Il territorio
attualmente di Barra era stabilmente abitato già dal
tempo della Nea-polis fondata dai Greci intorno al 470
a.C. ed entrata poi a far parte dei domìni di Roma nel
326 a.C.
In particolare,
sembra che il processo di popolamento stabile
delle campagne circostanti la città, e dunque anche
dell’attuale territorio di Barra, possa farsi risalire
agli anni intorno al 400 a.C., quando i Sanniti, che
avevano già sottomesso Cuma nel 421 a.C., ed in seguito
Dicearchìa (Pozzuoli), si imposero anche nel governo di
Napoli, senza tuttavia aver bisogno di conquistarla con
la forza ma inserendosi abilmente nelle lotte intestine
fra le varie fazioni.
Gli scavi
effettuati a Barra nel 1840 e nel 1855, nella zona di
Via Mastellone, portarono alla luce una necropoli
greca, risalente con ogni probabilità proprio a
questo periodo, anche se purtroppo non ha potuto essere
ulteriormente studiata.
Nel 1865, nella
zona all’incrocio fra gli attuali Corso Sirena e Via
Gian Battista Vela e sotto la villa De Cristofaro, venne
rinvenuta anche una necropoli romana, attestante
chiaramente che, anche nel periodo della Roma
tardo-repubblicana e poi imperiale, il territorio fu
certamente abitato: nel senso che ospitò quelle
famose “ville” romane, che erano delle vere e proprie
aziende agricole, con vastissimi territori coltivati da
una numerosa manodopera di schiavi.
L’addensamento
nella nostra zona di gruppi consistenti di schiavi, per
le esigenze del lusso dei loro padroni, rende ragione
del rapido accorrere di grandi masse di diseredati sotto
la bandiera di Spàrtaco, quando questi, nel 73
a.C., levò il grido della più famosa ed eroica rivolta
contro la schiavitù del mondo antico, a partire dalla
celebre battaglia combattuta sul Vesuvio.
La fine di quel
mondo, con la caduta dell’impero romano d’occidente (nel
476), e la lunga guerra fra i Goti e i Bizantini (dal
535 al 553), con i relativi sconvolgimenti, devastazioni
e massacri, lasciarono al Ducato napoletano (554-1140),
prima dipendente dall’imperatore di Bisanzio e poi (a
partire dall’anno 840) del tutto autonomo, una ben
triste eredità.
Nelle carte del
periodo ducale, troviamo menzionato il Territorium
plagiense, detto anche Foris
flùbeum, perché si trovava, uscendo dalle mura
della città, al di là del fiume detto in quest’
epoca Rubeolum o Ribium e che
successivamente, a partire dalla citazione fattane da
Giovanni Boccaccio, prenderà l’antico, classico nome di
fiume Sebéto.
Il
Territorium plagiense era dunque, in pratica, il
lembo di terra, ad oriente della città, posto fra il
fiume, il Vesuvio ed il mare.
Questo
territorio, già sconvolto dalla eruzione del Vesuvio nel
79 d.C. e poi dalle vicende belliche, venne in pratica
quasi del tutto abbandonato dopo il 500, restando
preda delle paludi e delle cosiddette “lave
dell’acqua”, ossia dei torrenti di acqua piovana che
scendevano precipitosamente dalle alture circostanti,
scavando nel terreno quelle famose “cupe” i cui
tracciati, pur dopo secolari peripezie, sono in parte
visibili fino ad oggi.
Fu solo quando
il Ducato napoletano, divenuto autonomo nel 840,
poté garantire un minimo di sicurezza da banditi e
pirati nonché di stabilità sociale, che quelle terre
poterono nuovamente cominciare ad essere coltivate,
strappandole gradualmente alle paludi: poveri ma
tenacissimi “servi della gleba” bonificarono i terreni
feudali appartenenti alle grandi famiglie nobili della
città o ai grandi complessi monastici che pure in città
avevano la loro sede principale.
Già prima
dell’anno 1000, troviamo perciò documentati i tre
piccoli nuclei abitati di Sirinum, Casabalera
e Tresano, che sono come le tre radici dalle
quali si svilupperà l’albero del Casale della Barra.
E’ pure ben
documentato che: in Sirinum (che aveva come stemma
una Sirena uni-càuda con corona ducale) vi
era una chiesetta (l’attuale Arciconfraternita della
SS.Annunziata) dedicata a S.Atanasio (832-872),
vescovo di Napoli dal 849 al 872; nel Tresano vi erano
anche insediamenti ebraici; in Casabalera si
trovava un pozzo, che in seguito darà il nome
alla contrada (S. Maria del Pozzo).
* * * * * * * *
* *
Il periodo del
regno Normanno (1140–1194) portò sviluppi positivi: i
Normanni introdussero nelle nostre campagne le tecniche
di orti-coltura che essi avevano appreso dagli Arabi
in Sicilia; promossero studi pratici (come quello
della geografia) che contribuirono grandemente a
migliorare l’agricoltura ed introdussero su larga
scala l’arte della seta che andò ad affiancarsi alla
già tradizionale lavorazione del lino come
possibilità di lavoro per le popolazioni.
Fu tuttavia il
periodo Svevo (1194–1266), ed in particolare il regno
del grande Federico II di Svevia (1220–1250), ad
introdurre mutamenti radicali per le nostre popolazioni,
anche dal punto di vista sociale: la svolta epocale,
operata da Federico II di Svevia, fu l’acquisizione
al demànio règio di tutte le terre circostanti la città,
onde garantire i rifornimenti di viveri a Napoli
(senza l’intralcio dei privilegi feudali dei baroni,
con i loro arbìtri ed abusi) nonché rendere possibile
una migliore difesa militare del territorio
(affidandolo direttamente al controllo dell’esercito
imperiale).
Anche il
territorio Foris flubeum venne, quindi, sottratto
ai grandi monasteri e alle famiglie nobili, che lo
avevano posseduto in feudo durante il periodo ducale e
quello normanno, e si trovò a dipendere direttamente ed
esclusivamente dall’imperatore.
Per i contadini,
ciò significò: una maggiore sicurezza sociale; un grande
sollievo economico (non dovevano più versare a baroni e
monasteri la loro parte del raccolto, ma solo versare
una “collecta”, periodica e non molto gravosa,
all’imperatore); la possibilità di fruire largamente
degli “usi civici”
.
Grazie a queste
circostanze favorevoli, si verificò in quel periodo, nel
nostro territorio, la nascita dei Casali
(sul piano civile) e quella delle Estaurìte
(sul piano più propriamente religioso).
Vale a dire che
i piccoli nuclei abitati del periodo ducale e normanno
(fra i quali Sirinum, Casabalera, etc.), diventando
terre demaniali, non furono più semplici possedimenti
“fuori le mura” di nobili e monasteri, ma acquisirono
una, sia pur relativa, autonomia amministrativa e
giuridica: gli “uomini dei Casali” stavano sotto la
giurisdizione di un proprio “baiùlo” (cioè un
funzionario di nomina imperiale), costituivano una
“Università” a se stante, eleggevano propri Sindaci per
i loro bisogni particolari.
Inoltre,
eleggevano i “Mastri dell’Estaurìta” che
governavano, a tutti gli effetti, le chiesette
costruite nei Casali: esenti dal pagamento delle
“decime” al Papa e dalla “Santa visita” da parte del
vescovo, amministravano del tutto autonomamente le
offerte dei fedeli (per gli addobbi liturgici e per
l’aiuto ai bisognosi) e nominavano essi stessi il
prete “cappellano”, che era stipendiato, e poteva anche
essere rimosso a giudizio delle famiglie del
Casale.
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* *
Le condizioni
dei contadini peggiorarono, invece, drasticamente con
gli Angioini (1266-1442): una volta vinta la
battaglia di Benevento contro Manfredi ed entrato in
possesso del Regno, Carlo I d’Angiò dovette “ricambiare”
gli appoggi ricevuti, per la sua impresa, dal Papa, dai
nobili napoletani, dai banchieri e mercanti amalfitani,
fiorentini, pisani, genovesi, etc.; naturalmente, sia
l’oneroso tributo da corrispondere al Papa, sia la
restituzione dei prestiti ai banchieri, si tramutarono
in tasse, che ricaddero quasi esclusivamente sui ceti
più poveri.
Inoltre, i vari
sovrani Angioini cominciarono a dare in feudo parti
sempre più rilevanti delle terre demaniali (fra cui
anche quelle Foris flubeum) a nobili, conventi,
funzionari e favoriti di corte.
E’ in questo
contesto che nasce il Casale della Barra de’ Coczis:
uno dei territori venduto (non infeudato,
in questo caso, trattandosi di una famiglia non nobile,
ma borghese) dal re Carlo I d’Angiò fu una parte
dell’antico territorio demaniale del Tresàno,
ceduto alla famiglia napoletana de’ Coczis “per
gran denari imprestati alla règia corte”,
presumibilmente nell’anno 1275.
Oltre al
terreno, i de’ Coczis ebbero in appalto la riscossione
delle gabelle, presso una “sbarra” o “barra” che, a tal
fine, chiudeva la strada: onde il luogo venne ben presto
detto “la Barra de’ Coczis”.
Quasi
contemporaneamente, e per le medesime ragioni, la
famiglia nobile degli Aprano ricevette, a titolo
ereditario, l’ufficio (e la rendita) di “collettore”
delle imposte per il Casale di Sirinum.
Nel 1301,
Carlo II d’Angiò (figlio del primo) concesse
un’altra parte del territorio Tresàno ai Padri
Domenicani, a titolo di rendita feudale, per finanziare
(insieme a molte altre donazioni) la costruzione del
convento di S.Domenico Maggiore in Napoli.
Di lì a poco,
fra il 1318 ed il 1336 (più vicino alla prima che alla
seconda data), anche un’ampia porzione del territorio di
Sirinum fu “infeudata”: questa volta, fu Roberto
d’Angiò a farne donazione, a titolo di rendita, per
contribuire alla costruzione della “Chiesa et Hospitale”
dell’ Annunziata in Napoli.
Nella donazione
era inclusa anche la chiesetta di S.Atanasio, ma
il piccolo popolo di Sirinum e i “Mastri dell’Estaurìta”
riuscirono, con lunghissime controversie, a mantenere la
loro autonomia nella gestione delle offerte e nella
nomina del cappellano, almeno fino al Concilio di
Trento.
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Periodo migliore
per le popolazioni fu senz’altro quello Aragonese
(1443-1501).
Gli Aragonesi
continuarono sistematicamente l’opera di prosciugamento
delle paludi, già accennata dagli Angioini; sistemarono
razionalmente come “orti” tutti i terreni della valle
del Sebéto, con un sistema capillare di canalizzazione
delle acque, che faceva perno sul famoso “Fosso reale”,
realizzato da Ferrante I d’Aragona nel
1485; svilupparono le arti della lana e della seta.
Inoltre,
riportarono tutti i Casali più vicini alla città nel
demànio règio, esentandoli per di più dal pagamento del
“focàtico” (che era la tassa di famiglia) e delle
imposte di consumo, e dando facoltà di vendere
liberamente i prodotti della terra.
Queste
agevolazioni avevano lo scopo di evitare l’abbandono dei
campi e l’immigrazione all’interno della cinta urbana,
nonché di garantire il regolare afflusso di prodotti
alimentari alla città stessa (un po’ come al tempo di
Federico II di Svevia…).
Grazie alla
politica aragonese, i Casali crebbero notevolmente e si
ebbe così, intorno al 1490, l’unificazione di
Sirinum e della Barra de’ Coczis nell’unico Casale
detto “Barra (o Varra) di Serino”, che assunse come
stemma la Sirena (divenuta però bi-càuda,
a significare l’unione dei due Casali in uno) ed ebbe
come chiesa l’antica Estaurìta di S.Atanasio,
restaurata ed ampliata per l’occasione.
Intorno al 1570,
anche Casavaleria si unì alla Barra di Serino, così che
alla fine del Cinquecento questa contava ormai circa
1000 abitanti (più di S.Giorgio a Cremano, ma meno di
Ponticelli e S.Giovanni a Teduccio).
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Nei due secoli
del vice-regno spagnolo (Cinquecento e Seicento),
si ebbe un’ ulteriore consistente crescita della
popolazione del Casale, dovuta alle condizioni di vita,
complessivamente migliori di quelle delle altre
“campagne” del regno (i “padulàni” erano contadini, per
l’epoca, abbastanza agiati).
Il Cinquecento,
per il Casale, fu caratterizzato soprattutto dagli
effetti della applicazione del Concilio di Trento.
Arrivarono i
Francescani (con il convento e la chiesa di S.Maria
delle Grazie, detta però “di S.Antonio”, 1585) e i
Domenicani (con il convento e la chiesa di S.Maria
della Sanità, detta “di S.Domenico”, 1584), mentre non
ebbe fortuna un tentativo di insediamento dei
Benedettini cassinesi, che dovettero vendere tutto e
andare via (nel 1625), “per liberarsi dai ladri che
spesso molestavano i monaci”.
Furono soppresse
le antiche Estaurìte di S.Atanasio e di S.Maria del
Pozzo in Casavaleria, con le relative autonomie laicali
e, nel 1610, cominciò a costruirsi la prima, vera e
propria, “parrocchia” di tipo “Tridentino”: la
parrocchia della SS.Annunziata (“Ave Gratia Plena”)
detta anche “di S.Anna”.
Il primo
parroco, la cui nomina non fu concordata con gli
Estauritari ma decisa dal solo vescovo, con Bolla di
conferma spedita direttamente da Roma, fu D.Giovanni
Antonio Serrubbo (1614-1627); e la particolare
devozione a S.Anna, madre di Maria Vergine, fu radicata
nel Casale grazie soprattutto all’opera del padre
gesuita Tommaso Auriemma, che venne come predicatore
in Barra nel 1639 e nel 1640 vi fondò la Confraternita
parrocchiale della “SS.Annunziata”.
Nel corso del
Seicento, su questo tessuto sociale prevalentemente
contadino, innervato solo da insediamenti religiosi,
cominciarono ad innestarsi anche, in modo stabile,
nuclei dell’aristocrazia e della grande borghesia
arricchitasi con il commercio e la speculazione.
Il
mercante-mecenate fiammingo Gaspare Roomer (che
“visse sposo della buona sorte e riposò in grembo alla
felicità ottanta e più anni”) fece edificare in Barra la
sua magnifica villa di rappresentanza, che nel
Settecento verrà poi acquisita dai prìncipi
Sanseverino di Bisignano.
Quasi
contemporaneamente, poco distanti da quella del Roomer,
sorsero la villa Filomena e la villa Finizio.
Nel 1617 venne
terminata, vicino alla chiesa di S.Maria del Pozzo, la
villa Amalia, e nel 1678 Domenico Mastellone
fece edificare la sua omonima villa-masseria, con la
cappella dedicata (nel 1699) a S.Rosa.
La memorabile
eruzione del Vesuvio nel 1631 produsse danni grandi,
ma non irreparabili, per un popolo abituato a
combattere con la natura; e gli appartenenti a
quello stesso popolo, solo sei anni dopo (nel 1637,
dieci anni prima della rivolta di Masaniello!), seppero
anche combattere una lucida e ferma battaglia sociale,
per mantenere la propria dignitosa condizione di “uomini
in demànio règio”, contro la decisione del viceré
Manuel de Zuniga y Fonseca conte di Monterey (1631-1637)
di “venderli” a privati.
La terribile
peste del 1656
portò via, invece, quasi la metà della popolazione di
Barra, fra cui il parroco Vincenzo Imperato
(1654-1656), che seppe accompagnare e confortare il
suo popolo nella tragedia, come vero pastore del gregge,
fino a morire lui stesso nell’epidemia.
La più
importante memoria storica, esistente in Barra, relativa
alla grande peste del 1656, è la chiesa di
S.Maria di Costantinopoli allo “Scassone”, edificata
dagli abitanti del luogo nel 1658 (là dove già vi era
una piccola cappelletta cinquecentesca dedicata alla
Madonna delle Grazie), in ringraziamento alla Vergine
per la fine dell’epidemia, ed intitolata con lo stesso
nome dell’altra e maggior chiesa, esistente in Napoli,
dedicata appunto MATRI DEI OB URBEM AC REGNUM A PESTE
SERVATUM.
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* *
L’ultimo vicerè
spagnolo di Napoli, Giovanni Emanuele Fernàndez Pacheco
marchese di Villena (1702-1707), lasciò la città
il 7 luglio 1707 e si arrese agli austriaci nella
fortezza di Gaeta il 30 settembre, lasciando però il suo
nome al fortino da lui fatto costruire, in quei
perigliosi frangenti, presso il ponte della Maddalena in
S.Giovanni a Teduccio: risultato, in quel momento,
praticamente inutile, il fortino ebbe poi il suo momento
di gloria (e la sua fine) nella celebre battaglia in
esso combattuta nel 1799.
Dal 1707 al
1734,
la città e il regno furono quindi governati non più da
vicerè spagnoli bensì da vicerè austriaci (fra i
quali anche tre eminentissimi cardinali): la nazionalità
era diversa, ma sostanzialmente identica la politica di
“spremere” quanti più “donativi” (cioè tributi) fosse
possibile, con scarsissima considerazione delle
condizioni di vita delle classi più umili della
popolazione.
In quegli anni,
Barra fu però illuminata dalla presenza di una delle non
poche personalità di rilievo europeo che Napoli poteva
allora vantare: Francesco Solimèna (detto
“l’abate Ciccio”; nato a Canale di Serino-Avellino
il 4 ottobre 1657 e morto in Barra il 5 aprile del
1747), artista già affermato e di cospicue disponibiltà
economiche, scelse il Casale della Barra per edificarvi
una sua solitaria dimora, immersa nel verde dei pini,
che egli stesso disegnò.
A Barra, il
Solimena lasciò il celebre quadro della “Madonna delle
Grazie con anime purganti”, donato alla parrocchia nel
1697, il disegno della facciata della chiesa di S.Maria
della Sanità (detta “di S.Domenico”) e, ultima opera
della sua vita, la bella tela della “Madonna di
Caravaggio” nella omonima cappella gentilizia dei duchi
di Monteleone.
Lasciò anche
(fra i molti che ebbe) una triade di valenti discepoli,
il nipote Orazio Solimena, Gian Battista Vela
e Paolo de Majo, i quali, nel clima di rinnovato
fervore religioso suscitato dalla memorabile missione
che S.Alfonso Maria de’ Liguori tenne a Barra nel
1741, illustrarono le chiese del Casale con le loro
opere più belle.
Purtroppo, di
tali làsciti, Francesco Solimena è stato ripagato con la
completa distruzione della sua celebre villa, operata in
parte dai bombardamenti della seconda guerra mondiale,
ma molto di più dalla incuria, ignorante o colpevole,
degli uomini.
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* *
Al periodo del
viceregno austriaco sono anche da ascriversi
l’insediamento in Barra dei Conti di Acerra,
con la loro villa (villa Spinelli) nonché l’inizio
(nel 1728) della costruzione della grande villa dei
Pignatelli di Monteleone.
E’ tuttavia nel
periodo borbonico (1734-1860), in particolare
nella prima parte di esso (1734-1790), che “l’antico
regime” toccò il suo punto più alto e di maggior
splendore, con la meravigliosa fioritura di insediamenti
aristocratici del cosiddetto “Miglio d’oro” (da
S.Giovanni a Teduccio fino a Torre del Greco), intorno
alla grande reggia fatta costruire (1738) in Portici da
Carlo III di Borbone, su consiglio della giovanissima
regina Maria Amalia.
Anche Barra
raggiunse in quest’epoca la sua classica configurazione
di “Casale règio”, quale la vediamo disegnata nella
carta topografica di Giovanni Carafa duca di Noja
(1775), con la sua bella conformazione “a nastro”,
circondata da fiorenti campagne e impreziosita da
magnifiche ville.
Le ville
pre-esistenti vennero rinnovate o completate (villa
Spinelli, villa Pignatelli di Monteleone, la villa
Roomer passata ai Sanseverino di Bisignano nel 1765, le
ville seicentesche, etc.), ed altre nuove ne sorsero,
quali villa S.Nicandro (poi villa Giulia), villa
Salvetti, villa De Cristofaro…
Per Barra,
questo periodo si chiude, emblematicamente, con la
realizzazione della popolarissima statua lignea di
S.Anna con la Vergine (1790), ad opera di
Giuseppe Picano, scultore, stuccatore e
presepiaio, nativo di S.Elia Fiumerapido, allora
molto noto e stimato in città e presso la stessa corte
borbonica, il quale realizzò per la parrocchia di Barra
una copia esatta della statua di S.Anna da lui scolpita
per la grande chiesa dell’Annunziata in Napoli.
* * * * * * * *
* *
Il Casale
della Barra,
al cui popolazione era composta, nella quasi totalità,
da contadini e da servi ed artigiani economicamente
dipendenti dalla nobiltà, non partecipò attivamente
al moto risorgimentale “italiano”, di stampo borghese e
liberale.
Solo poche
persone, appartenenti ad alcune famiglie borghesi,
furono militanti liberali, ma il Casale nel suo
complesso tenne costantemente per la parte borbonica:
dall’inizio (1799), quando i Barresi combatterono contro
l’esercito della Repubblica e a favore del card.Ruffo,
fino alla fine (1860) quando la popolazione si rifiutò
di partecipare al plebiscito che doveva sancire
l’annessione del Regno delle due Sicilie al nuovo Regno
d’Italia.
Nel 1799,
furono “Repubblicani” alcuni esponenti delle famiglie
Sannino e Minichino; ed inoltre, provenienti da famiglie
che risiedevano più o meno stabilmente in Barra, i vari
Clino Roselli, Nicola Magliano, Emanuele Mastellone e il
giovane duca Diego Pignatelli di Monteleone
.
Conclusasi
tragicamente quell’esperienza, fu il periodo del
decennio napoleonico (1806-1815) quello che portò le
novità più avvertite (e non sempre in positivo) dal
popolo.
In quel cruciale
decennio, venne anzitutto, formalmente e completamente,
abolita la feudalità, così che la terra divenne
una semplice merce, soggetta alla libera compra-vendita
(da parte dei ricchi, naturalmente); le terre demaniali,
sui quali i contadini esercitavano gli antichissimi “usi
civici”, vennero frazionate e vendute ai privati (quelli
che potevano pagare, naturalmente), perdendosi così
l’uso civico di esse; analogamente, vennero messe in
vendita le terre ecclesiastiche e soppressi numerosi
conventi; venne introdotta la leva militare
obbligatoria, l’anagrafe civile e nuove forme di
tassazione, che gravavano su contadini, artigiani e
piccoli commercianti.
Infine, venne
soppressa l’elezione diretta dei Sindaci e degli Eletti
del popolo, sostituita con il Decurionato, che
era una istituzione alla quale potevano appartenere i
soli “possidenti”, cioè i proprietari terrieri.
In definitiva,
agli antichi privilegiati del “sangue blu”, si
sostituivano ora, nel potere, i nuovi privilegiati del
“denaro” puro e semplice.
A Barra, furono
insediate le “monache francesi”, ovvero le
Suore della Carità di S.Giovanna Antida Thouret (che
vi rimasero fino alla seconda metà del Novecento); venne
istituita la prima Sede municipale, in un
palazzetto dell’attuale Corso Sirena, sopra il cui arco
di ingresso venne posta la lapide, tuttora visibile,
raffigurante l’antico stemma del Casale (la Sirena
bi-càuda) con il motto UNIVERSITAS; venne pure
istituito, secondo la legge napoleonica, il cimitero
fuori dell’abitato, nel 1817, grazie al
terreno messo a disposizione dalla famiglia Pironti.
* * * * * * * *
* *
Con la (seconda)
restaurazione borbonica nel 1816 nacque ufficialmente il
Comune della Barra, del quale, nel 1822,
S.Anna venne proclamata ufficialmente celeste
patrona.
Della micidiale
epidemia di colera del 1836-37 (nella quale,
insieme a tanti abitanti, perì anche il parroco
D.Alessandro Russo (1825-1837) e si distinse per
abnegazione nell’assistenza a malati e moribondi un
altro meritorio Barrese, D.Paolo Riccardi, “prete
della Barra, uomo insigne, pieno di carità e di zelo per
tutti”), rimane tuttora memoria nel Camposanto dei
colerosi alla Cupa S.Aniello, apprestato in
quella circostanza dai cinque Comuni vicini di Barra,
S.Giovanni, S.Giorgio, Portici e Resina, e versante oggi
in uno stato di vergognoso e deplorevole abbandono.
Intorno alla
metà del secolo si osserva, anche in Barra, una forte
ripresa dell’arte della seta ed il sorgere di alcuni
opifici metalmeccanici (“Guppy”, “Macry & Henry”…),
antesignani di quella che sarà poi la zona
industriale istituita con Legge speciale nel
1904.
Sempre intorno
alla metà del secolo, in relazione all’Anno
Santo-Giubileo del 1850 e in corrispondenza con la
proclamazione ufficiale del dogma della Immacolata
Concezione di Maria (1854) e le successive
apparizioni di Lourdes (1858), si registra una forte
ripresa della religiosità popolare.
I Musella,
due fratelli gemelli entrambi preti, animarono il
“cantiere popolare” grazie al quale venne ingrandita di
circa due terzi la chiesa di S.Maria di Costantinopoli
allo “Scassone” (1849-1854) e D.Raffaele Verolino
(“l’apostolo del paese di Barra”, nato “sopra Case
Langella”) ampliò la chiesetta di S.Maria delle
Grazie “all’Oliva” (1858-1868) e poco dopo fondò,
“per i fanciulli rimasti privi dei genitori”, il primo
Istituto religioso interamente Barrese, nonché primo
Istituto femminile in Barra (dopo le “monache
francesi”), con la annessa chiesetta (dedicata nel
1875), in località “arèto ‘o cariello”.
* * * * * * * *
* *
Dopo l’unità
d’Italia (1860), Barra rimase Comune autonomo,
amministrato però dalla nuova classe dirigente borghese,
di formazione liberale e fedele alla Casa Savoia.
I Sindaci che
più lasciarono memoria di sé furono Luigi Martucci
(1882-1886), Giovanni Mastellone (1879-1882;
1886-1892) e Cristoforo Caccavale (1905-1918).
L’epidemia di
colera del 1884, con il successivo “Risanamento”, fornì
l’occasione per realizzare i due attuali Corsi
principali: Corso Bruno Buozzi e Corso IV Novembre,
che si chiamavano allora rispettivamente Corso Vittorio
Emanuele III e Corso Conte Spinelli, modificando così
radicalmente l’assetto urbanistico del Comune della
Barra.
Visse in quel
periodo, anche se del tutto appartata dalle vicende del
mondo, “la mistica di Barra”: Maria Grazia Tarallo
ovvero Suor Maria della Passione (1866-1912); e
nel 1933 un’altra Barrese, la Madre Claudia Russo
(1889-1964), fondò ufficialmente l’Istituto religioso
delle “Povere figlie della Visitazione di Maria”.
Ma incombevano
ormai le scelte cruciali per il territorio, che dovevano
poi condizionarlo (nel bene e nel male) per tutto il
Novecento: la giolittiana Legge speciale per
Napoli del 1904, che istituiva la zona
industriale; l’aggregazione del Comune della
Barra al Comune di Napoli, operata nel periodo
fascista con il Règio decreto del 15 novembre 1925;
l’installazione sul nostro territorio della
“raffineria”.
Quest’ultima
scelta strategica, in particolare, operata dal fascismo
negli anni Trenta e particolarmente dissennata, di
insediare nel cuore della valle del Sebéto e sul corso
stesso del fiume, un mostruoso impianto di deposito e di
raffinazione del petrolio, micidiale per gli uomini e
per la natura, fu mantenuta, ed anzi estesa a nuovi
impianti pericolosi ed inquinanti, dai successivi
nuovi padroni statunitensi (la multinazionale “Mobil
Oil”).
Si veniva così
ad infliggere un duro colpo all’assetto produttivo, di
agricoltura e di piccola industria ad essa legata, che
identificava il territorio, e si vanificava la
secolare vocazione “turistica” legata alle sue bellezze
paesaggistiche, ambientali e monumentali, utilizzandolo
in una logica, puramente neo-coloniale, di
territorio–pattumiera e di manodopera a basso costo.
Questo, unito
alla proliferante installazione, nel secondo dopoguerra,
di grandi rioni-dormitorio senza qualità
(dei quali, uno costruito addirittura sull’antico “Orto
botanico del principe di Bisignano alla Barra”), ha
determinato l’attuale assetto di Barra come quartiere
periferico, destinato a “contenitore” dell’emarginazione
del sottoproletariato urbano.
Ma si tratta
solo di una triste parentesi, in fondo assai breve,
della nostra storia secolare!
Sulle rovine del
passato possono sorgere nuovi fiori, così come Domenico
Mastellone, dei duchi di Limatola, fece innalzare la sua
cappella dedicata a S.Rosa, tuttora esistente, proprio
nel luogo in cui aveva veduto una rosa spuntare dalle
rovine del terremoto del 1688!
Possa allo
stesso modo fiorire nuovamente la nostra Barra, grazie
al costante ed intelligente impegno di tutti i suoi
figli.
Pubblicazione de Il Portale del Sud, agosto 2016 |