le liti e le eventuali controversie, anche
patrimoniali, in famiglia; assisteva gli
ammalati e i morenti (e quindi influiva sui
làsciti ereditari); celebrava infine i funerali
e le Messe per le anime dei defunti.
114. Oltre all’ordinaria ed
esatta amministrazione dei sette Sacramenti, gli
erano inoltre richieste (e retribuite) dal
popolo altre prestazioni, assolutamente
imprescindibili in una società agricola
arretrata: organizzare preghiere e processioni
per la pioggia o per il bel tempo; benedire i
campi affinché scompaia il “verme” che divora le
foglie o il grano; tenere cerimonie speciali
contro i flagelli che possono minacciare il
raccolto (i topi, le cavallette, i parassiti
delle piante) o contro le malattie degli animali
domestici e da lavoro; scacciare gli spiriti
cattivi o i fantasmi che infestano le case;
invocare i Santi preposti contro le varie
malattie (S. Lucia per le malattie degli occhi,
S. Biagio per quelle della gola, S. Apollonia
per il mal di denti, S. Antonio Abate per l’herpes,
etc.) ma anche conoscere ed eventualmente
applicare i rudimenti della medicina (in una
situazione, ricordiamolo, in cui non vi erano,
per i poveri, né medici né medicine).
Quanto guadagnava
115. Le sue condizioni
economiche erano spesso tutt’altro che floride.
Il reddito di un parroco dei Casali, secondo la
pregevole ricerca condotta da Carla Russo e più
volte citata, era più o meno equivalente a
quello di un funzionario pubblico di livello
medio-basso (intorno ai 150 ducati), anche se
maggiori erano la sua autorevolezza morale e
prestigio sociale, come del resto le sue
responsabilità.
Il Concilio di Trento aveva
stabilito che nessuno potesse essere ordinato
prete se non avesse prima dimostrato di
“avere i mezzi per potersi onestamente
sostentare”. In pratica, quindi, la famiglia
doveva provvedere a costituire al figlio una
“dote”, proprio come per il matrimonio di una
figlia: questo “titolo clericale”, nei Casali,
era costituito prevalentemente dagli affitti di
terreni ed immobili che venivano “intestati” al
figlio-prete. Il Card. Innico Caracciolo, nel
1680, stabilì ufficialmente che il titolo
clericale (detto anche “sacro patrimonio”) non
poteva essere inferiore ai 36 ducati ma nei
Casali, anche prima del 1680, quasi tutti i
preti stavano appena al di sopra dei 36 ducati e
qualcuno, per esenzione ricevuta “a causa di
povertà”, anche al di sotto.
116. I parroci, in particolare,
oltre al loro titolo clericale, avevano poi un
reddito che era composto prevalentemente da:
- riscossione delle “dècime”
(che però a Barra non c’erano: positivo làscito
dell’antica Estaurita: vedi n°36 in “Il periodo
svevo”);
- reddito proveniente da
terreni e/o case “intestate” alla parrocchia;
- la “congrua” ovvero lo
stipendio che veniva a loro versato dalle
Università;
- i redditi da Messe (= la
gente che pagava per far celebrare Messe per i
defunti o per ottenere “grazie” particolari);
- la cosiddetta “stola”, cioè i
proventi che derivavano dal rilascio di
certificati vari (di battesimo, cresima,
matrimonio, morte, etc.), e soprattutto dalla
celebrazione dei funerali (in casa, in
chiesa ed “accompagno” al cimitero, con
pagamento delle candele) e il più delle volte
anche dalle “offerte spontanee” per i battesimi
ed i matrimoni, visto che le disposizioni
Sinodali vietavano di far pagare i Sacramenti.
Complessivamente, alla Barra,
nel 1687, il reddito lordo complessivo del
parroco era di 166 ducati: a titolo di
confronto, a Marano era di 300 (il massimo, nei
Casali) ed a Resina di 60 (il minimo).
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Ducato d'oro del 1504,
immagine proveniente dall'Asta Varesi - UTRIUSQUE SICILIE - del
30 Maggio 2000. Clicca sull'immagine per ingrandire |
La parrocchia post-tridentina: le confraternite
117. Il parroco è l’unico
diretto responsabile della parrocchia e ne
diviene, forzatamente, anche il fac-totum.
I laici più fervorosi ed obbedienti possono,
però, diventare “collaboratori” della sua
attività.
Lo strumento principale di
questa collaborazione sono, dopo Trento, le già
menzionate confraternite o congregazioni, che
erano appunto i “sodalizi” nei quali i fedeli
venivano raccolti, formati e guidati
spiritualmente in modo disciplinato, nonché
organizzati per quel tanto di reciproca
assistenza che la comune povertà consentiva.
118. Gli
statuti di questi sodalizi, sostanzialmente
simili fra di loro pur con alcune varianti, ne
disegnano abbastanza chiaramente la natura e le
attività.
119. Gli iscritti erano,
solitamente, divisi in gruppi di dieci: ad ogni
“decuria” erano preposti un “decurione” ed un
“vice-decurione”, che avevano soprattutto il
compito di vigilare sulla presenza dei
“fratelli” alle adunanze di istruzione religiosa
e sulla loro assiduità ai sacramenti ed alle
sacre funzioni in genere, dalla Messa ai
funerali religiosi.
120. Al di sopra dei decurioni,
vi era poi una gerarchia di “ufficiali”, che
sovra-intendevano ai vari aspetti della vita
della confraternita. Ordinariamente,
erano previsti 18 “ufficiali”: un superiore (con
due assistenti); un segretario; un depositario;
un portinaro; un maestro dei novizi; un maestro
di cerimonie; un sacrestano e compagno; un
prefetto di sacrestia e compagni; un prefetto
delle paci; un prefetto de’ bisognosi; più
consultori semplici. Eventualmente, poi,
al fine di “un più perfecto et exacto governo
dell’oratorio”, l’organico poteva anche essere
allargato.
121. Il “superiore” era al
vertice della piramide e decideva, col consiglio
degli assistenti, circa le iniziative della
confraternita, l’uso dei fondi, l’espulsione di
coloro che non rispettavano le regole o si
rendevano moralmente indegni.
122. Il “depositario” era il
tesoriere, che teneva l’inventario dei beni
mobili e immobili della confraternita e curava
il bilancio, mentre il “portinaro” deteneva le
chiavi sia della sede (e quindi era
responsabile dell’immobile) sia della
cassetta delle offerte (e quindi era
responsabile di essa).
123. Il “maestro dei novizi”
aveva evidentemente il compito di iniziare i
nuovi iscritti all’osservanza dello spirito e
delle regole della confraternita; il “maestro di
cerimonie” era invece il custode sia
dell’osservanza delle regole e procedure della
congregazione durante le riunioni e le
processioni, sia della compostezza nelle
celebrazioni religiose (sedeva vicino
all’acquasantiera, all’ingresso, per invitare i
confratelli ad inginocchiarsi ed a fare bene il
segno della croce, ad “ascoltare” con devozione
la Messa, a recarsi ordinatamente a fare la
comunione, etc.).
124. Il “sacrestano” doveva
arrivare nell’oratorio prima degli altri, per
predisporre la funzione (sistemare l’altare,
l’acqua benedetta, accendere le candele e poi
spegnerle alla fine, etc.); e per consentire
questo, il “prefetto di sacrestia”, con un
numero variabile di compagni, doveva
pre-occuparsi che la sacrestia fosse sempre
mantenuta pulita, in buon ordine e che non
mancasse mai del necessario (paramenti, arredi
sacri, candele, etc.).
125. Il prefetto “de’
bisognosi” era il preposto agli aiuti materiali
da darsi a persone indigenti o comunque
bisognose, interne ed esterne alla
confraternita; mentre il prefetto “delle paci”
svolgeva il compito di “pacificatore” in caso di
liti o di controversie eventualmente insorte tra
confratelli.
126. In ogni caso, è da notare
che tutti questi “ufficiali” non erano eletti
dai confratelli ma nominati dal Padre
spirituale, che di solito era il parroco. Solo
il superiore e i due assistenti erano eletti dai
confratelli, ma all’interno di una rosa di tre
nomi proposti dal Padre.
Confraternite ed estaurite
127. Si possono, a questo
punto, utilmente confrontare gli statuti delle
confraternite nel contesto post-tridentino, di
cui sopra, con i “capitoli” delle estaurite, di
cui ai nn°32 e seguenti de “Il periodo svevo”.
128. Si
sente, anzitutto, che il “clima” generale è
cambiato. La Chiesa non è più anzitutto
la comunità dei credenti, ma tende ad
identificarsi puramente e semplicemente con la
sola gerarchia (“la nostra Santa Madre, la
Chiesa gerarchica” diranno i Gesuiti), che si
costituisce come “casta” separata, al di
sopra del popolo; che non solo parla, anche
nella liturgia, una lingua a parte (il latino)
ma deve “governare” il popolo. L’obbedienza ai
superiori diviene virtù quasi più importante
della stessa carità. Le cerimonie del culto e le
apparenze esteriori della religiosità e della
moralità, garantite dal controllo sociale,
tendono a prevalere sull’intima adesione alla
Parola di Dio (e la Bibbia viene, del resto,
proibita ai fedeli).
E’ iniziato, insomma, nel clima
inevitabilmente unilaterale della polemica
anti-protestante, quel processo di involuzione
ecclesiologica al quale solo con i grandi
documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965)
si inizierà a porre riparo
,
con un rinnovato ritorno alle fonti evangeliche
e patristiche.
129. In questo clima generale,
si nota poi in particolare che le estaurite:
- erano dei veri e propri
organi di “autogoverno” di una intera,
anche se piccola, “comunità popolare”,
- con estauritari che erano
eletti da e, in ogni momento,
rispondevano a “l’assemblea de li homine de
lo casale”,
- di cui amministravano i beni
comuni (fra cui lo stesso edificio della
chiesetta) e le offerte,
- e che sceglievano e
stipendiavano essi stessi il loro
prete-cappellano, peraltro amovibile a giudizio
dell’assemblea.
130. Le confraternite, per
contro, sono l’organizzazione di una parte
della comunità locale, guidata e disciplinata
dall’autorità ecclesiastica; i poteri reali sono
molto più ristretti (le decisioni più importanti
le prende ormai il parroco ed il parroco lo
designa il vescovo); la struttura interna, più
verticistica ed autoritaria; le attività
prevalenti, non più di tipo sociale, ma
devozionale, con una particolare attenzione (del
resto tipica dell’epoca) alle “forme” e alle
“apparenze” (una “bella” funzione, ordinata e
silenziosa; un “bel” funerale, per il decoro
della famiglia ed il prestigio della
confraternita, etc.).
Permangono, però, sia pure in
forma diversa, le sempre valide “7 opere di
misericordia” evangeliche (vedi Mt 25, 31-46):
gli infermieri per assistere gli ammalati,
specie i più bisognosi; i decurioni che devono
recarsi ad assistere i confratelli in punto di
morte ed avvisare il parroco; l’organizzazione
dei funerali a cura della confraternita, etc.
131. Per altri aspetti, invece,
non si può parlare di involuzione, ma si deve
anzi sottolinearne la modernità:
“La maggior parte delle
confraternite presenti nei Casali erano miste
ovverosia ne facevano parte sia uomini che
donne … E come non era generalmente prevista
l’esclusione delle donne, così gli statuti delle
confraternite non presentavano norme volte ad un
reclutamento sociale specifico … le poche
limitazioni previste concernono l’ambito
territoriale e non la condizione sociale dei
confratelli”
.
Si tende cioè a superare sia
la rigida subalternità della donna rispetto al
suo maschio/padrone sia la ripartizione
della società per ceti e corporazioni, entrambi
tipiche del medioevo. Le persone “civili”, come
il notaro, il medico, l’avvocato, il sacerdote,
l’artista (perfino il grande e ricchissimo
Francesco Solimena) sono “confratelli” allo
stesso titolo dei massari, dei bracciali, degli
artigiani, ed alla stessa unica condizione di
“essere di buoni costumi”.
132. In definitiva, sia
pure in modi e tempi diversi rispetto a quelli
delle estaurìte, anche nelle confraternite
continua a soffiare lo stesso spirito
evangelico, “incarnato” in solide comunità
popolari, che si organizzano per affrontare i
propri problemi quotidiani il più
fraternamente possibile nel contesto sociale
storicamente dato.
Il convento e la chiesa dei
Francescani
133. Sulla cresta dell’onda
suscitata dal Concilio di Trento, nella seconda
metà del Cinquecento arrivarono a Barra, in un
Casale la cui popolazione era in continua
crescita e nel quale parimenti crescevano le
articolazioni della vita civile, gli
insediamenti stabili dei Francescani e dei
Domenicani.
134. Per primi, arrivarono i
Francescani: quelli, precisamente, del ramo
detto “Ordine dei frati minori conventuali” (in
sigla, ofmc), che si insediarono a Barra “di
sotto le torri”, poco distante dall’antica
chiesa dedicata a S. Atanasio. Il loro convento,
con annessa chiesa, fu ultimato nel 1585,
come si evince dalla lapide tuttora visibile al
di sopra della porticina di accesso al convento,
posta all’esterno della chiesa, accanto
all’ingresso di questa.
135. La
lapide è sormontata dallo stemma della famiglia
de Fazio e reca la seguente scritta:
DIVAE MARIAE GRATIARVM
HIERONIMVS DE FATIO
NEAPOLITANVS
SACRVM HVNC LOCVM IN FAMILIAE VSP
ERIGENS DEDICAVIT
ADDICTIS ANNVIS DVCATIS XX VT PERPETVO
TER IN HEDDOMADA HIC SACRIFICETVR
MAIORUM EXEMPLO MONITVS
HOC OPVS TERMINATVM VLTIMO
OCTOBRIS M D L XXX V
ET MARINVS DE FATIO DE NEAPOLI FVNNAVIT
DIVAE CATAERINAE DE CORONA
DICATAM
IN REGIONE SEDILIS PORTE NOVE
DE NEAPOLI
SVB DIE PRIMO NOVEMBRIS M CCC L
IIII
Traduzione:
A S. MARIA
DELLE GRAZIE
GEROLAMO DE FAZIO NAPOLETANO
QUESTO LUOGO SACRO ALLA SUA
FAMIGLIA
ERIGENDO DEDICO’
STANZIATI 20 DUCATI ALL’ANNO AFFINCHE’ IN
PERPETUO
TRE VOLTE ALLA SETTIMANA QUI SI
SACRIFICASSE
MONITO L’ESEMPIO DEGLI ANTENATI
QUESTA OPERA FU TERMINATA
L’ULTIMO
DI OTTOBRE 1585
E MARINO DE
FAZIO DI NAPOLI FONDO’
DEDICATA A S. CATERINA DI
CORONA
NELLA REGIONE DEL SEDILE DI
PORTANOVA DI NAPOLI
NEL GIORNO PRIMO NOVEMBRE 1354.
136. Come si vede, il convento
e la chiesa di Barra furono donati ai
Francescani da un patrizio napoletano di nome
Gerolamo de Fazio, il quale vi aggiunse
altresì la rendita di 20 ducati all’anno,
affinché i frati provvedessero a celebrare, in
perpetuo, tre Messe alla settimana in suffragio
dei defunti della sua famiglia.
137. L’opera fu opportunamente
terminata l’ultimo giorno di ottobre, cioè
all’anti-vigilia del 2 novembre, ricorrenza dei
defunti. Gerolamo de Fazio afferma di aver fatto
questo seguendo l’esempio dei suoi avi, in
particolare di Marino de Fazio, il quale, alcuni
secoli prima, e precisamente il primo novembre
del 1354, aveva fondato una chiesa dedicata a S.
Caterina “de corona”, nella regione del sedile
di Portanova in Napoli.
138. Il riferimento è alla
chiesa detta S. Caterina di Spina Corona,
che in effetti si trova nella regione
dell’antico sedile (o seggio) di Portanova e
precisamente in quella che attualmente è
denominata Via Giuseppina Guacci Nobile, una
strada che inizia in Piazza Portanova (dove si
trova l’antica chiesa estaurìta del seggio, S.
Maria “in Cosmedin”) e, procedendo parallela al
Corso Umberto I, termina sul fianco destro
dell’Università.
139. Da un antico atto
notarile, risulta che la chiesa di S. Caterina
di Spina Corona fu fatta costruire nel 1354 (e
la data coincide con quanto affermato dalla
lapide di Barra) da alcuni nobili del sedile di
Portanova (fra i quali, evidentemente, vi era
anche il nostro Marino de Fazio) con annesso un
monastero di monache benedettine.
140. Successivamente, le
monache furono trasferite altrove, essendo il
convento divenuto troppo piccolo per accoglierne
l’aumentato numero, e la chiesa venne allora
acquistata dalla comunità ebraica napoletana,
che la adattò a sinagoga.
141. In seguito all’espulsione
degli ebrei da Napoli
,
chiesa e convento vennero affidati ad alcuni
nobili del seggio di Portanova, che vi fondarono
un conservatorio destinato, inizialmente, alle
donne di origine ebraica divenute cristiane e,
successivamente, a giovani orfane.
142. Fu poi il famoso viceré
spagnolo don Pedro de Toledo (1532-1553)
a trasferire le orfanelle in S. Eligio e a
trasformare la chiesa in rettorìa. Lo stesso don
Pedro fece anche costruire, all’esterno della
chiesa, accanto all’ingresso, una fontana
pubblica, che il popolo denominò immediatamente
“fontana delle zizze”, essendo essa costituita
da una Sirena alata, dalle cui “zizze” (seni)
sgorga l’acqua. O meglio, sgorgava
l’acqua, perché la fontana risulta quasi
permanentemente rotta, come purtroppo tante
altre, consimili ed illustri, fontane
monumentali di Napoli.
143. Poiché quindi don Pedro
aveva, di fatto, sottratto ai nobili di
Portanova la “loro” chiesa di S. Caterina di
Spina Corona, alcuni decenni dopo Gerolamo de
Fazio volle, evidentemente, ricostituire una
chiesa “di famiglia”, nella quale far celebrare
in perpetuo messe di suffragio per i defunti
della sua stirpe.
144. Si coglie qui,
all’evidenza, un tratto caratteristico della
spiritualità cattolica post-tridentina.
Il Concilio di Trento, fra le
altre cose, aveva fortemente sottolineato,
contro la negazione fàttane dai “protestanti”,
la dottrina circa l’esistenza del Purgatorio,
già definita nel Primo (1245) e nel Secondo
(1274) Concilio di Lione: “C’è un purgatorio e
le anime che in esso sono ritenute trovano un
soccorso nei suffragi dei fedeli, soprattutto
nel sacrificio dell’altare, sommamente gradito a
Dio”
.
Ciò implicava, naturalmente, la
opportunità di educare adeguatamente, presso i
fedeli, la devozione alle “anime del
Purgatorio”, con relative offerte in denaro da
farsi alla Chiesa, allo scopo di far celebrare
Messe (anche “in perpetuo”) per suffragare le
anime dei propri cari defunti
.
145. Infine, fu solo un caso
che il de Fazio, per edificare la “sua” chiesa,
scelse la Varra di Serino, cioè proprio il
Casale che aveva nel suo stemma la stessa Sirena
che don Pedro de Toledo aveva fatto collocare
sulla fontana accanto a S. Caterina di Spina
Corona? Forse è solo una coincidenza; ma è
indubbiamente una coincidenza singolare.
La magistrantia di S.
Antonio
146. Sempre nello spirito del
Concilio tridentino e delle relative norme di
attuazione date dagli arcivescovi napoletani, i
Francescani promossero subito la formazione di
una congregazione di laici, che fu la prima in
Barra e che venne detta “di S. Antonio”, in
quanto gli aderenti si riunivano in una cappella
laterale della chiesa, dedicata appunto al
grande Santo francescano S. Antonio di Padova.
147. Già nel 1639, quando cioè
non esistevano ancora né la Confraternita
“parrocchiale” della SS. Annunziata né quella
“domenicana” del SS. Rosario, gli Atti di Santa
Visita registrano l’esistenza della
“magistrantia cappellae Sancti Antonii,
constructa intus ecclesiam Sanctae Mariae de
Gratia fratrum minorum conventualium Sancti
Francisci”.
148. Non si trattava quindi di
una vera e propria confraternita, ufficialmente
costituita e regolamentata, ma era tuttavia una
magistrantia secondo il nuovo spirito del
Concilio (vedi n°109). La novità, introdotta dai
Francescani, di quella inedita forma di
associazionismo laicale dovette colpire
parecchio il popolo della Varra di Serino, tanto
che da allora l’intera chiesa dei Francescani in
Barra venne detta semplicemente “chiesa di S.
Antonio”.
149. D’altra parte, i
Francescani poterono organizzare subito la loro
magistrantia laicale proprio perché,
essendo il loro convento di nuova istituzione in
Barra, non avevano l’impaccio di dover prima
vincere la resistenza di una qualche
pre-esistente estaurìta che rivendicasse le
proprie prerogative.
150. Una volta istituita, la
magistrantia di S. Antonio poté poi
costituire il modello che l’autorità
ecclesiastica additava ad esempio per il
laicato, affinché si sotto-mettesse
obbedientemente alle direttive degli
arcivescovi, rinunciando alla “fastidiosa”
organizzazione (e mentalità) estauritaria.
151. In questo senso, la sua
“sperimentale” istituzione influì certamente
anche sulle vicende della vicina chiesa
estaurìta di S. Atanasio.
La confraternita femminile
152. Altra esperienza
all’avanguardia per l’epoca fu quella della
confraternita di Nostra Signora del Carmine
:
si trattava stavolta di una vera e propria
confraternita, ufficialmente costituita, ma con
la caratteristica di essere esclusivamente
femminile. Nei Casali, tali esperienze si
contavano sulle dita di una sola mano, ma una
simile si trovava proprio nel vicino Casale di
S. Giovanni a Teduccio, con il nome di S. Maria
di Costantinopoli.
Quella Barrese potrebbe essersi
formata, e quindi aver avuto la propria sede,
intorno ad una piccola cappella dedicata appunto
alla Vergine del Carmine, la cui esistenza sul
territorio di Barra è documentata già negli
ultimi anni del Cinquecento.
153. In queste confraternite,
dunque, le donne svolgevano tutti quei ruoli che
normalmente erano riservati agli uomini: di
gestione, manutenzione e custodia del luogo
sacro, di insegnamento alle novizie, di guida
nella recita delle preghiere, ed anche di
direzione e di amministrazione del sodalizio.
Per l’epoca, non è davvero poca
cosa. E forse, proprio per il loro essere
troppo avanti rispetto ai tempi, non
durarono a lungo: sia quella di Barra sia quella
di S. Giovanni a Teduccio, dopo il 1640 non sono
più menzionate in Atti di Santa Visita.
La Varra di Serino da estaurìta a
parrocchia
154. Come si è già detto
,
dagli Atti di Santa Visita del card. Francesco
Carafa risulta che, alla data della Visita (25
febbraio 1543), la popolazione del Casale della
Varra di Serino continuava ad eleggere
periodicamente i suoi “quattro maestri laici”
per governare la chiesa (e gli annessi beni) di
S. Atanasio, ed i maestri sceglievano chi
dovesse essere il prete cappellano, che era
comunque “amovibile”, poteva cioè essere rimosso
e sostituito con un altro, a giudizio delle
famiglie e degli stessi “magistros laycos”. Tale
situazione perdurò, sia pure in modo
conflittuale, fino al 1620, cioè per quasi un
altro secolo ancora, finché …
155. “Coram
Illustrissimo et Reverendissimo Domino Cardinali
Archiepiscopo Neapolitano et aliis Visitatoribus,
in Casali Serini de Barra, neapolitanae
dioecesis, comparuerunt Lucretia Parrilla,
Mattheus Riccius et heredes quondam Nardi
Jupparelli, extauritarij et compatroni ecclesiae
estauritae curatae Sancti Attanasij de dicto
Casali Serini de Barra, neapolitanae dioecesis...
et dicunt quod ab immemorabili
tempore ipsi comparentes, et eorum antecessores,
fuerunt et sunt in pacifica possessione
nominandi Cappellanum dictae Ecclesiae nutu
amovibilem...”.
“Et fuit dictum ut exhibeant praedicti
praetendentes scripturas ad hoc, ut provideri
possit de iure...”.
“Sed pro parte Regi Fisci fuit
replicatum non constitisse nec constare de
praetenso Iure patronatus super dicta Ecclesia
parochiali sed esse ad meram collationem”
.
Traduzione:
“Davanti all’Illustrissimo e
Reverendissimo Signor Cardinale Arcivescovo di
Napoli (Decio Carafa) ed altri
Visitatori, nel Casale Serino di Barra, della
diocesi di Napoli, compaiono Lucrezia Parrilla,
Matteo Riccio e gli eredi del defunto Nardo
Juppariello, estauritari e con-patroni della
chiesa estaurìta curata di Santo Attanasio, del
detto Casale Serino di Barra, della diocesi di
Napoli...
e dicono che da tempo
immemorabile essi comparenti, ed i loro
predecessori, furono e sono in pacifico possesso
del diritto di nomina del Cappellano di detta
chiesa, amovibile...”
“E fu detto che esibiscano, i
predetti pretendenti, scritture ad hoc, affinché
si possa provvedere secondo il diritto...”
“Ma da parte del Règio Fisco fu
replicato non constare questo preteso diritto di
patronato su detta chiesa parrocchiale, ma
essere di mera collazione...”
156. E così anche a Barra, nel
1620, con la usuale motivazione dell’assenza di
documenti scritti (vedi n.107), veniva posta la
parola “fine” alla storia pluri-secolare della
estaurìta contadina sorta nel periodo svevo
(1194-1226).
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Carlino d’argento del 1504. Clicca sull'immagine per ingrandire |
La parrocchia “Ave Gratia Plena”
(detta “di S. Anna”)
157. La fine dell’antica
estaurìta venne ad intrecciarsi con l’inizio
della fabbrica della nuova chiesa, intitolata
all’Annunziata (“Ave Gratia Plena”).
158. Gli Atti di Santa Visita
del card. Guglielmo Sanfelice (1878-1897), più
di due secoli dopo, riportano: “Nell’archivio
della parrocchia non vi sono documenti che
parlano della sua fondazione; solamente una
copia dell’istrumento di detta fondazione è
presso il Municipio, colla data del 1° ottobre
1610, per l’istrumento rogato per notar
Trinchino.
In quanto alla sua fondazione,
non ci sono documenti che ci fanno conoscere da
chi furono sostenute le spese per detta
fabbrica, ma per tradizione verbale si dice che
furono elargite dalla maggior parte del popolo
di Barra e, di poi, intervenne anche il
Municipio”
.
159. In effetti, però, nel
Seicento, non c’era “il Municipio” bensì “il
Casale” e “la Universitas degli uomini
del Casale”: “per le costituzioni di Federico II
di Svevia (1220-1250), perciò sin da tempi
antichissimi …” l’amministrazione locale “… si
affidava ad un Sindaco e due Eletti,
scelti dal popolo in così largo Parlamento
che non altri erano esclusi dal votare fuorché
le donne, i fanciulli, i debitori della comunità
e gli infami per condanna o per mestiero. Ci si
adunava in certo giorno d’estate nella piazza e
si facevano le scelte per gride, avvenendo di
rado che bisognasse imborsar più nomi per
conoscere il preferito”
.
160. Gli Atti di Santa Visita
più vicini ai fatti, cioè quelli del card. Decio
Carafa (1620), del card. Giacomo Cantelmo (1699)
e del card. Giuseppe Spinelli (1741), consentono
perciò di precisare che la nuova chiesa (essendo
divenuta troppo piccola, per l’aumentata
popolazione, la storica chiesetta di S.
Atanasio) era stata voluta, fondata e costruita
dall’Universitas con una deliberazione
approvata dal parlamento locale nel 1610. Nella
stessa deliberazione, l’Universitas si
impegnava a dotare la chiesa, a stipendiare il
parroco, ed a mantenere il culto del SS.
Sacramento, riservando per altro a sé il
gius-patronato sulla chiesa stessa e quindi
il diritto di presentazione del parroco
(vedi sopra, n°105).
I fondi per la costruzione
provennero dalle elargizioni spontanee dei
cittadini, integrate con contributi dell’erario
pubblico (ricordiamo che la Varra di Serino era
zona demaniale), anche se il titolo che fu dato
alla chiesa (“Annunziata” ovvero “Ave Gratia
Plena” ovvero A G P) era lo stesso di quello
della chiesa di Napoli dalla quale l’estaurìta
ed i suoi terreni dipendevano, sia pure in modo
ormai del tutto nominale
.
161. Di fatto, però, già nel
1614 la Curia arcivescovile provvide a nominare
direttamente il primo parroco della nuova
chiesa, che fu Don Giovanni Antonio Serubo
(1614-1627), senza concordare la nomina
né con gli antichi estauritari né con la
Universitas ma con Bolla di conferma spedita
direttamente da Roma, pur continuando l’Universitas
a provvedere al pagamento del parroco, alle
spese per il culto ed alla manutenzione della
chiesa parrocchiale.
162. Prima di Don Giovanni
Antonio Serubo, sono menzionati nei registri
parrocchiali Don Giovanni Battista Riccio
(1565-1594), Don Gian Domenico Montella
(1597-1598) e Don Scipione Siniscalco
(1598-1613), che fu presumibilmente il primo ad
officiare sia nella vecchia chiesa di S.
Atanasio che in quella nuova dell’Annunziata,
non appena questa, ancorché non ultimata,
cominciò ad essere agibile per il culto.
163. Tutti e tre, però, non
erano ancora “parroci” nel senso tridentino,
bensì “cappellani” nominati dagli estauritari,
proprio come quel loro predecessore di nome Don
Ambrogio de Riccardo
,
menzionato negli Atti di Santa Visita del Card.
Francesco Carafa nel 1543.
164. I lavori per ultimare la
chiesa andarono per le lunghe, quasi quanto
quelli per la chiesa dei Domenicani (vedi
n°173), il che è attestato anche dal fatto che
il fonte battesimale (che si può vedere nella
prima cappella a sinistra, entrando in chiesa)
venne dedicato solo nel 1697, come è scritto
nella lapide che lo sovrasta.
165. Di questo, però, e di
altre vicende, si dirà nel paragrafo dedicato a
“La parrocchia di S. Anna nel Seicento”.
Il convento e la chiesa dei
Domenicani
166. Appena un po’ dopo i
Francescani, arrivarono i Domenicani, che si
insediarono però nell’altra parte del Casale,
nella zona detta “di sopra le torri”.
167.
Come si è detto, è certo che i Domenicani
possedevano un pezzo di terra in Barra già dal
24 dicembre 1301, data del diploma di donazione
da parte del re Carlo II d’Angiò
[50],
ma si trattava solo di una delle tante rendite
feudali che servivano per il mantenimento della
chiesa e del convento di S. Domenico Maggiore in
Napoli.
168.
L’insediamento dei frati si ebbe solo alla fine
del Cinquecento, anche qui in seguito a una
donazione:
“Il giorno 13 ottobre 1584, nel
monastero di Napoli, presente frate Agostino de
Perùsia et altri frati”, il signor Ottavio d’Aponte
dona all’Ordine una casa “composta di quattro
membri, due inferiori e due superiori, con
cortiglio”, per potervi costruire le
infrastrutture adatte alla vita del convento. Il
d’Aponte chiede che i frati rimangano sempre
dipendenti dal monastero di Napoli e, per sé e
per i suoi discendenti in linea diretta, di
poter apporre le insegne della famiglia
sull’altare della costruenda chiesa e, nel
giorno della Purificazione di Maria Vergine,
“una torcia di cera bianca di due libbre”
.
169. Un mese dopo, precisamente
il 16 novembre 1584, si svolse la cerimonia
della posa della prima pietra, alla presenza
dell’allora arcivescovo di Napoli, Annibale de
Capua
.
170. I lavori veri e propri
iniziarono però solo alcuni anni dopo: a partire
dall’ 8 luglio 1588, si conservano i resoconti
del “mastro supervisore” Fabio del Buono, che
effettuava mensilmente il controllo dello stato
di avanzamento dei lavori, ai fini del pagamento
dei “mastri fabbricatori” Aniello Moschetto,
Giulio Giordano, Giovanni Vincenzo e Nicola
Nello di Leone.
171. I frati andarono ad
abitare nel convento appena possibile, ma i
lavori durarono ancora a lungo (la loro
ultimazione è segnalata solo nell’anno 1649):
evidentemente, il progetto iniziale si andò man
mano ampliando, grazie alle offerte di nuovi
benefattori, fra i quali sono noti in
particolare Donato di Ferrante e Giovanni
Alfonso Bozaotra (che donò ben 500 ducati).
172. Comunque, il 12 maggio del
1610, venne istituito il “priorato” di Barra: il
primo priore si chiamava P. Callisto da
Marcianise e “fu un benemerito del convento,
avendolo, al tempo del suo governo, edificato
quasi tutto”, con due dormitori e dodici celle.
La costruzione della chiesa
173. Ancor più per le lunghe
andarono i lavori di costruzione della chiesa, i
quali si protrassero addirittura per tutto il
Seicento e furono ultimati solo agli inizi del
Settecento.
174. Il P. Marco Maffei da
Marcianise fece intervenire, per la costruzione
della chiesa di Barra, fra’ Giuseppe Nuvolo
(1570-1643), l’architetto domenicano di
grido, famoso per il campanile della chiesa del
Carmine nonché per la chiesa della Sanità in
Napoli
.
175. Successivamente, dal 1691
al 1703, l’architetto Arcangelo Guglielmelli
(1650-1717) rifece completamente la chiesa:
trasformò la pianta ellittica di Giuseppe Nuvolo
ed espanse il complesso, come risulta da
parecchi documenti relativi alla costruzione, da
lui firmati nel biennio 1700-1701.
Si può qui notare che Arcangelo
Guglielmelli era stato allievo e poi
collaboratore di Dionisio Lazzari
(1617-1689) il quale, come dice il Cozzolino,
aveva una sua bella casa, con annessa cappella,
all’Abbeveratoio in Barra. Sia il Lazzari che il
Guglielmelli lavorarono anche per la chiesa
domenicana della Sanità in Napoli; Dionisio
Lazzari, in particolare, è l’artefice del grande
pulpito (datato al 1678) che si vede in quella
chiesa.
176. Infine, nel 1703, il
cantiere fu affidato a Francesco Solimena
(1657-1747), che risiedeva in Barra ed era
terziario domenicano. In particolare, la
facciata della chiesa è di elegante disegno
settecentesco, che il Venditti
attribuisce a Solimena per l’analogia che egli
vi riscontra con la facciata della chiesa di S.
Nicola alla Carità in Napoli, opera certa del
Solimena.
La dedica a S. Maria della Sanità
177. Fin dall’inizio, comunque,
convento e chiesa in Barra furono dedicati a
S. Maria della Sanità
,
prendendo il nome dell’altro e più grande
insediamento domenicano in Napoli, istituito nel
1577 dall’arcivescovo Paolo Burali d’Arezzo
.
178. La
dedica del complesso a S. Maria della Sanità era
tutt’altro che casuale o puramente
devozionistica. Indicava infatti l’appartenenza
del convento di Barra al movimento di “riforma”
dell’Ordine domenicano che aveva il suo centro
propulsivo, sul territorio diocesano, proprio
nell’omonimo convento in Napoli.
179. Occorre qui dire che la
situazione, nei conventi domenicani di Napoli e
del regno, negli anni intorno al Concilio di
Trento, era nel complesso decisamente
deplorevole, stando a quanto ne riportavano gli
stessi Nunzi pontifici e Visitatori apostolici.
180.
Prosperavano “la vita privata, gli abusi
nell’amministrazione, le irregolarità nel
reclutamento e nella formazione dei giovani
frati, la noncuranza per le osservanze
claustrali, l’arrivismo di fronte alle cariche
di prestigio, e soprattutto generale
insofferenza, spirito di fazione,
insubordinazione..”
[57].
Addirittura, si arrivava frequentemente al
delitto comune: frodi, “casi di furto, ferimenti
e omicidi”
[58]
perpetrati dai religiosi.
181. Di fronte a tutto questo,
un piccolo ma fervoroso gruppo di frati e di
suore avvertiva in modo acuto l’esigenza di una
riforma, tanto morale quanto organizzativa, che
riportasse l’Ordine a maggiore autenticità
evangelica e fedeltà allo spirito del Santo
fondatore.
182. “Il cosiddetto ritorno
all’osservanza primitiva comportava tutta una
serie di pratiche che l’uso, nel corso del
tempo, aveva messe da parte o attenuate: una
liturgia corale più puntuale e fervente; una
nuova presa di coscienza della vita comune
(estesa quindi a tutti i momenti della
giornata); una povertà personale e comunitaria
che bandiva con decisione tutte le forme di
vita privata in auge nei conventi non
osservanti; un nuovo impulso alla vita di
studio; il ripristino di alcune austerità
particolarmente avversate o trascurate in altri
ambienti, quali i viaggi a piedi, la
mendicità giornaliera di porta in porta
praticata anche dai frati più in vista per le
loro cariche o il loro prestigio personale,
l’esecuzione da parte di tutti dei lavori
materiali della casa, etc.”
.
183. Gli innovatori si
richiamavano ad alcune esperienze positive già
in atto, come il convento femminile “della
Sapienza” (fondato nel 1530 da Maria Carafa e
ritenuto dagli storici il più serio ed il
migliore della capitale nel Cinquecento) e
soprattutto alla figura carismatica di P.
Paolino Bernardini da Lucca, acceso seguace
del Savonarola, che nel 1573 aveva dato avvio ad
una rigida riforma la quale, dal nome della
regione meridionale nella quale per prima si
affermò, fu detta “riforma d’Abruzzo”.
184. I Domenicani “riformati”
di Napoli trovarono valido appoggio nelle
autorità ecclesiastiche, che intendevano dare
seria attuazione al Concilio di Trento, ed
ebbero il loro centro propulsivo, come detto,
nel neo-nato convento della Sanità in Napoli.
Il P. Marco Maffei da Marcianise
(1542-1616)
185. Appassionato protagonista
del movimento di riforma post-tridentina dei
Domenicani fu proprio il citato P. Marco
Maffei da Marcianise (1542-1616), che visse
nel convento di Barra gli ultimi anni della sua
vita ed ivi morì (la sua sepoltura si trova però
nella chiesa della Sanità in Napoli).
186. Entrato nell’Ordine nel
1559 (a diciassette anni), il Maffei nel 1576
scriveva, insieme ad altri quattro compagni, una
fervorosa lettera al Cardinale moderatore ed al
Maestro generale dell’Ordine domenicano, nella
quale sollecitava l’inizio dell’opera di riforma
e chiedeva di potersi ritirare con i confratelli
in un convento ove fosse possibile attuare la
vita riformata:
“Noi
abrugiamo di desiderio, né ci par mai di vedere
quella hora santa. Vossignorìa illustrissima può
et vuole, cossì il padre reverendissimo
generale: perchè donque restarrà? perchè tante
difficultà? perchè tante dilationi? Per amor
d’Iddio, Vossignorìa illustrissima non vogli
differire più; diasi questo principio a questa
santa riforma!”
.
187. In seguito all’avvio della
“santa riforma”, il Maffei operò assiduamente,
con la parola e con l’esempio, rivestendo anche
cariche di responsabilità nell’Ordine, affinché
essa si affermasse e si radicasse saldamente in
tutta l’Italia meridionale.
Barra nella “riforma” Domenicana
188. Il convento di Barra
apparteneva quindi a questo movimento
riformatore; anzi, proprio in questo spirito
venne fondato, nel 1584.
189. Quel “Frate Agostino de
Perùsia”, nelle cui mani, il 13 ottobre 1584, il
signor Ottavio d’Aponte effettuò la donazione
all’Ordine della sua casa di Barra (vedi n°168),
era appunto un convinto seguace del Bernardini,
e cioè il P. Agostino Castiglione Fusco da
Perugia, che dal 6 ottobre 1583 era stato
posto a capo del convento di S. Maria della
Sanità in Napoli.
190. In effetti, il d’Aponte
“aveva promesso, per un voto fatto alla Vergine,
di spendere 600 ducati nella fabbrica di una
chiesa da donare ai Cappuccini. Ma costoro
avevano rifiutato l’offerta, forse per il timore
di non trovare, nella nuova zona, fonti di
reddito sufficienti. La sorella del d’Aponte
suggerì allora di passare l’offerta ai Padri
domenicani del convento della Sanità di Napoli,
dei quali era penitente”
.
191. Ancora nella fase iniziale
di sistemazione del convento di Barra, vi operò
e vi morì (nel 1589), in concetto di santità, un
fra’ Antonio Vallerano di Somma. E nel
1655 vi si ritirò, come oblato, fra Raimondo
de Paola, un convertito assai famoso ai
tempi suoi, che dedicò da lì innanzi la sua vita
alla preghiera contemplativa, con frequenti
estasi mistiche, e all’aiuto ai più poveri e
bisognosi
.
192. Se, da una parte, è quindi
vero che l’insediamento di Barra, a causa della
sua collocazione in luogo ameno e tranquillo, si
prestava particolarmente ad accogliere frati
anziani e bisognosi di cure e di riposo (lo
stesso Maffei, come detto, vi trascorse gli
ultimi anni della sua vita e vi morì), non si
deve tuttavia pensare che esso fosse un semplice
“ospizio”.
193. Si trovava, al contrario,
inserito in una fervida corrente di rinnovamento
culturale e morale, che era evangelicamente
“segno di contraddizione” all’interno
dell’Ordine e della Chiesa, e non mancò certo di
suscitare le simpatie del popolo della Barra e
di svolgere un benefico influsso sulla sua vita.
194. Anche i Domenicani,
infatti, fondarono naturalmente in Barra una
loro confraternita laicale, che venne
intitolata, altrettanto naturalmente, al
“Santissimo Rosario”.
195. Le Confraternite del
Rosario erano, com’è noto, istituzioni tipiche
dell’Ordine domenicano (un legame ribadito
ufficialmente anche dal papa S. Pio V nel 1569)
ed ebbero la loro massima fioritura nel periodo
successivo alla famosa vittoria della flotta
“cristiana” su quella “turca” nella battaglia
navale di Lèpanto (7 ottobre 1571): vittoria che
venne attribuita alla intercessione della
Madonna, invocata appunto con la recita del
rosario, e che fu anche la causa della
istituzione, da parte dello stesso papa S. Pio V
(1566-1572), della festa liturgica della “Beata
Maria Vergine del Rosario” che si celebra
tuttora il 7 ottobre.
196. Il famoso predicatore
domenicano P. Ambrogio Salvio (1491-1577),
che fu priore del convento di S. Pietro Martire
a Napoli e poi Vescovo di Nardò, già nel 1566
aveva ricevuto da papa Pio V la facoltà di
fondare il tutto il Regno congregazioni del
rosario.
197. A scrivere gli statuti e i
regolamenti delle Confraternite del Rosario a
Napoli fu il domenicano Fra Callisto da
Missanello, autore delle “Regole e
costituzioni, essercitii spirituali e cerimonie
da osservarsi dalle congregazioni e compagnie
del Santissimo Rosario”, che furono più volte
ristampate nel corso del Seicento e divennero il
modello per tutte le analoghe confraternite
dell’Italia meridionale
.
198.
A Ponticelli, una Confraternita del Rosario fu
istituita già nel 1577, come ben documentato dal
Mancini
[64].
A Barra, la fondazione ufficiale della
Confraternita fu posteriore di quasi un secolo:
certamente
[65],
non prima del 1667.
Casavaleria nel Cinquecento
199. Entrando nella chiesa di
S. Maria del Pozzo in Barra, sulla destra,
incastonata nel pavimento, vi è una lastra
tombale, che dà accesso alle sottostanti
sepolture.
Sopra la lastra, sono incise le
figure di due uomini, vestiti con sacco e
cappuccio ed inginocchiati uno di fronte
all’altro, che tengono in mano qualcosa che non
si riesce a distinguere bene, forse una torcia.
200. Sotto
le due figure, vi è la seguente scritta:
SEPOLTVRA
FACTA P IOANES BERNO
BORIELLO VIC COCOZA
ANTVONO VENDERVSO ET
TROIANO DE LVCA MRI DE
SS M DEL PVZO DE CASA
VALERA DE ELEMOSINE
FACTE COMONE MENTE
ANO M DLXIII
201. Consideràte le
abbreviazioni (P=per; BERNO=Bernardino; VIC=Vincenzo;
MRI=Magistri), la scritta si può rendere in
questo modo:
SEPOLTURA
FATTA DA GIOVANNI BERNARDINO
BORRIELLO, VINCENZO COCOZZA,
ANTONIO VENERUSO E
TROIANO DE LUCA, MAGISTRI DI
S. MARIA DEL POZZO DI CASA
VALERIA, DA ELEMOSINE
FATTE COMUNE MENTE
ANNO 1563
202. Ancora nel 1563, dunque,
Casavaleria era una estaurìta autonoma, con i
suoi quattro “Magistri” eletti, che gestivano i
fondi, raccolti presso tutto il popolo (“comune
mente”), per soddisfare le esigenze della
comunità (in questo caso, quella,
principalissima, di una degna sepoltura).
203. Proprio di fronte, però, a
questa lastra tombale (quindi, a sinistra di chi
entra in chiesa), ve ne è un’altra, che reca la
scritta seguente
:
LA
VNIVERSITA DEL
VARRA DE SERINO
DONA QVESTA
PIETRA A S M D PVZZO
1 5 77
204. Questa seconda lastra
tombale (14 anni dopo la prima) ci permette di
concludere che, nel 1577, Casavaleria si era
ormai unificata con la Varra di Serino, la cui
amministrazione (“Università”) donò la pietra.
205. Dunque, nel 1577 (o poco
prima), scomparve la estaurìta autonoma di
Casavaleria ed i suoi quattro magistri poterono
essere al più responsabili di una
“confraternita”. Corrispondentemente, essi
persero anche il diritto di nominare il loro
cappellano e nel 1581 fu nominato un “rettore”
della chiesa di S. Maria del Pozzo, di nome Don
Scipione d’Avitabile
.
206. La nomina del rettore
avvenne con una Bolla spedita direttamente da
Roma, evidentemente per vincere le resistenze
dei magistri, che non intendevano rinunciare
all’antico e, fino ad allora, incontestato
diritto di scegliersi il loro prete.
207. Ne seguì, inevitabilmente,
un periodo di malumori e di controversie fra il
rettore e gli amministratori laici della chiesa,
che si concluse in modo traumatico allor quando
questi ultimi, evidentemente esasperati, diedero
le loro dimissioni da ogni incarico.
208. Sicché, quando il card.
Alfonso Gesualdo visitò Casavaleria nel 1599 e
chiese se “dicta confraternitas sit in suo
vigore, et quomodo gubernetur”, gli fu risposto
(da don Scipione d’Avitabile) che “non v’è più
confraternita alcuna, per causa di lite, et da
loro si sono andati via, et li beni di essa so’
restati per la chiesa, delli quali se ne darà
annotatione insieme con gli altri beni mobili di
essa chiesa”
.
209. L’ottimo don Scipione era
dunque riuscito, senza colpo ferire, ad
incamerare tutti i beni dell’antica estaurìta e
ad allontanare i riottosi. Perfetto. Solo che
adesso, però, a Casavaleria non vi era più
alcuna organizzazione laicale, nemmeno la
confraternita...
210. Ne seguì un periodo di
evidente decadenza ecclesiale. La prova più
tangibile di questa decadenza è data dal fatto
che, mentre fino ad allora Casavaleria aveva
avuto due chiese
aperte al culto (S. Maria del Pozzo e S.
Martino), a partire dalla nomina del rettore
(1581) la chiesa di S. Martino venne
abbandonata, e già dagli Atti di Santa Visita
del card. Gesualdo nel 1599 risulta essere in
rovina:
“Tectum demolitum et parietes remanentes sunt in
parte versus orientem aperti, et reliqui
minantur ruinam.
Etiam altare dirutum est”
.
Cronologia dei Viceré Spagnoli di
Napoli
(Nel Cinquecento)
|
La tomba di Ferdinando e Isabella,
Cappella reale, Granada |
Sotto il Regno di Ferdinando II
d’Aragona “il cattolico” e di Isabella di
Castiglia (1479-1516):
1503-1507 Gonzalo Fernandez de
Cordoba, “il gran capitano”
1507-1509 Juan de Aragòn, conte
de Ribagorza
1509-1522 Raimondo de Cardona
1510 - Mobilitazione della
città di Napoli contro il tentativo del viceré
di introdurre l’Inquisizione spagnola e primo
bando di espulsione (parziale) degli Ebrei.
Sotto il Regno di Carlo V,
imperatore (1516-1556):
1522-1527 Charles de Lannoy
1523-1525 Andrea Carafa, conte
di Santa Severina
1525-1527 Giovanni Carafa,
conte di Policastro
(i due Carafa furono
governatori luogo-tenenti del Lannoy)
1527-1528 Ugo de Moncada
1528-1529 Filiberto de Chalons,
principe di Orange
1529-1532 Cardinale Pompeo
Colonna
1532-1553 Pedro Alvarez de
Toledo, marchese di Villafranca
1541 - Bando di espulsione
(totale) degli Ebrei.
1547 (maggio-luglio) -
Rivolta armata della città di Napoli contro il
nuovo tentativo del viceré di introdurre
l’Inquisizione spagnola.
1553 (gennaio-maggio) Luigi de
Toledo, figlio del precedente
1553-1556 Cardinale Pedro
Pacheco de Villena
1555-1556 Bernardino de Mendoza
(governatore-luogotenente del card. Pacheco)
|
Carlo V d'Asburgo, statua di Palazzo Reale Napoli |
Sotto il Regno di Filippo II
(1556-1598):
1556-1558 Fernando Alvarez de
Toledo, primo duca d’Alba
1558 (giugno-settembre) Juan
Manrique de Lara
1558-1559 Cardinale Bartolomé
de la Cueva y Toledo
1559-1571 Pedro Afàn de Ribera,
duca di Alcalà
1571-1575 Cardinale Antoine
Perrenot de Granvelle
1575-1579 Inigo Lopez Hurtado de Mendoza,
marchese di Montejar
1579-1582 Juan de Zuniga,
principe di Pietrapersia
1582-1586 Pedro Tèllez Giròn,
primo duca di Osuna
1586-1595 Juan de Zuniga, conte
di Miranda
1595-1599 Enrico de Guzmàn,
conte di Olivares
Cronologia degli Arcivescovi di
Napoli Nel ‘500
(a partire dal 1415)
1415 Fine del “grande scisma”
d’Occidente
1415-1435 Nicola II de Diano
1438-1451 Gaspare de Diano
1451-1457 Card. Rinaldo
Piscicelli
1457-1458 Giacomo Teobaldeschi
1458-1484 Card. Oliviero I Carafa
(1430-1511);
creato cardinale dal papa Paolo II nel 1467,
su richiesta del Re di Napoli Ferrante I
d’Aragona; nel 1480 vengono ritrovate
nell’abbazia di Montevergine le ossa di S.
Gennaro, ivi portate dal Re Guglielmo I d’Altavilla
nel 1154 ed inizia una lunga disputa con i
monaci per ottenere il ritorno a Napoli delle
reliquie.
1484-1503 Alessandro Carafa;
fratello del precedente, il 13 gennaio 1497
riporta trionfalmente a Napoli le ossa di S.
Gennaro: esse vengono riposte nella cappella
realizzata sotto l’altare maggiore della
cattedrale (il cosiddetto “Succorpo”), su
commissione della famiglia Carafa; nella
cappella si vede anche la statua a grandezza
naturale del Card. Oliviero I Carafa.
1503-1505 Card. Oliviero I
Carafa (in qualità di amministratore
apostolico)
1505-1530 Card. Gian Vincenzo
Carafa (1477-1541); creato cardinale dal papa
Clemente VII nel 1527).
1530-1544 Francesco Carafa,
nipote del precedente.
1544-1549 Card. Ranuccio
Farnese (1530-1565); creato cardinale dal
papa Paolo III nel 1545, all’età di 15 anni).
1549-1555 Card. Gian Pietro
Carafa (1476-1559); arcivescovo di Chieti;
nel 1524, insieme a S. Gaetano da Thiene, fonda
l’Ordine dei Teatini; creato cardinale dal papa
Paolo III nel 1536; eletto papa nel 1555 con
il nome di Paolo IV).
1557-1565 Card. Alfonso Carafa
(1540-1565); pro-nipote del precedente e da
lui creato cardinale nel 1557 all’età di 17
anni; fu detenuto in Castel S. Angelo dal 7
giugno 1560 al 2 aprile 1561, per accuse poi
rivelatesi infondate; rientrato a Napoli, il 4
febbraio 1565 aprì il Sinodo diocesano per
attuare il Concilio di Trento e morì il 29
agosto dello stesso 1565, all’età di 25 anni).
1565-1576 Mario Carafa
(fondò il Seminario di Napoli nel 1568).
1576-1578 Card. Paolo Burali d’Arezzo
(nato a Itri, Gaeta, nel 1511 e morto a Napoli
nel 1578; Teatino dal 1557; cardinale dal 1570,
per volontà di S. Pio V; proclamato Beato nel
1772, dal papa Clemente XIV)
1578-1595 Annibale di Capua
1596-1603 Card. Alfonso
Gesualdo
Cronologia dei Parroci della “Ave
Gratia Plena” di Barra
(a partire dal Cinquecento)
Ultimi cappellani della chiesa estaurìta di S.
Atanasio:
D. Gian Battista Riccio (aprile
1565-maggio 1594)
D. Gian Domenico Montella
(dicembre 1597-aprile 1598)
D. Scipione Siniscalco (ottobre
1598-dicembre 1613)
Parroci della parrocchia “Ave Gratia Plena”:
1.
Giovanni Antonio Serubo (febbraio 1614-gennaio
1627)
2.
Francesco Antonio del Pozzo (settembre
1627-aprile 1654)
3.
Vincenzo Imperato (maggio 1654-giugno 1656)
4.
Carlo Riccardo (novembre 1656-aprile 1684)
5.
Giuseppe Barbieri (giugno 1684-giugno 1687)
6.
Giuseppe Carlino (agosto 1687-gennaio 1709)
7.
Giovanni De Annunziata (luglio 1709-febbraio
1710)
8.
Donato Fragnolo (agosto 1710-marzo 1731)
9.
Nicola Montella (novembre 1731-settembre 1743)
10.
Salvatore Roselli (settembre 1743-giugno 1761)
11.
Michele Raiola (luglio 1761-settembre 1799)
12.
Cosimo Barbato (marzo 1801-dicembre 1803)
13.
Gaetano Ascione (gennaio 1806-aprile 1825)
14.
Alessandro Russo (giugno 1825-maggio 1837)
15.
Giuseppe Minichino (dicembre 1838-gennaio 1848)
16.
Giuseppe Sannino (agosto 1848-luglio 1861)
17.
Diego Mignano (luglio 1861-giugno 1882)
18.
Luigi De Micco (gennaio 1883-febbraio 1890)
19.
Luigi Perna (luglio 1890-maggio 1896)
20.
Raffaele Guida (agosto 1896-giugno 1900)
21.
Saverio Sannino (ottobre 1900-marzo 1927)
22.
Salvatore Matarese (maggio 1927-settembre 1929)
23.
Adolfo Russo (novembre 1929-novembre 1967)
24.
Vincenzo Petrone (febbraio 1968-dicembre 1988)
25.
Ciro Miniero (gennaio 1989-giugno 2011); da
settembre 2011,
Vescovo di Vallo della Lucania.
26.
Maurizio D’Alessio (settembre 2011- )
Gian Antonio Summonte- “Historia della
città e Regno di Napoli”, 1602.
Atti di Santa Visita del card. Alfonso
Gesualdo, 1599, citati da N. Del
Pezzo-”I casali di Napoli”, in “Napoli
nobilissima” 1892.
Il bel monumento funebre di Bernardino
Rota si può vedere in una della cappelle
laterali della chiesa di S. Domenico
Maggiore in Napoli.
Bernardo Tasso – “Rime”, sonetto CC XX
IV.
G. Doria – “Storia di una capitale”, Ed.
Ricciardi, Napoli, 1975.
G. C. Capaccio – “Descrizione di Napoli”
in ASN, III (riportato da Benedetto
Croce, op. cit.).
Giulio Cesare Cortese- “Micco Passaro”,
Canto V, 23. Il Cortese è il maggior
poeta napoletano del Seicento. Fu
protetto dal colto viceré Pedro
Fernandez de Castro, secondo conte di
Lemos (1610-1616), che lo costituì
governatore di parecchie città
demaniali. Si innamorò di una nobile
dama del Granducato di Toscana, ma venne
da lei disprezzato e deriso,
riportandone una cocente delusione. Le
sue opere, tutte di stile eroi-comico
scherzoso e popolaresco, sono la
“Vajasseide” (1615), dal napoletano
“vajassa” (=donna plebea e volgare);
“Micco Passaro” (1621); “Il viaggio di
Parnaso” (1621); “Il Cerriglio
incantato” (1628). E’ attribuita a lui
anche “La Tiorba a taccone” (dal nome di
uno strumento musicale a corda del
Seicento): una raccolta di poesie,
pubblicata con lo pseudonimo di Filippo
Sgruttendio, nelle quali canta, in modo
burlesco, il suo amore per una gran dama
di nome ... Cecca.
Vedi i paragrafi “La politica fiscale:
suoi effetti” e “La politica fiscale:
sue cause”, in “Il periodo angioino
(1266-1442)”.
I. Fuidoro-”Giornali di Napoli dal 1660
al 1680” a cura di V. Omodeo, Napoli
1939.
Nella toponomastica napoletana, in
memoria di quell’assedio, rimangono
tuttora la Cupa Lautrec (lungo il
cimitero di S. Maria del Pianto, a
Poggioreale) e la Via Ponte dei
Francesi.
Gennaro Aspreno Galante - “Guida sacra
della città di Napoli”- Napoli, 1872.
F. Alvino- “Viaggio da Napoli a
Castellammare”- Napoli, 1845.
(23) Giulio Cesare Cortese, op.
cit.
(24) Vedi il paragrafo “L’uso
nobile del territorio-La villa del
Poggio reale”, in “Il periodo aragonese
(1443-1501)”.
Giulio Cesare Cortese, op. cit.
Vedi il paragrafo “La villa di Gaspare Roomer” in “La Barra
nel Seicento”.
Vedi il relativo allegato.
Con la “riscoperta” della centralità della Bibbia (Dei
Verbum); della ecclesiologia di
comunione (Lumen gentium);
dell’atteggiamento non pregiudizialmente
polemico, ma di dialogo, della Chiesa
cattolica nei confronti del mondo e
delle altre religioni e confessioni
cristiane (Gaudium et spes); di una
liturgia partecipata e non semplicemente
“fruita” dai fedeli (Sacrosanctum
Concilium).
Il primo bando di espulsione degli ebrei
vi fu nel 1510. La maggior parte di essi
dovette andarsene e rimasero in città
solo quelle 200 famiglie che poterono
versare un tributo supplementare di 300
ducati l’anno, poi salito nel 1535 a ben
10.000 ducati l’anno. Infine, nel 1541,
don Pedro de Toledo sancì l’espulsione
per tutti gli ebrei, anche i più ricchi,
dalla città e dal regno.
(44) Vedi il paragrafo “La contésa” in
“Il periodo Angioino (1266-1442)”.
Pietro Colletta – “Storia del reame di
Napoli”, 1825.
Vedi il paragrafo “La contésa” nel
capitolo dedicato a “Il periodo Angioino
(1266-1442)”. Può essere interessante
notare che, nel 1565 (dunque, 22 anni
dopo), ritroviamo lo stesso Ambrogio de
Riccardo, che era cappellano in Barra
nel 1543, come “parrocchiano della Villa
de Pontecello intitolato S. Maria della
Neve”. E’ lui, infatti, che inaugura
il primo libro dei battezzati
esistente in quella parrocchia, il quale
inizia con queste parole: “Laus Deo et
gloriosae beatae Mariae semper virgini.
A dì p.° Novembre 1565. Io, Don Ambrosio
de Licardo, Parrocchiano della Villa de
Pontecello intitolato S. Maria della
Neve, con la presente faccio fede haver
baptizatj li suscritti, secondo
comandato da sacrosanta Romana Madre
ecclesia...”
Vedi: Archivio di Stato di Napoli,
Monasteri soppressi, fasc. 5301-5302;
5306; 5322-5723.
A. Venditti - R. Pane - G. Alisio - P.
Di Monda - L. Santoro - “Ville vesuviane
del Settecento” - ESI - Napoli, 1959.
A tutt’oggi, in una cappella laterale della chiesa dei
Domenicani in Barra, si custodisce il
bel quadro della Madonna della Sanità.