La
testimonianza del Cozzolino
1. Un illustre cittadino barrese, l’ing.
Pasquale Cozzolino, che scrisse nel
1889 la prima storia di Barra
, afferma, con la
credibilità del testimone oculare, che: “Nel
fondo dei signori Mastellone, inverso il
1840, dietro degli escavi
coraggiosamente intrapresi, si
rintracciarono un bagno di creta colorato in
marmo, delle tubazioni di piombo e dei
mosaici di marmo bianco e nero, come ancora
delle lucerne ed ànfore; tutte cose che
accennavano ad un’epoca assai remota”.
2. “Nel 1855, nello allargare
l’attuale Via Mastellone, usciron fuora, a
manca e a dritta di quei ciglioni, dei
sepolcreti bene allineati, a tre tegole,
della seconda forma greca imbarbarita; i
quali costituir dovevano un cimitero”.
3. Ed inoltre: “In una non ristretta zona Sotto
le torri, nel 1865, profondandosi
per la costruzione del blocco di fogna
stradale, si trovarono larghe vestigia di
ossa umane, le quali sembravano di aver
appartenuto a dei veri giganti, con monete
d’allato e quelle lampade che,
secondo una falsa opinione, bruciar
dovessero eternamente!
Egli è certo che anche qui battette il cuore
di genti assai da noi lontane, soffermatesi
in grandi accòlite, imperciocché le ossa,
ritrovate in quel punto di Sotto le torri,
ricordavano, anche per la quantità,
addirittura un cimitero ed un cimitero
Romano”.
4. E, più avanti, ripete: “Nel 1865,
sotto l’egregio Sindacato Paracuollo,
allorchè si fece il corso sotto stradale
dell’attuale Via Sirena… nei sterri Sotto
le torri, ossia fra l’edificio delle
suore della Carità e quello De Cristofaro,
si rinvenne una grande quantità di scheletri
umani, ma con monete di lato e la così detta
lampada eterna, il che accennerebbe
ad epoca pagana, ed in cui usàvasi
seppellire lungo le vie fuori degli
abitati”.
5. E’ dunque certo che il territorio
attualmente di Barra era stabilmente abitato
già dal tempo della Nea-polis fondata
dai Greci ed entrata poi a far parte dei
domìni di Roma.
6. D’altra parte, il primo sòrgere di
insediamenti umani, storicamente
documentabili, nella nostra zona, non è
separabile dalla storia complessiva della
città di Napoli, poiché “il passato degli
astri maggiori forma pure la cronologia dei
loro satelliti”, secondo l’assioma riportato
dallo stesso Cozzolino.
7. Sembra perciò opportuno, anche per comodo
del lettore, descrivere in rapidissima
sintesi il quadro storico in cui esso
avvenne.
Cuma
8. Nel 776
a.C. ebbero luogo, in Grecia, i primi giochi
olimpici e, intorno al 770 a.C., iniziò la
grande colonizzazione greca in occidente.
9. Preceduta
dall’insediamento di alcuni scali
commerciali a Pitecùsa (Ischia) e Vivàra
(Procida), Cuma fu la prima città ad essere
fondata dai Greci sulla penisola italiana.
10. “Cuma (fondata intorno al 740 a.C.)…
è infatti la più antica di tutte le colonie
di Sicilia e d’Italia.
I capi della spedizione coloniale erano
Ippocle di Cuma (città dell’isola greca
di Eubèa) e Megàstene di Càlcide
(altra città dell’Eubèa): si accordarono
tra loro che la città fosse colonia dei
Calcidesi ma che prendesse il nome dai
Cumani; per questo motivo ora è chiamata
Cuma ma è ritenuta colonia dei Calcidesi.
Dapprima la città era prospera, così pure la
pianura Flegrea (in cui la mitologia ha
ambientato le lotte dei Giganti) chiamata
così non per altro motivo, come sembra, ma
per il fatto che questa terra per la sua
fertilità suscitava contese.
In seguito (nel 421 a.C.), i Campàni
(i Sannìti), divenuti padroni della
città, fecero molte violenze agli uomini di
essa, andando perfino a vivere con le loro
donne.
Tuttavia, sopravvivono ancora molte tracce
dell’ordinamento ellenico sia in materia
religiosa che legislativa.
Alcuni sostengono che Cuma derivi il suo
nome da kùmata (maròsi); il litorale
vicino, infatti, è irto di scogli e esposto
ai venti; vi sono anche posti per un’ottima
pesca di grossi pesci.
In questo golfo vi è anche una boscaglia,
ricca di cespugli, che si estende per molti
stadi, priva di acqua e sabbiosa: viene
chiamata Selva Gallinaria”
.
Partenope -
Le Sirene e il loro mito
11. Gli abitanti di Cuma crearono vari punti
di appoggio lungo la costa del golfo: a
Capri, a Pozzuoli, etc.
In particolare, intorno al 680 a.C.,
sull’altura di Pizzofalcone e sul
prospiciente isolotto di Megàride, fondarono
un piccolo centro abitato che, dal nome
pre-esistente della mitologica Sirena, fu
chiamato Partenope.
Strabone (nato ad Amasia, nel Ponto, attuale
Turchia, nel 63 a.C. circa; morto in data
non precisabile, ma certamente successiva al
21 d.C.) fu grande storico e geografo greco.
Viaggiò in modo instancabile e fu anche più
volte a Roma. In un’opera andata purtroppo
perduta, narrò la storia di Roma dal 146
a.C. fino alla fondazione dell’impero. Di
grande interesse è la sua “Geografia” (in 17
libri) nella quale descrive gran parte dei
luoghi e dei popoli allora conosciuti
(dall’Irlanda al Caucaso), presentando così
un vasto quadro relativo agli usi ai
costumi, alle arti, alle attività politiche
e militari del suo tempo.
12. Secondo
la mitologia greca, le Sirene erano degli
esseri per metà donne e per metà uccelli (in
pratica, degli uccelli con testa e busto di
donna); fu solo successivamente, a partire
dal Medioevo, che esse vennero raffigurate
come delle donne con la parte inferiore del
corpo in forma di pesce.
13. Le Sirene erano considerate figlie del
dio-fiume Acheloo.
Quest’ultimo
era la più importante divinità fluviale
dei greci, figlio di Oceano (il grande mare
che circonda la terra) e della dèa Teti (il
cui nome significa la feconda, e che
rappresenta l’acqua e la sua fecondità):
dall’unione fra Oceano e Teti, sarebbero
nati tutti i fiumi che vi sono sulla faccia
della terra e in particolare, come detto, il
dio-fiume Acheloo.
14.
Coerentemente con la sua natura fluviale,
Acheloo poteva assumere varie forme: veniva
raffigurato, per lo più, o come un toro con
volto umano e barba folta, oppure come un
serpente con volto d’uomo ma con grosse
corna.
15. La sua
storia è collegata a quella di Eracle
(Ercole), con il quale venne ad aspro
conflitto poiché entrambi aspiravano a
sposare la bella Deianìra: la lotta fra i
due si risolse a favore di Eracle, che lo
sconfisse strappandogli uno dei corni.
Acheloo si gettò nel fiume Toante, che prese
poi il suo nome (ed è l’attuale fiume
Aspropotamo), mentre dal sangue del suo
corno, recìso da Eracle, nacquero appunto le
Sirene.
16. Secondo
un’altra versione, invece, le Sirene erano
figlie di Acheloo e della Musa Callìope (=bella
voce, la Musa della poesia, la più
nobile e sapiente delle Muse).
17. In ogni
caso, le Sirene facevano parte del corteo di
Persèfone (Prosèrpina), la regina degli
ìnferi, ed avevano il compito, con il loro
canto dolcissimo, di rendere più lieve
l’entrata delle anime nel regno dei morti.
Anche per questo, probabilmente, vivevano
non distanti dal lago d’Averno che era
considerato, appunto, l’ingresso nel regno
dell’oltre-tomba.
18. Le
Sirene appaiono comunque portatrici di un
fascino mortale: con il loro canto
ammaliavano i naviganti, portandoli al
naufragio.
“Un
chiarimento può venire dalla interpretazione
delle strane figure come manifestazioni del
dèmone meridiano, insidioso ai naviganti per
l’assopimento che facilmente li coglieva
nell’ora in cui era più alto e abbacinante
il sole e più eguale il ritmo dei flutti: un
assopimento che si prestava ad essere
paragonato all’effetto di un canto magico,
d’irresistibile fascino.
I naviganti
che, sfuggiti alla minaccia di Scilla e
Cariddi, procedevano verso nord lungo le
coste del Tirreno, incontravano una nuova
insidia nelle procellose Bocche di Capri,
tra l’isola e il promontorio sorrentino;
all’uscita da esse, subito si rivelava
l’ampio arco del golfo, che offriva numerosi
approdi ai marinai affaticati dal percorso
lungo le coste scoscese della penisola
amalfitana.
Il viaggio
diurno era reso più insidioso dalla dolcezza
del clima e dal diffuso splendore del sole;
e, alle soglie del pericoloso passaggio, tre
scogli isolati, gli odierni Galli di fronte
a Positano, facevano aumentare il rischio.
I naviganti
li designavano, infatti, come le rupi delle
Sirene, Seirenoussai, e l’alto
promontorio che incombe sul difficile passo
divenne sede di un culto destinato a placare
e propiziare gli alati dèmoni, nel cui nome
riecheggiava quello della stella Sirio,
nunzia della più calda estate”
.
19. Ad
introdurre questo culto nella zona del
nostro golfo furono probabilmente già i più
antichi navigatori del Mediterraneo: i
Fenici
e i Greci dell’età
precedente l’invasione dei Dori (civiltà
cretése e micenèa, anteriori al 1000 a.C.);
così, quando i Cumani fondarono il loro
insediamento al centro del Golfo intorno al
680 a.C., il luogo era già sede di culto a
Partenope e prese il nome da essa.
20. Secondo
il mito narrato da Omero, Ulisse riuscì ad
ascoltare il canto delle Sirene senza però
subirne le mortali conseguenze, facendosi
legare dai suoi compagni (ai quali aveva
preventivamente ordinato di tapparsi le
orecchie con la cera) all’albero della nave.
21. Le
Sirene, che già un’altra volta, in
precedenza, erano state sconfitte (da Orfeo,
che le aveva superate nel canto, salvando
così gli Argonauti) non riuscirono a
sopportare questo ulteriore smacco inflitto
al loro incantesimo e così si uccisero
gettandosi in mare, dove furono tramutate in
scogli.
22. Secondo
un’altra versione, però, i loro corpi furono
portati dal mare sulle rive: quello della
Sirena Partenope (= voce di fanciulla, di
vergine) nel luogo dove poi sarebbe
sorta Napoli; quello della Sirena Leucosia
(= dèa bianca) a Paestum; e quello
della Sirena Ligea (= chiara voce) a
S. Eufemia.
Partenope e il fiume Sebéto
23. L’antica
cittadina di Partenope, secondo l’uso greco,
fu fondata dai Cumani vicino alla foce di un
fiume: questo fiume, che verosimilmente
scorreva a pie’ della collina di
Pizzofalcone dal lato orientale, secondo le
antiche testimonianze, portava il nome di
Sebéto (Sepeitos).
24. Sempre
in base al costume greco, esso veniva
considerato una divinità, raffigurato in
forma maschile e rappresentato anche sulle
monete, spesso insieme alla stessa Sirena
Partenope.
25. Fra
coloro che hanno studiato
il Sebéto ed il suo
mito, indissolubilmente legato a quello di
Partenope, piace qui menzionare, anzitutto,
“il chiarissimo archeologo ed ispirato
epigrafista” Bernardo Quaranta
(1796-1867) che proprio in Barra, il 21
settembre del 1867, “esalàva l’estremo
anèlito, dopo di avervi, nella Villa Finizio,
lungamente dimorato”.
26. Il
Quaranta, fra le tante opere sue, pubblicò
nel 1853 una “Memoria” intitolata “Scoperta
dell’antichissimo nome del Sebéto,
rappresentato, insieme con Partenope, in due
monete napolitane inèdite”.
27.
Studiando alcune delle monete, risalenti al
V e IV secolo a.C., che costituiscono il più
antico documento pervenutoci in materia,
egli individuò sopra di esse l’antico nome
greco del fiume (Sepeitos),
mostrandone altresì dottamente l’etimologia,
che indicò come proveniente dal verbo greco
sebo che significa andare con
impeto, per cui “Sebéto” significa
”impetuoso”: come difatti doveva essere il
fiume, quale apparve per la prima volta agli
antichi coloni Greci.
Napoli (Nea-polis)
28. Nel 470
a.C., venne fondata, accanto e ad oriente di
Partenope e del Sebéto, una nuova città (Nea-polis)
o, per dir meglio, “una nuova zona urbana,
prossima all’antica e formante con questa
una sola polis”
, di modo che il Sebéto
venne a trovarsi proprio fra l’una e
l’altra.
29. Con la
nascita di questa città nuova, l’antica
Partenope, da allora denominata anche
Palèpoli (=città vecchia), venne
progressivamente abbandonata o comunque
ristretta ad un ruolo marginale.
30. Alla
fondazione di Napoli, secondo quanto afferma
lo stesso Strabòne
, oltre ai Cumani,
parteciparono anche Pitecusani, ovvero i
Greci di Siracusa, che nel frattempo si
erano impadroniti dell’antico scalo cumano
sull’isola di Ischia.
31. In
effetti, proprio in quel periodo, Cuma
andava perdendo la sua antica egemonìa nell’àmbito
delle colonie greche del Tirreno,
rimpiazzata dalla emergente Siracusa.
32. Nella
memorabile battaglia navale del 474 a.C.,
vinta dai Greci contro gli Etruschi, il
ruolo di protagonisti era stato svolto
proprio dai Siracusani e furono costoro, in
piena ascesa commerciale e politica, a
volere, molto probabilmente, l’ampliamento
della vecchia Partenope e la fondazione di
una Nea-polis: sul modello, del resto, di
quanto era già avvenuto proprio a Siracusa,
dove una nuova città era sorta accanto
all’antica, posta sull’isola di Ortìgia.
33. Comunque
sia, in seguito la città entrò nell’orbita
politica ed economica di Atene; dopo di che
furono i Campàni (ovvero i Sannìti) che,
avendo già sottomesso nel 421 a.C. Cuma e
poi Dicearchia (=governo della giustizia,
attuale Pozzuoli), si imposero anche nel
governo di Napoli, senza tuttavia aver
bisogno di conquistarla con la forza, ma
inserendosi abilmente nelle lotte intestine
tra le varie fazioni
.
34. Si creò
dunque in Napoli una forma, molto vitale, di
società mista greco-italica, che ne favorì
un rapido e continuo sviluppo.
I primi insediamenti sul
territorio di Barra
35. E’
proprio in quest’epoca, di “rimescolamento”
fra Greci e Sanniti, che ha inizio,
probabilmente, anche il processo di
popolamento stabile delle campagne
circostanti la città, lo sviluppo
progressivo del cosiddetto ager
neapolitanus, che arriverà poi
fino a raggiungere i 17 Kmq in epoca romana,
includendo tutta la valle del fiume Sebéto.
36. Quindi,
è a questa epoca storica che possiamo far
risalire i primi insediamenti stabili anche
sui territori attualmente di Barra,
Ponticelli, S. Giovanni a Teduccio, etc.
37. In
effetti, “la presenza degli insediamenti
nella campagna napoletana è testimoniata da
molte necropoli”
.
Fra le più
antiche, vi è quella di Ponticelli, portata
alla luce con scavi effettuati nel 1912 e
poi nel 1946 e contenente tombe che
risalgono sicuramente alla metà del IV
secolo a.C.
38. Ma pure
i “sepolcreti bene allineati, a tre tegole,
della seconda forma greca imbarbarita”,
rinvenuti in seguito agli scavi effettuati a
Barra nel 1840 e nel 1855 nella zona di Via
Mastellone, e dei quali ci dà testimonianza
il Cozzolino, risalgono con ogni probabilità
a questo stesso periodo, anche se purtroppo
non hanno potuto essere ulteriormente
studiati.
Il dominio di Roma
39. Nel 326
a.C. la città entrò a far parte dei domìni
di Roma, con il cosiddetto foedus
neapolitanum, ovvero il trattato di
alleanza fra essa e i Romani, che ne sanciva
in realtà la docile, e non eccessivamente
dolorosa, sottomissione ai nuovi padroni.
40. Nel
periodo romano, Napoli e il suo circondario
crebbero ulteriormente, per densità di
popolazione e complessità di articolazione
della vita civile, raggiungendo un periodo
di notevole splendore proprio nel secolo
precedente e in quello seguente la nascita
di Cristo.
41. Di
questa epoca, che fu segnata ma non spezzata
dalla terribile eruzione del Vesuvio nel 79
d.C., restano ampie ed abbastanza
dettagliate descrizioni, come quella di
Strabone:
“Dopo Dicearchia
, viene Neapolis,
città dei Cumani.
In seguito, vi si stabilirono anche
Calcidesi, alcuni Pitecusani e Ateniesi e fu
per questo motivo chiamata Neapolis.
Qui viene mostrato il monumento sepolcrale
di una delle Sirene, Partenope, e secondo un
responso oracolare viene celebrato un àgone
ginnico.
Gli abitanti, divisi in opposte fazioni,
accolsero come concittadini alcuni Campani e
furono costretti a trattare amichevolmente i
nemici, essendo divenuti nemici dei propri
amici; questo fatto è dimostrato dai nomi
dei demàrchi
, che dapprima erano
Greci e poi Campani misti a Greci.
Moltissime tracce del modo di vivere greco
sopravvivono là, come i ginnàsi
, gli efebèi
, le fratrìe
e i nomi greci,
sebbene ora siano sotto il potere di Roma.
Oggi, a Neapolis si svolgono ogni
cinque anni dei giochi sacri con gare di
musica e di atletica che durano parecchi
giorni e che sono degni di competere con i
giochi più famosi della Grecia.
Vi è anche una galleria sotterranea (la
crypta neapolitana), scavata nella
montagna tra Dicearchia e Neapolis,
come quella che porta a Cuma, e vi si apre
una strada percorribile per parecchi stadi
da due carri che vanno nelle direzioni
opposte; inoltre, la luce del giorno filtra
dalla superficie della montagna molto in
profondità, essendo state scavate delle
aperture in più parti.
Anche Neapolis possiede sorgenti di
acque calde e stabilimenti balneari non da
meno rispetto a quelli di Baia, ma di numero
inferiore.
In quel posto è sorta un’altra città, non
più piccola di Dicearchia, giacché
sono stati costruiti, uno dopo l’altro, dei
palazzi regali.
A Neapolis vivono, secondo lo stile
di vita greco, coloro che da Roma si
ritirano qui per stare tranquilli: quanti
sono dediti alla cultura e altri che
desiderano vivere in pace per vecchiaia o
per malattia.
Alcuni Romani, che apprezzano questo tipo di
vita, vedendo tanta gente che qui soggiorna
secondo lo stesso stile di vita, si trovano
bene in questo luogo e decidono di
rimanervi”.
42. Oppure
la celebre descrizione, successiva
all’eruzione vesuviana nel 79 d.C., di
Papinio Stazio
:
“La nostra Partenope non è né povera di
abitanti suoi propri, né priva di
forestieri…
Partenope a cui, venuta dal mare, Apollo in
persona indicò il dolce suolo con la colomba
di Dione…
Il suo clima è temperato, con tiepidi
inverni e fresche estati; un mare tranquillo
la lambisce con le sue languide onde.
Regna in questa zona una pace serena, l’ozio
di una vita di riposo e la quiete non
subiscono turbamenti e si dormono lunghi
sonni.
Lì non esiste la vita rabbiosa del foro, né
ci si appiglia alle leggi per litigare; i
cittadini fondano i loro diritti soltanto
sui costumi e la giustizia regna senza
bisogno dei fasci.
E che dire ora dei magnifici panorami e
delle bellezze di questi luoghi, dei templi
e delle piazze adorne di innumerevoli
colonne e della duplice costruzione dei
nostri teatri, quello all’aperto e quello
chiuso, e dei Giochi quinquennali che
gareggiano con quelli Capitolini?
A che lodare la bellezza della costa, la
libertà di vita cara a Menandro, in cui si
disposano la dignità romana e la
permissività greca?
Tutto intorno, abbondano i divertimenti che
rendono varia la vita, sia che ti piaccia
visitare Baia, incantevole spiaggia dalle
fumide sorgenti, sia che ti piaccia visitare
l’ispirata dimora della profetica Sibilla
(Cuma), sia la vetta memorabile per il
remo ilìaco (Capo Miseno), sia i
vigneti stillanti di vino del Gauro sacro a
Bacco, sia la residenza dei Telèboi
(l’isola di Capri), il cui faro, rivale
dell’errante luna, emette dall’alto le sue
luci care ai naviganti in trepidazione, e le
cime Sorrentine che danno un vino aspro... o
le acque salutari di Ischia e Stabia risorta
a nuova vita”.
43. In effetti, è ben noto che, in tutta
l’area costiera del golfo di Napoli, a
partire dall’età tardo-repubblicana e per
tutto il periodo imperiale, si ebbero
grandiosi insediamenti “in villa” di patrizi
romani.
44. Da un capo all’altro del golfo, sorsero
numerose dimore, fra le più lussuose e
celebri del mondo di allora, destinate al
godimento dei maggiori esponenti della
classe dominante, economica e politica, del
tempo: qui abitarono Mario, Silla, Crasso,
Pompeo, Cesare, Bruto, Ortensio, Cicerone, e
gli stessi imperatori romani.
45. Vàlgano, per tutte, gli esempi della
celebre villa di Lucullo, sorta proprio sul
luogo dell’antico insediamento di Partenope
e quella di Publio Vedio Pollione denominata
“Pausilypon” (Posillipo=luogo che
fa cessare gli affanni).
46. Tali
ville erano però anche delle vere e proprie
aziende agricole, con vastissimi territori
coltivati da una numerosa manodopera di
schiavi, per soddisfare le esigenze di
consumo dei ricchi padroni.
47. In
questo contesto, si può ben comprendere che
siano stati coinvolti anche i territori
attualmente di Barra, Ponticelli, etc. con
gruppi sempre più numerosi di contadini, in
condizione servile o di vera e propria
schiavitù.
48. In particolare, i reperti archeologici
di questo periodo, venuti alla luce a
Ponticelli fra il 1985 e il 1987, nel
contesto dei lavori di ricostruzione
successivi al terremoto del 1980, hanno
consentito di identificare una villa
patrizia del I secolo d.C. (probabilmente
distrutta dall’eruzione del 79 d.C., ma in
seguito rifiorita) e una necropoli con
numerose tombe del III-IV secolo d.C.
49. Ma anche il “cimitero Romano” del quale
parla il Cozzolino, venuto alla luce a Barra
nel 1865 “fra l’edificio delle suore della
Carità e quello De Cristofaro” (in pratica,
all’incrocio fra l’attuale Via Gian Battista
Vela ed il Corso Sirena) appartiene
evidentemente al medesimo contesto.
La rivolta di Spàrtaco (73-71
a.C.)
50.
L’addensamento nella nostra zona di gruppi
consistenti di schiavi, per le esigenze del
lusso dei padroni, rende ragione del rapido
accorrere di grandi masse di diseredati
sotto la bandiera di Spàrtaco, quando questi
levò il grido della più famosa ed eroica
rivolta contro la schiavitù del mondo
antico.
51. Nel 73
a.C. il gladiatore Spartacus,
originario della Tracia, che si trovava
rinchiuso a Capua nella scuola gladiatoria
di Lentulo Baziato, organizzò con i suoi
compagni una congiura per scampare alla
schiavitù. La guerra teneva lontani d’Italia
i grandi capitani e le legioni della
Repubblica romana: il momento era dunque
favorevole.
52.
Nonostante fosse stato tradìto da uno dei
congiurati, Spartaco riuscì ugualmente ad
uscire da Capua alla testa di circa 70
compagni (tra i quali erano i gladiatori
Crisso ed Enomao, ed anche sua
moglie) “risoluti di perire o di essere
liberi”.
53. Armati
dapprima di coltellacci e di spiedi, poi di
armi gladiatorie sottratte a carri
incontrati per strada, poi di molte armi da
guerra tolte alle truppe romane che li
inseguivano da Capua, arrivarono fino al
Vesuvio, dove furono raggiunti dalle milizie
inviate da Roma: circa 3000 uomini, al
comando del pretore Claudio Glabro.
54. I Romani
assunsero il controllo dell’unica via di
accesso alla montagna, ma gli assediati
tagliarono i tralci utilizzabili delle viti
selvatiche, che crescevano rigogliosamente
intorno alla cima del monte, li
intrecciarono e costruirono delle scale
tanto robuste ed estese che, assicurate alla
cima e fatte penzolare lungo la roccia,
consentirono loro di scendere da un’altra
parte e di prendere alle spalle le truppe
romane: 3000 soldati furono così sgominati e
messi in fuga da una forza di appena 74
gladiatori.
55. La
notizia di questa clamorosa vittoria si
diffuse rapidamente tra gli oppressi, ed
accorsero a combattere con Spartaco,
fuggendo dai loro padroni, prima 10 mila,
poi fin 70 mila uomini, che impegnarono le
truppe romane in un conflitto che durò circa
due anni: in particolare, da una
osservazione casuale fatta da Giulio Cesare
nel “De bello gallico” (1, 40, 5), veniamo a
sapere che il nucleo delle forze armate di
Spartaco era costituito da prigionieri di
guerra Cimbri.
56. Nella
battaglia decisiva contro Crasso, che fu una
delle più feroci e sanguinose che ricordi la
storia, Spartaco, al momento di dare il
segnale di attacco, uccise il proprio
cavallo con un colpo di spada, dicendo: “Se
vincitore, ne troverò altri fra i Romani; se
vinto, non voglio fuggire”.
57.
Circondato dai nemici abbattuti, quando
cadde ferito in una coscia, si difese ancora
in ginocchio, finché rimase sepolto fra i
morti e i moribondi. Secondo un’altra
versione, invece, egli si uccise quando vide
irreparabilmente perduta la battaglia.
58. Del suo
esercito, comunque, ben pochi scamparono:
50mila morirono in battaglia o trucidati
subito dopo; circa 6 mila, fatti
prigionieri, furono poi crocifissi in lunga
fila, ai lati della strada da Capua a Roma…
Virgilio a
Napoli: la storia e il mito
59. Illo
Vergilium me tempore dulcis alebat
Parthenope studiis florentem ignobilis oti…
Allora vivevo, io Virgilio, in seno alla
dolce
Partenope, lieto e appartato fra cure
tranquille...
60. E’ ben
noto che Publio VIRGILIO Marone, il
più celebre poeta di lingua latina, nato nel
villaggio di Andes, non lontano da Mantova,
il 15 ottobre del 70 a.C., visse lungamente
a Napoli e qui compose buona parte delle sue
opere
61. Morto a
Brindisi il 21 settembre del 19 a.C., le sue
spoglie furono riportate a Napoli “e riposte
sulla via di Pozzuoli a circa due miglia”,
in un sepolcro su cui fu inciso il celebre
dìstico da lui stesso dettato:
Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet
nunc
Parthenope; cecini pascua, rura, duces.
che riassume
i luoghi della sua vita (Mantova, l’Italia
meridionale, Napoli) e i temi e i personaggi
delle sue opere (i pastori, i contadini, i
condottieri: Bucoliche, Georgiche, Eneide).
62. Le più
importanti biografie che abbiamo di lui sono
quella di Servio e quella di Elio Donato.
Quest’ultimo, in particolare, un dotto del
IV secolo d.C., rielabora ed amplia quella
di Svetonio (II secolo d.C.) la quale si
fondava su notizie provenienti da ambienti
abbastanza vicini al grande poeta.
63. Da
queste biografie apprendiamo dunque che, a
Napoli, Virgilio venne fin dagli anni della
sua formazione, vivendo “per vari anni in
nobile ozio, seguace della setta epicurea,
in singolare concordia e familiarità con
Quintilio Cremonese, Plozio Tucca e Lucio
Vario” e vi ritornò poi sempre nel corso
della sua vita.
64. “Di
corporatura e di altezza fu grande, di
colorito bruno, di lineamenti rudi, di
salute malferma: soffriva per lo più di
stomaco e di gola e di dolori al capo, sputò
spesso anche sangue.
Fu nel
mangiare e nel bere assai parco, incline
all’amor dei fanciulli, dei quali
dilesse in modo singolare Cebete e
Alessandro, che egli stesso chiama
Alessi nella seconda egloga delle
Bucoliche, donato a lui da Asinio Pollione:
entrambi non rozzi e Cebete perfino poeta.
65. Corse
voce che egli avesse anche usato con Plozia
Hieria, ma Asconio Pediano attesta che lei
stessa, ormai avanti negli anni, soleva
raccontare che Virgilio era stato da Vario
medesimo invitato a far uso in comune di
lei, ma il poeta rifiutò fermissimamente.
66. Quanto
al resto della vita, e nel parlare e nel
sentire fu così onesto che a Napoli lo
chiamavano il verginello; e quando
a Roma, dove rarissimamente veniva, era
veduto per via, per sottrarsi alla gente che
lo seguiva e lo indicava, si nascondeva in
qualcuna delle case vicine.
67.
Possedette quasi dieci milioni di sesterzi,
che gli aveva elargito la liberalità di
amici; ebbe in Roma una casa sull’Esquilino
presso gli orti di Mecenate, ma se ne stava
quasi sempre lontano e solo, in Campania e
in Sicilia. Coltivò, fra gli altri studi, la
scienza della natura e specialmente
l’astronomia”.
68. Sopra
questi dati biografici, il Medioevo ricamò
in seguito la leggenda di Virgilio,
che sarebbe stato un vero e proprio mago,
con poteri sovra-naturali, e autore di opere
meravigliose soprattutto a Napoli, narrate
diffusamente nella “Cronaca di Parthenope”.
69. “La
Cronaca aggiunge che Virgilio Mago
fu amato, rispettato, idolatrato quasi come
un dio, poiché giammai rivolse la sua magia
a scopo malvagio, sibbene sempre a vantaggio
della città e dell’uomo”
.
70. E cita
molti esempi:
“In allora
Parthenope era molestata da una grande
quantità di mosche, mosche che si
moltiplicavano in così grande numero e
davano tanto fastidio, da farne fuggire i
tranquilli e felici abitatori.
Virgilio,
per rimediare a così grave sconcio, fece
fare una mosca d’oro, qualmente egli
prescrisse; e, dopo fatta, le insufflò, con
parole, la vita: la quale mosca d’oro se ne
andava volando di qua e di là, ed ogni mosca
vera che incontrava, faceva morire. Così, in
poco tempo, furono distrutte tutte le mosche
che affliggevano la bella città di
Parthenope.
71. Altro
miracolo fu questo: le molte paludi che
allora si trovavano nella città, erano
dannose, e perché i miasmi che esalavano
guastavano l’aria producendo febbri,
pestilenze ed altre morìe, e perché erano
infestate da pericolosissime sanguisughe:
Virgilio asciugò le paludi, dove sorsero
case e giardini e l’aria vi divenne la più
pura che mai respirar si potesse.
72. Laggiù,
nel quartiere che noi moderni chiamiamo
Pendino, annidava un formidabile serpente,
che era lo spavento di ogni uomo, avendo già
morsicato e strozzato bambini e fanciulle, e
quando si mettevano in molti per
combatterlo, esso scompariva rapidamente
nelle viscere della terra, per poi
ricomparire più terribile che mai.
Chiamato
Virgilio in soccorso, egli si avviò tutto
solo, ricusando ogni compagnìa, al luogo
dove il serpente si annidava e con le sue
formule magiche l’ebbe subito domato e
morto. Anzi è da notarsi che, sebbene la
città fosse tutta eretta sopra un’altra
città, nera e malsana, fatta di caverne,
sotterranei e cloache, dove potrebbero
allignare simili rettili, da quel tempo
sinora mai più ve ne furono.
73. Quando
un morbo fierissimo invase la razza dei
cavalli, Virgilio fece fondere un grande
cavallo di bronzo, gli trasfuse il suo
magico potere e ogni cavallo condotto a fare
tre giri, intorno a quello di bronzo, era
immancabilmente guarito, non senza molta
collera di maniscalchi ed empirici, che si
vedevano superati e sbugiardati.
74. Certi
pescatori della spiaggia napoletana, e
propriamente quelli che dimoravano sulla
strada chiamata in seguito Porta di Massa,
andarono a Virgilio, lagnandosi della scarsa
pesca che vi facevano e chiedendo a lui un
miracolo. Virgilio li volle accontentare e,
in una grossa pietra, fece scolpire un
piccolo pesce, disse le sue incantagioni e,
piantata la pietra in quel punto, il mare
fruttificò mai sempre di pesci
innumerevoli.
75. Virgilio
fece mettere sulle porte di Parthenope,
verso le vie della Campania, due teste
augurali ed incantate, una che rideva e
l’altra che piangeva: onde colui che
capitava a passare sotto la porta dove la
testa rideva, ne traeva buon augurio per i
suoi affari che sempre riuscivano a bene ed
il contrario, colui che passava sotto la
testa piangente”
.
76. Fu
Virgilio che in poche notti (o addirittura
in una notte sola) fece eseguire da esseri
sovrannaturali la grotta di Pozzuoli, per
facilitare il viaggio agli abitanti di quei
villaggi che venivano in città…
In effetti,
la grotta (che è in realtà un esempio di
alta ingegneria Romana, realizzata grazie al
sacrificio di moltitudini di schiavi, tra il
III e il II secolo a.C.) è scavata lungo un
perfetto asse geometrico, con il varco
d’entrata a Piedigrotta rivolto in direzione
dell’alba (la nascita) e l’uscita nei Campi
Flegrei che volge al tramonto (la morte);
così che, almeno in un giorno dell’anno, il
sole, tramontando proprio in linea con
l’uscita della grotta, la penetra con un
raggio, illuminandola completamente.
77. “Fu
Virgilio che, per la sua virtù magica, fece
sorgere un orto di erbe salutari per le
ferite ed ottime come condimento alle
vivande…
78. Fu
Virgilio che insegnò ai giovani i giuochi
delle melarance e delle piastrelle, che
s’ignoravano…
79. Fu
Virgilio che di notte incantò le acque
sorgive della spiaggia Platamonia e della
spiaggia di Pozzuoli, dando loro singolare
potenza per guarire ogni specie di malattia…
80. Fu
Virgilio che, volendo salvare la compagna
del suo discepolo Albino, svelò il mistero
dell’Antro Cumano, dove i sacerdoti
ingannavano il popolo coi responsi falsi,
prodotti da una naturale combinazione di
suoni…
81. Molti
credettero alla sua immortalità; qualcuno
alla sua morte, su quel colle presso
Avellino che chiamasi Montevergine, dove
s’era ridotto a studiare ed era divenuto
vecchissimo…”
.
82. In
sostanza, si può dire che, per i napoletani
del Medioevo, Virgilio costituì una sorta di
Nume tutelare laico della città, un po’ come
S. Agrippino e S. Gennaro ne erano invece i
grandi Santi protettori.
La Sirena e Virgilio come
coppia simbolica
83. La
Sirena Partenope e Virgilio costituiscono
così la più efficace coppia simbolica,
tramandataci dalle lontane origini pagane
(greche e romane) della nostra città:
Partenope rappresenta la bellezza
primigènia, la natura incontaminata
(verginale) dei luoghi dove la città sorge;
Virgilio, invece, l’importanza dell’opera
civilizzatrice dell’uomo, quando si applica
a vincere le negatività che pure in quella
natura sono presenti (le paludi, gli
insetti, le malattie…) ed a trarne invece il
nutrimento necessario (gli orti, la pesca…)
ed il gioco innocente. Insieme,
rappresentano l’ideale, antico ma perenne,
di una società umana che sappia unire, in
compiuta armonia, la natura e la cultura, la
bellezza e la tecnica, il sentimento e
l’intelligenza, la pace operosa con tutte le
creature e quella fra tutti gli uomini.
Publio Papinio Stazio, poeta latino,
nato a Napoli nel 40 d.C. circa e
ivi morto nel 96 d.C. circa.
Figlio di un letterato anch’egli di
nome Papinio, fu autore di due poemi
epici: la Tebàide (in 12
libri), che tratta della guerra dei
Sette contro Tebe, e l’
Achillèide (rimasta incompiuta)
ispirata alla leggenda di Achille in
Sciro. Compose altresì le Selve
(in 5 libri), una raccolta di poesie
d’occasione, d’argomento vario. In
tutte le sue opere, si nota
l’influenza di Virgilio, del quale
fu grande ammiratore e discepolo.
Dante ne parla nei Canti XXI e XXII
del Purgatorio, dove immagina che
Stazio si sia convertito al
cristianesimo e riporta altresì
l’errata opinione che egli fosse
nato in Gallia e non a Napoli.