Le mille città del Sud

 


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Campania

 

Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

1. Il Periodo Greco e Romano (470 a.C.– 476 d.C.)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

La testimonianza del Cozzolino

1. Un illustre cittadino barrese, l’ing.  Pasquale Cozzolino,  che scrisse nel 1889 la prima storia di Barra [1], afferma, con la credibilità del testimone oculare, che: “Nel fondo dei signori Mastellone, inverso il 1840, dietro degli escavi coraggiosamente intrapresi, si rintracciarono un bagno di creta colorato in marmo, delle tubazioni di piombo e dei mosaici di marmo bianco e nero, come ancora delle lucerne ed ànfore; tutte cose che accennavano ad un’epoca assai remota”.

2. “Nel 1855, nello allargare l’attuale Via Mastellone, usciron fuora, a manca e a dritta di quei ciglioni, dei sepolcreti bene allineati, a tre tegole, della seconda forma greca imbarbarita; i quali costituir dovevano un cimitero”.

3. Ed inoltre: “In una non ristretta zona Sotto le torri, nel 1865, profondandosi per la costruzione del blocco di fogna stradale, si trovarono larghe vestigia di ossa umane, le quali sembravano di aver appartenuto a dei veri giganti, con monete d’allato e quelle lampade che, secondo una falsa opinione, bruciar dovessero eternamente!

Egli è certo che anche qui battette il cuore di genti assai da noi lontane, soffermatesi in grandi accòlite, imperciocché le ossa, ritrovate in quel punto di Sotto le torri, ricordavano, anche per la quantità, addirittura un cimitero ed un cimitero Romano”.

4. E, più avanti, ripete: “Nel 1865, sotto l’egregio Sindacato Paracuollo, allorchè si fece il corso sotto stradale dell’attuale Via Sirena… nei sterri Sotto le torri, ossia fra l’edificio delle suore della Carità e quello De Cristofaro, si rinvenne una grande quantità di scheletri umani, ma con monete di lato e la così detta lampada eterna, il che accennerebbe ad epoca pagana, ed in cui usàvasi seppellire lungo le vie fuori degli abitati”.

5. E’ dunque certo che il territorio attualmente di Barra era stabilmente abitato già dal tempo della Nea-polis fondata dai Greci ed entrata poi a far parte dei domìni di Roma.

6. D’altra parte, il primo sòrgere di insediamenti umani, storicamente documentabili, nella nostra zona, non è separabile dalla storia complessiva della città di Napoli, poiché “il passato degli astri maggiori forma pure la cronologia dei loro satelliti”, secondo l’assioma riportato dallo stesso Cozzolino.

7. Sembra perciò opportuno, anche per comodo del lettore, descrivere in rapidissima sintesi il quadro storico in cui esso avvenne.

Cuma

8. Nel 776 a.C. ebbero luogo, in Grecia, i primi giochi olimpici e, intorno al 770 a.C., iniziò la grande colonizzazione greca in occidente.

9. Preceduta dall’insediamento di alcuni scali commerciali a Pitecùsa (Ischia) e Vivàra (Procida), Cuma fu la prima città ad essere fondata dai Greci sulla penisola italiana.

10. “Cuma (fondata intorno al 740 a.C.)… è infatti la più antica di tutte le colonie di Sicilia e d’Italia.

I capi della spedizione coloniale erano Ippocle di Cuma (città dell’isola greca di Eubèa) e Megàstene di Càlcide (altra città dell’Eubèa): si accordarono tra loro che la città fosse colonia dei Calcidesi ma che prendesse il nome dai Cumani; per questo motivo ora è chiamata Cuma ma è ritenuta colonia dei Calcidesi.

Dapprima la città era prospera, così pure la pianura Flegrea (in cui la mitologia ha ambientato le lotte dei Giganti) chiamata così non per altro motivo, come sembra, ma per il fatto che questa terra per la sua fertilità suscitava contese.

In seguito (nel 421 a.C.),  i Campàni (i Sannìti), divenuti padroni della città, fecero molte violenze agli uomini di essa, andando perfino a vivere con le loro donne.

Tuttavia, sopravvivono ancora molte tracce dell’ordinamento ellenico sia in materia religiosa che legislativa.

Alcuni sostengono che Cuma derivi il suo nome da kùmata (maròsi); il litorale vicino, infatti, è irto di scogli e esposto ai venti; vi sono anche posti per un’ottima pesca di grossi pesci.

In questo golfo vi è anche una boscaglia, ricca di cespugli, che si estende per molti stadi, priva di acqua e sabbiosa: viene chiamata Selva Gallinaria [2].

Partenope - Le Sirene e il loro mito

11. Gli abitanti di Cuma crearono vari punti di appoggio lungo la costa del golfo: a Capri, a Pozzuoli, etc.

In particolare, intorno al 680 a.C., sull’altura di Pizzofalcone e sul prospiciente isolotto di Megàride, fondarono un piccolo centro abitato che, dal nome pre-esistente della mitologica Sirena, fu chiamato Partenope.

Strabone (nato ad Amasia, nel Ponto, attuale Turchia, nel 63 a.C. circa;  morto in data non precisabile, ma certamente successiva al 21 d.C.) fu grande storico e geografo greco. Viaggiò in modo instancabile e fu anche più volte a Roma. In un’opera andata purtroppo perduta, narrò la storia di Roma dal 146 a.C. fino alla fondazione dell’impero. Di grande interesse è la sua “Geografia” (in 17 libri) nella quale descrive gran parte dei luoghi e dei popoli allora conosciuti (dall’Irlanda al Caucaso), presentando così un vasto quadro relativo agli usi ai costumi, alle arti, alle attività politiche e militari del suo tempo.

12. Secondo la mitologia greca, le Sirene erano degli esseri per metà donne e per metà uccelli (in pratica, degli uccelli con testa e busto di donna); fu solo successivamente, a partire dal Medioevo, che esse vennero raffigurate come delle donne con la parte inferiore del corpo in forma di pesce. 

13. Le Sirene erano considerate figlie del dio-fiume Acheloo.

Quest’ultimo era la più importante divinità  fluviale dei greci, figlio di Oceano (il grande mare che circonda la terra) e della dèa Teti (il cui nome significa la feconda, e che rappresenta l’acqua e la sua fecondità): dall’unione fra Oceano e Teti, sarebbero nati tutti i fiumi che vi sono sulla faccia della terra e in particolare, come detto, il dio-fiume Acheloo.

14. Coerentemente con la sua natura fluviale, Acheloo poteva assumere varie forme: veniva raffigurato, per lo più, o come un toro con volto umano e barba folta, oppure come un serpente con volto d’uomo ma con grosse corna.    

15. La sua storia è collegata a quella di Eracle (Ercole), con il quale venne ad aspro conflitto poiché entrambi aspiravano a sposare la bella Deianìra: la lotta fra i due si risolse a favore di Eracle, che lo sconfisse strappandogli uno dei corni. Acheloo si gettò nel fiume Toante, che prese poi il suo nome (ed è l’attuale fiume Aspropotamo), mentre dal sangue del suo corno, recìso da Eracle, nacquero appunto le Sirene.

16. Secondo un’altra versione, invece, le Sirene erano figlie di Acheloo e della Musa Callìope (=bella voce, la Musa della poesia, la più nobile e sapiente delle Muse).

17. In ogni caso, le Sirene facevano parte del corteo di Persèfone (Prosèrpina), la regina degli ìnferi, ed avevano il compito, con il loro canto dolcissimo, di rendere più lieve l’entrata delle anime nel regno dei morti. Anche per questo, probabilmente, vivevano non distanti dal lago d’Averno che era considerato, appunto, l’ingresso nel regno dell’oltre-tomba.

18. Le Sirene appaiono comunque portatrici di un fascino mortale: con il loro canto ammaliavano i naviganti, portandoli al naufragio.

“Un chiarimento può venire dalla interpretazione delle strane figure come manifestazioni del dèmone meridiano, insidioso ai naviganti per l’assopimento che facilmente li coglieva nell’ora in cui era più alto e abbacinante il sole e più eguale il ritmo dei flutti: un assopimento che si prestava ad essere paragonato all’effetto di un canto magico, d’irresistibile fascino.

I naviganti che, sfuggiti alla minaccia di Scilla e Cariddi, procedevano verso nord lungo le coste del Tirreno, incontravano una nuova insidia nelle procellose Bocche di Capri, tra l’isola e il promontorio sorrentino; all’uscita da esse, subito si rivelava l’ampio arco del golfo, che offriva numerosi approdi ai marinai affaticati dal percorso lungo le coste scoscese della penisola amalfitana.

Il viaggio diurno era reso più insidioso dalla dolcezza del clima e dal diffuso splendore del sole; e, alle soglie del pericoloso passaggio, tre scogli isolati, gli odierni Galli di fronte a Positano, facevano aumentare il rischio.

I naviganti li designavano, infatti, come le rupi delle Sirene, Seirenoussai, e l’alto promontorio che incombe sul difficile passo divenne sede di un culto destinato a placare e propiziare gli alati dèmoni, nel cui nome riecheggiava quello della stella Sirio, nunzia della più calda estate” [3].

19. Ad introdurre questo culto nella zona del nostro golfo furono probabilmente già i più antichi navigatori del Mediterraneo: i Fenici [4] e i Greci dell’età precedente l’invasione dei Dori (civiltà cretése e micenèa, anteriori al 1000 a.C.); così, quando i Cumani fondarono il loro insediamento al centro del Golfo intorno al 680 a.C., il luogo era già sede di culto a Partenope e prese il nome da essa.

20. Secondo il mito narrato da Omero, Ulisse riuscì ad ascoltare il canto delle Sirene senza però subirne le mortali conseguenze, facendosi legare dai suoi compagni (ai quali aveva preventivamente ordinato di tapparsi le orecchie con la cera) all’albero della nave.

21. Le Sirene, che già un’altra volta, in precedenza, erano state sconfitte (da Orfeo, che le aveva superate nel canto, salvando così gli Argonauti) non riuscirono a sopportare questo ulteriore smacco inflitto al loro incantesimo e così si uccisero gettandosi in mare, dove furono tramutate in scogli.

22. Secondo un’altra versione, però, i loro corpi furono portati dal mare sulle  rive: quello della Sirena Partenope (= voce di fanciulla, di vergine) nel luogo dove poi sarebbe sorta Napoli; quello della Sirena Leucosia (= dèa bianca)  a Paestum;  e quello della Sirena Ligea (= chiara voce) a S. Eufemia.

Partenope e il fiume Sebéto

23. L’antica cittadina di Partenope, secondo l’uso greco, fu fondata dai Cumani vicino alla foce di un fiume: questo fiume, che verosimilmente scorreva a pie’ della collina di Pizzofalcone dal lato orientale, secondo le antiche testimonianze, portava il nome di Sebéto (Sepeitos).

24. Sempre in base al costume greco, esso veniva considerato una divinità, raffigurato in forma maschile e rappresentato anche sulle monete, spesso insieme alla stessa Sirena Partenope.

25. Fra coloro che hanno studiato [5] il Sebéto ed il suo mito, indissolubilmente legato a quello di Partenope, piace qui menzionare, anzitutto, “il chiarissimo archeologo ed ispirato epigrafista”  Bernardo Quaranta (1796-1867) che proprio in Barra, il 21 settembre del 1867, “esalàva l’estremo anèlito, dopo di avervi, nella Villa Finizio, lungamente dimorato”.

26. Il Quaranta, fra le tante opere sue, pubblicò nel 1853 una “Memoria” intitolata “Scoperta dell’antichissimo nome del Sebéto, rappresentato, insieme con Partenope, in due monete napolitane inèdite”.

27. Studiando alcune delle monete, risalenti al V e IV secolo a.C., che costituiscono il più antico documento pervenutoci in materia, egli individuò sopra di esse l’antico nome greco del fiume (Sepeitos), mostrandone altresì dottamente l’etimologia, che indicò come proveniente dal verbo greco sebo che significa andare con impeto, per cui “Sebéto” significa ”impetuoso”: come difatti doveva essere il fiume, quale apparve per la prima volta agli antichi coloni Greci.

Napoli (Nea-polis)

28. Nel 470 a.C., venne fondata, accanto e ad oriente di Partenope e del Sebéto, una nuova città (Nea-polis) o, per dir meglio, “una nuova zona urbana, prossima all’antica e formante con questa una sola polis [6], di modo che il Sebéto venne a trovarsi proprio fra l’una e l’altra.

29. Con la nascita di questa città nuova, l’antica Partenope, da allora denominata anche Palèpoli (=città vecchia), venne progressivamente abbandonata o comunque ristretta ad un ruolo marginale.

30. Alla fondazione di Napoli, secondo quanto afferma lo stesso Strabòne [7], oltre ai Cumani, parteciparono anche Pitecusani, ovvero i Greci di Siracusa, che nel frattempo si erano impadroniti dell’antico scalo cumano sull’isola di Ischia.

31. In effetti, proprio in quel periodo, Cuma andava perdendo la sua antica egemonìa nell’àmbito delle colonie greche del Tirreno, rimpiazzata dalla emergente Siracusa.

32. Nella memorabile battaglia navale del 474 a.C., vinta dai Greci contro gli Etruschi, il ruolo di protagonisti era stato svolto proprio dai Siracusani e furono costoro, in piena ascesa commerciale e politica, a volere, molto probabilmente, l’ampliamento della vecchia Partenope e la fondazione di una Nea-polis: sul modello, del resto, di quanto era già avvenuto proprio a Siracusa, dove una nuova città era sorta accanto all’antica, posta sull’isola di Ortìgia.

33. Comunque sia, in seguito la città entrò nell’orbita politica ed economica di Atene; dopo di che furono i Campàni (ovvero i Sannìti) che, avendo già sottomesso nel 421 a.C. Cuma e poi Dicearchia (=governo della giustizia, attuale Pozzuoli), si imposero anche nel governo di Napoli, senza tuttavia aver bisogno di conquistarla con la forza, ma inserendosi abilmente nelle lotte intestine tra le varie fazioni [8].

34. Si creò dunque in Napoli una forma, molto vitale, di società mista greco-italica, che ne favorì un rapido e continuo sviluppo. 

I primi insediamenti sul territorio di Barra

35. E’ proprio in quest’epoca, di “rimescolamento” fra Greci e Sanniti, che ha inizio, probabilmente, anche il processo di popolamento stabile delle campagne circostanti la città, lo sviluppo progressivo del cosiddetto ager neapolitanus, che arriverà poi fino a raggiungere i 17 Kmq in epoca romana, includendo tutta la valle del fiume Sebéto.

36. Quindi, è a questa epoca storica che possiamo far risalire i primi insediamenti stabili anche sui territori attualmente di Barra, Ponticelli, S. Giovanni a Teduccio, etc.

37. In effetti, “la presenza degli insediamenti nella campagna napoletana è testimoniata da molte necropoli” [9].

Fra le più antiche, vi è quella di Ponticelli, portata alla luce con scavi effettuati nel 1912 e poi nel 1946 e contenente tombe che risalgono sicuramente alla metà del IV secolo a.C.

38. Ma pure i “sepolcreti bene allineati, a tre tegole, della seconda forma greca imbarbarita”, rinvenuti in seguito agli scavi effettuati a Barra nel 1840 e nel 1855 nella zona di Via Mastellone, e dei quali ci dà testimonianza il Cozzolino, risalgono con ogni probabilità a questo stesso periodo, anche se purtroppo non hanno potuto essere ulteriormente studiati.

Il dominio di Roma

39. Nel 326 a.C. la città entrò a far parte dei domìni di Roma, con il cosiddetto foedus neapolitanum, ovvero il trattato di alleanza fra essa e i Romani, che ne sanciva in realtà la docile, e non eccessivamente dolorosa, sottomissione ai nuovi padroni.

40. Nel periodo romano, Napoli e il suo circondario crebbero ulteriormente, per densità di popolazione e complessità di articolazione della vita civile, raggiungendo un periodo di notevole splendore proprio nel secolo precedente e in quello seguente la nascita di Cristo. 

41. Di questa epoca, che fu segnata ma non spezzata dalla terribile eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., restano ampie ed abbastanza dettagliate descrizioni, come quella di Strabone:

“Dopo Dicearchia [10], viene Neapolis, città dei Cumani.

In seguito, vi si stabilirono anche Calcidesi, alcuni Pitecusani e Ateniesi e fu per questo motivo chiamata Neapolis.

Qui viene mostrato il monumento sepolcrale di una delle Sirene, Partenope, e secondo un responso oracolare viene celebrato un àgone ginnico.

Gli abitanti, divisi in opposte fazioni, accolsero come concittadini alcuni Campani e furono costretti a trattare amichevolmente i nemici, essendo divenuti nemici dei propri amici; questo fatto è dimostrato dai nomi dei demàrchi [11], che dapprima erano Greci e poi Campani misti a Greci.

Moltissime tracce del modo di vivere greco sopravvivono là, come i ginnàsi [12], gli efebèi [13], le fratrìe [14] e i nomi greci, sebbene ora siano sotto il potere di Roma.

Oggi, a Neapolis si svolgono ogni cinque anni dei giochi sacri con gare di musica e di atletica che durano parecchi giorni e che sono degni di competere con i giochi più famosi della Grecia.

Vi è anche una galleria sotterranea (la crypta neapolitana), scavata nella montagna tra Dicearchia e Neapolis, come quella che porta a Cuma, e vi si apre una strada percorribile per parecchi stadi da due carri che vanno nelle direzioni opposte; inoltre, la luce del giorno filtra dalla superficie della montagna molto in profondità, essendo state scavate delle aperture in più parti.

Anche Neapolis possiede sorgenti di acque calde e stabilimenti balneari non da meno rispetto a quelli di Baia, ma di numero inferiore.

In quel posto è sorta un’altra città, non più piccola di Dicearchia, giacché sono stati costruiti, uno dopo l’altro, dei palazzi regali.

A Neapolis vivono, secondo lo stile di vita greco, coloro che da Roma si ritirano qui per stare tranquilli: quanti sono dediti alla cultura e altri che desiderano vivere in pace per vecchiaia o per malattia.

Alcuni Romani, che apprezzano questo tipo di vita, vedendo tanta gente che qui soggiorna secondo lo stesso stile di vita, si trovano bene in questo luogo e decidono di rimanervi”.

42. Oppure la celebre descrizione, successiva all’eruzione vesuviana nel 79 d.C., di Papinio Stazio [15]:

“La nostra Partenope non è  né povera di abitanti suoi propri, né priva di forestieri…

Partenope a cui, venuta dal mare, Apollo in persona indicò il dolce suolo con la colomba di Dione…

Il suo clima è temperato, con tiepidi inverni e fresche estati; un mare tranquillo la lambisce con le sue languide onde.

Regna in questa zona una pace serena, l’ozio di una vita di riposo e la quiete non subiscono turbamenti e si dormono lunghi sonni.

Lì non esiste la vita rabbiosa del foro, né ci si appiglia alle leggi per litigare; i cittadini fondano i loro diritti soltanto sui costumi e la giustizia regna senza bisogno dei fasci.

E che dire ora dei magnifici panorami e delle bellezze di questi luoghi, dei templi e delle piazze adorne di innumerevoli colonne e della duplice costruzione dei nostri teatri, quello all’aperto e quello chiuso, e dei Giochi quinquennali che gareggiano con quelli Capitolini?

A che lodare la bellezza della costa, la libertà di vita cara a Menandro, in cui si disposano la dignità romana e la permissività greca?

Tutto intorno, abbondano i divertimenti che rendono varia la vita, sia che ti piaccia visitare Baia, incantevole spiaggia dalle fumide sorgenti, sia che ti piaccia visitare l’ispirata dimora della profetica Sibilla (Cuma), sia la vetta memorabile per il remo ilìaco (Capo Miseno), sia i vigneti stillanti di vino del Gauro sacro a Bacco, sia la residenza dei Telèboi (l’isola di Capri), il cui faro, rivale dell’errante luna, emette dall’alto le sue luci care ai naviganti in trepidazione, e le cime Sorrentine che danno un vino aspro... o le acque salutari di Ischia e Stabia risorta a nuova vita”.

43. In effetti, è ben noto che, in tutta l’area costiera del golfo di Napoli, a partire dall’età tardo-repubblicana e per tutto il periodo imperiale, si ebbero grandiosi insediamenti “in villa” di patrizi romani.

44. Da un capo all’altro del golfo, sorsero numerose dimore, fra le più lussuose e celebri del mondo di allora, destinate al godimento dei maggiori esponenti della classe dominante, economica e politica, del tempo: qui abitarono Mario, Silla, Crasso, Pompeo, Cesare, Bruto, Ortensio, Cicerone, e gli stessi imperatori romani.

45. Vàlgano, per tutte, gli esempi della celebre villa di Lucullo, sorta proprio sul luogo dell’antico insediamento di Partenope e quella di Publio Vedio Pollione denominata “Pausilypon” (Posillipo=luogo che fa cessare gli affanni).

46. Tali ville erano però anche delle vere e proprie aziende agricole, con vastissimi territori coltivati da una numerosa manodopera di schiavi, per soddisfare le esigenze di consumo dei ricchi padroni.

47. In questo contesto, si può ben comprendere che siano stati coinvolti anche i territori attualmente di Barra, Ponticelli, etc. con gruppi sempre più numerosi di contadini, in condizione servile o di vera e propria schiavitù.

48. In particolare, i reperti archeologici di questo periodo, venuti alla luce a Ponticelli fra il 1985 e il 1987, nel contesto dei lavori di ricostruzione successivi al terremoto del 1980, hanno consentito di identificare una villa patrizia del I secolo d.C. (probabilmente distrutta dall’eruzione del 79 d.C., ma in seguito rifiorita) e una necropoli con numerose tombe del III-IV secolo d.C.

49. Ma anche il “cimitero Romano” del quale parla il Cozzolino, venuto alla luce a Barra nel 1865 “fra l’edificio delle suore della Carità e quello De Cristofaro” (in pratica, all’incrocio fra l’attuale Via Gian Battista Vela ed il Corso Sirena) appartiene evidentemente al medesimo contesto.

La rivolta di Spàrtaco (73-71 a.C.)

50. L’addensamento nella nostra zona di gruppi consistenti di schiavi, per le esigenze del lusso dei padroni, rende ragione del rapido accorrere di grandi masse di diseredati sotto la bandiera di Spàrtaco, quando questi levò il grido della più famosa ed eroica rivolta contro la schiavitù del mondo antico.

51. Nel 73 a.C. il gladiatore Spartacus, originario della Tracia, che si trovava rinchiuso a Capua nella scuola gladiatoria di Lentulo Baziato, organizzò con i suoi compagni una congiura per scampare alla schiavitù. La guerra teneva lontani d’Italia i grandi capitani e le legioni della Repubblica romana: il momento era dunque favorevole.

52. Nonostante fosse stato tradìto da uno dei congiurati, Spartaco riuscì ugualmente ad uscire da Capua alla testa di circa 70 compagni (tra i quali erano i gladiatori Crisso ed Enomao, ed anche sua moglie)  “risoluti di perire o di essere liberi”.

53. Armati dapprima di coltellacci e di spiedi, poi di armi gladiatorie sottratte a carri incontrati per strada, poi di molte armi da guerra tolte alle truppe romane che li inseguivano da Capua, arrivarono fino al Vesuvio, dove furono raggiunti dalle milizie inviate da Roma: circa 3000 uomini, al comando del pretore Claudio Glabro.

54. I Romani assunsero il controllo dell’unica via di accesso alla montagna, ma gli assediati tagliarono i tralci utilizzabili delle viti selvatiche, che crescevano rigogliosamente intorno alla cima del monte, li intrecciarono e costruirono delle scale tanto robuste ed estese che, assicurate alla cima e fatte penzolare lungo la roccia, consentirono loro di scendere da un’altra parte e di prendere alle spalle le truppe romane: 3000 soldati furono così sgominati e messi in fuga da una forza di appena 74 gladiatori.

55. La notizia di questa clamorosa vittoria si diffuse rapidamente tra gli oppressi, ed accorsero a combattere con Spartaco, fuggendo dai loro padroni, prima 10 mila, poi fin 70 mila uomini, che impegnarono le truppe romane in un conflitto che durò circa due anni: in particolare, da una osservazione casuale fatta da Giulio Cesare nel “De bello gallico” (1, 40, 5), veniamo a sapere che il nucleo delle forze armate di Spartaco era costituito da prigionieri di guerra Cimbri.

56. Nella battaglia decisiva contro Crasso, che fu una delle più feroci e sanguinose che ricordi la storia, Spartaco, al momento di dare il segnale di attacco, uccise il proprio cavallo con un colpo di spada, dicendo: “Se vincitore, ne troverò altri fra i Romani; se vinto, non voglio fuggire”.

57. Circondato dai nemici abbattuti, quando cadde ferito in una coscia, si difese ancora in ginocchio, finché rimase sepolto fra i morti e i moribondi. Secondo un’altra versione, invece, egli si uccise quando vide irreparabilmente perduta la battaglia.

58. Del suo esercito, comunque, ben pochi scamparono: 50mila morirono in battaglia o trucidati subito dopo; circa 6 mila, fatti prigionieri, furono poi crocifissi in lunga fila, ai lati della strada da Capua a Roma…

Virgilio a Napoli: la storia e il mito

59. Illo Vergilium me tempore dulcis alebat

Parthenope studiis florentem ignobilis oti…

Allora vivevo, io Virgilio, in seno alla dolce

Partenope, lieto e appartato fra cure tranquille...

60. E’ ben noto che  Publio VIRGILIO Marone,  il più celebre poeta di lingua latina, nato nel villaggio di Andes, non lontano da Mantova, il 15 ottobre del 70 a.C., visse lungamente a Napoli e qui compose buona parte delle sue opere

61. Morto a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C., le sue spoglie furono riportate a Napoli “e riposte sulla via di Pozzuoli a circa due miglia”, in un sepolcro su cui fu inciso il celebre dìstico da lui stesso dettato:

Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc

Parthenope; cecini pascua,  rura,  duces.

che riassume i luoghi della sua vita (Mantova, l’Italia meridionale, Napoli) e i temi e i personaggi delle sue opere (i pastori, i contadini, i condottieri: Bucoliche, Georgiche, Eneide).

62. Le più importanti biografie che abbiamo di lui sono quella di Servio e quella di Elio Donato. Quest’ultimo, in particolare, un dotto del IV secolo d.C., rielabora ed amplia quella di Svetonio (II secolo d.C.) la quale si fondava su notizie provenienti da ambienti abbastanza vicini al grande poeta.

63. Da queste biografie apprendiamo dunque che, a Napoli, Virgilio venne fin dagli anni della sua formazione, vivendo “per vari anni in nobile ozio, seguace della setta epicurea, in singolare concordia e familiarità con Quintilio Cremonese, Plozio Tucca e Lucio Vario” e vi ritornò poi sempre nel corso della sua vita.

64. “Di corporatura e di altezza fu grande, di colorito bruno, di lineamenti rudi, di salute malferma: soffriva per lo più di stomaco e di gola e di dolori al capo, sputò spesso anche sangue.

Fu nel mangiare e nel bere assai parco, incline all’amor dei fanciulli, dei quali dilesse in modo singolare Cebete e Alessandro, che egli stesso chiama  Alessi  nella seconda egloga delle Bucoliche, donato a lui da Asinio Pollione: entrambi non rozzi e Cebete perfino poeta.

65. Corse voce che egli avesse anche usato con Plozia Hieria, ma Asconio Pediano attesta che lei stessa, ormai avanti negli anni, soleva raccontare che Virgilio era stato da Vario medesimo invitato a far uso in comune di lei, ma il poeta rifiutò fermissimamente.  

66. Quanto al resto della vita, e nel parlare e nel sentire fu così onesto che a Napoli lo chiamavano  il verginello;  e quando a Roma, dove rarissimamente veniva, era veduto per via, per sottrarsi alla gente che lo seguiva e lo indicava, si nascondeva in qualcuna delle case vicine.

67. Possedette quasi dieci milioni di sesterzi, che gli aveva elargito la liberalità di amici; ebbe in Roma una casa sull’Esquilino presso gli orti di Mecenate, ma se ne stava quasi sempre lontano e solo, in Campania e in Sicilia. Coltivò, fra gli altri studi, la scienza della natura e specialmente l’astronomia”.

68. Sopra questi dati biografici, il Medioevo ricamò in seguito la leggenda di Virgilio, che sarebbe stato un vero e proprio mago, con poteri sovra-naturali, e autore di opere meravigliose soprattutto a Napoli, narrate diffusamente nella “Cronaca di Parthenope”.

69. “La Cronaca aggiunge che  Virgilio Mago  fu amato, rispettato, idolatrato quasi come un dio, poiché giammai rivolse la sua magia a scopo malvagio, sibbene sempre a vantaggio della città e dell’uomo” [16].

70. E cita molti esempi:

“In allora Parthenope era molestata da una grande quantità di mosche, mosche che si moltiplicavano in così grande numero e davano tanto fastidio, da farne fuggire i tranquilli e felici abitatori.

Virgilio, per rimediare a così grave sconcio, fece fare una mosca d’oro, qualmente egli prescrisse; e, dopo fatta, le insufflò, con parole, la vita: la quale mosca d’oro se ne andava volando di qua e di là, ed ogni mosca vera che incontrava, faceva morire. Così, in poco tempo, furono distrutte tutte le mosche che affliggevano la bella città di Parthenope.

71. Altro miracolo fu questo: le molte paludi che allora si trovavano nella città, erano dannose, e perché i miasmi che esalavano guastavano l’aria producendo febbri, pestilenze ed altre morìe, e perché erano infestate da pericolosissime sanguisughe: Virgilio asciugò le paludi, dove sorsero case e giardini e l’aria vi divenne la più pura che mai respirar si potesse.   

72. Laggiù, nel quartiere che noi moderni chiamiamo Pendino, annidava un formidabile serpente, che era lo spavento di ogni uomo, avendo già morsicato e strozzato bambini e fanciulle, e quando si mettevano in molti per combatterlo, esso scompariva rapidamente nelle viscere della terra, per poi ricomparire più terribile che mai.

Chiamato Virgilio in soccorso, egli si avviò tutto solo, ricusando ogni compagnìa, al luogo dove il serpente si annidava e con le sue formule magiche l’ebbe subito domato e morto. Anzi è da notarsi che, sebbene la città fosse tutta eretta sopra un’altra città, nera e malsana, fatta di caverne, sotterranei e cloache, dove potrebbero allignare simili rettili, da quel tempo sinora mai più ve ne furono.

73. Quando un morbo fierissimo invase la razza dei cavalli, Virgilio fece fondere un grande cavallo di bronzo, gli trasfuse il suo magico potere e ogni cavallo condotto a fare tre giri, intorno a quello di bronzo, era immancabilmente guarito, non senza molta collera di maniscalchi ed empirici, che si vedevano superati e sbugiardati.

74. Certi pescatori della spiaggia napoletana, e propriamente quelli che dimoravano sulla strada chiamata in seguito Porta di Massa, andarono a Virgilio, lagnandosi della scarsa pesca che vi facevano e chiedendo a lui un miracolo. Virgilio li volle accontentare e, in una grossa pietra, fece scolpire un piccolo pesce, disse le sue incantagioni e, piantata la pietra in quel punto, il mare fruttificò mai sempre di pesci innumerevoli. 

75. Virgilio fece mettere sulle porte di Parthenope, verso le vie della Campania, due teste augurali ed incantate, una che rideva e l’altra che piangeva: onde colui che capitava a passare sotto la porta dove la testa rideva, ne traeva buon augurio per i suoi affari che sempre riuscivano a bene ed il contrario, colui che passava sotto la testa piangente” [17].

76. Fu Virgilio che in poche notti (o addirittura in una notte sola) fece eseguire da esseri sovrannaturali la grotta di Pozzuoli, per facilitare il viaggio agli abitanti di quei villaggi che venivano in città…

In effetti, la grotta (che è in realtà un esempio di alta ingegneria Romana, realizzata grazie al sacrificio di moltitudini di schiavi, tra il III e il II secolo a.C.) è scavata lungo un perfetto asse geometrico, con il varco d’entrata a Piedigrotta rivolto in direzione dell’alba (la nascita) e l’uscita nei Campi Flegrei che volge al tramonto (la morte); così che, almeno in un giorno dell’anno, il sole, tramontando proprio in linea con l’uscita della grotta, la penetra con un raggio, illuminandola completamente.

77. “Fu Virgilio che, per la sua virtù magica, fece sorgere un orto di erbe salutari per le ferite ed ottime come condimento alle vivande…

78. Fu Virgilio che insegnò ai giovani i giuochi delle melarance e delle piastrelle, che s’ignoravano…

79. Fu Virgilio che di notte incantò le acque sorgive della spiaggia Platamonia e della spiaggia di Pozzuoli, dando loro singolare potenza per guarire ogni specie di malattia…

80. Fu Virgilio che, volendo salvare la compagna del suo discepolo Albino, svelò il mistero dell’Antro Cumano, dove i sacerdoti ingannavano il popolo coi responsi falsi, prodotti da una naturale combinazione di suoni…

81. Molti credettero alla sua immortalità; qualcuno alla sua morte, su quel colle presso Avellino che chiamasi Montevergine, dove s’era ridotto a studiare ed era divenuto vecchissimo…” [18].

82. In sostanza, si può dire che, per i napoletani del Medioevo, Virgilio costituì una sorta di Nume tutelare laico della città, un po’ come S. Agrippino e S. Gennaro ne erano invece i grandi Santi protettori.

La Sirena e Virgilio come coppia simbolica

83. La Sirena Partenope e Virgilio costituiscono così la più efficace coppia simbolica, tramandataci dalle lontane origini pagane (greche e romane) della nostra città: Partenope rappresenta la bellezza primigènia, la natura incontaminata (verginale) dei luoghi dove la città sorge; Virgilio, invece, l’importanza dell’opera civilizzatrice dell’uomo, quando si applica a vincere le negatività che pure in quella natura sono presenti (le paludi, gli insetti, le malattie…) ed a trarne invece il nutrimento necessario (gli orti, la pesca…) ed il gioco innocente. Insieme, rappresentano l’ideale, antico ma perenne, di una società umana che sappia unire, in compiuta armonia, la natura e la cultura, la bellezza e la tecnica, il sentimento e l’intelligenza, la pace operosa con tutte le creature e quella fra tutti gli uomini.


Note

[1] Pasquale Cozzolino – “La Barra e sue origini (nella Napoli suburbana)”, Règia Tipografia De Angelis, Napoli, 1889. Ristampa a cura di Angelo Renzi, Edizioni Magna Graecia, Napoli, 1999.

[2] Strabone – “Geografia”, V, 4.4.

[3] G.Pugliese Carratelli – “Il mondo mediterraneo e le origini di Napoli” in “Storia di Napoli”, I, Napoli 1967.

[4] Il Cozzolino, non a caso, menziona un altro mito, in base al quale il padre della Sirena Partenope sarebbe stato Eumelo, leggendario re fenicio giunto sulle nostre rive. Come sempre, il mito contiene un nòcciolo di verità storica, perché sembra indubbio che il culto delle Sirene provenga dalla parte orientale del bacìno del Mediterraneo, anteriormente all’inizio della grande colonizzazione greca.

[5] Si menziona qui l’esemplare opera di Giorgio Mancini, valente studioso di Ponticelli, intitolata “Sepeitos-Misterioso Sebéto”, Ed. il Quartiere Ponticelli, 1989, alla cui ricchezza ho largamente attinto.

[6] G.Pugliese Carratelli, op. cit.

[7] Strabone, op. cit.

[8] Strabone, op. cit.

[9] Giorgio Mancini, op. cit.

[10] Dicearchia (=governo della giustizia, attuale Pozzuoli) fu fondata dai Cumani;  nel 531 a.C. i Cumani concessero agli aristocratici di Samo, èsuli dalla loro patria, di stabilirvisi, ampliandola ulteriormente ed adattandola alle loro esigenze.

[11] I demàrchi erano probabilmente, nel periodo più antico, una specie di sindaci; successivamente, il titolo divenne puramente onorifico.

[12] I ginnàsi erano dei grandi edifici, porticati e con ampio giardino, attrezzati sia per le attività atletiche che per lo studio (soprattutto della materie letterarie e della musica) e destinati all’istruzione dei figli della classe dominante.

[13] Gli efebèi erano le sale per le esercitazioni, poste di solito all’interno del ginnasio.

[14] Le fratrìe erano una specie di corporazioni o congregazioni di cittadini, accomunati fra loro per vincoli familiari, di mestiere e di culto; la loro funzione era quella di regolamentare e tutelare i particolari diritti dei propri aderenti; ogni fratrìa aveva naturalmente i propri organi interni, la propria cassa comune, le proprie sedi, le proprie sepolture, etc.

[15] Publio Papinio Stazio, poeta latino, nato a Napoli nel 40 d.C. circa e ivi morto nel 96 d.C. circa. Figlio di un letterato anch’egli di nome Papinio, fu autore di due poemi epici: la  Tebàide  (in 12 libri), che tratta della guerra dei Sette contro Tebe, e l’ Achillèide  (rimasta incompiuta) ispirata alla leggenda di Achille in Sciro. Compose altresì le  Selve  (in 5 libri), una raccolta di poesie d’occasione, d’argomento vario. In tutte le sue opere, si nota l’influenza di Virgilio, del quale fu grande ammiratore e discepolo. Dante ne parla nei Canti XXI e XXII del Purgatorio, dove immagina che Stazio si sia convertito al cristianesimo e riporta altresì l’errata opinione che egli fosse nato in Gallia e non a Napoli.

[16] Matilde Serao – “Leggende napoletane”, Ed. Newton Compton, Roma, 1995.

[17] Matilde Serao, op. cit.

[18] Matilde Serao, op. cit.

 

Angelo Renzi

Napoli, le mura greche a Piazza Bellini


Pubblicazione de Il Portale del Sud, agosto 2016

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