Il grande Federico
1. “Tutti i Casali
di Napoli erano demaniali al tempo di Federico II”
.
Federico II di
Svevia, nell’àmbito della sua politica di
centralizzazione monarchica, acquisì al demànio règio
tutte le terre intorno alla città.
2. Anche il
territorio “foris flubeum” venne quindi sottratto ai
grandi monasteri ed ai nobili appartenenti alle
principali famiglie napoletane, che lo avevano posseduto
in feudo sia nel periodo ducale che nel successivo
periodo normanno, e si trovò a dipendere direttamente ed
esclusivamente dal re.
3. Questa
operazione di “esproprio”, compiuta da Federico II,
contribuì certo ad aumentargli l’avversione della
nobiltà cittadina e dell’alto clero, che gli furono
infatti quasi sempre ostili:
“Con la sola e ben nota eccezione dei Capéce, le
maggiori famiglie napoletane, detentrici del potere
economico-sociale, adùse al comando e alle armi, furono
ostili alla Casa di Svevia, nonostante l’indubbio
sviluppo della città nei primi cinquanta anni del
Duecento e nonostante la fondazione e la protezione
dell’Università, che dello sviluppo stesso fu fattore
non trascurabile”
.
4. In realtà,
l’acquisizione al demanio delle terre intorno alla città
fu opera certo saggia dello Svevo e, se la cosa
comprensibilmente non piacque ai nobili ed al clero, che
così perdevano uno degli elementi della loro ricchezza e
prestigio sociale, tornò però a beneficio dei contadini
poveri e della popolazione in generale.
L’acquisizione al demànio: significato
economico e strategico
5. L’acquisizione
aveva un significato certo economico (garantire i
rifornimenti di viveri alla città senza l’intralcio dei
privilegi feudali dei baroni ed i loro arbìtri ed abusi)
ma ne aveva anche uno strategico: rendere possibile una
migliore difesa militare del territorio.
6. Non va
dimenticato (e Federico II, da accorto stratèga, ben lo
sapeva) che i Normanni erano riusciti a conquistare le
città dell’Italia meridionale proprio grazie alla
tecnica di guerriglia che consisteva nel depredare e
devastare le terre circostanti le mura, senza impegnarsi
in lunghi ed inutili assedi. Le città, infatti,
dipendevano per il loro sostentamento dai territori
circostanti, ma non erano attrezzate per
difenderli e potevano quindi, più facilmente, essere
prese per fame.
7. Federico II volle evidentemente colmare questa
pericolosa lacuna, mettendo queste terre sotto la
diretta protezione del suo esercito e non più delle
occasionali e inaffidabili (quando c’erano) “milizie di
difesa”, armate dai vecchi feudatari e dai monasteri.
8. Inoltre,
Federico organizzò compiutamente il sistema di difesa
della costa, attraverso le torri litoranee per
l’avvistamento di nemici e predòni, sia acquisendo per
il suo esercito le torri già esistenti, sia facendone
costruire di nuove.
Si creò così, lungo
il mare del “Territorium plagiense”, una ben munita
linea difensiva di torri, numerate a partire da Napoli,
fino alla “Turris octava” (quella che diventerà in
seguito “Torre del Greco”).
Le popolazioni
godettero, in tal modo, di una maggiore tranquillità e
sicurezza.
|
Federico II e il sultano Al-Malik alle
porte di Gerusalemme.
Giovanni Villani, Biblioteca Apostolica
Vaticana |
Gli usi cìvici
9. Oltre a ciò,
occorre poi considerare che i contadini residenti su
terre demaniali potevano usufruire largamente dei
cosiddetti “usi civici”.
Gli “usi civici”
sono una gloriosa tradizione giuridica dell’Italia
meridionale, che rimase in vigore tra noi fino al
tramonto del Regno delle due Sicilie nel secolo XIX, e
che codificava quel “diritto d’uso sulle terre comuni”
che fu, peraltro, elemento caratteristico di tutta la
storia economica del Medioevo europeo.
10. “L’uso civico è
rappresentato dal diritto di tutti i cittadini di un
comune di usufruire a proprio vantaggio delle ricchezze
naturali della terra demaniale.
Esso comprende, in
particolare, il diritto di: pascolare, arare e seminare
(ma senza recintare la terra), raccogliere la legna,
cavare pietre di calce e di costruzione, cavare sabbia,
raccogliere erba, acquare (cioè attingere liberamente a
sorgenti e corsi d’acqua), pernottare, fare alveari e
frascare, anche nei vigneti, dopo la vendemmia”
.
11. Come si vede,
si trattava di condizioni particolarmente vantaggiose
per le popolazioni e che andavano a beneficio
soprattutto dei più poveri.
12. Si può
osservare che la tradizione giuridica degli “usi civici”
ha un illustre precedente nella Bibbia, nelle norme
previste dalla Legge di Mosè (la “Toràh”) a favore degli
indigenti (“il forestiero, l’orfano e la vedova”) ed in
particolare nelle norme a difesa dei poveri che
ispiravano le grandi istituzioni ebraiche dell’ “anno
sabbatico” e del “giubileo”
.
13. Fu certamente
merito del cristianesimo primitivo l’aver legittimato e
salvaguardato, se non proprio introdotto, in Europa
questa tradizione.
14. Essa fu “elaborata” a livello teologico dai Padri
della Chiesa nei secoli IV-V, con il principio della
“destinazione universale dei beni”, secondo il quale
“Dio ha creato la terra, e tutto quanto essa contiene,
per l’uso comune di tutti gli uomini e di tutti
i popoli”
.
15. Si deve
evidentemente ai grandi evangelizzatori delle nostre
campagne l’averla difesa, diffusa e mantenuta in vigore
presso di noi.
Il grande vescovo
di Nola, S. Paolino (353-431), con sua moglie, la ricca
e virtuosa donna spagnola Terasia, ne furono certamente
propugnatori.
|
Federico II, biblioteca Apostolica
Vaticana |
Le impòste
16. Le popolazioni,
ed in particolare i contadini più poveri, furono poi
sostanzialmente liberati da imposte troppo gravose.
17. Infatti, da una parte furono svincolati dai
precedenti “contratti” del periodo ducale e di quello
normanno, e quindi non dovevano più versare ai baroni ed
ai monasteri le rispettive rendite feudali; d’altra
parte, le tasse da versare ora all’imperatore erano
sostanzialmente miti.
18. La tassa
principale era una sovvenzione generale (una “collecta”)
che non aveva però scadenza annuale ma veniva riscossa
solo di quando in quando.
Tale sovvenzione
generale fu mediamente, in epoca sveva, di 170 once
d’oro, per la città ed il suo circondario.
Per avere un
termine di paragone, si consideri che, con la successiva
dinastia angioina, essa divenne di ben 692 once d’oro e
non fu più occasionale bensì ordinaria ed annuale!
19. Una indiretta
conferma della mitezza della politica fiscale sveva è
data dalla circostanza che non possediamo alcun elenco
completo dei Casali esistenti in questo periodo e ciò si
può spiegare proprio con il fatto che tali elenchi
erano compilati principalmente al fine di riscuotere
le imposte.
20. L’elenco dei
Casali del periodo svevo è ricavabile, ma solo
parzialmente, dalla cosiddetta “Carta dei revocati”, che
è del 1268 (quindi, appena all’inizio del periodo
angioino) e della quale parleremo a suo tempo.
|
I popoli della Terra rendono omaggio a
Federico II. Verona, Palazzo Abbaziale di san Zeno. |
Nascita dei Casali
21. Mettendo quindi
insieme le tre condizioni sopra esposte (una maggiore
sicurezza; la possibilità di fruire largamente degli
“usi civici”; un carico fiscale non insopportabile) ed
aggiungendo a ciò che non sono segnalate, in questo
periodo, nè eruzioni del Vesuvio nè epidemie
particolarmente devastanti, si può ben comprendere come
i piccoli nuclei abitati del periodo ducale e di quello
normanno (Tertium, Casabalera, Sirinum...) dovettero,
sotto gli Svevi, crescere sia per quantità di
popolazione che per “qualità” di vita, divenendo
finalmente “Casali”.
22. E’ infatti solo
in quest’epoca che si può cominciare a parlare di veri e
propri “Casali di Napoli”, nel senso molto concreto che,
diventando terre demaniali, non furono più semplici
possedimenti “fuori le mura” di nobili e monasteri che
si trovavano in città, ma acquisirono una sia pur
relativa autonomia, come entità amministrative e
giuridiche.
23. A tal proposito, lo Schipa
ci informa che, in quest’epoca,
gli uomini dei Casali di Napoli costituivano già una
“Universitas” (cioè una entità amministrativa) a sé
stante, eleggevano propri sindaci per i loro bisogni
particolari e stavano sotto la giurisdizione di un
“baiùlo” (cioè un funzionario di nomina règia) che era
il “baiùlo dei Casali” ed era quindi distinto da quello
della città di Napoli.
24. Dobbiamo quindi ritenere che vi fosse, nei limiti
consentiti da quello che era il sistema feudale, una
“vita civile” abbastanza dinamica.
25. Relativamente
alla nostra zona:
“In carte
dell’archivio della basilica di S.Giorgio Maggiore… come
nei diplomi dell’anno XXVIII di Federico II, si ricava
che Giovanni Crispano ceduto avesse al prete
Marino di Melito, Ebdomatario, petiam de terre in
loco qui nominatur SIRINU… foris flubeum…
26. Sotto Manfredi,
si cita ancora questo villaggio SIRINI foris flubeum,
nella carta segnata CCCCLXXXI dell’archivio di S.
Sebastiano…
27. Nell’archivio
di S. Liguoro, con altra carta del 12 luglio della VIII
Indizione, anno VIII del Regno di Manfredi, il guerriero
gagliardo caduto presso Benevento, controsegnata con il
numero XXIX, si fa menzione di petiam terre sitam in
loco TRASANI foris flubeum”
.
|
Federico II, Palazzo Finco Bassano del
Grappa. |
Le Estaurìte
28. Possiamo,
altresì, con ragionevole certezza, assegnare a
quest’epoca anche il sorgere, nei Casali di Casabalera e
Sirinum, delle “estaurìte”.
29. Che cos’era una “estaurìta”?
Il termine
“estaurìta” (o anche “staurìta”) viene dal greco
“stauros” che significa “croce”.
“Onde staurìta vuol
dire luogo della Croce: et Stauritario ne dinota colui
che porta la Croce, ouero, ch’ è della ragunanza della
Croce”
.
Le estaurìte erano
dunque anzitutto delle “ragunanze” (noi oggi diremmo
delle “associazioni”), che si ritrovavano intorno ad una
“croce”, ossia ad un determinato luogo di culto
(cappella, chiesetta, etc.).
Il Capasso precisa: “confraternite… di laici, istituite
a scopo di culto e beneficenza”.
30. Fin dall’anno
924 si ha notizia certa di estaurìte presenti nella
città di Napoli, anche se occorre notare che le
estaurìte subirono varie evoluzioni (e quindi modifiche)
nel corso della loro secolare storia, che va dal periodo
del ducato bizantino fino al Concilio di Trento. Secondo
il Capasso, le estaurìte cittadine costituirono più
tardi le 22 antiche “parrocchie minori” della città.
31. Le estaurìte
dei Casali erano, però, cosa alquanto diversa da quelle
della città. Sulle estaurìte della zona vesuviana, in
particolare, ha scritto in modo magistrale il P.
Giovanni Alagi
.
I “capitoli” di una estaurìta
32. Il P. Alagi è
riuscito a rintracciare i “capitoli” (ovvero il
regolamento, lo statuto) della estaurìta di S. Maria a
Pugliano (Resina), “una delle più antiche (sec. X-XI) e
venerande chiese sorte sulle falde del Vesuvio”.
33. Detti capitoli
furono redatti nel 1375 ed approvati dall’arcivescovo
Nicola de Diano (1411-1435) in occasione della “Santa
Visita” del 1423; furono poi trascritti ed allegati agli
atti della “Santa Visita” del card. Giuseppe Spinelli
nel 1743; ed è qui che il P. Alagi li ha trovati.
34. Il contenuto di
questi “capitoli” mi sembra molto interessante; ne
riporto, qui di seguito, una mia versione, appena un
poco più vicina alla lingua italiana “moderna”, fatta
allo scopo di rendere più agevole la lettura:
35. “Queste sono le
regole che devono seguire gli Estauritari di S. Maria a
Pugliano, trascritte dal notaio Gennaro Gaudino di
Resina, nell’anno del Signore nostro 1375, regnante la
regina Giovanna I:
1)
Per eleggere gli estauritari, devono riunirsi tutti gli
uomini del casale di S. Maria a Pugliano il primo giorno
di Agosto e detti uomini devono eleggere quattro
estauritari, di grande onore e di buona fama, ché non
abbiano a sottrarre i beni dell’estaurita.
2)
Gli estauritari eletti devono favorire ed aiutare
l’estaurita e rendere conto ogni anno delle entrate e
delle uscite dell’estaurita di S. Maria a Pugliano ai
venerabili uomini del casale di Resina.
3)
Quando i detti estauritari volessero costruire o murare
in detta estaurita di S. Maria a Pugliano, ovvero
procurare calici o croce di argento o paramenti sacri,
ovvero comprare case o vendere terre o effettuare
pagamenti per più di venti ducati, non lo possono fare
senza il permesso degli uomini del detto casale di
Resina.
4)
Quando i detti estauritari volessero procurare la dote a
donna povera di detto casale, non lo possono fare senza
consultare gli uomini del casale.
5)
Detti estauritari sono comunque tenuti, quando donna
povera del casale non avesse dote, a darle la dote,
maritandone ogni anno una.
6)
Quando qualcuno, uomo o donna del casale, fosse povero e
malato, detti estauritari di S. Maria a Pugliano gli
debbono dare elemosina ogni settimana e mese per mese.
7)
Detti estauritari devono fare tre elemosine l’anno:
8)
a Pasqua, fornire l’agnello pasquale benedetto e
dispensare presso l’estaurita le elemosine dei devoti ai
poveri;
9)
alla Natività del Signore nostro Gesù Cristo, devono
fare elemosina ai poveri del casale in detta estaurita;
10)
nel Giorno dei morti, devono fare elemosina ai poveri di
detto casale.
11)
Detti estauritari devono seguire questa regola quando è
il giorno di S. Maria alla Candelora: acquistare le
candele in detta estaurita per la messa cantata e
dispensare le candele agli uomini del casale,
specialmente agli uomini e donne poveri.
12)
Detti estauritari devono tenere quattro preti e il sacrestano, perché
sia bene estaurita detta estaurita, con messa e vespro e
compieta ogni giorno, e detti preti siano pagati messa
per messa da detti estauritari di S. Maria a Pugliano.
13)
Detti estauritari devono nominare il cappellano a vita e
dargli venti ducati l’anno: il cappellano deve tenere in
detta estaurita il Corpo del Signore nostro Gesù Cristo,
Olio Santo e Santo Crisma e deve battezzare in detta
estaurita e comunicare.
14)
Detti estauritari sono tenuti, quando “casca malato”
qualche prete di detta estaurita, a fornirgli medico e
medicina, al di fuori della sua retribuzione.
La prima dotazione
di detta estaurita è una lingua di mare del Capo di S.
Margherita, un miglio dentro il mare e lungo mezzo
miglio; quante reti pescano in detto mare, sono tenute a
dare una manciata di pesci quanto può afferrare la mano,
secondo quanto prescritto da “privilegio con sigillo di
oro” confermato dal re Carlo I.
Detta estaurita tiene, altresì, e possiede dodici
“tòmoli” di sale l’anno, concessi dal re Carlo I”.
36. Alle regole
suddette, occorre poi aggiungere, come ampiamente
documentato da P. Alagi nel menzionato scritto:
1)
le estaurìte erano esenti dal pagamento delle “decime”
papali (in pratica, le tasse da versare alla Chiesa)
perchè i loro beni erano “laicorum et non ecclesiarum”;
2)
le estaurìte erano esenti dall’obbligo della cosiddetta
“Santa Visita” da parte degli arcivescovi (in pratica,
il controllo dell’arcivescovo sugli atti).
In sostanza,
quindi, esse erano del tutto indipendenti, dal punto di
vista organizzativo, dall’autorità ecclesiastica.
37. Inoltre,
abbiamo visto che la nomina del cappellano di S. Maria a
Pugliano era “a vita”. P. Alagi, però, ci informa che
questa era una vera eccezione, in vigore solo in quella
estaurìta: in tutte le altre, il cappellano non era
“inamovibile” ma “amovibile”, cioè poteva anche essere
cambiato, a giudizio degli estauritari.
38. Il numero degli
estauritari eletti dipendeva dal Casale: erano quattro a
S. Maria a Pugliano, come abbiamo visto sopra (se ne
aggiunsero però altri due di Portici, quando questo
Casale si aggregò a Resina); erano invece tre a
Ponticello, S. Ioannes a Toduzolo e Clamano (S.Giorgio a
Cremano); erano due a Massa de Somma; a Trocchia, ce
n’era uno solo.
39. Risulta che
anche i nostri Casali, di Sirinum e di Casavaleria,
avevano quattro estauritari ciascuno.
|
Federico II di Svevia, statua di Palazzo Reale Napoli |
Considerazioni sulle estaurìte
40. I veramente
preziosi “capitoli” della estaurìta di S. Maria a
Pugliano “ci permettono di vedere in concreto cosa fosse
una estaurìta e come funzionasse”.
41. Essa
costituiva, a tutti gli effetti, un vero e proprio
strumento di “auto-governo popolare” del Casale,
attraverso il quale la piccola comunità contadina
provvedeva direttamente alle proprie necessità,
materiali e spirituali.
42. I responsabili
(gli “estauritari”, detti anche “governatori” o
“maestri”) erano democraticamente eletti e rispondevano,
in tutto e per tutto, solo alla “base”, cioè a “li
homine de lo casale”, dei quali amministravano i beni
comuni e le offerte.
43. Questi beni
dovevano essere utilizzati esclusivamente per il culto a
Dio e per l’aiuto ai poveri (l’attenzione preferenziale
era per la dote alle ragazze bisognose, per i malati,
per quelli che non potevano guadagnarsi da vivere, per
“gli orfani e le vedove”).
44. I preti e, fra
essi, il cappellano principale, erano scelti (e
retribuiti) dalla comunità, attraverso gli estauritari
(non “assegnati” dal vescovo a quella determinata
estaurìta), ed erano inoltre “amovibili” a giudizio
della stessa comunità.
45. Quelle
chiesette, che erano state materialmente costruite,
pietra su pietra, dai contadini dei Casali,
appartenevano ad essi soli ed essi soli, giustamente, le
governavano.
46. In un certo
senso, si sente circolare, in questi “capitoli” delle
nostre estaurìte, lo stesso soffio evangelico,
proveniente in definitiva dal cristianesimo primitivo,
che già abbiamo visto ispirare la tradizione degli “usi
civici”.
Qui, l’annuncio del
Vangelo si è incarnato, nel contesto di alcune
condizioni sociali favorevoli, in solide comunità
popolari che, con semplicità e concretezza, si
organizzano per affrontare fraternamente i propri
problemi quotidiani.
47. Si sente,
inoltre, che quegli stessi “homine de lo casale”, che
scelgono i propri “magistri” nell’ àmbito dell’
estaurìta, sapranno poi anche scegliere “propri sìndaci
per i loro bisogni particolari”, come abbiamo detto in
precedenza, e rappresentare con dignità tali bisogni
davanti a quel “baiùlo dei Casali” che li amministra in
nome del grande e lontano “imperatore Federigo”.
48. Si sente, cioè,
anche il respiro di quella “vita civile”, che abbiamo
visto iniziare a venir fuori, in quest’ epoca, dalle
pastoie del puro servaggio medioevale.
49. Non bisogna naturalmente enfatizzare troppo quelle
condizioni di vita, che rimanevano senza dubbio faticose
e durissime, ma il periodo svevo, nei nostri Casali, fu
certamente rimpianto a lungo, e da molti, negli anni
successivi.
50. Valga per tutte
la testimonianza di Carlo Levi che, scrivendo nel 1945,
afferma:
“Si può dunque
capire perchè gli Svevi siano ancora oggi (nel
1945!) così popolari presso i contadini, che
parlano di Corradino come di un loro eroe nazionale, e
ne piangono la morte. Certo, dopo la sua caduta, questa
terra, che allora fioriva, entrò nella più triste
rovina”
.
51. Vedremo,
infatti, come quelle condizioni di relativa libertà
subirono, in seguito, gravi manomissioni ed anzi vere e
proprie “usurpazioni”, da parte di autorità politiche
purtroppo molto dissimili dal grande Federico.
Cronologia dei Re Svevi di Sicilia
1194- 1197 Regno di Enrico VI di Svevia
1194 - Napoli si
arrende senza combattere ad Enrico VI, che però due anni
dopo ne abbatte le mura, per punire la città della
resistenza oppostagli nel 1191.
1197- 1220 Periodo di anarchia feudale
1220-1250 Regno di Federico II di Svevia, detto
“stupore del mondo”,
figlio di Enrico VI e di
Costanza d’Altavilla
1248 - Giovanni
Crispano cede al prete Marino di Melito, Ebdomatario,
petiam de terre in loco qui nominatur SIRINU…
foris flubeum.
1250-1253 Periodo di ordinamento comunale, sotto la
tutela del papa Innocenzo IV
1253-1254 Regno di Corrado IV di Svevia, figlio di
Federico II
1253 - Napoli
resiste all’assedio di Corrado IV, che però la espugna e
ne abbatte nuovamente le mura.
1254-1266 Regno di Manfredi di Svevia, altro figlio
di Federico II
|
Manfredi riceve la Bibbia da Johensis
scriptor. Biblioteca Vaticana Apostolica |
1262 - Si menziona, in carta datata 12 luglio, petiam
terre sitam in loco TRASANI foris flubeum. In
altra carta del Regno di Manfredi si menziona SIRINU
foris flubeum.
Vedi, ad es., nella Bibbia: Es 22, 20-26; 23,
10-12; Lv 19, 9-10. 33-34; Lv 25, 1-7. 10-13.
39-42. Il principio biblico generale è: “Le
terre non si potranno vendere per sempre, perchè
la terra è Mia (di Dio) e voi siete presso di Me
come forestieri ed inquilini” (Lv 25, 23).
Pubblicazione de Il Portale del Sud, settembre 2016 |