Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.5a Il Periodo Liberale (1900-1914)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Giovanni Giolitti prima del “giolittismo”

1. L’astro nascente della classe dirigente liberale, all’inizio del nuovo secolo, fu il piemontese di origine controllata Giovanni Giolitti (Mondovì di Cuneo, 1842; Cavour, 1928), che governò poi per tutto il periodo che va dal 1900 all’inizio della Prima guerra mondiale (1914).

2. Per la precisione, come abbiamo scritto a suo luogo[1], Giolitti era già stato al governo, per un breve intermezzo (dal maggio 1892 al novembre 1893) all’interno del decennio di Francesco Crispi (1887-1896), ma dovette velocemente lasciare la poltrona di nuovo al Crispi, essendo egli rimasto implicato nel famoso “scandalo della Banca Romana”.

In realtà, il Crispi era coinvolto nel malaffare bancario almeno quanto il Giolitti ma, in quel periglioso frangente, fu più abile di lui nell’arte, invero perenne, di venir fuori da una situazione spinosa scaricando su altri anche le proprie responsabilità, tanto meglio se gli altri sono avversari politici.

Giovanni Giolitti da giovane

Lo scandalo della Banca Romana (1892-94)

3. L’attento lettore, che voglia approfondire la storia del famoso “scandalo” con particolare riferimento al contestuale “delitto Notarbartolo”, potrà fruttuosamente leggere “Il caso Notarbartolo”, di Fara Misuraca e Alfonso Grasso, in “Il portale del Sud” – Le pagine di storia.

4. Qui riportiamo alcune sintetiche considerazioni dello storico inglese Denis Mack Smith, cui faremo seguire la cronaca di quegli avvenimenti così come fu narrata, all’epoca, dalla rivista dei Gesuiti “La Civiltà Cattolica”[2].

“La causa immediata del tracollo finanziario del 1889 fu una eccessiva espansione dell’industria edilizia, alla quale le banche avevano concesso crediti esagerati.

Questa follia edilizia era cominciata con la costruzione dei nuovi uffici governativi a Roma ed era continuata in seguito con il risanamento dei vecchi quartieri infetti di Napoli.

Roma, che nel 1870 contava una popolazione di circa 220.000 abitanti, quasi li raddoppiò negli anni successivi, diventando La Mecca di ogni specie di avventurieri ...”[3]

E di Napoli abbiamo già scritto a suo luogo[4].

La denuncia alla Camera del deputato Napoleone Colajanni

5. “La denunzia di gravi magagne nelle Banche, fatta dal deputato Colajanni [5] alla Camera il 20 dicembre passato (1892), e l’ispezione giudiziaria immediatamente seguìtane per ordine del Ministero, furono il principio d’una scoperta di gravissimi imbrogli, frodi e dilapidazioni in quegli Istituti medesimi.

6. Basta sapere che, fin dal 1889, si fe’ una ispezione, dal Sen. Alvisi col Comm. Biagini per ordine del Miceli, ma con niun effetto quanto al rimediare al male; finché, non si sa per qual forza maggiore, la grave piaga morale venne a suppurazione.

E gli uomini appartenenti alla società di coloro che vennero a restituire l’ordine morale a Roma, si son trovati colle mani affondate nel morbido. Non che questo sia il minor delitto da quelli commesso, ma è delitto che, non solo noi cattolici, ma anche i liberali riconoscono e aborrono … almeno quando viene scoperto”[6].

L’ispezione ministeriale

7. “Il decreto della Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 1892 ordinava un’ispezione riguardo agl’Istituti di emissione, i quali sono la Banca Nazionale, il Banco di Napoli, la Banca Nazionale Toscana, il Banco di Sicilia, la Banca Toscana di Credito e la Banca Romana.

Fin dal 18 gennaio 1893 il Commendator Gaspare Finali, Presidente della Commissione, fe’ una relazione sommaria al Ministero dell’Interno; relazione che già accertava gravi inconvenienti nella Banca Romana.

Trattavasi nullameno che di circa 65 milioni di biglietti che fraudolentemente circolavano in Italia. Né qui era tutto”[7].

Una banconota della Banca Romana

La denuncia all’autorità giudiziaria

8. “Il testo della domanda fatta dal Procuratore del Re al Parlamento, il 31 gennaio 1893, per procedere contro il deputato De Zerbi, come vedremo, ci fornisce un documento autentico del primo frutto dell’ispezione, che è bene riferire:

Il 18 gennaio 1893, veniva comunicato all’Autorità giudiziaria un rapporto della Commissione incaricata dell’ispezione delle Banche di emissione, contenente denunzia di gravi irregolarità verificatesi nella gestione della Banca Romana, riflettenti:

§  l’eccesso di circolazione dei biglietti, dissimulati nelle situazioni decadàrie;

§  la diminuzione della consistenza di cassa;

§  la creazione di conti correnti, apparentemente fittizi, per la considerevole somma di 28 milioni, aperti allo scoperto in breve periodo di tempo e nella imminenza della ispezione governativa.

9. Per questi fatti delittuosi, l’Autorità giudiziaria iniziava regolare procedimento per i delitti di peculato e di falso in atto pubblico, ed ordinava l’arresto del governatore della Banca, Commendator Tanlongo Bernardo e del cassiere, Commendator Lazzaroni Cesare.

10. Nell’interrogatorio a cui fu sottoposto il Comm. Tanlongo il 24 gennaio, a spiegare la creazione di conti correnti per somme così ingenti ed in così breve periodo di tempo, allegava di aver dovuto ricorrere a queste operazioni fittizie per coprire certe passività che non figuravano regolarmente iscritte nei libri della Banca …”[8]

L’onorevole Rocco De Zerbi

11. “In seguito alle operazioni di perquisizione, vennero poi sequestrati, specialmente presso il cassiere Cesare Lazzaroni, appunti diversi e note scritte di suo pugno o di carattere del Governatore, nei quali sono segnati pagamenti fatti in diverse epoche … 

Fra le persone che più frequentemente sono indicate in questi appunti, l’onorevole Rocco De Zerbi, deputato al Parlamento italiano, figura di aver ricevuto in diversi anni, dal 1888 al 1891, una somma considerevole che, salvo esatta liquidazione, oltrepassa, a quanto appare fin d’ora, le quattrocento mila lire (L. 400.000) …

Il cassiere, Comm. Lazzaroni, il quale avrebbe presenziato ad alcuni sborsi di somme, fatte anche col mezzo di persona intermediaria, all’onorevole De Zerbi, dichiara di aver ragione di ritenere che esse siano state date come compenso per avere favorito in Parlamento le ragioni e gli interessi della Banca …”[9]

12. “Colla data del 31 gennaio 1893, come vedemmo nel documento già menzionato, il Procuratore del Re domandò facoltà al Presidente della Camera di procedere contro il deputato De Zerbi, accusato d’avere avuto mano nelle frodi della Banca Romana: facoltà che fu, dalla Camera, concessa …

Mentre scriviamo queste linee, il De Zerbi non è stato ancora catturato. E’ stato però già arrestato il suo intermediario de’ loschi affari, l’avvocato Bellucci-Sessa, e condotto anch’egli fra i lodati Commendatori alle carceri di Regina Coeli”[10].

Rocco de Zerbi

Opinione sul De Zerbi

13. In effetti, il giornalista calabrese e parlamentare della Destra liberale, onorevole Rocco De Zerbi (1843-1893), colpito da attacco cardiaco, morì il 20 febbraio 1893, esattamente 17 giorni dopo che la Camera dei Deputati aveva votato, all’unanimità, l’autorizzazione a procedere contro di lui.

“Aveva scritto fino alle 3 di mattina. Alle 3.45 s’alzò dalla poltrona, ebbe un sussulto angoscioso e poi cadde rovescioni. Accorsi i parenti ed amici, fu mandato pel parroco della chiesa del S. Cuore; questi dié l’assoluzione all’infermo, che morì poco dopo. Un giornale parlò di morfina, usata in gran dose dal De Zerbi e che avrebbe prodotta ipertrofia di cuore”[11].  

14. Il De Zerbi, a parere di chi scrive, fu proprio un esponente, tipico anche se minore, di quella borghesia coloniale opportunisticamente subalterna, di cui abbiamo già scritto a più riprese [12].

Volontario con Garibaldi, poi passato direttamente nell’esercito sabàudo, aveva attivamente combattuto nella campagna “contro il brigantaggio”.

Dopo l’Unità, aveva fondato e diretto a Napoli il giornale “Il Piccolo” ed era stato eletto deputato, sostenendo posizioni sempre autoritarie, belliciste e colonialiste, e sempre con una oratoria ampollosa e polemica, degna di far parte di una “ideale storia dell'eloquenza forènse teatrale meridionale” come ebbe a scrivere il critico letterario Luigi Russo.

“Gli piace stordire la folla con la varietà infinita delle cognizioni raggranellate, con la scienza delle cose più astruse, con la conoscenza di molte lingue e di molte letterature; gli piace che il pubblico grosso si domandi tutto ammirato: - Come fa costui a sapere tante cose?” (Federico Verdinois).

15. Riportiamo di seguito un saggio dei suoi contenuti e della sua forma: “Un paese, l’Italia, uscito dalla corruzione (ohibò!) e dalla schiavitù, e che nell'unica sua prova militare contro lo straniero non fu favorito dalla fortuna né in terra né sul mare (si riferisce alla cosiddetta “Terza guerra d’indipendenza” del 1866) … deve piuttosto temere anziché desiderare una troppo lunga èra di pace, deve piuttosto desiderare anziché temere il lavacro degli eroi, il tiepido e fumante bagno di sangue!”[13]

Invochiamo dunque misericordia per l’anima sua. E passiamo oltre.

Gli arresti del gennaio 1893: Tanlongo e Lazzaroni

16. “Minute perquisizioni furono fatte, tanto presso il Governatore della Banca Romana, il Comm. Tanlongo, quanto presso il cassiere di quella, il Comm. Cesare Lazzaroni; e dopo ciò si venne, dall’autorità giudiziaria, all’arresto d’ambedue.

Il Comm. Lazzaroni fu immantinente tradotto, il 20 gennaio, al carcere Regina Coeli. Il Tanlongo, malato di gotta, fu guardato in casa per alcuni giorni, finché, il 24, tra una folla numerosa, che crudelmente gridava Abbasso i ladri, fu trasportato anch’egli a Regina Coeli.

Il processo intentato contro ambedue è così formulato: Per sottrazione di somme in danno della Banca Romana, ed eventualmente dello Stato, per la garanzia dei biglietti fiduciarii; sottrazione commessa col mezzo di falso in scrittura e con fraudolente emissione dei biglietti di scorta.

17. Prima d’arrestare il Tanlongo, però, oltre la difficoltà della malattia, fu d’uopo superarne un’altra, la quale, a dir vero, non par tanto onorifica all’on. Giolitti, Presidente de’ Ministri. Il Tanlongo, cioè, era da poco stato nominato Senatore (su proposta del Giolitti). Come poteva dunque essere arrestato senza l’autorità del Senato? Interrogato all’uopo, il Presidente del Senato rispose non esservi ostacolo alcuno all’arresto del Commendatore, poiché la sua nomina a Senatore non era ancora stata convalidata dal Senato stesso, a cui appartiene, secondo lo Statuto, dichiarare del valore de’ titoli, su cui si fonda il decreto reale di nomina. E dire che il Tanlongo aveva già prestato giuramento nella seduta reale!”[14]

Gli arresti del gennaio 1893: Monzilli e Lazzaroni junior

18. “Il terzo arrestato fu un altro Commendatore della Corona d’Italia, il Sig. Antonio Monzilli.

La sera del 27, mentre egli pacificamente cenava colla famiglia, ebbe dal delegato Rinaldi il mandato d’arresto, e fu subito trasportato, prima alla Questura e poi al menzionato carcere di Regina Coeli.

Il Monzilli era uno de’ capi subalterni nel Ministero d’Industria e Commercio. L’accusa contro di lui riguarda l’ispezione della Banca eseguita nel 1889, e peculiarmente gli si attribuisce una falsa relazione fatta all’on. Miceli sullo stato della medesima.

19. Il 5 febbraio venne arrestato anche un altro Commendatore, nipote del Cassiere sopra menzionato, il giovane Michele Lazzaroni[15].

La boccaccesca, e non riuscita, fuga di Vincenzo Cuciniello

20. “Più grossa è la faccenda del Banco di Napoli. Ciò è il mancamento di 2 milioni e 450 mila lire scoperto al Banco di Napoli (sede di Roma), mancamento accompagnato dalla fuga del Direttore stesso, un altro Commendatore, Vincenzo Cuciniello.

La notizia di tal fuga cominciò a spargersi il 17 a sera in Roma, e fino al 22, per ricercar che si facesse, la dimora del Cuciniello era a tutti un mistero. Chi diceva esser fuggito a Napoli, chi in Egitto e chi perfino in Grecia.

Finalmente, il 22 a sera, fu colto in Via Gregoriana, in casa della signora Carolina Hadin-Marchese (dicono, la sua amante), presso cui s’era rifugiato quella sera, coll’intento, a quanto pare, di fuggir quanto prima da Roma.

Ma il Cuciniello non sembrava più, a prima vista, il noto Commendatore in marsina e cravatta; poiché fu sorpreso co’ baffi rasi e travestito di tutto punto da prete, credendo quell’abito il più acconcio a passar per galantuomo.

Nell’atto d’esser preso dal delegato (di polizia), raccontano che facesse atto di bere un veleno da una boccettina che seco avea, la quale però s’era prima per avventura vuotata.

 Il Comm. Vincenzo Cuciniello

21. Prima del Cuciniello era stato arrestato il cassiere d’Alessandro, e altri ancora che non monta registrare. Né a Roma solamente, ma a Firenze altresì e altrove”[16].

Il delitto Notàrbartolo (1 febbraio 1893)

22. “Il giorno 1°di febbraio 1893, fu commesso in Sicilia un atroce assassinio. Emanuele Notarbartolo, Marchese di S. Giovanni e Senatore del Regno, era atteso a Palermo la sera del 1°febbraio, dovendo tornare da una scorsa ch’egli aveva fatta ne’ suoi possedimenti nel territorio di Cerda. Ma ogni attendere fu vano.

Il Notarbartolo era stato atrocemente ucciso entro la carrozza del treno, mentre questo correva rapidamente verso Termini, e il cadavere era stato gittato lungo la linea. Nel posto della carrozza di prima classe occupato dal Notarbartolo non si trovò che un lago di sangue. Il cadavere fu poi rinvenuto presso la stazione di S. Nicola, allo sbocco d’un traforo, crivellato da 25 colpi di pugnale.    

La lotta fra l’infelice Marchese e gli assassini dovette essere accanita, poiché si vide rotta la reticella ove si depongono le valige e il cadavere aveva le mani ancora irrigidite in atto di suprema difesa.

L’ucciso contava 57 anni di età; era stato Sindaco di Palermo e per molti anni Direttore del Banco di Sicilia … 

Emanuele Notarbartolo

23. La famiglia ritiene che l’assassinio sia avvenuto a causa di possibili scandali sul Banco di Sicilia, che avrebbero potuto nascere in seguito all’inchiesta. Il Comm. Notarbartolo sapeva molte cose e molte persone avevano interesse che egli serbasse il silenzio …

D’onde il movente non può e non dee tenersi una vendetta comune, d’individuo ch’abbia patito torto dal Notarbartolo; ma, direi così, una salvaguardia, un paracadute, di gente che avrebbe potuto temere da lui qualche rivelazione grave e pericolosa.

Questa è la voce pubblica, e della famiglia eziandio”[17].   

‘U cignu

24. In effetti, fin dal momento in cui il corpo ritrovato accanto ai binari fu identificato come quello di Emanuele Notarbartolo, la voce pubblica indicò come mandante del delitto l’onorevole Raffaele Palizzolo (1843-1918), detto ‘u cignu (= il cigno)[18], consigliere di amministrazione del Banco di Sicilia, luogo-tenente di Francesco Crispi nell’isola, nonché referente politico della famiglia dei Florio, i più importanti imprenditori siciliani dell’epoca.

 Raffaele Palizzolo

25. Gli esecutori materiali sarebbero stati, invece, appartenenti a cosche mafiose con le quali ‘u cignu era, sempre per vox populi, in abituali rapporti di reciproco scambio di favori.   

L’opinione (profetica) de “La Civiltà Cattolica”

26. “… Questi gravissimi fatti, (sono) resi ancor più gravi da quel che essi suppongono, cioè una complicità che, qual vasta rete, deve abbracciare sia coloro che avrebbero dovuto invigilare alle Banche, verificando e riscontrando, sia coloro (personaggi grandi e piccoli, e più i grandi che i piccoli) in benefizio dei quali s’erogò il denaro, e sia infine coloro che, forse per proprio vantaggio, furono conniventi.

Le pubbliche effemèridi (= i giornali) parlano di deputati e Ministri che ebbero mano nel losco affare; noi, prima di registrare i nomi nella storia, aspettiamo che risplenda la luce della certezza. Ma tal luce forse non mai spunterà, tornando conto, a chi ne ha in mano la chiave, rimanere nel buio”[19].

Per capirci qualcosa …

27. Occorre premettere che, a quel tempo, non esisteva in Italia una Banca Centrale cioè non esisteva, in linea di principio, un’unica banca di proprietà dello Stato, con il potere di stampare banconote e di fissare il tasso di interesse con il quale queste vengono “prestate” alle banche private, nonché di vigilare sulla attività di queste medesime banche private.

Esistevano invece solo banche di proprietà di azionisti privati, alcune delle quali, e precisamente 6 di esse (vedi sopra, n°7) erano anche Istituti di emissione ovvero avevano anche, per legge, la facoltà di stampare banconote, in una misura che doveva essere proporzionata alla riserva aurea da esse custodita nei propri forzieri.

28. Fra queste 6, la “banca dei vincitori” sabàudi, ovvero la “Banca Nazionale” dell’ex-Regno di Sardegna[20], godeva di una posizione privilegiata, soprattutto perché, avendo concesso allo Stato italiano un mutuo di oltre 250 milioni di lire per le spese della cosiddetta “Terza guerra d’indipendenza” (20 giugno - 12 agosto 1866), ne aveva ricevuto, in cambio, la facoltà di stampare banconote “in regime di corso forzoso” ovvero senza l’obbligo di detenere una riserva aurea corrispondente. 

29. In 10 anni, dal 1879 al 1889, erano stati formulati ben 15 progetti di legge “per il riordino e l’ammodernamento del sistema creditizio”, che commissioni apposite avevano ampiamente discusso ed approvato, ma nessuno di questi progetti era riuscito a diventare legge

Cosa accadeva, in sostanza?

30. In questo contesto, alquanto confuso e poco trasparente, accadeva con relativa facilità che le banche concedessero a deputati e ministri, e/o a loro amici, soci in affari e “grandi elettori”, dei “prestiti” che poi non venivano più restituiti.

31. I politici ricambiavano il favore nel senso che i “buchi” così prodotti venivano colmati, all’occorrenza, con denaro pubblico; con disposizioni legislative che, nel caos normativo, tendevano a favorire ora questa ora quella banca; e con una “vigilanza”, già di per sé puramente formale ed abbastanza blanda, che sapeva quando era necessario chiudere entrambi gli occhi.

32. A ciò si aggiunse il fatto che, soprattutto dopo la gloriosa “breccia di porta Pia” del 1870, capitali bancari, che avrebbero potuto essere produttivamente investiti nell’industria e nell’agricoltura, vennero invece dirottati, in misura sproporzionata, verso il settore edilizio, allo scopo di conseguire profitti maggiori ed in tempi più brevi (vedi sopra, n°4): fino a che la “bolla” edilizia si sgonfiò ed i relativi investimenti cominciarono a rimanere senza frutto …

33. Tutto ciò produsse inevitabilmente un aumento della circolazione cartacea, ben al di là di quella consentita per legge dalle riserve auree delle banche.

Fra normalità e scandalo

34. Simili pratiche erano, per la verità, abbastanza “normali” nell’Italia dei “galantuomini”: la nuova classe dominante borghese (imprenditori, politici, banchieri, affaristi vari, “grandi giornalisti” prezzolati emergenti, etc.) considerava “cosa propria” quel denaro pubblico, che veniva accumulato con tasse che colpivano “fino all’osso” le grandi masse popolari.

35. Da parte sua, il popolo, formato in gran maggioranza da contadini ed altri lavoratori per lo più poverissimi ed analfabeti, “conosceva” per antica esperienza e “sentiva” sulla pelle quel meccanismo di sfruttamento, ma ovviamente non aveva gli strumenti per “capire” nei dettagli come funzionava, né d’altronde avrebbe mai potuto “avere le prove” ed individuare con precisione dei “colpevoli”.     

36. Erano “imbrogli, frodi e dilapidazioni non di oggi e di ieri solamente, ma di anni ed anni, e sempre pietosamente coperti, con colpa o no è inutile dirlo”[21].

Il fatto extra-ordinario fu che, in quegli anni, per la prima volta nell’Italia unita, tali pratiche furono portate, per così dire, ufficialmente alla luce del sole.  

L’ispezione Alvisi-Biagini del 1889

37. Già nel 1889, come accennato in precedenza (vedi sopra, n°6), vi era stata una ispezione sulle banche, che era stata subito provvidamente “affossata”.

Nell’ottobre 1889, infatti, il calabrese Luigi Alfonso Miceli (1824-1906), eroe del Risorgimento, ex-cospiratore mazziniano, ex-garibaldino, poi eletto parlamentare e, in quel tempo (dal 1887 al 1891), Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel governo di Francesco Crispi, aveva ordinato una ispezione sulle sei banche di emissione.

Luigi Alfonso Miceli

Le motivazioni

38. Tale ispezione non aveva, di per sé, motivazioni molto nobili: semplicemente, il Capo del governo, Francesco Crispi, intendeva fare un favore all’autorevole parlamentare ed ex-ministro pluri-trasformista Giovanni Nicòtera (1828-1894), rimuovendo dal suo incarico l’allora Direttore del Banco di Napoli, Girolamo Giusso (1843-1921), già Sindaco di Napoli dal 1878 al 1883, deputato dal 1886, ed avversario politico del Nicotera.

Per dare però alla faccenda una parvenza di imparzialità e di legalità, venne fatta una ispezione non soltanto sul Banco di Napoli ma su tutti e sei gli Istituti di emissione.

Gli ispettori

39. Ad eseguirla, venne chiamato il Senatore di Rovigo Giuseppe Giacomo Alvisi (1825-1892), da tutti stimato per la sua onestà e competenza, che richiese come collaboratore operativo Gustavo Biagini, un bravo funzionario del Ministero del Tesoro, allora retto da Giovanni Giolitti.

Il ministro Miceli volle però, contro il parere dell’Alvisi, rendere partécipe dell’ispezione anche Antonio Monzilli, “Capo-divisione per il credito” del suo ministero …

Giuseppe Giacomo Alvisi

Le risultanze

40. Alvisi e Biagini, del tutto inconsapevoli di quanto si tramava sopra ed intorno a loro, si misero all’opera con scrupoloso zelo ed effettiva imparzialità, e così dall’ispezione emersero irregolarità minori, di vario tipo, a carico di tutti e sei gli Istituti di credito, ma le più gravi furono riscontrate non presso il Banco di Napoli ma presso la Banca Romana.

41. In sintesi, la Banca risultava aver concesso crediti e finanziamenti non più restituiti, in particolare a politici ed al settore edilizio (vedi sopra, nn°30-33).

Per colmare l’ammanco, erano state poi emesse banconote da 50, 200 e 1000 lire, per un totale di 9.050.000 lire. Tali banconote, ufficialmente, erano state stampate per sostituire banconote, di ugual numero e valore, usurate dal tempo; ma in realtà nessuna banconota “usurata” era stata tolta dalla circolazione, per cui le “nuove”, prodotte con gli stessi numeri di serie, erano semplicemente dei duplicati abusivi delle “vecchie”.  

Complessivamente, poi, risultavano emesse circa 25.000.000 di lire in eccesso rispetto a quanto consentito, per legge, dalla riserva aurea della Banca.

Uno dei biglietti duplicati

Si corre ai ripari …

42. Già dopo la prima settimana di ispezione, Gustavo Biagini chiese udienza al ministro Miceli, per informarlo della gravità della situazione.

43. Il Ministro convocò Bernardo Tanlongo, governatore della Banca Romana, il quale, costretto dall’evidenza, confermò sia l’ammanco di cassa sia la creazione di banconote abusive: le banconote erano state commissionate alla Società H.C. Sanders & Co. di Londra e poi, nottetempo, firmate con torchietto da parte del governatore Tanlongo e del cassiere Cesare Lazzaroni, attivamente coadiuvati da figlio (Pietro Tanlongo) e nipote (Michele Lazzaroni).      

Il Tanlongo garantì del resto al Ministro che avrebbe prontamente provveduto a “regolarizzare” la situazione. Il che, in verità, fece, ma ricorrendo ad altri imbrogli e cioè: in parte, facendosi prestare soldi, per un tempo limitato, dalla Banca Nazionale (che tanto poteva stampare moneta senza vincoli: vedi sopra, n°28); in altra parte, con la creazione di conti correnti fittizi.

Totò, Peppino e Giacomo Furia nel film La banda degli onesti. Ma la realtà supera la fantasia (vedi n°43)

… e l’ispezione viene affossata   

44. E così, quando il senatore Alvisi, sulla base del rapporto tecnico stilato da Biagini, presentò la relazione finale al ministro Miceli, questi la integrò con un’altra relazione, molto più accomodante, compilata all’uopo dal Monzilli (vedi sopra, n°18 e n°39) e che riportava un ammanco solo transitorio e di sole 3 milioni di lire … e presentò il tutto ad una riunione del Consiglio dei ministri, sul finire del 1889.

45. In questa riunione, alla quale erano presenti sia il Crispi, in qualità di capo del governo, sia il Giolitti, in qualità di ministro del tesoro, fu deciso di non dare alcun seguito alla relazione: ufficialmente, perché si trattava, in fondo, di parva materia; in realtà, perché altrimenti molti illustri parlamentari ed eccellenti ministri, compresi Crispi e Giolitti, ci avrebbero lasciato le penne.

La relazione Alvisi-Biagini rispunta (1891)

46. Sembrava quindi che sulla relazione fosse stata posta la classica pietra tombale, ma l’onesto senatore Giuseppe Giacomo Alvisi continuò, nei due anni successivi, a non darsi pace, fino a che, nel giugno 1891, caduto il governo Crispi e succedutogli il breve governo Di Rudinì (febbraio 1891 - maggio 1892), credette giunto il momento di dare pubblica lettura in parlamento della sua relazione.

Immediatamente, però, dovette fronteggiare ogni genere di pressioni, dalle offese alle accuse di dabbenaggine, e soprattutto l’invito a tacere “nell’interesse supremo della Patria” per non danneggiare la vacillante credibilità delle istituzioni: e fu soprattutto questo richiamo patriottico ed istituzionale che lo convinse, anche in quella circostanza, a non parlare.

47. Tuttavia, sentendo ormai approssimarsi la morte (morì in effetti il 24 novembre 1892), decise di consegnare la scottante relazione all’amico Leone Wollemborg, in procinto di candidarsi in parlamento, con l’incarico di utilizzarla “per smascherare finalmente ladri e manutengoli di questa povera Italia.”

 Lapide sulla casa natale di Giuseppe Giacomo Alvisi a Rovigo

Da Wollemborg a Pantaleoni a Colajanni (1892)

48. L’Alvisi non aveva scelto a caso il Wollemborg.

Leone Wollemborg (1859-1932), nato a Padova da ricca famiglia ebraica di origine tedesca, laureato in giurisprudenza ma studioso di economia, era soprattutto un profondo conoscitore dell’opera teorico-pratica di Friedrich Wilhelm Raiffeisen (1818-1888), un piccolo borgomastro (= sindaco) austriaco che aveva elaborato un sistema di depositi e prestiti a contadini ed artigiani, e perciò è giustamente tutt’oggi considerato l’ideatore delle Casse Rurali e delle Cooperative di consumo.

Ispirandosi a Raiffeisen, il Wollemborg aveva fondato, nel 1883, nel piccolo Comune di Loreggia in provincia di Padova, con la collaborazione del medico condotto e del cappellano del paese, la prima Cassa Rurale d’Italia, con lo scopo di aiutare fittavoli, piccoli proprietari, e in genere tutto il mondo agricolo, a sollevarsi dalla miseria e a liberarsi dagli strozzini, con la concessione di prestiti in denaro a basso interesse ed a lunga scadenza.

Era dunque certamente, per competenza e sensibilità, la persona giusta per “smascherare ladri e manutengoli” del sistema bancario italiano.

Leone Wollemborg

49. Il Wollemborg, però, da persona accorta anche se allora ancor giovane (nel 1892, aveva 33 anni), pensò di non agire da solo e d’impulso.

Si rivolse a brillanti studiosi, come i due amici Maffeo Pantaleoni (1857-1924), colui che in seguito sarà definito “il principe degli economisti italiani”, e Antonio De Viti de Marco (1858-1943); Vilfredo Pareto (1848-1923), che li affiancava nella redazione del “Giornale degli economisti”; e lo storico e meridionalista napoletano Pasquale Villari (1826-1917).

A loro, il Wollemborg chiese di leggere la relazione Alvisi-Biagini e di valutare il modo migliore per renderla pubblica.

La ponderata conclusione fu di seguire bensì la strada della denuncia in Parlamento, ma individuando un parlamentare che non avesse gli scrupoli patriottici ed istituzionali del buon Alvisi né fosse in alcun modo legato ai tradizionali schieramenti della Destra e della Sinistra liberale con reciproci trasformismi.

Maffeo Pantaleoni

50. E l’uomo scelto fu l’onorevole Napoleone Colajanni, mazziniano e garibaldino di antica e sincera fede, rimasto fieramente repubblicano anche in quei tempi in cui molti si erano “convertiti” alla monarchia sabàuda, lontano sia da Crispi sia da Giolitti ma vicino al movimento popolare dei fasci siciliani, sufficientemente esperto di economia. 

E così, esattamente il 10 Dicembre 1892, alle ore 22, nei corridoi di Montecitorio, meno di un mese dopo la morte dell’Alvisi, Maffeo Pantaleoni consegnò la relazione a Napoleone Colajanni il quale si impegnò a renderla pubblica in Parlamento nella stessa seduta del 20 dicembre 1892 in cui la Camera era convocata per votare la proroga dei diritti di emissione alle banche private (vedi sopra, n°5).

La piazza dedicata a Napoleone Colajanni

Come andò a finire? Il processo Cuciniello (1893)

51. “Il 12 giugno 1893 venne dal tribunale di Roma pronunziata la condanna contro il Comm. Vincenzo Cuciniello, direttore del Banco di Napoli (sede di Roma) e contro Vincenzo d’Alessandro, primo cassiere.

Parlammo già del fatto che diede motivo all'arresto di questi due uomini (vedi sopra, nn°20-21). Due erano le accuse lanciate contro l’uno e l’altro.

La prima, che costoro, in uno o in diversi tempi, sino al 10 gennaio del 1893, avessero volontariamente tolta dal Banco di Napoli, nella sua sede di Roma, la somma di 2 milioni e 450 mila lire.

La seconda, che i medesimi avessero, in uno o in diversi tempi, scritto il falso ne’ registri del tesoro dello stesso Banco, facendo credere all'esistenza della detta somma, quando già era sottratta.

52. I giurati, dopo uditi gli avvocati dell’una parte e dell’altra, affermarono la verità di ambedue le accuse per il Cuciniello e solo della seconda pel d’Alessandro.

Il tribunale quindi, posta la verità del fatto, condannò: il Cuciniello a 10 anni di carcere e alla multa di 5 mila lire; e il d'Alessandro a 6 anni ed 8 mesi di carcere; ambedue poi alle spese del processo e alla privazione degli uffici pubblici.

Così la giustizia ha avuto il suo corso, e tutti i buoni debbono rallegrarsi. Volesse il cielo che, a tutti i violatori del settimo precetto del decàlogo, grandi e piccoli, sia che rubino i milioni ed i regni, sia che i possessori abbiano un nome od un altro, si facesse sentire inesorabilmente la spada della giustizia, e senza eccezione! …

53. Il male fu, come venne osservato dalla Voce della verità e approvato dalla stessa Tribuna, che non mancarono, fra i testimoni, dei personaggi, insigniti anche di pubbliche cariche ragguardevoli, che gli hanno stretto la mano, dandogli un pubblico attestato di stima, mentre non avea diritto che alla compassione …

Abbiamo sentito noi nell'aula un'esclamazione partita da uno scoppio di buon senso, di un popolano: - Come? Ha rubato due milioni e mezzo, e gli vanno tutti a stringere la mano? E quanto doveva rubare per non stimarlo più?

54. A chi egli abbia dato quei denari non si sa, ed egli recisamente rifiutò di nominare chicchessia, poiché forse non erano altre le persone, nel cui seno il Cuciniello versava tanti tesori, se non quelle accennate dal Capocelli, avvocato della parte civile, il quale assommò il tutto in questa sentenza: - Chi non intende che il libertinaggio doveva trarlo al delitto?  Il che risponde al detto de’ Libri santi: - Una fossa profonda è la bocca della donna altrui (Prov. 22, 14)”[22].     

Il processo per lo scandalo della Banca Romana

55. Al processo, gli imputati erano sette:

1)    Bernardo Tanlongo, governatore della Banca Romana;

2)    Cesare Lazzaroni, cassiere della Banca Romana;

3)    Antonio Monzilli, “capo-divisione per il credito” del Ministero dell’Industria, Agricoltura e Commercio;

4)    Gaetano Bellucci-Sessa, avvocato dell’on. De Zerbi;

5)    Luigi Zammarano, commissario per la vigilanza degli Istituti di emissione;

6)    Giovanni Agazzi, impiegato della Banca Romana;

7)    Pietro Toccafondi, impiegato della Banca Romana.

Come si vede, nessuno degli uomini politici, né degli uomini d’affari che avevano investito nella speculazione edilizia, era imputato. Lo erano invece dirigenti ed impiegati della Banca, due funzionari ministeriali, e l’avvocato dell’on. De Zerbi, già defunto.

56. Inoltre, all’indagine erano stati sottratti un gran numero di documenti probatori, come testimoniò al processo il funzionario di polizia Ferdinando Montalto, che aveva partecipato all’arresto di Tanlongo ed alle perquisizioni in casa sua e negli uffici della Banca.

Montalto affermò: “Io avevo avuto ordine dall’ Ispettore, che era lì presente (nella casa di Tanlongo), di mettere da parte tutte le carte aventi il timbro della Camera dei Deputati, del Senato o di altra autorità politica, o che contenessero firme di uomini politici” … e precisò di aver così raccolto due involti di documenti, talmente voluminosi da dover essere impacchettati e sigillati sul pavimento, perché nessun tavolo era abbastanza grande da contenere anche uno solo di essi. Queste carte “erano tutte di uomini politici o qualificati, e contenevano richieste di denaro o ringraziamenti”.

Dopo di che, era stato invitato dal suo superiore a rincasare, data l'ora tarda, sostituito da un collega giunto nel frattempo, per tornare la mattina dopo alle otto … ma mentre stava andando via, aveva notato che i suoi colleghi stavano rimettendo mano ai due involti, alla presenza di Bernardo e Pietro Tanlongo.

Al suo ritorno, al posto del verbale compilato e sottoscritto la sera prima, gli vennero presentati due nuovi verbali di sequestro da firmare, corrispondenti a due nuovi involucri che sommavano “circa un decimo” dei documenti selezionati la sera precedente: verbali che egli aveva firmato sotto la minaccia di azioni disciplinari.

Il processo per lo scandalo della Banca Romana

Il verdetto (28 luglio 1894)

57. Ancora una volta è la storica rivista dei Gesuiti che ci sembra dare la narrazione più precisa, e la spiegazione più plausibile, degli avvenimenti.

Il sabato 28 luglio 1894, rimarrà memorabile nei fasti della giuria per lo strano verdetto pronunziato nel gran processo sulla Banca Romana …

L'affare era di alta importanza, come tutti sanno, e più volte ne parlammo in questa cronistoria: si trattava di molti milioni scomparsi dalle casse di quella banca; si trattava di carte messe abusivamente in circolazione; si trattava di conti falsati e di peculato; si trattava d'innumerevoli famiglie andate in rovina per que’ fatti; si trattava perfino di rei confessi.

58. Ebbene, quale fu il frutto di tanti mesi di processo e di affare sì grave? Tutti assolti.

I giudici popolari, detti giurati, alle 27 questioni (a cui il Presidente aveva ridotte tutte le accuse sulla reità degl’imputati) risposero con altrettanti no, con gran maggioranza e persistenza no.

Era la 122° udienza del gran processo, e l’Italia e l’Europa stavano con ansia aspettando l’esito d’uno scandalo, paragonabile solo a quello successo in Francia nell'impresa del Panama.

Ora, i 7 imputati furono dichiarati tutti innocenti e immantinente liberati dal carcere e ridati alla vita civile; benché i giurati, la mattina stessa, avessero ricevuto lettere anonime minatorie, una delle quali col disegno d'un pugnale che trafiggeva un cuore, con la scritta: Italia attende …

Opinione sul verdetto

59. L’inaspettato verdetto de’ giudici popolari romani si deve considerare sotto doppio aspetto: in se stesso, ossia assolutamente, e relativamente.

In se stesso, a giudizio di tutti, è stato una enormità e ha bollato l'Italia legale d'un'onta incancellabile; sia che la colpa debba attribuirsi ai giurati stessi, sia che debba rifondersi all’istituto della giuria, magistrato inetto a dar sentenza in cause intralciate e complicate, com’era questa della Banca Romana.

A detta di tutti, giudici togati non avrebbero così sentenziato. Per contrario, come si sarebbero potuto raccapezzare i giudici popolari in sì lungo processo, di più mesi, in mezzo a tante chiacchiere di difensori e d'accusatori, di testimoni e d'imputati? C’immaginiamo agevolmente come l’un dì sembrasse loro tutto chiaro, e l’altro, buio pesto.

Aggiungansi a ciò le sottrazioni de' documenti e l'impunità di molti altri, anche di alto grado, che tuffarono le mani nella Banca Romana.

Costretti quindi i giurati dagli uomini di toga, e quindi dalla somma autorità dello Stato, a sentenziare dopo tante noie e fastidii, e dire se quegl'imputati fossero rei o no, s'appigliarono al no, con un certo senso di stizza mal compressa, come chi dice: - Faccia giustizia chi deve, per conto nostro noi non condanniamo nessuno.

In conclusione, se colpa v'è in quel verdetto, essa ci sembra doversi attribuire più all'istituto della giuria stessa che ai giurati. E ciò, quanto al primo aspetto della sentenza.

60. Quanto al secondo aspetto, che chiamammo relativo, i giudici popolari hanno fatto, col semplice senso comune, una giustizia più alta di quella richiesta dai quesiti del Presidente del tribunale.

Hanno colpito, cioè, in pieno petto il Governo (e poniamo pure che il mezzo non fosse legittimo), facendo del loro verdetto di assoluzione un simbolo di riprovazione dell'operato dal Governo.

Il Governo, dovettero dire i giurati, ha sottratto i documenti dal processo; molti pezzi grossi, ch'ebbero mano negl'intrighi, sono stati sottratti al nostro giudizio e solo pochi furono rinchiusi dentro la gabbia degl'imputati. Questa è una burla. Noi non condanniamo nessuno e con ciò stesso condanniamo e riproviamo questa maniera di far giustizia. E nell’urna non si trovarono che schede quasi tutte bianche.

Ecco l'altro aspetto che ha il verdetto de’ giurati romani nel gran processo della Banca Romana. Esso è una satira tremenda, e di quel genere satirico onde va per lo più celebrato lo spirito arguto del popolo di Roma.

Bernardo Tanlongo al processo

I giornali italiani sul verdetto

61. Il verdetto dei giurati romani ha coperto di vergogna l'Italia legale liberalesca, tanto ne' suoi istituti, com'è questo della giuria (che ora pensano a riformare), quanto nel modo poco nobile di far giustizia, ingerendosi ne' processi e salvando i nomi cari alla rivoluzione, come dissero. È cosa chiara cotesta; ma udire un paio di testimonianze, anche de' liberali stessi, non sarà opera inutile.

62. Il Don Chisciotte (scrive): Il processo della Banca Romana è finito con l’assoluzione di tutti gli imputati. Così doveva essere; e così è stato. I giurati romani hanno gittato in faccia all'on. Giolitti fin l'ultimo dei Toccafondi; hanno gittato in faccia alla Questura e alla Magistratura, complici necessari dell'on. Giolitti, il loro verdetto di protesta, la loro coscienza di cittadini. 

63. La Corrispondenza verde (scrive): Quel verdetto, che fu di assoluzione per gl'imputati trascinati davanti ai giudici, fu invece un verdetto di condanna contro i delinquenti di maggior levatura cui il Tanlongo, il Lazzaroni e gli altri dovevano servire di scudo.

La sentenza della giuria romana significa che la giustizia popolare sente la maestà sua, non intende scindersi, e vuole cadere intera ed inesorabile, non sui piastroni che subdolamente vengono offerti ai suoi colpi, ma sui veri rèprobi.

E così giudicando, la giuria romana, cui si avea voluto legar le mani, restringendo il campo del suo giudizio, imprigionandola nell'orbita di un processo monco, artificiale, ha fatto, a sua volta, il suo processo a tutto il nostro mondo politico ed ha condannato 25 anni di storia italiana.

Essa non ha detto altro, insomma, se non che era pronta a condannare, quando davanti al suo tribunale fossero chiamati a comparire tutti i giudicabili; non volle invece, condannando gli infimi, assolvere le teste di papavero che la compiacente magistratura ha sottratto alla sua giurisdizione. 

64. Il Messaggero (scrive): Che crollo, che sfiducia, nasce da tutto questo grande sfacelo! E che brutto momento è quello che attraversiamo! Il verdetto è satirico, è caustico, ma è pure una confessione d'impotenza. La Francia, nella faccenda del Panama, ci avea dato un grandissimo esempio, colpendo ministri, deputati, e persino quella gloria mondiale che era Lesseps. Noi, vili, abbiamo avuto paura di colpire certi uomini, come se l’Italia avesse dovuto rovinare con loro; e così adesso i giurati romani, sdegnando di condannare gli strumenti di una politica losca, hanno schiaffeggiato in pieno viso tutto un mondo lercio e corrotto.

65. Simiglianti giudizi hanno dato tutte le effemèridi (= i giornali), cattoliche e liberali, della Penisola”[23].

66. Per una strana ironia della storia, all’incirca un mese prima del verdetto, e precisamente il giorno 13 giugno 1894, poco dopo le 11, moriva a Vico Equense il barone Giovanni Nicòtera (vedi sopra, n°38), cioè proprio colui che, con le sue trame da politicante, aveva involontariamente innescato quella vera e propria “bancarotta del patriottismo” (come la definì, qualche anno dopo, Luigi Pirandello).

Il processo per il delitto Notarbartolo: a Milano (1899-1900)

67. Il processo per l’omicidio Notarbartolo (vedi sopra, nn°22-25) fu quello che durò più a lungo, e si svolse in tre distinte fasi: a Milano, a Bologna e a Firenze.

Ci vollero quasi 7 anni perché il caso arrivasse in Tribunale. Il processo milanese iniziò infatti l’11 novembre 1899 e sul banco degli accusati c’erano soltanto due ferrovieri: Pancrazio Garufi, frenatore in servizio nell’ultima carrozza, e Giuseppe Carollo, il controllore del treno.

“Questo processo (anche questo!) era stato pensato come uno strumento per sacrificare qualche pesce piccolo e placare così la domanda di giustizia nel caso Notarbartolo”[24].

Leopoldo Notarbartolo

68. Ma il 16 novembre si presentò in aula, nella sua uniforme di ufficiale di Marina, Leopoldo Notarbartolo, figlio dell’ucciso. Il giovane ufficiale, in quei quasi 7 anni, aveva svolto un lavoro investigativo in prima persona e si era costituito parte civile nella causa.

“Il solo che avesse odio contro mio padre è il commendatore Raffaele Palizzolo, deputato. Accuso costui di essere il mandante, di questi ed altri sicàri”[25].

Leopoldo Notarbartolo, figlio di Emanuele

Giuseppe Fontana

69. Come “altro sicario”, Leopoldo Notarbartolo indicò tale Giuseppe Fontana ed il vice-capostazione di Termini Imerese confermò, in aula, di aver visto il Fontana entrare nello scompartimento in cui si trovava il Notarbartolo.

“Giuseppe Fontana era un membro della cosca mafiosa di Villabate. Solo pochi anni prima, era stato prosciolto da un’accusa di falsificazione di denaro, grazie alle potenti protezioni che era stato in grado di mobilitare”[26].  

Il generale Mirri

70. Infine, “… con meraviglia di tutti, apparve nell’aula delle Assise a deporre, come teste, nullameno che il generale Mirri, ministro della guerra, il quale, essendo stato in Sicilia comandante del XII corpo d’armata e direttore della pubblica sicurezza, si trovava in caso di potere squarciare certi veli oscuri.

Le sue deposizioni contro l’on. Palizzolo furono terribili, schiaccianti. Ma sovra tutto fu grandissima l’impressione che destò per queste sue parole testuali, riferite nel verbale: L’istruttoria del processo fu fatta, dalla magistratura, colla massima negligenza e colla massima trascuratezza, anzi con colpevolezza.

La ragione dell’omicidio Notarbartolo

71. Dalle deposizioni del Mirri e di altri, si può ora ricavare qual sia stata la cagione vera dell’assassinio del povero Notarbartolo.

Questi, direttore del Banco di Sicilia, aveva mandato un rapporto riservatissimo al Ministro d’agricoltura, industria e commercio, nel quale si indicavano brogli e operazioni illegittime dovute al Palizzolo, consigliere del Banco stesso, spalleggiato da altri.

Pochi giorni dopo, in una riunione del Consiglio d’amministrazione del Banco, il Notarbartolo si sentì leggere, con sommo stupore, quel rapporto riservatissimo mandato al Ministro.

Telegrafò a Roma. Il Ministro non avea ricevuto nulla: il rapporto era bensì arrivato al ministero, ma era stato consegnato ad un funzionario, che non appartiene or più all’amministrazione, perché misteriosamente scomparso. Si fece anche il nome del trafugatore.

Poco dopo il povero Notarbartolo veniva soppresso come il rapporto accusatore, vale a dire, veniva, per mandato, credesi, dell’on. Palizzolo, trucidato barbaramente in ferrovia dai tre sicarii, addetti alla maffia, Fontana, Carollo e Garufi. Ecco perché fu ucciso il comm. Notarbartolo”[27].

Imputati arrestati ma processo sospeso

72. In seguito a queste testimonianze, sia Giuseppe Fontana sia Raffaele Palizzolo furono arrestati: il Palizzolo godeva, invero, dell’immunità parlamentare, ma la Camera in quella circostanza votò rapidamente l’autorizzazione a procedere.

“Commossa Palermo, dopo ben 7 anni, tributa ora alla sventurata vittima splendide onoranze. Il 17 di questo mese, un maestoso corteo di 30.000 persone, col gonfalone della città in capo, sfilò silenzioso tra due fitte ali di popolo per le vie principali fino a piazza Castelnuovo, dove sopra un palco, vestito a lutto, spiccava il busto del Comm. Notarbartolo, circondato da corone di fiori …

73. Ma l’on. Palizzolo, checché ne dica in contrario il sig. Ernesto Nathan, è un venerabile massone, un pezzo grosso, se non della massoneria italiana, certo della massoneria di Palermo, e probabilmente della Loggia chiamata Grand’oriente dell’ordine di Menfi.

E, per giunta alla derrata, il Palizzolo è pure grande Ufficiale della Corona d’Italia, nominato il 20 gennaio del 1898 da Sua Maestà con proprio decreto … Quindi alla massoneria mette conto lo stendervi sopra un velo pietoso ad abbuiar tutto”[28].

Il 10 gennaio 1900, il processo milanese venne sospeso, “per permettere lo svolgimento di nuove indagini”.

Il processo a Bologna: la condanna (1902)

74. Prima dell’inizio del secondo processo a Bologna, morì di cirrosi epatica Giuseppe Carollo, il controllore del treno.

75. Il 30 luglio 1902, alle 9.45 della sera, la giuria bolognese si ritirò per formulare il verdetto. Il senso di attesa era proporzionato alle dimensioni del processo. Esso era durato quasi 11 mesi.

Venne prosciolto il ferroviere Pancrazio Garufi. Condannati invece a 30 anni di carcere sia Raffaele Palizzolo sia Giuseppe Fontana, rispettivamente come mandante e come esecutore del delitto Notarbartolo.

Il processo Notarbartolo - Palizzolo a Bologna

La Cassazione annulla il processo

76. La vicenda sembrava dunque conclusa. Se non che … sei mesi dopo, la Corte di Cassazione annullò la sentenza bolognese per “vizio di forma”, fissando un nuovo processo presso la Corte di assise di Firenze.

Il “vizio di forma” era, nulla di meno, il seguente: una teste aveva pronunciato il giuramento di rito ed aveva appena iniziato la sua deposizione, quando si verificarono nel pubblico alcuni schiamazzi; il presidente ordinò la sospensione della seduta e lo sgombero dell’aula; alla ripresa della seduta, la teste avrebbe dovuto ripetere il giuramento, cosa che invece non era stata fatta.

Tanto bastò per annullare la condanna di Palizzolo e Fontana. 

Il processo a Firenze: l’assoluzione (1903-1904)

77. Il nuovo processo, presso la Corte di Assise di Firenze, cominciò il 5 Settembre 1903.

“Gli avvocati di Leopoldo Notarbartolo convocarono un nuovo testimone, potenzialmente importantissimo. Si trattava di Matteo Filippello, ritenuto essere colui che teneva i rapporti con Palizzolo per conto della cosca di Castellabate.

Nel 1896 era stato ferito in una lite che si pensava fosse stata provocata dalla spartizione del compenso per l’omicidio Notarbartolo. Le voci circolanti a Palermo l’avevano precocemente indicato come uno dei due assassini (l’altro essendo il Fontana) … Ma, la vigilia del giorno in cui doveva presentarsi in aula, scomparve. Fu trovato impiccato alla ringhiera della sua pensione, situata nei pressi di Santa Croce. L’inchiesta decise che si trattava di suicidio”[29].

78. Il 23 luglio 1904, con 8 voti favorevoli e 4 contrari, la giuria assolse Raffaele Palizzolo e Giuseppe Fontana per insufficienza di prove.

Dopo il processo

79. Raffaele Palizzolo ‘u cignu ritornò a Palermo, accolto addirittura con onori trionfali, come un eroe. Del resto, la famiglia Florio, la più importante dinastia imprenditoriale siciliana di quel tempo (vedi sopra, n°24), l’aveva sempre sostenuto per tutta la durata del processo, mobilitando a suo favore l’opinione pubblica dell’isola, anche attraverso il giornale “L’Ora” di cui i Florio erano proprietari.

“Ma l’esultanza non durò a lungo. Nelle elezioni parlamentari del novembre 1904, il martire di Bologna fu sonoramente battuto. Malgrado il trionfo, era ormai troppo compromesso ed i suoi potenti amici lo abbandonarono.

Riprese a tenere udienze nella sua stanza da letto, come faceva prima, perché conservava pur sempre una posizione nel governo locale; ma la sua stagione di massimo esponente del sistema clientelare siciliano era finita”[30].

Raffaele Palizzolo 'u cignu

80. Leopoldo Notarbartolo continuò la sua carriera in Marina e raggiunse il grado di Ammiraglio. Nel 1947, dopo una lunga e dolorosa malattia, morì senza figli a Firenze, la città in cui aveva scelto di abitare. Due anni dopo, la moglie pubblicò la biografia, sua e del padre, che egli aveva scritto durante i suoi lunghi viaggi per mare[31].

81. “Anche Giuseppe Fontana lasciò la Sicilia. Portando con sé le quattro figliolette, emigrò a New York per proseguire la sua carriera di estorsore e assassino sulla nuova frontiera della mafia”[32].

 Giuseppe Fontana

La fondazione della Banca d’Italia (1893)

82. Comunque sia, effetto permanente di quella stagione di scandali fu la nascita, dopo più di 30 anni di unità nazionale, della Banca d’Italia.

“Il primo rimedio a tanto male fu lo scioglimento della Banca Romana e l’unione della Banca Nazionale con i due Istituti toscani d’emissione in una nuova Banca, detta Banca d’Italia.

Il 18 a sera venne stipulato l’accordo con i capi de’ diversi Istituti. La Banca d’Italia avrà 300 milioni di capitale, de’ quali 210 interamente versati. Crediamo inutile per la storia politica qui riferire il modo di questa unione.

L’istesso giorno si venne allo scioglimento della Banca Romana, succedendo a questa la Banca Nazionale (o la nuova Banca per essa), assumendone i crediti e i debiti, assegnando agli azionisti L. 450 per azione, invece delle 1.000 che valevano alla fine del 1892”[33].

La relazione della Commissione parlamentare sulle banche del 1893

83. La Banca d’Italia venne in effetti ufficialmente costituita con la Legge n°449 del 10 agosto 1893, come Società per Azioni, di diritto privato, che aveva l’esclusiva dell’emissione della moneta, ma non aveva poteri di vigilanza e di controllo sulle altre banche.

Solo il Banco di Napoli e la Banca di Sicilia conservarono il diritto di emettere carta-moneta, perdendolo poi anch’essi nel 1926. 

Le “idee nuove” di Giovanni Giolitti

84. Nonostante l’infortunio (vedi sopra, nn°1-2) occòrsogli durante il suo primo governo (15 maggio 1892 - 15 dicembre 1893), all’inizio del nuovo secolo, e precisamente il 3 novembre 1903, Giovanni Giolitti era di nuovo in sella.

“L’astro nascente” era portatore di una concezione alternativa a quella autoritaria del Crispi, per la gestione dello Stato e la difesa degli interessi di classe della borghesia.

Tale concezione, che può essere considerata come la più compiuta ed organica espressione della tradizione di pensiero della Sinistra liberale, prevedeva il pieno riconoscimento legale delle organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia e la ricerca di una intesa con i loro dirigenti, al fine di evitare gli scoppi violenti di rivolta ed inserire gradualmente le masse popolari all’interno delle istituzioni liberali, facendo ad esse alcune “concessioni” ben guidate.

Giovanni Giolitti (1842 - 1928)

85. Come scrive lui stesso nelle sue “Memorie”:

“Io consideravo… che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all’inizio di un nuovo periodo storico, e che ognuno che non fosse cieco doveva ormai vederlo.

Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra vita politica, nuovi problemi si affacciavano ogni giorno, nuove forze sorgevano, con le quali il governo doveva fare i conti. Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più ed era moto invincibile, perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiava sui princìpi dell’uguaglianza fra gli uomini. Nessuno poteva ormai illudersi di poter impedire che le classi popolari conquistassero la loro parte di influenza sia economica che politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi, e persuaderle non colle chiacchiere ma coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali ordinamenti politici e sociali.

Solo con un tale atteggiamento ed una tale condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari, si sarebbe ottenuto che l’avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice, e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione …”

86. Attraversando vittoriosamente le elezioni politiche generali del 1900-1904-1909-1913, la politica di Giolitti fu sempre, coerentemente, quella del “conservatore illuminato” ovvero, in quel contesto storico, del “borghese liberale progressista”.

La base economica del giolittismo

87. Giolitti fu, in effetti, l’espressione politica della “nuova borghesia”, del nuovo padronato industriale dell’Italia settentrionale che, in quegli anni, guidava il primo vero processo di industrializzazione dell’Italia unita, conseguente alla seconda rivoluzione industriale la quale, sia pure in ritardo rispetto ad altri paesi europei, si andava estendendo anche presso di noi.

Nel 1899, nacque la FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino); nel 1905, l’ILVA; nel 1910, la “Alfa Romeo”.

Contestualmente, nel 1901, venne fondata a Livorno la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici); e nel 1906, a Milano, la CGdL (Confederazione Generale del Lavoro). Sull’altro fronte, a Torino, nel 1910, l’organizzazione del padronato industriale (Confindustria). 

88. Complessivamente, nel periodo giolittiano, il contributo dato dall’industria al totale della produzione aumentò dal 19,6% al 25%, con particolare sviluppo dell’industria mineraria, metallurgica e meccanica, ma anche, in misura minore, di quella già tradizionale (alimentare, tessile, dei tabacchi …).

Si ebbe una significativa crescita della produzione di energia elettrica, soprattutto quella di fonte idrica che, essendo l’Italia ricca di acque, non richiedeva importazioni dall’estero (il “petrolio bianco”).

Gli investimenti crebbero di tre volte, il risparmio di cinque; il reddito medio degli italiani crebbe del 30%.

89. Questa “nuova borghesia”, questo nuovo padronato della seconda rivoluzione industriale in fase espansiva, in cambio di commesse da parte dello Stato (soprattutto armamenti per l’esercito, ma anche opere pubbliche) e di una minore conflittualità sociale, era disponibile a concessioni, sul piano salariale e normativo, nei confronti soprattutto della classe operaia organizzata del Nord, anche in considerazione del periodo di forti profitti che stava attraversando (non era quella la “belle èpoque” di tutta la borghesia europea?).

Il programma “socialista” di Giolitti

90. Di conseguenza, Giolitti cercò prioritariamente l’intesa con i socialisti “riformisti” di Filippo Turati.  In pratica, il Giolitti si impegnò a realizzare (e vi riuscì) quasi tutti i punti che erano previsti dal programma “minimo” dei socialisti approvato nel loro Congresso del 1900.  In particolare:

1)    libertà di organizzazione sindacale e di sciopero, e neutralità del governo nei conflitti economici fra capitalisti e lavoratori;

2)    nazionalizzazione delle ferrovie (1905): le tre Compagnie private (Mediterranea, Sicula, Meridionali), che avevano gestito il servizio fino ad allora, furono liquidate con un congruo indennizzo (500 milioni di lire) e venne creata l’azienda autonoma “Ferrovie dello Stato”; il primo direttore delle FS fu l’ingegnere torinese Riccardo Bianchi, proveniente dalle ferrovie sìcule, il quale, da galantuomo di antica tempra, “dichiarò di non richiedere emolumenti superiori a quelli che ricavava dal posto che allora occupava” e svolse il suo immane compito organizzativo con rara efficienza e specchiata onestà.

3)    riduzione degli interessi pagati dallo Stato ai possessori di Buoni del Tesoro (1906-1909);

4)    nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita (con la fondazione dell’INA, Istituto Nazionale Assicurazioni, nel 1912): gli utili, prima lucrati dalle Compagnie di assicurazione private, furono da Giolitti destinati, in parte, alla Cassa per la vecchiaia ed invalidità dei lavoratori; peraltro, le Compagnie private ottennero di poter continuare ad esercitare le loro attività per altri 10 anni, e nel 1923 Mussolini concesse loro una ulteriore proroga.

5)    legislazione sociale più avanzata: assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; divieto del lavoro dei fanciulli di età inferiore ai 12 anni; garanzia del riposo festivo per gli operai dell’industria, etc.

6)    obbligo per tutti di frequentare le scuole fino a 12 anni (1904) e nuova legge sull’istruzione elementare (Daneo-Credaro, 1911): fino a quel momento, istituire e gestire le scuole di base era compito dei Comuni, i quali, però, per cronica mancanza di fondi, vi provvedevano in modo assai limitato per quantità e qualità; con la legge Daneo-Credaro del 1911, responsabile dell’istruzione elementare divenne direttamente lo Stato e ciò rese possibile la costruzione di nuove scuole, l’assunzione di nuovi insegnanti e il miglioramento dei loro stipendi, l’istruzione obbligatoria per i militari e i carcerati, l’aumento dei corsi serali destinati ai lavoratori, l’istituzione di università popolari, biblioteche, etc.; il risultato complessivo fu che l’analfabetismo, che riguardava il 75% degli italiani nel 1861, si ridusse al 38% nel 1911 e, nel triennio 1911-1914, si triplicò il numero degli alunni delle scuole.

7)    maggiore decentramento amministrativo, indennità ai deputati, diritto di voto finalmente esteso a  tutti i cittadini maschi  (approvato dalla Camera nel 1912): restarono però ancora escluse dal voto le donne (si ricordi che in Italia le donne voteranno per la prima volta solo il 2 giugno 1946, per il referendum monarchia-repubblica e l’Assemblea costituente). 

Il prezzo del giolittismo

91. Il miglioramento delle condizioni di vita di un segmento limitato della classe operaia del Nord (la cosiddetta “aristocrazia operaia”) ebbe però come contropartita l’aumento complessivo delle disuguaglianze economico-sociali nel paese nonché una sensibile riduzione del numero complessivo delle persone occupate.

In sostanza, la contropartita per l’attuazione del “programma socialista” di Giolitti fu l’aggravamento del dislivello tra Nord e Sud dell’Italia, accompagnato da un massiccio fenomeno di emigrazione.

92. Il meccanismo che permetteva lo sviluppo industriale, concentrato nelle grandi città del Nord (Torino, Milano, Genova), era infatti sostanzialmente quello (tradizionale per la Sinistra liberale) del cosiddetto protezionismo: il governo, cioè, imponeva  alte tariffe doganali  su alcune merci, in modo da ostacolare il più possibile l’ingresso in Italia di merci prodotte da industrie straniere e favorire così le industrie nazionali, che potevano in tal modo crescere e svilupparsi senza, in pratica, dover subire alcuna concorrenza.

Al Sud, però, i primi ad essere tutelati erano i latifondisti (= proprietari di grandi estensioni di terra coltivata essenzialmente a frumento), per i quali si applicava la protezione doganale rispetto al grano proveniente dall’estero, e che avevano quindi garantita la loro rendita tradizionale, senza aver bisogno di introdurre alcuna sostanziale innovazione, né tecnologica né tanto meno nei rapporti con i contadini, rimanendo dunque gli autentici pilastri dell’immobilismo meridionale.    

93. Il prezzo dello sviluppo industriale, guidato dagli industriali del Nord, con l’alleanza subalterna dei latifondisti del Sud, fu quindi pagato, ancora una volta, soprattutto dall’Italia meridionale e dai contadini più poveri.

Non a caso, quello giolittiano è anche il periodo caratterizzato dalla più massiccia emigrazione, soprattutto verso le Americhe, che l’Italia abbia mai conosciuto, con addirittura interi paesi, del Sud e del Veneto, che si trasferirono nel “nuovo mondo”. Basti dire (con stime approssimate per difetto) che il numero degli emigranti, che arrivava già a 100.000 persone l’anno nel 1880, nel 1901 era di 500.000 persone l’anno, e nel 1913 giunse a 900.000.[34]

L’analisi gramsciana del giolittismo

94. Come scrisse da par suo Antonio Gramsci, nei “Quaderni del carcere”:

“Il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco urbano (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale.

Il Mezzogiorno era ridotto ad un mercato di vendita semi-coloniale, a una fonte di risparmio (le rimesse degli emigrati erano una delle principali entrate del bilancio statale) e di imposte.

Esso era tenuto disciplinato con due serie di misure:

1)    misure poliziesche cioè repressione spietata di ogni movimento di massa, con gli eccidi periodici di contadini;

2)    misure poliziesche-politiche cioè favori personali al ceto degli intellettuali (i “paglietta”) sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni locali … ovvero incorporamento a titolo personale, degli elementi meridionali più attivi, nel personale dirigente statale, con particolari privilegi  giudiziari,  burocratici, etc.

Così, lo strato sociale (gli intellettuali) che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale diventava, invece, uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata.

Il malcontento non riusciva, per mancanza di direzione, ad assumere una forma politica normale e le sue manifestazioni, esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come sfera di polizia giudiziaria”.

E’ dunque cosa “naturale e ovvia”, continua Gramsci, che Giolitti “si sia sempre opposto ad ogni diffusione del socialismo e del sindacalismo nel Mezzogiorno … perché un protezionismo operaio (riformismo, cooperative, lavori pubblici) è possibile solo se parziale cioè ogni privilegio presuppone dei sacrificati e spogliati”.

Gli oppositori di Giolitti

95. La politica di Giolitti (= collaborazione fra liberali progressisti e socialisti riformisti) fu aspramente osteggiata, oltre che da alcuni chiaroveggenti ma isolati intellettuali meridionali, come Gaetano Salvemini (1873–1957), da due fronti: 

Ø  da una parte, dai socialisti non-turatiani che furono detti “massimalisti” o “intransigenti”;

Ø  dall’ altra parte, dalla componente più reazionaria della borghesia, la quale, sulla base dell’ideologia imperialista[35], non voleva  alcun  accordo con il movimento operaio e dette vita in quegli anni al bècero movimento “nazionalista”, che riuscì ad imporre la guerra di Libia (settembre 1911- ottobre 1912) coinvolgendo anche una parte delle masse popolari con la solita vana promessa delle “terre per i contadini italiani”.

96. La guerra contro l’Impero turco, per il possesso della Libia, si concluse (pace di Losanna) con l’attribuzione all’Italia dello “scatolone di sabbia” libico laddove, anche volendo, c’era ben poco da coltivare ed il petrolio non era stato ancora scoperto, nonché delle piccole isole di Rodi e del Dodecaneso.

L’intesa con i cattolici

97. La linea dell’intesa Giolitti-Turati non riuscì quindi ad affermarsi e consolidarsi. Fallita questa, Giolitti “cambiò spalla al suo fucile” (Gramsci) e ricercò l’accordo con il movimento politico dei cattolici, attraverso il cosiddetto “Patto Gentiloni”, che riuscì vittorioso nelle elezioni dell’ottobre 1913, le prime elezioni a suffragio quasi universale[36].

Ormai, però, era la complessiva situazione europea che precipitava rapidamente verso la guerra e trascinava dietro di sé il mondo intero (Prima guerra mondiale, 1914-1918).

I socialisti negli anni di Giolitti

98. All’interno del Partito socialista italiano, nato nel 1892[37] e “battezzato” nel fuoco degli avvenimenti del 1894[38] e del 1898[39], si agitava, come in tutta la Seconda Internazionale, l’acceso confronto tra l’ala “riformista” e quella “rivoluzionaria”[40].

Nonostante gli aspri contrasti, i “riformisti” di Turati mantennero sostanzialmente il controllo del Partito in tutti i Congressi, dal VI all’XI, che si svolsero, ogni due anni, dal 1900 al 1910.

continua


Note

[1] Vedi n°80 in “Il periodo liberale dal 1887 al 1896”.

[2] Anno 44° (1893), Serie XV, Vol. V, pag.496 e segg.

[3] Denis Mack Smith – “Storia d’Italia dal 1861 al 1958”, Ed. Laterza, Bari, 1959.

[4] Vedi nn°156-165 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[5] Napoleone Colajanni (1847-1921), volontario garibaldino ed irriducibile repubblicano, partecipò ai fasci siciliani e poi fu tra i fondatori del Partito Repubblicano nel 1895. 

[6] “La Civiltà Cattolica”, cit.

[7] Ibidem

[8] Ibidem

[9] Ibidem

[10] Ibidem

[11] Ibidem

[12] Vedi riassuntivamente i nn°105-106 in “Il periodo liberale dal 1896 al 1900”.

[13] Difendetevi! - Discorso pronunciato al Teatro Castelli di Milano, il 2 luglio 1882.

[14] “La Civiltà Cattolica”, cit.

[15] Ibidem

[16] Ibidem

[17] Ibidem

[18] Vedi: Sebastiano Vassalli (1941-2015) – “Il cigno”, Ed. Einaudi, Torino, 1993.

[19] “La Civiltà Cattolica”, cit.

[20] Vedi nn°37-39 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[21] “La Civiltà Cattolica”, cit.

[22] Civiltà Cattolica, Anno 44° (1893), Serie XV, Vol. VII, Quaderno 1033, pag.106 e segg.

[23] La Civiltà Cattolica, Anno 45° (1894), Serie XV, Vol. XI, Quaderno 1060, pag.490 e segg.

[24] John Dickie – “Cosa nostra - Storia della mafia siciliana”, Ed. Laterza, 2007.

[25] Ibidem

[26] Ibidem

[27] La Civiltà Cattolica, Anno 51° (1900), Serie XVII, Vol. IX, Quaderno 1060, pag.490 e segg.

[28] Ibidem

[29] John Dickie, op.cit.

[30] Ibidem

[31] Il “memoriale Notarbartolo” è stata recentemente ristampato con il titolo “La città cannibale”, Ed. Novecento, 2016.

[32] Ibidem

[33] La Civiltà Cattolica, cit.

[34] Vedi anche nn°181-184 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[35] Vedi nn°177-180 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[36] Vedi sopra, n°90, punto 7.

[37] Vedi nn°81-84 in “Il periodo liberale dal 1887 al 1896”.

[38] Vedi nn°161-162 ibidem.

[39] Vedi nn°4-11 e 20-22 in “Il periodo liberale dal 1896 al 1900”.

[40] Vedi nn°185-188 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, maggio 2018

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