Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

5. Il Periodo Svevo (1194-1266)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Il grande Federico

1. “Tutti i Casali di Napoli erano demaniali al tempo di Federico II” [1].

Federico II di Svevia, nell’àmbito della sua politica di centralizzazione monarchica, acquisì al demànio règio tutte le terre intorno alla città.

2. Anche il territorio “foris flubeum” venne quindi sottratto ai grandi monasteri ed ai nobili appartenenti alle principali famiglie napoletane, che lo avevano posseduto in feudo sia nel periodo ducale che nel successivo periodo normanno, e si trovò a dipendere direttamente ed esclusivamente dal re.

3. Questa operazione di “esproprio”, compiuta da Federico II, contribuì certo ad aumentargli l’avversione della nobiltà cittadina e dell’alto clero, che gli furono infatti quasi sempre ostili:

“Con la sola e ben nota eccezione dei Capéce, le maggiori famiglie napoletane, detentrici del potere economico-sociale, adùse al comando e alle armi, furono ostili alla Casa di Svevia, nonostante l’indubbio sviluppo della città nei primi cinquanta anni del Duecento e nonostante la fondazione e la protezione dell’Università, che dello sviluppo stesso fu fattore non trascurabile” [2].

4. In realtà, l’acquisizione al demanio delle terre intorno alla città fu opera certo saggia dello Svevo e, se la cosa comprensibilmente non piacque ai nobili ed al clero, che così perdevano uno degli elementi della loro ricchezza e prestigio sociale, tornò però a beneficio dei contadini poveri e della popolazione in generale.

Mezzobusto di Federico II di Svevia, conservato nel Castello di Barletta

L’acquisizione al demànio: significato economico e strategico

5. L’acquisizione aveva un significato certo economico (garantire i rifornimenti di viveri alla città senza l’intralcio dei privilegi feudali dei baroni ed i loro arbìtri ed abusi) ma ne aveva anche uno strategico: rendere possibile una migliore difesa militare del territorio.

6. Non va dimenticato (e Federico II, da accorto stratèga, ben lo sapeva) che i Normanni erano riusciti a conquistare le città dell’Italia meridionale proprio grazie alla tecnica di guerriglia che consisteva nel depredare e devastare le terre circostanti le mura, senza impegnarsi in lunghi ed inutili assedi. Le città, infatti, dipendevano per il loro sostentamento dai territori circostanti, ma non erano attrezzate per difenderli e potevano quindi, più facilmente, essere prese per fame.

7. Federico II volle evidentemente colmare questa pericolosa lacuna, mettendo queste terre sotto la diretta protezione del suo esercito e non più delle occasionali e inaffidabili (quando c’erano) “milizie di difesa”, armate dai vecchi feudatari e dai monasteri.

8. Inoltre, Federico organizzò compiutamente il sistema di difesa della costa, attraverso le torri litoranee per l’avvistamento di nemici e predòni, sia acquisendo per il suo esercito le torri già esistenti, sia facendone costruire di nuove.

Si creò così, lungo il mare del “Territorium plagiense”, una ben munita linea difensiva di torri, numerate a partire da Napoli, fino alla “Turris octava” (quella che diventerà in seguito “Torre del Greco”).

Le popolazioni godettero, in tal modo, di una maggiore tranquillità e sicurezza.

Federico II e il sultano Al-Malik alle porte di Gerusalemme.

Giovanni Villani, Biblioteca Apostolica Vaticana

Gli usi cìvici

9. Oltre a ciò, occorre poi considerare che i contadini residenti su terre demaniali potevano usufruire largamente dei cosiddetti “usi civici”.

Gli “usi civici” sono una gloriosa tradizione giuridica dell’Italia meridionale, che rimase in vigore tra noi fino al tramonto del Regno delle due Sicilie nel secolo XIX,  e che codificava quel “diritto d’uso sulle terre comuni” che fu, peraltro, elemento caratteristico di tutta la storia economica del Medioevo europeo.

10. “L’uso civico è rappresentato dal diritto di tutti i cittadini di un comune di usufruire a proprio vantaggio delle ricchezze naturali della terra demaniale.

Esso comprende, in particolare, il diritto di: pascolare, arare e seminare (ma senza recintare la terra), raccogliere la legna, cavare pietre di calce e di costruzione, cavare sabbia, raccogliere erba, acquare (cioè attingere liberamente a sorgenti e corsi d’acqua), pernottare, fare alveari e frascare, anche nei vigneti, dopo la vendemmia” [3].

11. Come si vede, si trattava di condizioni particolarmente vantaggiose per le popolazioni e che andavano a beneficio soprattutto dei più poveri.

12. Si può osservare che la tradizione giuridica degli “usi civici” ha un illustre precedente nella Bibbia, nelle norme previste dalla Legge di Mosè (la “Toràh”) a favore degli indigenti (“il forestiero, l’orfano e la vedova”) ed in particolare nelle norme a difesa dei poveri che ispiravano le grandi istituzioni ebraiche dell’ “anno sabbatico” e del “giubileo” [4].

13. Fu certamente merito del cristianesimo primitivo l’aver legittimato e salvaguardato, se non proprio introdotto, in Europa questa tradizione.

14. Essa fu “elaborata” a livello teologico dai Padri della Chiesa nei secoli IV-V, con il principio della “destinazione universale dei beni”, secondo il quale “Dio ha creato la terra, e tutto quanto essa contiene, per  l’uso comune  di tutti gli uomini e di tutti i popoli” [5].

15. Si deve evidentemente ai grandi evangelizzatori delle nostre campagne l’averla difesa, diffusa e mantenuta in vigore presso di noi.

Il grande vescovo di Nola, S. Paolino (353-431), con sua moglie, la ricca e virtuosa donna spagnola Terasia, ne furono certamente propugnatori.

Federico II, biblioteca Apostolica Vaticana

Le impòste

16. Le popolazioni, ed in particolare i contadini più poveri, furono poi sostanzialmente liberati da imposte troppo gravose.

17. Infatti, da una parte furono svincolati dai precedenti “contratti” del periodo ducale e di quello normanno, e quindi non dovevano più versare ai baroni ed ai monasteri le rispettive rendite feudali; d’altra parte, le tasse da versare ora all’imperatore erano sostanzialmente miti.

18. La tassa principale era una sovvenzione generale (una “collecta”) che non aveva però scadenza annuale ma veniva riscossa solo di quando in quando.

Tale sovvenzione generale fu mediamente, in epoca sveva, di 170 once d’oro, per la città ed il suo circondario.

Per avere un termine di paragone, si consideri che, con la successiva dinastia angioina, essa divenne di ben 692 once d’oro e non fu più occasionale bensì ordinaria ed annuale!

19. Una indiretta conferma della mitezza della politica fiscale sveva è data dalla circostanza che non possediamo alcun elenco completo dei Casali esistenti in questo periodo e ciò si può spiegare proprio con il fatto che tali elenchi erano compilati principalmente al fine di riscuotere le imposte.

20. L’elenco dei Casali del periodo svevo è ricavabile, ma solo parzialmente, dalla cosiddetta “Carta dei revocati”, che è del 1268 (quindi, appena all’inizio del periodo angioino) e della quale parleremo a suo tempo.

I popoli della Terra rendono omaggio a Federico II. Verona, Palazzo Abbaziale di san Zeno.

Nascita dei Casali

21. Mettendo quindi insieme le tre condizioni sopra esposte (una maggiore sicurezza; la possibilità di fruire largamente degli “usi civici”; un carico fiscale non insopportabile) ed aggiungendo a ciò che non sono segnalate, in questo periodo, nè eruzioni del Vesuvio nè epidemie particolarmente devastanti, si può ben comprendere come i piccoli nuclei abitati del periodo ducale e di quello normanno (Tertium, Casabalera, Sirinum...) dovettero, sotto gli Svevi, crescere sia per quantità di popolazione che per “qualità” di vita, divenendo finalmente “Casali”.

22. E’ infatti solo in quest’epoca che si può cominciare a parlare di veri e propri “Casali di Napoli”, nel senso molto concreto che, diventando terre demaniali, non furono più semplici possedimenti “fuori le mura” di nobili e monasteri che si trovavano in città, ma acquisirono una sia pur relativa autonomia, come entità amministrative e giuridiche.

23. A tal proposito, lo Schipa [6] ci informa che, in quest’epoca, gli uomini dei Casali di Napoli costituivano già una “Universitas” (cioè una entità amministrativa) a sé stante, eleggevano propri sindaci per i loro bisogni particolari e stavano sotto la giurisdizione di un “baiùlo” (cioè un funzionario di nomina règia) che era il “baiùlo dei Casali” ed era quindi distinto da quello della città di Napoli.

24. Dobbiamo quindi ritenere che vi fosse, nei limiti consentiti da quello che era il sistema feudale, una “vita civile” abbastanza dinamica.

25. Relativamente alla nostra zona:

“In carte dell’archivio della basilica di S.Giorgio Maggiore… come nei diplomi dell’anno XXVIII di Federico II, si ricava che Giovanni Crispano ceduto avesse al prete Marino di Melito, Ebdomatario, petiam de terre in loco qui nominatur SIRINU… foris flubeum…

26. Sotto Manfredi, si cita ancora questo villaggio SIRINI foris flubeum, nella carta segnata CCCCLXXXI dell’archivio di S. Sebastiano…

27. Nell’archivio di S. Liguoro, con altra carta del 12 luglio della VIII Indizione, anno VIII del Regno di Manfredi, il guerriero gagliardo caduto presso Benevento, controsegnata con il numero XXIX, si fa menzione di petiam terre sitam in loco TRASANI foris flubeum” [7].

Federico II, Palazzo Finco Bassano del Grappa.

Le Estaurìte

28. Possiamo, altresì, con ragionevole certezza, assegnare a quest’epoca anche il sorgere, nei Casali di Casabalera e Sirinum, delle “estaurìte”.

29. Che cos’era una “estaurìta”?

Il termine “estaurìta” (o anche “staurìta”) viene dal greco “stauros” che significa “croce”.

“Onde staurìta vuol dire luogo della Croce: et Stauritario ne dinota colui che porta la Croce, ouero, ch’ è della ragunanza della Croce” [8].

Le estaurìte erano dunque anzitutto delle “ragunanze” (noi oggi diremmo delle “associazioni”), che si ritrovavano intorno ad una “croce”, ossia ad un determinato luogo di culto (cappella, chiesetta, etc.).

Il Capasso precisa: “confraternite… di laici, istituite a scopo di culto e beneficenza”[9].

30. Fin dall’anno 924 si ha notizia certa di estaurìte presenti nella città di Napoli, anche se occorre notare che le estaurìte subirono varie evoluzioni (e quindi modifiche) nel corso della loro secolare storia, che va dal periodo del ducato bizantino fino al Concilio di Trento. Secondo il Capasso, le estaurìte cittadine costituirono più tardi le 22 antiche “parrocchie minori” della città.

31. Le estaurìte dei Casali erano, però, cosa alquanto diversa da quelle della città. Sulle estaurìte della zona vesuviana, in particolare, ha scritto in modo magistrale il P. Giovanni Alagi [10].

I “capitoli” di una estaurìta

32. Il P. Alagi è riuscito a rintracciare i “capitoli” (ovvero il regolamento, lo statuto) della estaurìta di S. Maria a Pugliano (Resina), “una delle più antiche (sec. X-XI) e venerande chiese sorte sulle falde del Vesuvio”.

33. Detti capitoli furono redatti nel 1375 ed approvati dall’arcivescovo Nicola de Diano (1411-1435) in occasione della “Santa Visita” del 1423; furono poi trascritti ed allegati agli atti della “Santa Visita” del card. Giuseppe Spinelli nel 1743; ed è qui che il P. Alagi li ha trovati.

34. Il contenuto di questi “capitoli” mi sembra molto interessante; ne riporto, qui di seguito, una mia versione, appena un poco più vicina alla lingua italiana “moderna”, fatta allo scopo di rendere più agevole la lettura:

35. “Queste sono le regole che devono seguire gli Estauritari di S. Maria a Pugliano, trascritte dal notaio Gennaro Gaudino di Resina, nell’anno del Signore nostro 1375, regnante la regina Giovanna I:

1)    Per eleggere gli estauritari, devono riunirsi tutti gli uomini del casale di S. Maria a Pugliano il primo giorno di Agosto e detti uomini devono eleggere quattro estauritari, di grande onore e di buona fama, ché non abbiano a sottrarre i beni dell’estaurita.

2)    Gli estauritari eletti devono favorire ed aiutare l’estaurita e rendere conto ogni anno delle entrate e delle uscite dell’estaurita di S. Maria a Pugliano ai venerabili uomini del casale di Resina.

3)    Quando i detti estauritari volessero costruire o murare in detta estaurita di S. Maria a Pugliano, ovvero procurare calici o croce di argento o paramenti sacri, ovvero comprare case o vendere terre o effettuare pagamenti per più di venti ducati, non lo possono fare senza il permesso degli uomini del detto casale di Resina.

4)    Quando i detti estauritari volessero procurare la dote a donna povera di detto casale, non lo possono fare senza consultare gli uomini del casale.

5)    Detti estauritari sono comunque tenuti, quando donna povera del casale non avesse dote, a darle la dote, maritandone ogni anno una.

6)    Quando qualcuno, uomo o donna del casale, fosse povero e malato, detti estauritari di S. Maria a Pugliano gli debbono dare elemosina ogni settimana e mese per mese.

7)    Detti estauritari devono fare tre elemosine l’anno:

8)    a Pasqua, fornire l’agnello pasquale benedetto e dispensare presso l’estaurita le elemosine dei devoti ai poveri;

9)    alla Natività del Signore nostro Gesù Cristo, devono fare elemosina ai poveri del casale in detta estaurita;

10) nel Giorno dei morti, devono fare elemosina ai poveri di detto casale.

11) Detti estauritari devono seguire questa regola quando è il giorno di S. Maria alla Candelora: acquistare le candele in detta estaurita per la messa cantata e dispensare le candele agli uomini del casale, specialmente agli uomini e donne poveri.

12) Detti estauritari devono tenere quattro preti e il sacrestano, perché sia bene estaurita detta estaurita, con messa e vespro e compieta ogni giorno, e detti preti siano pagati messa per messa da detti estauritari di S. Maria a Pugliano.

13) Detti estauritari devono nominare il cappellano a vita e dargli venti ducati l’anno: il cappellano deve tenere in detta estaurita il Corpo del Signore nostro Gesù Cristo, Olio Santo e Santo Crisma e deve battezzare in detta estaurita e comunicare.

14) Detti estauritari sono tenuti, quando “casca malato” qualche prete di detta estaurita, a fornirgli medico e medicina, al di fuori della sua retribuzione.

La prima dotazione di detta estaurita è una lingua di mare del Capo di S. Margherita, un miglio dentro il mare e lungo mezzo miglio; quante reti pescano in detto mare, sono tenute a dare una manciata di pesci quanto può afferrare la mano, secondo quanto prescritto da “privilegio con sigillo di oro” confermato dal re Carlo I.

Detta estaurita tiene, altresì, e possiede dodici “tòmoli” di sale l’anno, concessi dal re Carlo I”.

36. Alle regole suddette, occorre poi aggiungere, come ampiamente documentato da P. Alagi nel menzionato scritto:

1)    le estaurìte erano esenti dal pagamento delle “decime” papali (in pratica, le tasse da versare alla Chiesa) perchè i loro beni erano “laicorum et non ecclesiarum”;

2)    le estaurìte erano esenti dall’obbligo della cosiddetta “Santa Visita” da parte degli arcivescovi (in pratica, il controllo dell’arcivescovo sugli atti).

In sostanza, quindi, esse erano del tutto indipendenti, dal punto di vista organizzativo, dall’autorità ecclesiastica.

37. Inoltre, abbiamo visto che la nomina del cappellano di S. Maria a Pugliano era “a vita”. P. Alagi, però, ci informa che questa era una vera eccezione, in vigore solo in quella estaurìta: in tutte le altre, il cappellano non era “inamovibile” ma “amovibile”, cioè poteva anche essere cambiato, a giudizio degli estauritari.

38. Il numero degli estauritari eletti dipendeva dal Casale: erano quattro a S. Maria a Pugliano, come abbiamo visto sopra (se ne aggiunsero però altri due di Portici, quando questo Casale si aggregò a Resina); erano invece tre a Ponticello, S. Ioannes a Toduzolo e Clamano (S.Giorgio a Cremano); erano due a Massa de Somma; a Trocchia, ce n’era uno solo.

39. Risulta che anche i nostri Casali, di Sirinum e di Casavaleria, avevano quattro estauritari ciascuno.

Federico II di Svevia, statua di Palazzo Reale Napoli

Considerazioni sulle estaurìte

40. I veramente preziosi “capitoli” della estaurìta di S. Maria a Pugliano “ci permettono di vedere in concreto cosa fosse una estaurìta e come funzionasse”.

41. Essa costituiva, a tutti gli effetti, un vero e proprio strumento di “auto-governo popolare” del Casale, attraverso il quale la piccola comunità contadina provvedeva direttamente alle proprie necessità, materiali e spirituali.

42. I responsabili (gli “estauritari”, detti anche “governatori” o “maestri”) erano democraticamente eletti e rispondevano, in tutto e per tutto, solo alla “base”, cioè a “li homine de lo casale”, dei quali amministravano i beni comuni e le offerte.

43. Questi beni dovevano essere utilizzati esclusivamente per il culto a Dio e per l’aiuto ai poveri (l’attenzione preferenziale era per la dote alle ragazze bisognose, per i malati, per quelli che non potevano guadagnarsi da vivere, per “gli orfani e le vedove”).

44. I preti e, fra essi, il cappellano principale, erano scelti (e retribuiti) dalla comunità, attraverso gli estauritari (non “assegnati” dal vescovo a quella determinata estaurìta), ed erano inoltre “amovibili” a giudizio della stessa comunità.

45. Quelle chiesette, che erano state materialmente costruite, pietra su pietra, dai contadini dei Casali, appartenevano ad essi soli ed essi soli, giustamente, le governavano.

46. In un certo senso, si sente circolare, in questi “capitoli” delle nostre estaurìte, lo stesso soffio evangelico, proveniente in definitiva dal cristianesimo primitivo, che già abbiamo visto ispirare la tradizione degli “usi civici”.

Qui, l’annuncio del Vangelo si è incarnato, nel contesto di alcune condizioni sociali favorevoli, in solide comunità popolari che, con semplicità e concretezza, si organizzano per affrontare fraternamente i propri problemi quotidiani.

47. Si sente, inoltre, che quegli stessi “homine de lo casale”, che scelgono i propri “magistri” nell’ àmbito dell’ estaurìta, sapranno poi anche scegliere “propri sìndaci per i loro bisogni particolari”, come abbiamo detto in precedenza, e rappresentare con dignità tali bisogni davanti a quel “baiùlo dei Casali” che li amministra in nome del grande e lontano “imperatore Federigo”.

48. Si sente, cioè, anche il respiro di quella “vita civile”, che abbiamo visto iniziare a venir fuori, in quest’ epoca, dalle pastoie del puro servaggio medioevale.

49. Non bisogna naturalmente enfatizzare troppo quelle condizioni di vita, che rimanevano senza dubbio faticose e durissime, ma il periodo svevo, nei nostri Casali, fu certamente rimpianto a lungo, e da molti, negli anni successivi.

50. Valga per tutte la testimonianza di Carlo Levi che, scrivendo nel 1945, afferma:

“Si può dunque capire perchè gli Svevi siano ancora oggi  (nel 1945!)  così popolari presso i contadini, che parlano di Corradino come di un loro eroe nazionale, e ne piangono la morte. Certo, dopo la sua caduta, questa terra, che allora fioriva, entrò nella più triste rovina” [11].

51. Vedremo, infatti, come quelle condizioni di relativa libertà subirono, in seguito, gravi manomissioni ed anzi vere e proprie “usurpazioni”, da parte di autorità politiche purtroppo molto dissimili dal grande Federico.

Cronologia  dei Re Svevi di Sicilia

1194- 1197      Regno di Enrico VI di Svevia

1194 - Napoli si arrende senza combattere ad Enrico VI, che però due anni dopo ne abbatte le mura, per punire la città della resistenza oppostagli nel 1191.

1197- 1220     Periodo di anarchia feudale

1220-1250     Regno di Federico II di Svevia, detto “stupore del mondo”,

                             figlio di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla

1248 -  Giovanni Crispano cede al prete Marino di Melito, Ebdomatario, petiam  de  terre  in  loco  qui  nominatur  SIRINU…  foris  flubeum.

1250-1253    Periodo di ordinamento comunale, sotto la tutela del papa Innocenzo IV

1253-1254      Regno di Corrado IV di Svevia, figlio di Federico II

1253 - Napoli resiste all’assedio di Corrado IV, che però la espugna e ne abbatte nuovamente le mura.

1254-1266      Regno di Manfredi di Svevia, altro figlio di Federico II

Manfredi riceve la Bibbia da Johensis scriptor. Biblioteca Vaticana Apostolica

1262 - Si menziona, in carta datata 12 luglio, petiam  terre  sitam  in  loco  TRASANI  foris  flubeum. In altra carta del Regno di Manfredi si menziona  SIRINU  foris  flubeum.


Note

[1] G.M. Galanti-”Della descrizione geografica e politica delle Sicilie”-Napoli, 1794 - Vol.I, pag.255.

[2] A. Leone - F. Patroni Griffi “Le origini di Napoli capitale” - Altavilla Silentina, 1984.

[3] M. Palumbo-”I Comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità”-Montecorvino Rovella (Salerno), 1910- Vol.II, pagg. 286-91.

[4] Vedi, ad es., nella Bibbia: Es 22, 20-26; 23, 10-12; Lv 19, 9-10. 33-34; Lv 25, 1-7. 10-13. 39-42. Il principio biblico generale è: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perchè la terra è Mia (di Dio) e voi siete presso di Me come forestieri ed inquilini” (Lv 25, 23).

[5] Tale principio è stato ripreso e rilanciato dal recente Concilio Vaticano II (1962-1965): si veda, ad es., la costituzione “Gaudium et spes” al n° 69a.

[6] M. Schipa-”Contese sociali nel medioevo”- Napoli, 1906- pagg.109-10.

[7] Cozzolino, op. cit.

[8] C. Tutini- “Dell’origine e fundazion de’ Seggi di Napoli”- Napoli, 1754- pag.159.

[9] B. Capasso- “Topografia della Città di Napoli al tempo del Ducato”- Napoli, 1892- pag.97.

[10] G.Alagi- “Le chiese parrocchiali della zona vesuviana nel secolo XVI” in “Asprenas”-anno VII (1960)- pag.38 sqq.

[11] Carlo Levi - “Cristo si è fermato a Eboli” - Ed.Einaudi, 1945.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, settembre 2016

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