Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.1a Il Periodo Liberale (1860-1876)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

 

Gli anni della Destra liberale

1. L’unità d’Italia si realizzò, come detto, per opera della classe borghese e sancì politicamente la egemonia di questa classe, che aveva di fatto nella Massoneria il suo “partito” ovvero la sua “forma” organizzativa, politica e ideologica, che si sovrapponeva, con la sua rete di collegamenti non palesi, alle “libere” istituzioni elettive.

2. Il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II (1860-1878), colui che i biografi di corte definirono “il re galantuomo”, fu anche “il re dei galantuomini”, nel senso che regnò su una società nella quale il potere era, di fatto, esercitato dai cosiddetti “galantuomini” ossia i nuovi padroni borghesi: banchieri e speculatori, proprietari terrieri, proprietari di industrie …

Egli stesso, del resto, ancorché “galantuomo”, si riservò un appannaggio (allora si diceva “una lista civile”) che giunse fino al 2% del bilancio dello Stato: una cifra superiore a quella di qualsiasi altro sovrano europeo del tempo.

Quale uso facesse poi, “il galantuomo”, di tutti questi soldi, è faccenda che ha molto a che fare con la sua celebre amante, Rosa Vercellana, la “bella Rosina” da lui stesso innalzata, per meriti di alcova, al rango di “contessa di Mirafiori”: “È una donna ancor bella, ma senza grazia e senza nessuna distinzione. L’ultima volta che la vidi era al Teatro Alfieri: portava un cappello guarnito di piume, il suo corpo era coperto di diamanti: impossibile immaginare una donna vestita con un cattivo gusto più completo” (Henry d’Ideville – “Diario di un diplomatico francese”).

Rosa Vercellana (1833-1885), la bella Rosina del Re galantuomo

3. Il primo parlamento italiano, che si insediò a Torino l’8 febbraio del 1861, era composto in realtà di un solo partito (quello liberale e massonico), espressione di una sola classe (quella borghese). I parlamentari erano infatti eletti da non più di 500 mila persone in tutta Italia (meno del 2% della popolazione): avevano diritto al voto solo i cittadini di sesso maschile, che avessero compiuto i 25 anni di età, sapessero leggere e scrivere, e pagassero almeno 40 lire all’anno di imposte dirette; in pratica, solo i ricchi (maschi). La dialettica parlamentare si articolava approssimativamente in una Destra e una Sinistra, peraltro con frequenti cambiamenti di campo da parte dei singoli parlamentari (trasformismo).

Le grandi masse popolari erano quindi del tutto escluse da una partecipazione attiva al nuovo Stato unitario ed i loro interessi sostanzialmente non rappresentati in parlamento.

4. La Destra liberale, che aveva egemonizzato il processo risorgimentale [1], si trovò a gestire la prima fase della vita dello Stato unitario [2]: sue principali preoccupazioni furono completare e consolidare l’unificazione.

Il completamento si realizzò con l’annessione del Veneto (nel 1866, con la “terza guerra d’indipendenza”) e poi di Roma (nel 1870, con la famosa “breccia di Porta Pia”).

Per consolidare l’unificazione, invece, non si imboccò la strada maestra di una “assemblea costituente” per dare alla nuova Italia delle nuove istituzioni, magari accompagnate da qualche pur timida riforma sociale a vantaggio delle classi meno abbienti. 

Si preferì invece la pura e semplice estensione a tutta la penisola degli ordinamenti fino ad allora in vigore nello Stato sabàudo, a partire dallo Statuto “albertino” [3]: questo confermò, in molti, l’idea dell’unità italiana come “conquista” e annessione degli altri Stati da parte dei “piemontesi”.

La colonizzazione del Sud

5. Di conseguenza, nel Regno meridionale, dove pure non c’erano “stranieri” da “cacciare fuori d’Italia” e che era unito ed indipendente da 730 anni, si procedette ad esempio a:  

-              l’imposizione (nella patria di Vico e di Filangieri!) dei Codici e dell’ordinamento giudiziario sabàudi, anche se “in materia di codici e di amministrazione le province del Sud sono di gran lunga più progredite del Nord” come protestava già allora il pur unitario Francesco Crispi;

-              l’imposizione del sistema fiscale sabàudo, assai più esoso e complicato di quello borbonico: nel Regno meridionale le tasse erano poche ed assai tenui [4], come pure mediamente basso era il “costo della vita”, soprattutto dei generi di prima necessità;

-              l’imposizione brutale del servizio militare obbligatorio per i Savoia, anche laddove, come in Sicilia, prima del 1860, la leva obbligatoria non esisteva: alla prima “chiamata di leva” del 1861, che prevedeva 5 anni di servizio, si presentarono solo 20.000 dei 72.000 uomini previsti; ne seguirono rastrellamenti indiscriminati dell’esercito piemontese in tutti i paesi dell’Italia meridionale, con deportazione di tutti i maschi dalla “apparente” età fra i 20 e 25 anni, e fucilazioni sommarie “per presunta renitenza alla leva”;

-              un forte accentramento amministrativo, con sindaci e prefetti nominati dal governo: nel 1866, su 59 prefetti in Italia, 43 erano piemontesi, il resto emiliani e toscani;   

ed altre misure che provocarono un grande e diffuso disagio.

Un ufficiale piemontese

6. Il peggioramento delle condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione del Sud dopo l’unificazione era talmente clamoroso ed evidente che lo riconoscevano perfino i più onesti e sensibili tra gli ufficiali dell’esercito “conquistatore”.

Così, l’ufficiale piemontese, conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale, scriveva in un suo libro èdito nel 1864:

“Il 1860 trovò questo popolo del 1859 vestito, calzato, indùstre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia. Tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso, è l’opposto ...

La pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia. Adesso, veruna cattedra scientifica …

Nobili e plebei, ricchi e poveri, qui tutti aspirano … ad una prossima restaurazione borbonica” [5].

7. Il buon conte Jorioz intendeva in realtà difendere la causa “piemontese”, ma pensava di poterla difendere riconoscendo la verità ed esortando il suo governo a cambiare atteggiamento verso il Sud.

Se non che: “Non poteva, la mal consigliata difesa, riuscire ad un’accusa più sarcastica e acerba contro il nuovo ordine di cose in Italia. Ciò fu agevolmente inteso dai liberali e dal loro Governo. Onde il libro del sig. Jorioz, in cambio di accattar lode, venne fieramente censurato dai giornali del partito e dai Deputati in pubblico Parlamento, e il Jorioz, invece di promozione, come egli forse s’imprometteva, fu quasi destituito coll’esser posto, come dicono, alla seconda classe. Novello esempio del come i Governi liberaleschi amano d’essere illuminati sulle calamità dei popoli, e comportano la libertà di discussione, quand’ essa per la caparbietà invincibile del vero torna a manifestazione delle loro vergogne” (P. Matteo Liberatore, ivi).

Il duca di Maddaloni

8. Il 20 novembre 1861 il deputato di Casoria al nuovo parlamento italiano, Francesco Proto, duca di Maddaloni (1815-1892), presentò una “Mozione di inchiesta per le province napoletane” in cui accusava apertamente il governo piemontese di avere invaso e depredato il Napoletano e la Sicilia:

“Intere famiglie véggonsi accattar l'elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifìci …

E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i Dicasteri e per le pubbliche amministrazioni.

Non vi ha faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a disbrigarla.

A mercanti di Piemonte si danno le forniture più lucrose.

Burocrati di Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani, e di una ignoranza e di una ottusità di mente, che non tenèasi possibile dalla gente del mezzodì.

Anche a fabbricar le ferrovie si mandano operai piemontesi, i quali oltraggiosamente si pagano il doppio che i napoletani.

A facchini della dogana, a carcerieri, a birri, vengono uomini di Piemonte; e donne piemontesi si prendono a nutrici dell’ospizio dei trovatelli, quasi neppure il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole.

Questa è invasione non unione, non annessione!

Questo è voler sfruttare la nostra terra come terra di conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le provincie meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perù e nel Messico … come gli inglesi nel regno del Bengala”.

Francesco Proto, duca di Maddaloni (1815-1892)

9. La presidenza della Camera invitò il deputato a ritirare la sua mozione e, al suo rifiuto, ne vietò la discussione in Aula e non ne autorizzò la pubblicazione negli Atti parlamentari. Il duca, il giorno successivo, per protesta, rassegnò le dimissioni (erano davvero altri tempi …).

Il bilancio di Fortunato e di Salvemini

10. Alcuni decenni più tardi, del resto, erano proprio i meridionali unitaristi che traevano i più amari bilanci.

Così, il lucano Giustino Fortunato (1848 – 1932), in una famosa lettera a Pasquale Villari (n. 89 del 2 settembre 1899), scriveva:

“L’unità d’Italia è stata e sarà, ne ho fede invitta, la nostra redenzione morale (!?).

Ma è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti.

E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali”.

11. Gli fece eco Gaetano Salvemini (1900):

“Se dall’unità d’Italia il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata … è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone”.

L’economia “fino all’osso”: di chi?

12. Allora, però, subito dopo l’unificazione, per i “galantuomini”, il problema più grave era quello del debito pubblico del nuovo Stato.

Napoli aveva chiuso il suo ultimo bilancio, prima della unificazione, con un avanzo di circa 9 milioni (in lire).

Il Regno subalpino, al momento della unificazione, aveva invece un dis-avanzo di più di 90 milioni (in lire) e la Toscana un dis-avanzo di più di 14 milioni (in lire).

L’ammontare degli interessi sul debito pubblico, prima della unificazione, era spaventosamente più alto nel Regno sabàudo (13,93 lire pro càpite) che in qualsiasi altro Stato della penisola: nel Regno delle due Sicilie era solo di 3,58 lire pro càpite [6].

13. Il nuovo Regno d’Italia nacque dunque gravato da un debito che aveva ereditato esclusivamente dal Regno sabaudo e dalla Toscana; ed al primo bilancio finanziario, nel 1862, aveva entrate (450 milioni in lire) che erano meno della metà delle uscite!

14. Per far fronte a questa situazione, gli economisti liberali (celebre, e meno peggio fra tutti, il “risparmiatore di calamai”, ministro Quintino Sella) pensarono di essere “rigorosi” facendo pagare a tutti i nuovi “italiani” i debiti che avevano contratto solo quelli del Nord, e per di più facendo pagare ai poveri i debiti di un Regno governato esclusivamente dai ricchi.

Ricorsero, cioè, ad una forte imposizione fiscale (che andò a gravare, naturalmente, soprattutto sulle grandi masse più povere); nonché ad un rigoroso controllo su tutte le spese dello Stato (“economia fino all’osso”) che però non valeva quando si trattava di regalare soldi pubblici alla “consorteria cavourrista” che era al potere (vedi appresso).

15. In conseguenza, si arrivò (nel 1868) persino alla famigerata “tassa sul macinato”, che venne giustamente definita “l’imposta progressiva sulla miseria” perché colpiva in pratica il consumo del pane, proprio mentre i contadini perdevano anche i loro diritti di “usi civici” sulle terre demaniali, comprate a prezzi stracciati dai ricchi proprietari terrieri.

La tassa veniva calcolata per mezzo di un contatore applicato alle màcine dei mulini e procurava allo Stato un introito sicuro di un centinaio di milioni l’anno. Al momento della sua applicazione, vi furono ovunque proteste e rivolte, che vennero represse con ben 250 morti!

16. Si procedette, inoltre, come nel Decennio francese, alla (s)vendita di terre demaniali, ed alla espropriazione e (s)vendita dei beni ecclesiastici, incamerati attraverso la soppressione degli Ordini religiosi. La soppressione cominciò subito dopo il 1860, e divenne generalizzata con la Legge nazionale del 7 luglio 1866. A Napoli, in particolare, il cardinale arcivescovo Sisto Riario-Sforza (1846-1877) fu costretto all’esilio, dal 1860 al 1866.

Nel 1875, venne finalmente conseguita la agognata “parità di bilancio”: durò poco, ma il rapporto della Destra liberale con la società, nel conseguimento di questo obiettivo, si era ormai ampiamente logorato. L’anno dopo, andò al governo, con Agostino Depretis, la così detta Sinistra.

“La così detta Destra (“liberale” o “storica”) era più una cricca di burocrati, generali e proprietari terrieri che un partito politico” [7]. La così detta Sinistra fu migliore?

La sintetica opinione di Antonio Gramsci

17. “Lo Stato borghese italiano si è formato per la spinta di nuclei capitalistici dell'Italia settentrionale che valevano unificare il sistema dei rapporti di proprietà e di scambio del mercato nazionale, suddiviso in una molteplicità di staterelli regionali e provinciali.

Fino all'avvento della Sinistra (liberale) al potere (quindi, negli anni della Destra liberale), lo Stato italiano ha dato il suffragio solo alla classe proprietaria, è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri, che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di «briganti».

Lo sviluppo dell'industria rafforzò lo Stato unitario: la Sinistra (liberale) andò al potere, allargò il suffragio, introdusse un pizzico di «democrazia». La dittatura industriale non fu però meno feroce della dittatura della media borghesia e dei proprietari terrieri che si erano saziati coi beni ecclesiastici: lo Stato si pose al servizio dell'industria e nel 1898 soffocò i movimenti nei quali la classe operaia per la prima volta si sollevò contemporaneamente ai contadini poveri di Sicilia e di Sardegna” [8].

Il Risorgimento: di chi?

18. In definitiva, che cosa era veramente accaduto in quel 1860 e negli anni immediatamente successivi? 

Semplicemente, aveva ragione il duca di Maddaloni: il Regno meridionale era stato conquistato militarmente dal Regno sabàudo ed era diventato una colonia di esso, né più né meno di quei paesi extra-europei che erano stati conquistati militarmente ed erano diventati colonie dell’Olanda, della Spagna, del Portogallo, della Francia, dell’Inghilterra … 

19. “L’unità d’Italia non era avvenuta su una base di uguaglianza ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno … il Nord, concretamente, era una piovra che si arricchiva a spese del Sud ed il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale” [9].

“La egemonia del Nord sarebbe stata normale e storicamente benefica se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri, per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate …

Si sarebbe avuta, allora, una rivoluzione economica di carattere nazionale anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e, al contrasto, sarebbe succeduta una superiore unità. Ma invece non fu così.

L’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una condizione storica necessaria, per un tempo indeterminato e quindi apparentemente perpetua, per l’esistenza di una industria settentrionale [10].

20. Non è vero, infatti, che, al momento dell’unificazione, il Nord fosse prevalentemente “industriale” (e genericamente “più progredito”) ed il Sud, invece, prevalentemente “agricolo” (e genericamente “più arretrato”).

I dati numerici sono chiari e precisi:

-              censimento ufficiale del 1861: nell’Italia meridionale, gli addetti alle attività industriali sono il 51% del totale degli occupati nell’industria in Italia;

-              censimento ufficiale del 1951: nell’Italia meridionale, gli addetti alle attività industriali sono il 12,8% del totale degli occupati nell’industria in Italia.

In 90 anni di “unità nazionale” (1861-1951), si è quindi attuato un vero e proprio processo, complementare e costante, di de-industrializzazione del Sud e industrializzazione del Nord.

Sempre dai dati ufficiali si rileva che l’incidenza del reddito del Sud, su quello complessivo dell’Italia, è del 40% nel 1861; scende al 22% nel 1901.

Quindi: sia in termini di struttura industriale sia in termini di reddito pro-càpite, il Nord, come dice Gramsci, “concretamente, era una piovra che si arricchiva a spese del Sud”.

21. Il “meccanismo” è ben noto agli storici, è del tutto generale, e si può dire che si presenti, in forme analoghe, in tutte le epoche (“cambia il maestro, cambiano i suonatori dell’orchestra, ma la musica è sempre la stessa”).

La forma specifica dell’epoca moderna ha la sua data ufficiale di nascita nel 1492, con l’inizio della colonizzazione delle Americhe da parte degli Europei: la conquista e lo sfruttamento economico di paesi “altri” consentono alla borghesia dei paesi conquistatori e colonizzatori di realizzare quella “accumulazione primitiva” di capitale che fa da “innesco” al modello capitalistico di società.

La borghesia meridionale

22. In tutte le colonie, è però necessaria anche una borghesia locale che fa da tramite con la metropoli: si allea servilmente con i conquistatori e ne ottiene, in cambio, una posizione privilegiata. 

23. In questo senso, mutati i tempi ma non i costumi, nell’Italia meridionale accadde nell’Ottocento qualcosa di analogo a quanto era accaduto nel Duecento.

Nel Duecento, una parte decisiva dell’aristocrazia feudale meridionale abbandonò e tradì Manfredi e Corradino di Svevia, e passò armi e bagagli dalla parte degli invasori Angioini, con l’intento di conservare ed anzi di accrescere, nel nuovo “regime”, il suo potere ed i suoi privilegi.

Nell’Ottocento, una parte decisiva della borghesia meridionale (e degli antichi nobili, opportunisticamente riciclatisi come “liberali”) abbandonò e tradì Ferdinando II e Franceschiello di Borbone, e passò armi e bagagli dalla parte degli invasori Sabàudi, con l’intento di conservare ed anzi di accrescere, nel nuovo “regime”, il suo potere ed i suoi privilegi.

24. Di questa borghesia meridionale abbiamo già parlato (vedi i nn°1-6 e 255-263 del Cap. 10.II).

Erano i “nuovi proprietari terrieri nelle provincie”: i Mastro Don Gesualdo e i Mazzarò, di Giovanni Verga; i don Calogero Sedàra, di Tomasi di Lampedusa. Erano i gradi medio-alti delle forze armate e della burocrazia statale. Era il vasto ceto medio dei professionisti: notai, giuristi, avvocati, medici, farmacisti, professori universitari, proto-giornalisti …

Ruotavano intorno alla corte, ai tribunali, alla règia amministrazione, ai palazzi dei nobili di cui ambivano le terre, i titoli, i privilegi sociali e le fortune economiche …

“Al Sud questa classe è stata, ed è, un’autentica maledizione, un morbo sociale … un male relativo, prima dell’unità; un male assoluto dopo, allorché passa al servizio della Tosco-Padania, che la insignisce del potere politico e della gestione della spesa pubblica …” (Zitara, pag.16).

25. In altri termini: la borghesia meridionale, che non aveva avuto nel 1799 né aveva nel 1860, le capacità e la forza di fare da sé la sua rivoluzione e di prendere il potere come era accaduto in altri paesi europei, raggiunse tuttavia il suo scopo con l’aiuto dell’esercito e della diplomazia sabàudi [11], accettando in cambio di sub-ordinarsi alla borghesia del Nord.

Oggi come allora

26. “E’ questo un punto-chiave, che ha consentito la realizzazione e consente la perpetuazione della dipendenza allora realizzata.

Si è poco ragionato, fin ad ora, sulla costituzione di fatto, di tipo neo-feudale, che la conquista ha assegnato al territorio, sequestrandolo, ancor prima che nella capacità di esprimere produzione, nella capacità di elaborare proprie forme di potere.

Tale costituzione di fatto si articola in un sistema politico che ingloba, in posizione dipendente, le classi dirigenti meridionali, a cui è rimessa la gestione delle risorse pubbliche e l’amministrazione dei rapporti civili, cioè praticamente tutte le risorse della vita di un Meridione di cui è stata sterilizzata la capacità produttiva.

Con la costruzione di un tale sistema, la conquista entra nei gangli delle relazioni quotidiane della vita sociale, de-potenzia le resistenze, annebbia le volontà e le menti” [12].

Il contesto economico internazionale

27. Ben chiaro è anche il contesto economico internazionale nel quale questo processo avvenne.

Già il 27 ottobre 1860 (solo il giorno prima, 26 ottobre, vi era stato il famoso “incontro a Teano” fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II) il Ministro degli esteri britannico, Russel, inviò un dispaccio ufficiale all’Ambasciatore inglese a Torino, sir James Hudson, che diceva:

“Il governo di Sua Maestà non vede motivi sufficienti per partecipare alla severa censura che l’Austria, la Francia, la Prussia e la Russia hanno inflitto all’operato del re di Sardegna … piuttosto preferisce volgere lo sguardo alla lusinghiera prospettiva di un popolo che costruisce l’edificio della sua indipendenza”.

28. In effetti: “A metà ottocento, la rivoluzione commerciale aveva già trasformato il mondo nel consumatore universale delle merci inglesi ed il nazionalismo di Ferdinando II di Borbone dava fastidio a chi (gli inglesi) intendeva spadroneggiare sugli zolfi siciliani e sulle rotte mediterranee. Cosicché, la diplomazia britannica offrì il Sud in dono al sussiegoso conte di Cavour ed al libero saccheggio sabàudo” (Zitara, pag. XV della Premessa).

Uno stato “liberale”: con chi?

29. Abbiamo già detto (vedi nn°414-426 del Cap. 10.II; e sopra, n°20), che la prima rivoluzione industriale, sia pure in ritardo rispetto all’Inghilterra e ad altre nazioni europee, era arrivata anche nella nostra penisola, intorno alla metà dell’Ottocento e, stando ai dati numerici, era arrivata al Sud più che al Nord.  

Dopo l’unificazione, e grazie ad essa, lo Stato liberale borghese, che in teoria era neutrale e non interveniva nel “libero gioco della competizione di mercato”, in pratica intervenne molto attivamente nell’economia.

Ed intervenne, precisamente, per smantellare l’industria meridionale e favorire quella incipiente del Nord, consentendo così a quest’ultima di realizzare la sua “accumulazione primitiva” e di poter partecipare a pieno titolo, sia pure come “ultima della classe” europea, alla seconda rivoluzione industriale del capitalismo internazionale, sul finire dell’Ottocento e l’iniziare del Novecento.

Lo Stato unitario italiano, cioè, non intervenne solamente per eliminare le barriere doganali fra le varie parti della penisola e creare così le condizioni di un “libero mercato” interno, come era previsto dalla dottrina economica liberale, ma fu il “braccio operativo” direttamente utilizzato dalla borghesia del Nord per accrescere le proprie fortune.

Il programma economico del Risorgimento

30. Al Nord, intorno al 1860, vi erano solo piccoli nuclei di borghesia industriale, che non avevano ancora realizzato “l’accumulazione primitiva di capitale” necessaria per innescare uno sviluppo industriale su larga scala.

La maggior parte della borghesia sabàuda (come lo stesso Cavour, del resto) era una borghesia agraria: erano proprietari terrieri interessati anzitutto ad ampliare l’area di smercio dei loro prodotti agricoli.

A questo, però, si opponevano le barriere doganali che separavano fra di loro i vari stati in cui era divisa la penisola, nonché la carenza di una rete di trasporti moderni (le ferrovie).

Inoltre, vaste aree di terreni agricoli erano demaniali, ed aree ancor più vaste appartenevano alla Chiesa, ed i nuovi proprietari terrieri borghesi ambivano ad impadronirsi di queste terre per “renderle produttive” ovvero utilizzarle secondo il criterio del “massimo profitto” (per loro).

31. A costoro, nei suoi “Scritti economici” e nei suoi discorsi al parlamento sabàudo prima dell’unità, il Cavour esponeva, in solida prosa liberista, il “programma economico” del Risorgimento italiano:

-              il libero commercio favorirà le nostre esportazioni agricole in tutta la penisola;

-              una organica rete ferroviaria favorirà gli scambi fra le sue varie parti;

-              l’espropriazione delle terre ecclesiastiche, già utilmente sperimentata nel periodo “francese”, potrà diventare ancor più ampia;

-              potremo fare anche noi la nostra rivoluzione industriale “come l’Inghilterra”.

32. Con questi “concretissimi” argomenti, il Cavour convinse quella borghesia sabàuda, che si era arricchita ed aveva comprato titoli nobiliari sotto il dominio francese, che in famiglia parlava francese, che mandava i suoi figli a studiare nelle Università francesi e svizzere … a diventare “patriotticamente” italiana, anzi addirittura porta-bandiera dell’unità d’Italia.

Naturalmente, purché ciò avvenisse … sotto lo Statuto “albertino” … Italia e Vittorio Emanuele … avanti, Savoia! 

Tanto per cominciare …

33. Coerentemente, quando siffatta classe sociale raggiunse il potere nell’Italia “una e indipendente”, gli strumenti iniziali (e non solo) della sua politica di sfruttamento coloniale ai danni del Sud furono: un prelievo fiscale esoso fino al limite della sopportabilità; il drenaggio dei capitali verso il Nord e la strozzatura del credito al Sud; gli investimenti pubblici preferenziali per il Nord e la diminuzione delle commesse alle imprese del Sud.

“Prima di morire, nel giugno del 1861, appena 3 mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia, Cavour fece in tempo: a chiudere l’industria di Stato duo-siciliana; a mettere sul lastrico gli imprenditori privati (fra cui gli stranieri richiamati nel Regno dal protezionismo borbonico); a stendere al tappeto il Banco delle due Sicilie; a liquidare il porto di Napoli spostando la dogana con la Francia a Genova …” (Zitara, pag. 281).

E dopo Cavour …

34. Dopo di lui, il “programma economico” da lui delineato proseguì implacabile, ad opera della “consorteria cavourrista” che con lui era arrivata al potere.

I fatti e le cifre sono ampiamente illustrati e documentati in numerose pubblicazioni e non è quindi necessario riportarle in questa sede.

Basterà qui riferire l’espressivo bilancio di tutto il periodo liberale, tratto nel 1923 non da un nostalgico dei Borboni ma da colui per il quale “l’unità d’Italia è stata e sarà, ne ho fede invitta, la redenzione morale delle genti del Sud”, e cioè Giustino Fortunato (lettera n. 58 del 14 giugno 1923, diretta a Salvemini):

“Non disdico il mio unitarismo. Ho modificato soltanto il mio giudizio sugli industriali del nord. Sono dei porci più porci dei maggiori porci nostri. E la mia visione pessimistica è completa”.

Facciamo i nomi …

35. Poiché però agli allievi delle scuole italiane, fin da piccoli, vengono indicate, circonfuse di gloria, le figure aureolate degli “eroi del Risorgimento” (i vari Cavour, Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini, etc.) e poiché le città meridionali sono state riempite di strade e piazze ad essi dedicate, non sarà qui inutile “fare i nomi” almeno di alcuni dei veri (anti) eroi del cosiddetto Risorgimento ovvero dei primi artefici dell’asservimento e del saccheggio del Sud a vantaggio di una piccola minoranza di predoni e saccheggiatori in guanti bianchi. 

36. Accortamente celati-si, in vita, sotto la retorica delle fanfare dei bersaglieri che avanzano sventolando il tricolore e suonando l’Inno del povero Goffredo Mameli, questi personaggi si meritano invece una ben più larga in-famia presso i posteri.

Ci premuriamo pertanto qui di “fare i nomi” di alcuni esponenti di quella “consorteria cavourrista” e sono i nomi di Carlo Bombrini, Pietro Bastogi e Domenico Balduino.   

La banca di Carlo Bombrini (e dello Stato)

37. Il Banco delle due Sicilie, fin da quando ricevette la sua classica forma dal ministro Luigi de’ Medici nel 1815, era una banca pubblica: lo Stato ne era l’unico ed esclusivo proprietario.

Il Banco coniava la moneta (il ducato napoletano), raccoglieva i risparmi dei privati cittadini (ai quali rilasciava una accorsata “fede di credito”) e, con entrambi, concedeva prestiti a privati e faceva investimenti pubblici in economia.

38. Per contro, “la Banca Nazionale del Regno di Sardegna fu una azienda privata sin dalla nascita e tale rimase … fino alla fine dei suoi giorni nel 1894”: il banchiere massone genovese Carlo Bombrini (1804-1882) ne era direttore e, cospicuamente, proprietario.

Cavour ne aveva voluto fare anche la banca centrale del Regno sabàudo: come dire, due in una, in cui gli interessi privati, a partire da quelli di Bombrini e suoi, si intrecciavano con quelli pubblici.

La rapida ascesa dell’Ansaldo di Genova, di cui Bombrini era con-proprietario, favorita dallo Stato italiano a scàpito di Pietrarsa, costituisce solo uno degli esempi più durevoli di questo intreccio.

Carlo Bombrini (1804-1882)

39. Comunque, “nel giugno 1859, la Banca Nazionale sabàuda era sull’orlo del fallimento. Due anni dopo, grazie all’unificazione italiana, aveva centinaia di milioni-oro in cassa. Su come abbia fatto, non ci sono altre spiegazioni che: il bottino del vincitore. Sul saccheggio, non esistono dubbi” (cfr Zitara, cap.12).

Pietro Bastogi: chi era costui?

40. Il ministro delle finanze dell’ultimo governo Cavour, e dunque il primo dell’Italia unita, fu invece il banchiere massone livornese Pietro Bastogi (1808-1899).

Personalmente, non aveva altri meriti “patriottici” se non quello di essere stato, in gioventù, assai cautamente mazziniano: gestiva, con discrezione, la cassa del partito.

Ma “il padronato toscano, che egli rappresentava, oltre a rivendicare il merito di aver trascinato con sé nelle braccia dei Savoia l’Italia centrale, era alquanto ricco e riscuoteva la fiducia dei banchieri massoni del Regno Unito: cosa che aveva avuto notevole peso nel momento in cui Cavour era stato costretto a battere cassa. A vittoria ottenuta, avendo portato molto, i toscani pretesero di entrare nella stanza dei bottoni” (cfr Zitara, pagg. 282-283).

Pietro Bastogi (1808-1899)

41. Fu Pietro Bastogi, ben più delle pallide figure politiche che si succedettero come primi ministri dopo Cavour, il “fiero leader dei profittatori di regime” (Zitara).    

In particolare, fu lui, amico personale nonché socio in affari di Cavour, a confezionare “le 3 polpette avvelenate” fatte ingurgitare fin dalla culla alla neonata Italia e cioè: la unificazione del debito pubblico degli ex Stati; il sistema fiscale nazionale; la costituzione della cosiddetta Società Italiana per le Strade Ferrate “Meridionali”.

Domenico Balduino e le terre ecclesiastiche

42. Dal canto suo, il banchiere Domenico Balduino (1824-1885), divenuto grazie a Cavour l’animatore della Società di Credito Mobiliare con sede a Torino, “emulò sfacciatamente e superò in ingordigia Pietro Bastogi. Se questi, infatti, scroccò denaro pubblico ma almeno stese i binari della ferrovia promessa, Balduino rubò soltanto. Stranamente, fu uno dei pochi illustri malfattori dell’epoca che il re non fece conte” (Zitara, pag. 308).

43. Si è già detto sopra che, subito dopo l’unificazione, si procedette, come nel Decennio francese, alla vendita sotto costo (per realizzare subito nuove entrate) delle terre demaniali e delle terre ecclesiastiche confiscate attraverso la soppressione degli Ordini religiosi.

“Questa gigantesca operazione, avviata nel 1862, raggiunse nel 1868 il suo punto culminante, era compiuta circa per metà nel 1870, e continuò con notevole intensità fino al 1880.

Essa riguardò: 750.000 ettari di beni dell’asse ecclesiastico; 190.000 ettari di beni ecclesiastici siciliani; 30.000 ettari di beni demaniali. In tutto, perciò, 1.240.000 ettari, di cui la maggior parte erano i 940.000 di terre ecclesiastiche.

Dalla (s)vendita, lo Stato incassò circa 1 miliardo di lire, somma certamente assai inferiore al valore reale dei beni” [13].

44. Le terre, naturalmente, furono acquistate da chi le poteva pagare cioè da quelli che erano già latifondisti: le condizioni di vita dei contadini, che erano più miti sulle terre ecclesiastiche, peggiorarono drasticamente sotto i nuovi padroni borghesi ed in più essi perdettero gli “usi civici” sulle terre demaniali.     

“Al centro di questa nobile e patriottica vicenda sta Domenico Balduino” (Zitara, pag. 307).

45. Lasciamo al volenteroso lettore interessato il còmpito di approfondire le “nobili gesta” dei tre sopra lodati, con tutto il necessario corredo scientifico di analisi e di documentazione, studiando la fondamentale opera citata di Nicola Zitara (vedi sopra, nota 3).

Nicola Zitara (1927-2010), grande storico ed economista meridionale

La repressione a Pietrarsa (giovedì 6 agosto 1863)

46. Per il lettore, invece, non specialista di economia e finanza, sarà forse più esplicativa la semplice lettura del seguente articolo di giornale, riguardante un emblematico episodio accaduto proprio non lontano da Barra, a Pietrarsa nel 1863.

47. “Il Popolo d’Italia” del 7 agosto di quell’anno scrive: 

“Un tal Jacopo Bozza, uomo di dubbia fama, ex impiegato del Borbone, già proprietario e direttore del giornale “La Patria”, vendutosi anima e corpo all’attuale governo, aveva avuto in compenso da questo governo moralizzatore la concessione di Pietrarsa.

Costui, divenuto direttore di questo ricco opificio, che è il più bello e il più grande d’Italia, avea per lurido spirito d’avarizia accresciuto agli operai un’ora di lavoro al giorno, cioè 11 ore da 10 che erano prima; ad altri licenziamento, pur se nel contratto d’appalto c’era l’obbligo di conservare tutti ...

Gli operai così detti battimazza, che avevan prima 32 grana di paga al giorno, eran stati ridotti a 30 grana; e questi, dopo aver invano reclamato su tale torto, ieri annunziarono al Bozza che essi erano decisi piuttosto ad andar via anziché tollerare la ingiustizia, e perciò gli domandarono il certificato di ben servito.

Pare che il Bozza non solo abbia negato il certificato, ma abbia risposto con un certo Ordine del giorno ingiurioso a’ poveri operai.

Allora ci fu che uno di questi suonò una campana dell'opificio, verso le 3 p. m., ed a tale segnale tutti gli operai, in numero di 600 e più, lasciarono di lavorare ammutinandosi, e raccoltisi insieme gridarono “Abbasso Bozza” ed altre simili parole di sdegno.

Il Bozza, impaurito a tale scoppio, si dié alla fuga; fuggendo precipitosamente, cadde tre volte di seguito per terra; indi si recò personalmente, o mandò un suo fido, com’altri dice, a chiamare i bersaglieri che erano di guarnigione in Portici, perché accorressero a ristabilire l’ordine in Pietrarsa, non sappiamo in che modo narrando l’avvenimento al comandante.

E così accorse un maggiore con una compagnia di bersaglieri. Nel frattempo un capitano piemontese, addetto a dirigere i lavori dell’opificio, uomo onesto e amato dagli operai, mantenne questi in quiete, aspettando che arrivasse qualche autorità di Pubblica Sicurezza o la Guardia Nazionale per esporre le loro ragioni.

Ma ecco che invece giunsero i bersaglieri con le baionette in canna: gli operai stessi, che erano tutti inermi, aprirono il cancello, ed i soldati con impeto inqualificabile si slanciarono su di essi sparando i fucili e tirando colpi di baionetta alla cieca, trattandoli da briganti e non da cittadini italiani, qual erano quegli infelici!

Il capitano che dirigeva i lavori, e del quale abbiamo accennato più sopra, si fece innanzi con kepì in mano, e gridando a nome del Re fece cessare l'ira della soldatesca …

Cinque operai rimasero morti sul terreno, per quanto si asserisce: altri che gettaronsi a mare, cercando di salvarsi a nuoto, ebbero delle fucilate nell’acqua, e due restarono cadaveri.

I feriti sono in tutto circa venti: sette feriti gravemente furono trasportati all'Ospedale de’ Pellegrini, altri andarono nelle proprie case.

Ferdinando II di Borbone a Pietrarsa

48. in questo articolo, notiamo anzitutto che, nel 1863, quindi subito dopo l’unità d’Italia, è per tutti ovvio ed evidente (tanto che l’autore dello scritto lo dà per scontato) che lo stabilimento industriale di Pietrarsa è non soltanto “un ricco opifìcio” ma “il più bello e il più grande d’Italia”.

In effetti, esso era stato voluto da Ferdinando II di Borbone (mezzo secolo prima della Breda e della Fiat) ed era stato costruito con fondi pubblici (= Banco delle due Sicilie) e con il lavoro di operai e tecnici qualificati meridionali.

“Spesso i vecchi operai di Pietrarsa ricordavano l’aitante figura del Re che percorreva le corsie da lavoro con un fare bonario, compiacendosi chiamarli per nome per sentire i loro bisogni e prendere consiglio su questo e quello” [14].

Luigi Corsi

49. A dirigerlo, fin da quando era ancora una piccola officina nel 1837, fu chiamato il tenente d’artiglieria Luigi Corsi, che ne fu il geniale direttore tecnico ed organizzativo fino al 1860, quando, raggiunto il grado di colonnello, “intese condividere la sorte del suo profugo Re (Francesco II di Borbone), ritirandosi a vita privata”.

Gli stessi operai, in quella circostanza, vollero unanimi a lui rivolgere un commosso messaggio:

“Perché si ricordassero la solerzia, l’onestà e la rara intelligenza che rifulsero nel colonnello Luigi Corsi nella direzione dell’opificio di Pietrarsa dal 1840 al 1860 … è stato necessario sottolineare i punti salienti della sua attività al riguardo … fu sotto la sua direzione che, per ben 20 anni, 800 artefici ebbero lavoro e pane … noi umili lavoratori gli mandiamo reverente un saluto e, a testimonianza dell’opera sua, indichiamo qui sotto i lavori di maggior pregio compiuti nell’opificio dal 1840 al 1860 …” [15].      

50. Il nome di Luigi Corsi è anche ricordato nel piedistallo della colossale statua in ghisa (4,50 metri di altezza) che gli stessi operai vollero dedicare a Ferdinando II di Borbone l’11 gennaio 1853, giorno di compleanno del Sovrano.

Dopo la conquista sabàuda

51. Al momento della conquista sabàuda, nel 1860, a Pietrarsa lavoravano 850 operai, più 200 “operai straordinari” e 75 artiglieri.    

52. Il nuovo governo italiano diede incarico all’ing. Sebastiano Grandis, Ispettore delle Ferrovie, di preparare una relazione sullo stato di quelle officine ed egli, il 15 luglio 1861, presentò una relazione in cui evidenziava tutti e soltanto gli aspetti negativi dell’attività dell’opificio, magnificando quindi, per contrasto, tutti e soltanto i vantaggi e le prospettive di sviluppo della Ansaldo di Genova: della quale, guarda caso, erano comproprietari il Bombrini ed altri esponenti della “cricca cavourrista” allora al potere (vedi sopra).

L’ing. Grandis concludeva la sua relazione proponendo, per Pietrarsa, la vendita a un industriale privato o, in alternativa, addirittura la demolizione completa.

53. Il 10 gennaio 1863, presso il Ministero delle Finanze, fu stipulata la convenzione che affittava lo stabilimento napoletano, per 20 anni e per un canone di 46.000 lire annue, al sig. Jacopo Bozza, subordinandola peraltro ad una successiva approvazione parlamentare.

Jacopo Bozza: il capitalismo “all’italiana”

54. Chi era codesto Jacopo Bozza? Notizie di lui, seppur non completamente esaustive, abbiamo in: Angelo Nesti – “Jacopo Bozza: imprenditore siderurgico nell’Italia post-unitaria”, Rivista Quadrimestrale di Ricerche storiche, Università di Siena, N°3, anno XL, settembre-dicembre 2010.   

55. Nato a Milano il 22 aprile 1824, nel 1849 era ufficiale di Marina (asburgica) di stanza a Venezia, laddove qualche anno dopo aprì una fabbrica di fiammiferi, che dovette però fallire assai presto, visto che nel 1856 lo troviamo già a Napoli impegnato nel settore della “telegrafia elettrica”.

56. Nel Regno meridionale fece le sue fortune, ottenendo dal governo borbonico l’appalto per la costruzione della rete telegrafica in Calabria, in Sicilia, nel tratto Napoli-Ischia, etc. fino a diventare addirittura “Ispettore generale del servizio e delle linee telegrafiche delle due Sicilie”, con l’incarico di trattare con il Governo Turco Ottomano il progetto di una linea telegrafica sottomarina che doveva collegare la Turchia con la Sicilia. 

Ben presto però sul suo conto si levarono dubbi e sospetti, sia di scarsa competenza tecnica sia di lucrare più del dovuto sugli appalti pubblici ricevuti.

57. Rimosso pertanto dal suo incarico, cominciò a manifestare, in modo peraltro assai accorto, inusitati sentimenti di italico patriottismo e, dopo il 1860, cercò subito di accreditarsi presso i nuovi arrivati “fratelli d’Italia”, pubblicando anche una sua auto-difesa apologetica, intitolata: “Cenni storici sulla telegrafia elettrica nelle Due Sicilie dalla sua istituzione (1812) fino a’ nostri giorni (1860)”, presso Giuseppe Dura, Strada Toledo, Napoli, 1861. 

Però, nonostante la sua esplicita richiesta, anche Garibaldi, nel suo periodo di reggenza napoletana, lo escluse da qualsiasi incarico o appalto nell’amministrazione telegrafica: vuoi che non si fidasse di lui, vuoi che avesse altri esponenti del suo partito da sistemare, vuoi l’una e l’altra cosa insieme.

58. Il nostro decise allora di cambiare nuovamente il suo campo di attività: dopo i fiammiferi e dopo i telegrafi, di dedicò all’industria pesante, presentandosi come imprenditore metalmeccanico e siderurgico.

Di fatto, come abbiamo visto, riuscì ad ottenere dai governi della Destra liberale la concessione di Pietrarsa; è però da notare che, evidentemente, nemmeno la “consorteria cavourrista” si fidava troppo di lui, perché la concessione venne data solo in forma di affitto e comunque “subordinata ad una successiva approvazione parlamentare”.

59. Invece, prima che questa definitiva approvazione giungesse, accaddero i luttuosi eventi che guastarono la festa a questo personaggio, giustamente dipinto nell’articolo come “di dubbia fama … ex impiegato del Borbone, già proprietario e direttore del giornale La Patria che … vendutosi anima e corpo all’attuale governo”, ne aveva avuto “in compenso … la concessione di Pietrarsa”.

60. A scanso di equivoci, per dirigere il personale era stato chiamato un capitano piemontese di artiglieria, di nome Ferrero (vedi quanto diceva il duca di Maddaloni).

E subito il Bozza, non contento di aver ricevuto la fabbrica quasi in regalo … aveva attuato le misure tipiche del capitalismo selvaggio (“lurido spirito di avarizia”): licenziamento di operai (nonostante gli impegni in contrario, ne aveva licenziati circa 250, oltre ad eliminare i circa 200 operai “straordinari”); diminuzione del salario (da 32 a 30 grana al giorno) e contemporaneamente aumento dell’orario di lavoro (erano 10 ore al giorno, le portò a 11).

61. Da notare qui, di passaggio, che anche per quanto riguarda l’orario di lavoro nell’industria, il Regno borbonico meridionale era evidentemente all’avanguardia: infatti, la giornata lavorativa di 10 ore esisteva, a quel tempo, solo in Inghilterra dove era stata introdotta per legge nel 1847.

Comunque, alle più che giustificate proteste degli operai, il Bozza rispose … chiamando la forza pubblica ovvero l’esercito d’occupazione piemontese che, “per ristabilire l’ordine in Pietrarsa”, senza tanti complimenti sparò sugli operai inermi.

La “giustizia proletaria”

62. Qualcuno però decise, quella volta, di non attendere i risultati della “Commissione parlamentare d’inchiesta” che, allora come oggi, venne prontamente attivata e, allora come oggi, concluse i suoi lavori dopo vari anni, senza individuare alcun colpevole per i morti di Pietrarsa.

E così, solo qualche giorno dopo, i giornali riportavano la seguente notizia: “Domenica 9 agosto 1863 … Il sig. Jacopo Bozza, transitando in vettura nei pressi del Rione Mercato di Napoli, veniva da uno sconosciuto colpito con una pistolettata ad un braccio”.

63. Non possiamo sapere chi siano stati gli attentatori né se volessero veramente uccidere il nostro o solamente intimidirlo.

Sappiamo soltanto che egli, il 30 settembre 1863, indirizzò una missiva a “Sua Eccellenza il Ministro delle Finanze” nella quale fra l’altro diceva:

“In seguito ai dispiacevoli avvenimenti di Pietrarsa ed al tentato assassinio sulla mia persona, e considerando inoltre … che in coscienza io non potrei aumentare il canone di affitto stabilito …  io rinunzio al mio contratto del 10 gennaio 1863”.

Jacopo Bozza dopo i fatti di Pietrarsa

64. Sembra quindi che il Bozza, in seguito alla pistolettata ricevuta, avesse capito che a Napoli non c’era più aria buona per lui, e così decise di dare una nuova svolta alla sua avventurosa esistenza, trasferendosi … a Piombino (Livorno).

Perché proprio a Piombino? In realtà, egli era uomo di molte risorse, e il suo stoico “io rinunzio” non era proprio una rinuncia: infatti, il 9 ottobre 1863, egli cedette (= a pagamento) il suo contratto di affitto ad una nuova società, denominata Società Nazionale d’Industrie Meccaniche, della quale inoltre lui rimaneva comunque socio per una quota di 400 azioni.

Con tale provvista, dunque, oltre a quanto aveva guadagnato come “capitalista telegrafico”, lasciò Napoli ed arrivò a Piombino che, grazie alla sua vicinanza alle miniere di ferro dell’isola d’Elba, era la “terra promessa” della siderurgia della nuova Italia.

65. Così, nel 1864, lo troviamo associato con l’inglese Joseph Novello, con Alessandro Gigli ed Auguste Ponsard, nel richiedere al Comune di Piombino un permesso per la costruzione di uno stabilimento siderurgico.

“Sappiamo inoltre che nel settembre del 1864 partirono da Piombino due bastimenti con destinazione Napoli allo scopo di imbarcare le macchine necessarie agli impianti che si volevano inaugurare nell’ottobre del 1864. Si trattava di una spedizione che avrebbe oltrepassato il peso di 300 tonnellate, e non è difficile associare questa operazione alle conoscenze che Bozza aveva maturato a Napoli, quando era affittuario dello stabilimento di Pietrarsa, e ai contatti che aveva mantenuto. È assai probabile che l’attrezzatura necessaria per lo stabilimento di Piombino provenisse infatti dalla Società Nazionale d’Industrie Meccaniche, di cui Bozza deteneva 400 azioni, anonima condotta da Gregorio Macry, della Macry & Henry, che aveva rilevato proprio dal Bozza l’affitto di Pietrarsa. Di sicuro provenivano da Pietrarsa le macchine soffianti e due laminatoi acquistati usati” [16].

66. Di lì a poco, però, i rapporti fra i soci si guastarono e qualche mese più tardi si giunse alla creazione di due distinte società: la Novello-Ponsard-Gigli, registrata formalmente il 27 maggio 1865, e la società individuale “La Perseveranza” di proprietà del solo Bozza.

“La Perseveranza” fu, a quanto pare, l’ultima delle sue imprese: la cedette però ad altri prima di morire. Il suo successore, Guido Dainelli, fece apporre una lapide commemorativa, con la data 28 ottobre 1888, sulla casa “che gli fu per 10 anni dimora” a Piombino, ma la casa venne demolita poco dopo la Seconda guerra mondiale e la lapide scomparve con essa.

Considerazioni finali su Jacopo Bozza … ed altri

67. Jacopo Bozza sembra quindi essere il tipico capitalista “di prima generazione della prima rivoluzione industriale”, tutto intento alla “accumulazione primitiva” di capitale (vedi sopra, nn°21-29-33).

Il suo stesso biografo, che pure tende ad essere piuttosto benevolo nei suoi confronti, non può fare a meno di annotare: “aveva spiccata sensibilità per gli affari … ma un suo modo specifico di cercare il profitto industriale … conosceva la realtà italiana e il suo mercato … aveva sempre avuto a che fare con la domanda statale, con le commesse, e quindi conosceva assai bene le dinamiche e il sottobosco della politica, come muoversi, su chi agire, quali leve innescare per ottenere favori e lavori …”

68. Il semplice confronto tra la figura del borbonico Luigi Corsi (vedi sopra, nn°49-50) e quella dell’italiano Jacopo Bozza mostra chiaramente la differenza non solo fra due persone ma fra due diverse “concezioni del mondo”: differenza culturale e morale, oggi e sempre attuale. 

69. Luigi Corsi era un solerte, onesto ed intelligente funzionario pubblico, che lavorava al servizio del suo Paese e del suo Re, contentandosi del suo stipendio e traendo la sua gloria dal fatto che “sotto la sua direzione circa 800 lavoratori ebbero lavoro e pane” e dai “lavori di maggior pregio compiuti nell’opificio” da lui guidato.

70. Jacopo Bozza, invece, era ovviamente un capitalista privato che, come tutti i capitalisti privati, usava la sua intelligenza per ottenere per se stesso il massimo profitto individuale.

Inoltre, specificamente, il suo fine era solo quello di accumulare quanto più denaro possibile, non importa facendo che cosa e con quale utilità per gli altri, ed il mezzo per raggiungere questo fine non era la britannica onesta competizione fra talentuosi imprenditori in un libero mercato, ma l’abilità nell’ottenere appalti pubblici (= i soldi di tutti i cittadini) corrompendo politici e funzionari.

71. In definitiva, la logica è questa: “arricchire se stessi a spese della comunità”, operando nel dispregio di qualunque senso di responsabilità sociale.

Era solo la logica di Jacopo Bozza? Sembrerebbe di no. Certamente è la logica che ha guidato le azioni di una parte significativa dei capitalisti italiani sia nella prima sia nella seconda rivoluzione industriale ed il risultato è stato l’italico “capitalismo accattone”. Ma tuttavia non disperiamo: nuovi “orizzonti di gloria”, e non solo in Italia, si aprono sul finire del Novecento con l’avvento della terza rivoluzione tecnologica ... 

Il “brigantaggio” post-unitario nell’Italia meridionale (1860-1870)

72. Abbiamo visto come i bersaglieri piemontesi-italiani furono piuttosto sbrigativi nel “ristabilire l’ordine a Pietrarsa” (vedi sopra, n°47 e n°61).

Del resto, nella contemporanea repressione del “brigantaggio”, i soldati piemontesi si erano abituati a fare questo ed altro: “si autorizza a decapitare i briganti, per comodità di trasporto” (dall’Ufficio Storico dell’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano).

73. Nell’ex-Regno borbonico, infatti, le misure impopolari prese dai nuovi governanti sommate alla delusione delle speranze che aveva suscitato il Garibaldi (che si era dimostrato solo un “utile idiota” nelle mani di Cavour e di Vittorio Emanuele II), provocarono una eccezionale ripresa del tradizionale “brigantaggio”, il quale venne configurandosi, nel decennio 1860-1870, come un vasto fenomeno popolare di rivolta sociale anti-borghese e di resistenza all’invasore sabaudo.

Ben sintetizzò la situazione, all’epoca, “Civiltà cattolica”, la rivista dei Gesuiti, che nel suo primo numero dell’anno 1861 (Anno XII, vol. IX, serie IV) scriveva: “Nelle province, non che scemare, va crescendo il fuoco dell’insurrezione contro i novelli padroni del Regno, nei quali i popoli si sono ostinati di non voler riconoscere altri diritti che quelli che rampollano da còmpera per tradimento e da conquista per forza”.

Ma il popolo in disperata rivolta, in quegli anni, non trovò come nel 1799 un Card. Fabrizio Ruffo che sapesse unirlo ed organizzarlo né d’altronde riuscì (ma avrebbe potuto?) ad esprimere dal suo stesso grembo dei veri e propri “dirigenti organici” del suo movimento: persone, cioè, che avessero una autonoma e cosciente visione politica e non fossero semplici agenti infiltrati dai Borbone o dallo Stato pontificio.

74. D’altra parte, la risposta del governo liberale piemontese alle esigenze e sofferenze delle masse contadine fu solo una insipiente e brutale repressione armata.

Già durante la spedizione dei Mille, Garibaldi aveva inviato il suo luogotenente Nino Bixio a reprimere ferocemente, in alcuni paesi siciliani (Bronte, etc.), le rivolte di contadini che avevano preso “troppo” sul serio le promesse di Garibaldi medesimo ed avevano iniziato addirittura ad occupare le terre dei latifondisti: vedi, a titolo illustrativo, la novella intitolata “Libertà” di Giovanni Verga.

Dopo l’annessione, fu l’esercito piemontese ad ereditare tale nobile missione, procedendo a massacri indiscriminati della popolazione di interi paesi (noti i casi di Pontelandolfo e di Casalduni, ma ve ne furono certamente altri).

75. Secondo le stesse cifre ufficiali, fornite in quegli anni dai capi militari “italiani”, solo nel periodo 1861-65 furono uccisi dall’esercito piemontese (in guerra o fucilati) più di 7.000 briganti ovvero, come osserva lo storico inglese Denis Mack Smith, … più morti che in tutte le “guerre di indipendenza” messe assieme. Inoltre, più di 5.000 persone vennero arrestate e condannate a lunghissima carcerazione.

76. Ma queste sono le cifre “ufficiali” dei vincitori; quelle reali sono, con ovvia probabilità, ben maggiori.

Lo storico borbonico casertano Giacinto de’ Sivo (Maddaloni, 1814 – Roma, 1867), scrivendo mentre i fatti erano ancora in corso, parla di 47.700 carcerati e 15.665 fucilati.

Lo storico leccese Roberto Martucci, professore di Storia delle Istituzioni politiche e di Storia costituzionale presso l’Università del Salento, scrivendo nel 1999, calcola: “Il fenomeno del brigantaggio investì circa 1.400 centri abitati; e vide più di 100.000 soldati, l’equivalente di 10 divisioni in campagna militare, contrapporsi ad almeno 40 bande a cavallo (le bande in totale, secondo la documentazione ufficiale, erano 388, composte da 10 fino ad alcune centinaia di persone: al minimo, circa 50.000 uomini in armi). 

I soldati avevano l’ordine di sparare a vista e, come abbiamo già detto, quando si trattava di fucilare contadini e di bruciare catapecchie non si tiravano indietro.

Otteniamo una cifra minima di 20.075 ed una massima di 73.875 fucilati ed uccisi in vario modo … mentre le carceri arrivarono a contenere dai 30 ai 40 mila detenuti politici” [17].

Giacinto de Sivo (1814-1867)

77. Ma quale che sia l’entità esatta delle cifre, che è ovviamente difficile determinare con precisione … rimane in ogni caso vero, come scrive Gramsci (vedi sopra, n°17) che lo Stato “liberale” e “unitario” italiano “è stato una dittatura feroce, che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri, che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”.

 “Briganti noi, combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi, venuti qui a depredar l’altrui? Il padrone di casa è brigante, e non voi piuttosto, venuti a saccheggiare la casa?” (Giacinto de’ Sivo).

Carlo Antonio Gastaldi: un operaio di Biella fra i briganti del Sud

78. In questi avvenimenti, vi furono molti ex garibaldini ed anche regolari piemontesi che disertarono e si unirono ai briganti.

Tra i disertori, è da ricordare come esempio quello dell’operaio biellese Carlo Antonio Gastaldi, decorato con medaglia d’argento al valor militare nella battaglia di Palestro del 1859.

Inviato nelle Puglie a combattere i briganti, divenne addirittura luogotenente del Sergente Romano ovvero Pasquale Domenico Romano (1833-1863) di Gioia del Colle (Bari), un ex sergente dell’esercito borbonico che era a capo di una banda di oltre 200 uomini in quella regione.

79. Gustavo Buratti, grande studioso delle minoranze linguistiche esistenti in Italia, ha scritto la storia del Gastaldi in dialetto piemontese con traduzione italiana a fronte.

In appendice al libro, sono anche elencati, con brevi cenni biografici, 169 uomini della banda del Sergente Romano, quasi tutti morti in battaglia: sono più dei famosi 120 “martiri” della Repubblica napoletana elencati da Vincenzo Cuoco ma i loro nomi non sono stati inscritti su alcuna lapide. 

Fra di loro, anche un altro piemontese, Antonio Pascone, ed ex garibaldini come Cosimo d’Oria di Alberobello e Giuseppe Valente (detto “Nenna-nenna”) che prima di essere capitano nella banda Romano era stato sottufficiale con Garibaldi.

“Il Piemonte non sono solo i Savo­ia, sono anche e soprattutto i Gastaldi, i contadini delle Langhe, del Cuneense, delle sue campagne. Sono i Nuto Revelli, i Gustavo Buratti. E’ con loro, e tramite loro, che è possibile un incontro fra Nord e Sud” [18].

La guerra delle fotografie

80. Questa vera e propria “guerra civile” fu combattuta, per la prima volta, anche con la neo-nata fotografia.

E’ noto che il governo sabàudo commissionò e fece divulgare il foto-montaggio di una prostituta ignuda con il volto della moglie di Francesco II, per screditare la figura della “eroina di Gaeta”, la regina Maria Sofia. E di simili foto-montaggi propagandistici se ne fecero parecchi e di vario tipo.

81. L’esercito sabàudo viaggiava con fotografi e giornalisti al seguito, incaricati di “raccontare” i fatti secondo la versione ufficiale dei comandi militari; e i soldati, dopo un’azione militare ben riuscita, esibivano in foto i corpi degli uccisi, spesso facendosi fotografare accanto alle loro vittime, come si faceva per i “trofei di caccia”.

In tal modo, i “briganti” erano letteralmente “visti” e “raccontati”, sui giornali che si leggevano nei salotti borghesi “italiani”, come crudeli e selvaggi assassini, ladri e stupratori senza possibilità di redenzione, e di loro non si poteva avere alcuna pietà, andavano (“purtroppo”?) abbattuti come cani rabbiosi.

Così, a titolo di esempio, per il signor avvocato e professore Antonio Vismara da Vergiate (Varese), disceso nel napoletano con gli invasori, i briganti sono “un’onda di melma composta di tutte le sozzure mondane … che rubano, che assassinano, che seviziano, che stuprano, che insultano all’umanità, alla morale, alla religione, alla civiltà, alla patria … si ritengono per difensori dell’altare e del trono e non sono altro che i giannizzeri del delitto più abbietto … gente che si dissetava col sangue umano, si cibava di carne umana, gente peggiore della tigre che non divora la sua specie! Gente più schifosa dello scarafaggio, orrida più del rusco, più vile dell’alga abbietta …” [19]

Un bersagliere sabaudo esibisce il cadavere del brigante Nicola Napolitano

82. La corte borbonica in esilio a Roma, con mezzi economici molto inferiori, riusciva talvolta a produrre foto che cercavano di restituire ai “briganti” non solo la loro dignità semplicemente umana ma anche quella di un popolo che combatte fieramente in nome della sua identità storico-culturale, del suo Re, della sua Patria, della sua Fede.

Michelina Di Cesare (1841-1868)

Restituire la verità

83. Personaggi come il pugliese Pasquale Domenico Romano (1833-1863) detto “il sergente Romano”, la brigantessa di Montelungo Michelina Di Cesare (1841-1868) moglie di Francesco Guerra, il vesuviano Antonio Cozzolino (1824-1870) detto “Pilone”, e tanti altri … erano già allora leggendari presso il popolo meridionale.

La propaganda sabàuda dell’epoca e la trasmissione ideologica fàttane dagli storici liberali hanno infangato queste figure, presentandole come volgari banditi, ladri e assassini sanguinari e crudeli.

Già da un po’ di tempo, però, la attenta e documentata ricostruzione storica delle loro biografie sta restituendo la verità: non erano comuni delinquenti, erano patrioti combattenti, spesso ex soldati dell’esercito regolare borbonico che continuavano la lotta, in collegamento politico con i comitati borbonici clandestini, per restituire l’indipendenza al loro Paese occupato; ed erano l’avanguardia armata del popolo contadino che si ribellava all’imposizione, da parte della borghesia, dei nuovi rapporti di proprietà nelle campagne [20].

Michelina Di Cesare

84. Certamente, come sempre capita in questi casi, furono commesse violenze e crudeltà, furti e saccheggi, e vi furono delinquenti comuni, approfittatori, opportunisti e traditori: ma da ambedue le parti, non da una parte sola. 

Se, in sede storica, si vuole considerare Antonio Cozzolino, Michelina Di Cesare o il sergente Romano come comuni assassini, allora almeno a pari titolo si dovrà considerare i pluri-decorati generali “italiani” Enrico Cialdini (1811-1892) o Giuseppe Govone (1825-1872) come criminali di guerra.

Come scrisse il Duca di Maddaloni nella sua “Mozione di inchiesta” (vedi sopra, n°8):

 “Gli uomini di Stato del Piemonte, e i partigiani loro, hanno corrotto nel Regno di Napoli quanto vi rimaneva di morale. Hanno spoglio il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore ... e lasciato cadere in discredito la giustizia ...

Hanno dato l'unità al paese, è vero, ma lo hanno reso servo, misero, cortigiano, vile. Contro questo stato di cose il paese ha reagito.

Ma terribile ed inumana è stata la reazione di chi voleva far credere di avervi portato la libertà ... Pensavano di poter vincere con il terrorismo l'insurrezione, ma con il terrorismo si crebbe l'insurrezione, e la guerra civile spinge ad incrudelire e ad abbandonarsi a saccheggi e ad opere di vendetta.

Si promise il perdono ai ribelli, agli sbandati, ai renitenti. Chi si presentò fu fucilato senza processo. I più feroci briganti non furono certo da meno di Pinelli e di Cialdini”.

Lasciamo al volenteroso lettore di approfondire lo studio delle gesta dei generali sabaudi durante la “repressione del brigantaggio”. Ci limitiamo qui a citare solo due casi esemplari.

Enrico Cialdini (1811-1892)

Alcuni numeri esemplari del criminale Cialdini

85. Ecco il già pluri-decorato, e poi Senatore del Regno, generale Enrico Cialdini, il macellaio di Gaeta, il massacratore di Casalduni e Pontelandolfo … Dal 1861 plenipotenziario a Napoli del re Vittorio Emanuele II di Savoia, in un rapporto al suo governo, riferiva lui stesso queste cifre sulla sua opera, solo per i primi mesi e solo nel Napoletano: 8.968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7.112 prigionieri; 918 case bruciate; 6 paesi interamente arsi; 2.905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13.629 deportati; 1.428 comuni posti in stato d'assedio … ed era solo l’inizio!

Giuseppe Govone (1825-1872)

Alcuni numeri esemplari del criminale Govone

86. Ed ecco l’altrettanto glorioso generale Giuseppe Govone, che morì suicida nel 1872 forse per il rimorso delle nefandezze compiute … Anche lui dal 1862 plenipotenziario del re Vittorio Emanuele II di Savoia, ma per la Sicilia.

Dopo un lunghissimo periodo di occultamento, dagli Archivi Storici dell’Esercito emergono a suo carico (ed a carico del gen. Pietro Quintino, ex garibaldino poi decorato, esecutore materiale) fatti come questo:

Castellammare del Golfo (Trapani), 3 gennaio 1862. Fucilati dopo sommario interrogatorio, per presunta complicità coi briganti:

Mariana Crociata, cieca, analfabeta, 30 anni, figlia di Antonino e di Antonia Messina, sposata con Giuseppe Provenzano;

Marco Randisi, bracciante agricolo, storpio, analfabeta, 45 anni, figlio di Francesco e di Vincenza Messina, sposato con Antonia Lombardo;

Benedetto Palermo, sacerdote, 46 anni, figlio di Leonardo e di Maria Pilara … rimase agonizzante per più di un’ora, fino a quando un bersagliere, forse mosso a pietà, non lo infilzò alla gola con la sua baionetta;

Angela Catalano, contadina, zoppa, analfabeta, 50 anni, vedova di Giuseppe Di Bona;

Angela Calamia, disabile, analfabeta, 70 anni, figlia di Pietro e di Margherita Gallo, sposata con Pietro Colomba;

Antonino Corona, disabile, 70 anni, fu Bartolomeo, sposato con Paola Coci [21].

Ed infine:

Romano Angela, filia Petri et Joanna Pollina consortis, etatis suae anno 9 circa, hodie hora 15 circa in Castriadmare, animam Deo reddidit absque sacramentis in villa sic dicta della Falconera, quia interfecta fuit a militibus Regis Italiae. Ejus corpus sepultum est in Campo Sancto novo.

Romano Angela, figlia di Pietro e della consorte Giovanna Pollina, all’età sua di anni 9 circa, alle ore 15 circa di oggi in Castellammare, rese l’anima a Dio senza i sacramenti, nella villa cosiddetta della Falconera, poiché fu uccisa dai soldati del Re d’Italia. Il suo corpo è sepolto nel Campo Santo nuovo (dal Liber defunctorum del giorno 3 gennaio 1862, Chiesa Madre di Castellammare del Golfo).

87. Questo fecero i milites regis Italiae contro il popolo del Regno delle due Sicilie!

Michelina Di Cesare fotografata dopo la sua uccisione

I prigionieri di guerra meridionali

88. L’ Esercito Nazionale delle Due Sicilie, all’inizio del 1860, contava circa 95.000 uomini.

“Tra tanti scandali di generali che tradivano, le defezioni delle soldatesche furono tanto rare che potrebbero dirsi nulle … Tra i quattro e cinquecento, che costituivano l’armamento di ciascuna di varie navi da guerra rubate al Re (Francesco II di Borbone), non uno solo si trovò che consentisse a rimanersi coi predatori … Tra le parecchie migliaia di prigionieri, tramutati nell'Italia superiore, benché tentati colla fame, col freddo in clima per essi rigidissimo, e con ogni genere di privazioni, appena i tre o quattro sopra cento si piegarono ad arrolarsi nelle milizie di un altro Re, e quasi tutti, all'invito, non fecero altra risposta che questa molto laconica: - Il nostro Re sta a Gaeta” [22].

“Se i 40 o 50 mila soldati napoletani ricusano l’alto onore della coccarda tricolore, come si farà a mettercela per forza? … Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e in Lombardia, si ebbe ricorso ad uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, èccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie! E ciò, perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e tosto o tardi l’otterranno” [23].

“Le vittime dovettero essere migliaia, anche se non vennero registrate da nessuna parte. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e ricordo. Morti di nessuno. Terroni” [24].

89. “In Italia esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da parte di Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova.

Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l'anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati furono distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in via Assarotti dove è un deposito di questi sventurati.

90. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle, qui cospirarono e se non si riusciva in tempo a sventare la congiura, essi ímpadronivansi del forte di Fenestrelle, e poi unendosi con altri napoletani incorporati nell'esercito, piombavano su Torino.

Un 8.000 di questi antichi soldati Napoletani furono concentrati nel campo di San Maurizio, ma il governo li considera come nemici, e dice l’Opinione che a tutela della sicurezza pubblica sia dei dintorni, sia del campo, furono inviati a S. Maurizio due battaglioni di fanteria.

Ma si sa che, inoltre, vi stanno a Guardia qualche batteria di cannoni, alcuni squadroni di cavalleria, e più battaglioni di bersaglieri, tanto ne hanno paura! E costoro, così guardati e malmenati, pensate con che valore vorranno poi combattere pel Piemonte! Eccovi in che modo si fa l’Italia!” [25]

La prima guerra del nuovo Stato

91. La prima guerra combattuta dal nuovo Stato italiano fu, dunque, quella contro i contadini del Sud; si confermava così, in modo aperto e violento, la natura spiccatamente classista (borghese) di quel nuovo Stato.

Per i contadini, invece, si trattò solamente di un’altra tappa della loro millenaria epopea di sconfitte.

92. Vicino alla verità, anche se non del tutto, è andato forse lo scrittore torinese, di origini ebraiche, Carlo Levi (1902-1975). Con intuito artistico unito alla acutezza di analisi, egli definisce il “grande brigantaggio” del 1860-70 come “la quarta guerra nazionale” dei contadini meridionali.

I contadini del Sud, scrive Levi (nel 1945!), costituiscono da secoli una nazione a sé, erede della civiltà degli antichissimi “itàlici”; questa nazione è stata sempre sottomessa, dai vari dominatori venuti dall’esterno, ma mai completamente assimilata né distrutta; come la terra con i suoi ritmi immutabili, così i contadini sono rimasti sempre eguali a se stessi.

“Il loro cuore è mite e l’animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti e non può conoscere misura. E’ una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione” [26].

Le quattro “guerre nazionali” dei contadini del Sud

93. Solo queste rivolte sono le loro vere “guerre nazionali”.

La prima fu quella contro Enea, ovvero contro la teocrazia militare di stampo greco ed asiatico che questi rappresenta, e l’Eneide di Virgilio ne è il poema mitologico.

La seconda fu quella contro i Romani, quando il grande impero cominciava a formarsi attraverso la sottomissione delle antiche genti italiche.

La terza fu quella a fianco degli Svevi contro la conquista Angioina: Federico II, per quanto anche lui straniero, fu il sovrano più amato dai contadini, perché vìndice dei soprusi della aristocrazia feudale e del potere mondano della Chiesa, ed essi parlano del giovane Corradino di Svevia “come di un loro eroe nazionale e ne piangono la morte” Carlo Levi - “Cristo si è fermato a Eboli” - Ed. Einaudi, 1945..

94. Infine, “quarta guerra nazionale” dei contadini fu il brigantaggio post-unitario.

“Ma che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? Il brigantaggio non è che un ascesso di eroica follia e di feròcia disperata, un desiderio di morte e di distruzione senza speranza di vittoria ...

I briganti tagliavano le orecchie, il naso e la lingua dei signori, per farsi pagare i riscatti; i soldati tagliavano la testa dei briganti che riuscivano ad acciuffare e le attaccavano su dei pali, nei paesi, perché servissero di esempio” [27].

E quando le bande furono disperse ed i briganti uccisi o imprigionati, alle masse contadine non rimase che partire in silenzio sulle vie dell’emigrazione.

Antonio Cozzolino, detto “Pilòne”, il brigante della zona vesuviana

95. Il più significativo esponente del brigantaggio nella provincia di Napoli operò prevalentemente proprio nella nostra zona, nelle campagne ad oriente della città ed intorno al Vesuvio [28].

Si chiamava Antonio Cozzolino, era nato nell’ospedale civile di Torre Annunziata il 21 gennaio 1824, da Vincenzo e da Carolina Liguori, cresciuto a Boscotrecase nei vicoli di Contrada Casa Vitelli, e soprannominato “Pilòne” [29] perché quando nacque aveva il volto ricoperto da una fitta lanugine che lo accompagnò poi per tutta la vita.

Antonio Cozzolino (1824-1870)

Valoroso soldato dell’esercito borbonico

96. Di mestiere “scalpellino” come il padre, nel 1844 divenne soldato dell’esercito borbonico, e nel 1860 combatté contro i garibaldini a Calatafimi, dove strappò la bandiera dei Mille dalle mani dell’alfiere Menotti (la bandiera venne poi esposta, come trofeo di guerra, nella Reggia di Portici).

Continuò a combattere contro gli invasori prima in Sicilia, dove fu promosso secondo sergente dei Cacciatori borbonici, poi a Caiazzo dove si guadagnò i gradi di sergente maggiore, ed infine nella battaglia del Volturno al termine della quale venne fatto prigioniero dall’esercito piemontese.

97. Scarcerato poco dopo, ritornò da sua moglie Luigia Falanga a Boscotrecase ed al mestiere di scalpellino. Ma già nella primavera del 1861, preso contatto con il Comitato Borbonico clandestino di Napoli in una riunione che si tenne a Portici il 29 marzo di quell’anno, si unì alle bande che sul Monte Somma continuavano a combattere sotto la bandiera del Regno delle Due Sicilie.

Guerrigliero sul Vesuvio

98. In breve, divenne il “comandante delle truppe in guerra nella provincia di Napoli” e fece dei boschi del Vesuvio il suo quartier generale, a partire dal quale effettuava i suoi colpi di mano con la tecnica della guerriglia: assaliva le caserme ed i convogli dell’esercito piemontese, liberava i prigionieri borbonici detenuti nelle carceri, attaccava i presìdi della Guardia Nazionale, e si finanziava e manteneva i suoi uomini sottraendo viveri e soldi ai nuovi proprietari borghesi nelle loro masserie e ai notabili professionisti nei loro “Casini” per gentiluomini.

Il rapimento del marchese Avitabile

99. La mattina del 30 gennaio 1863, in territorio di Torre del Greco, sequestrò il marchese Michele Avitabile, direttore del Banco di Napoli, chiedendo un riscatto di 20.000 ducati.

100. “Pilone, per via, intavolò con l’Avitabile una conversazione che si aggirò intorno a mille argomenti e fu durante questo colloquio che il marchese, come disse più tardi, si convinse che il Pilone non era tanto una belva come la fama lo dipingeva.

Pilone gli disse, fra l’altro:- Poiché voi ed i vostri parenti di Calabria avete dato 60.000 ducati a Garibaldi, potreste darne altrettanti a me; ma io ne ho tolto il valore dei danni che avete sofferto per il bruciamento del bosco in provincia di Salerno.

I briganti dal canto loro dicevano al marchese che se, pel suo riscatto, soffriva il dispiacere di sborsare una forte somma, questa gli sarebbe stata compensata dalla protezione di Pilone, che avrebbe per lui implorata la grazia al prossimo ritorno di Francesco II, cosa che sarebbe successa nella prossima primavera … 

101. A condurre il riscatto furono il signor Francesco Pastore, congiunto della moglie dell’Avitabile … insieme ad alcuni coloni ... portando con loro due sacchi di monete d’oro.

Pilone ordinò al suo segretario di enumerare quel denaro e questi, posto a terra un cappotto di incerata, si accinse a contarlo al chiarore della luna.

Il signor Francesco Pastore, che per via aveva sottratta buona parte della somma, perché credeva che Pilone non l’avrebbe fatta numerare, disse:- Questo è il solo denaro che abbiamo potuto raccogliere.

Pilone allora si avvicinò al marchese e, in tono da incutere terrore, gli disse:- Aggiustate la somma in 20.000 ducati. Se no, guai a voi!

L’Avitabile, che ignorava la gherminella del Pastore, a tale minaccia venne assalito da crisi convulse, che lo portarono fuori dai sensi.

102. A questa straziante scena, Pilone non seppe più resistere, s’intenerì fino ad inumidire il ciglio e, dopo aver richiamato ai sensi l’Avitabile con del rhum, lo congedò augurandogli felice il ritorno in famiglia.

Nello stringergli la mano … gli restituì il suo fucile da caccia, dicendo che glielo ridava perché non dicesse che erano dei comuni ladri. E 4 briganti ebbero l’ordine di far scorta d’onore all’Avitabile fino alla linea ferroviaria.

Michele Avitabile poté riabbracciare i suoi … già alle 4 del mattino del 31 gennaio 1863. La somma ottenuta dal Pilone … sui 20.000 richiesti … non superò i 9.000 ducati” [30].

La beffa ad Umberto I di Savoia

103. Successivamente, sulla strada che porta al Vesuvio dal versante di Boscotrecase, si trovò a transitare, in carrozza e corteo, l'allora principe ereditario Umberto I, figlio di Vittorio Emanuele II di Savoia: Pilone e la sua banda assalirono il corteo e, neutralizzati i soldati che l’affiancavano, spogliarono principe e compagnia di tutto quello che avevano, lasciandoli poi liberi. 

L’arresto e la fuga dal carcere

104. Nel gennaio del 1864, insieme ad altri, cercò rifugio nello Stato pontificio. L’intento era quello di entrare in Roma e mettersi sotto la protezione di Francesco II di Borbone. “Ma non ci riuscirono perché, prima che essi fossero entrati in città, furono arrestati dai soldati francesi e poscia rinchiusi nelle Terme …” [31]

105. Il governo sabaudo chiese la loro estradizione, la quale però non fu concessa dal governo pontificio, con la esplicita motivazione che si trattava di delinquenti politici e non di comuni malfattori; e che, del resto, trovandosi in carcere non potevano apportare nessun nocumento.

106. Il giorno 6 marzo 1869, Pilone fu fatto evadere dal carcere, come risulta da un rapporto del Ministero dell’Interno sabaudo del 12 aprile 1869 “circa la fuga da quelle carceri dei capi-briganti Pilone e Viola …

L’evasione di Pilone e di Viola non sarebbe stata che una facilitazione, da oltre un anno decisa; e la loro fuga dovevasi operare a mezzo di un bastimento per trasportarli all’estero. Però, il bastimento che li trasportava, trovandosi di fronte ad una crociera italiana, retrocedette e sbarcò i tre malfattori Pilone, Viola e Crocco, i quali si allontanarono per le campagne.

Viola è stato di nuovo arrestato e rinchiuso alle Terme; del Crocco non si avrebbe più notizia; e Pilone, a quel che si assicura, trovasi nel Palazzo Farnese sotto la protezione dei Borbone” [32].

107. Il 20 aprile 1869, lo stesso Ministero ebbe conferma che “Antonio Cozzolino, nella sua fuga dalle carceri, si era fratturato una gamba” e che “trovavasi tuttavia nascosto nel Palazzo Farnese” e si aggiungeva che “si riteneva difficile la guarigione di lui”.

In effetti, in seguito alla frattura, Pilone rimase leggermente zoppo ma, non appena fu assicurato dal medico curante che poteva liberamente camminare, ebbe da Re Francesco e dalla Regina Maria Sofia una discreta somma e lasciò Roma nel febbraio del 1870, per rientrare clandestinamente in Napoli e continuare la lotta.

La morte

108. La sua sorte fu segnata quando anche Roma, il 20 settembre 1870, con la famosa “breccia di Porta Pia”, venne conquistata dalla monarchia sabauda e venne quindi meno il governo borbonico in esilio.

In seguito ad un accordo fra la Polizia “italiana” ed i camorristi della “Bella Società” [33], Antonio Cozzolino venne tradito ed attirato in una trappola da un suo vecchio compagno, Salvatore Giordano; e così la mattina di venerdì 14 ottobre 1870, in Via Foria, era atteso da una squadra di poliziotti in borghese, composta da 10 guardie più il Brigadiere e il Delegato, che lo assalirono e lo uccisero a colpi di stocco [34].

Quasi (?!) dignitoso …

109. Addosso, oltre a pochi soldi, gli fu trovato: “l’abitìno” di S. Ciro (patrono di Portici); alcune reliquie di Santi (ve ne erano molte in circolazione, ancora a quel tempo: tutte molto venerate anche se, la maggior parte, false); un foglietto con una meditazione della Passione di Gesù; un abbecedario seguito da una dottrina cristiana; e una immaginetta di S. Maria delle Grazie alle Paludi [35].

“Le adiacenze della Questura, per due giorni, si videro affollate di gente per vedere il famigerato brigante. Era il corpo di una bianchezza estrema, senza adipe, di una fisionomia calma e quasi (!) dignitosa, con piedi e mani quasi signorili. In tutto un certo che di placido ed attraente. Ecco il cadavere di Pilone” [36].

continua


Note

[1] Vedi la classica analisi di Antonio Gramsci, in “Quaderni del carcere - Il Risorgimento”.

[2] I capi dei governi della Destra liberale, successori del Cavour (morto il 6 giugno 1861) furono, nell’ordine: Ricàsoli, Rattazzi, Farini e Minghetti, Lamarmora, Ricasoli (II), Rattazzi (II), Menabrea, Lanza, Minghetti (II).

[3] Veniva detto Statuto “albertino” lo Statuto concesso, nel suo Stato, dal Re Carlo Alberto di Savoia (1831-1849) nel 1848. “Era così francesizzata Torino, che il famoso Statuto - prodotto di una cultura giuridica appena abbozzata e, ciò non ostante, coccolato come legge fondamentale dello Stato italiano fino al 2 giugno 1946 - fu redatto in francese e poi tradotto in italiano” (Nicola Zitara - “L’invenzione del Mezzogiorno – Una storia finanziaria”, Ed. Jaca Book, 2011, pagg. 10-11).

[4] Vedi Zitara, tabelle pagg. 286 e 288.

[5] “Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863 - Studio storico-politico-statistico-morale-militare”, Ed. Daelli, Milano, 1864; riportato da P. Matteo Liberatore - “Del brigantaggio nel Regno di Napoli” in “Civiltà Cattolica”, anno XV, vol. XI della serie quinta, Roma, 1864.

[6] Vedi Zitara, tabelle pagg. 285 e 286.

[7] Antonio Gramsci – “Quintino Sella” (Q. XXIV) - in “Quaderni del carcere – Il Risorgimento”.

[8] Antonio Gramsci – “Il lanzo ubriaco” in “Avanti!”, Ediz. Piemontese, Mercoledì 18 febbraio 1920.

[9] Antonio Gramsci – “Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello stato moderno in Italia” (1° e 2° parte: Q. X) - in “Quaderni del carcere – Il Risorgimento”.

[10] Antonio Gramsci – “Nord e Sud” (Q. XVI) – “Appunti sulla storia delle classi subalterne” in “Quaderni del carcere - Il Risorgimento”.

[11] Vedi le riflessioni di Gramsci su “La funzione del Piemonte” nel Risorgimento italiano: Q. II in “Quaderni del carcere – Il Risorgimento”.

[12] Francesco Tassone – Post fazione a Zitara, op. cit.

[13] cfr Giorgio Candeloro – “Storia dell’Italia moderna – Parte V”, Ed. Feltrinelli, 1966.

[14] A. Gramegna – “Pietrarsa: cenni storici”, Portici, 1895.

[15] A. Gramegna, op.cit.

[16] Angelo Nesti, op. cit.

[17] Roberto Martucci, “L’invenzione dell’Italia unita”, Ed Sansoni, 1999.

[18] Nota introduttiva a: Gustavo Buratti – “Carlo Antonio Gastaldi: un operaio Biellese brigante dei Borboni”, Ed. Qualecultura (Vibo Valentia) e Jaca Book (Milano), 1989.

[19] Antonio Vismara da Vergiate (Varese) – “Cipriano e Giona La Gala o i misteri del brigantaggio”; Napoli, 1865.

[20] Vedi i nn°264-269 de “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[21] Francesco Bianco – “Castellammare del Golfo: 1 gennaio 1862”, Editrice UNI Service, 2008.

[22] La Civiltà Cattolica, 1 gennaio 1861, Anno XII, vol. IX, serie IV, pag. 304.

[23] idem, pag.367.

[24] Lorenzo del Boca “Maledetti Savoia”, Ed. Piemme, 1998.

[25] La Civiltà Cattolica, vol. XI, serie IV, pag.752.

[26] Carlo Levi - “Cristo si è fermato a Eboli” - Ed. Einaudi, 1945.

[27] Carlo Levi - “Cristo si è fermato a Eboli” - Ed. Einaudi, 1945.

[28] Carlo Levi - “Cristo si è fermato a Eboli” - Ed. Einaudi, 1945.

[29] Per quanto segue, vedi: Gabriele Scarpa – “L’ultimo brigante del Sud: storia della banda Pilone”, Ed. Spazio Creativo, 2011.

[30] Abele De Blasio – “Brigantaggio tramontato”, Napoli, 1908. “E’ materiale che esponiamo in tutta la sua nudità e che da anni stiamo esumando dagli archivi” (De Blasio).

[31] Ibidem

[32] Ibidem

[33] Scarpa, op. cit.

[34] Lo “stocco” è un’arma di punta acutissima, senza taglio, più stretta e più corta di una spada; veniva detto “stocco” anche il bastone che nascondeva, al suo interno, l’arma suddetta.

[35] Si ricordi che la venerazione alla Madonna e la meditazione della Passione di Gesù erano i punti fondamentali della spiritualità della “vita devota” di S. Alfonso Maria de’ Liguori, che era penetrata ben profondamente nell’animo delle masse popolari meridionali!

[36] De Blasio, op. cit.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, marzo 2017

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