Giovanni Giolitti prima
del “giolittismo”
1. L’astro nascente della classe dirigente liberale,
all’inizio del nuovo secolo, fu il piemontese di origine
controllata Giovanni Giolitti (Mondovì di Cuneo,
1842; Cavour, 1928), che governò poi per tutto il
periodo che va dal 1900 all’inizio della Prima guerra
mondiale (1914).
2. Per la precisione, come abbiamo scritto a suo luogo,
Giolitti era già stato al governo, per un breve
intermezzo (dal maggio 1892 al novembre 1893)
all’interno del decennio di Francesco Crispi
(1887-1896), ma dovette velocemente lasciare la poltrona
di nuovo al Crispi, essendo egli rimasto implicato nel
famoso “scandalo della Banca Romana”.
In realtà, il Crispi era coinvolto nel malaffare
bancario almeno quanto il Giolitti ma, in quel
periglioso frangente, fu più abile di lui nell’arte,
invero perenne, di venir fuori da una situazione spinosa
scaricando su altri anche le proprie responsabilità,
tanto meglio se gli altri sono avversari politici.
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Giovanni Giolitti da giovane |
Lo
scandalo della Banca Romana (1892-94)
3. L’attento lettore, che voglia approfondire la storia
del famoso “scandalo” con particolare riferimento al
contestuale “delitto Notarbartolo”, potrà fruttuosamente
leggere “Il caso Notarbartolo”, di Fara Misuraca e
Alfonso Grasso, in “Il portale del Sud” – Le pagine di
storia.
4. Qui riportiamo alcune sintetiche considerazioni dello
storico inglese Denis Mack Smith, cui faremo seguire la
cronaca di quegli avvenimenti così come fu narrata,
all’epoca, dalla rivista dei Gesuiti “La Civiltà
Cattolica”.
“La causa immediata del tracollo finanziario del 1889 fu
una eccessiva espansione dell’industria edilizia,
alla quale le banche avevano concesso crediti esagerati.
Questa follia edilizia era cominciata con la
costruzione dei nuovi uffici governativi a Roma ed
era continuata in seguito con il risanamento dei
vecchi quartieri infetti di Napoli.
Roma, che nel 1870 contava una popolazione di circa
220.000 abitanti, quasi li raddoppiò negli anni
successivi, diventando La Mecca di ogni specie di
avventurieri ...”
E di Napoli abbiamo già scritto a suo luogo.
La denuncia alla Camera
del deputato Napoleone Colajanni
5. “La denunzia di gravi magagne nelle Banche, fatta dal
deputato Colajanni
alla Camera il 20 dicembre passato
(1892), e l’ispezione giudiziaria immediatamente
seguìtane per ordine del Ministero, furono il principio
d’una scoperta di gravissimi imbrogli, frodi e
dilapidazioni in quegli Istituti medesimi.
6. Basta sapere che, fin dal 1889, si fe’ una ispezione,
dal Sen. Alvisi col Comm. Biagini per ordine del Miceli,
ma con niun effetto quanto al rimediare al male; finché,
non si sa per qual forza maggiore, la grave piaga morale
venne a suppurazione.
E gli uomini appartenenti alla società di coloro che
vennero a restituire l’ordine morale a Roma, si
son trovati colle mani affondate nel morbido. Non che
questo sia il minor delitto da quelli commesso, ma è
delitto che, non solo noi cattolici, ma anche i liberali
riconoscono e aborrono … almeno quando viene scoperto”.
L’ispezione ministeriale
7. “Il decreto della Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre
1892 ordinava un’ispezione riguardo agl’Istituti di
emissione, i quali sono la Banca Nazionale, il Banco di
Napoli, la Banca Nazionale Toscana, il Banco di Sicilia,
la Banca Toscana di Credito e la Banca Romana.
Fin dal 18 gennaio 1893 il Commendator Gaspare Finali,
Presidente della Commissione, fe’ una relazione sommaria
al Ministero dell’Interno; relazione che già accertava
gravi inconvenienti nella Banca Romana.
Trattavasi nullameno che di circa 65 milioni di
biglietti che fraudolentemente circolavano in Italia. Né
qui era tutto”.
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Una banconota della Banca Romana |
La denuncia all’autorità
giudiziaria
8. “Il testo della domanda fatta dal Procuratore del Re
al Parlamento, il 31 gennaio 1893, per procedere contro
il deputato De Zerbi, come vedremo, ci fornisce un
documento autentico del primo frutto dell’ispezione, che
è bene riferire:
Il 18 gennaio 1893, veniva comunicato all’Autorità
giudiziaria un rapporto della Commissione incaricata
dell’ispezione delle Banche di emissione, contenente
denunzia di gravi irregolarità verificatesi nella
gestione della Banca Romana, riflettenti:
§
l’eccesso di circolazione dei biglietti, dissimulati
nelle situazioni decadàrie;
§
la diminuzione della consistenza di cassa;
§
la creazione di conti correnti, apparentemente fittizi,
per la considerevole somma di 28 milioni, aperti allo
scoperto in breve periodo di tempo e nella imminenza
della ispezione governativa.
9. Per questi fatti delittuosi, l’Autorità giudiziaria
iniziava regolare procedimento per i delitti di
peculato e di falso in atto pubblico, ed
ordinava l’arresto del governatore della Banca,
Commendator Tanlongo Bernardo e del cassiere,
Commendator Lazzaroni Cesare.
10. Nell’interrogatorio a cui fu sottoposto il Comm.
Tanlongo il 24 gennaio, a spiegare la creazione di conti
correnti per somme così ingenti ed in così breve periodo
di tempo, allegava di aver dovuto ricorrere a queste
operazioni fittizie per coprire certe passività che non
figuravano regolarmente iscritte nei libri della Banca
…”
L’onorevole Rocco De
Zerbi
11. “In seguito alle operazioni di perquisizione,
vennero poi sequestrati, specialmente presso il cassiere
Cesare Lazzaroni, appunti diversi e note scritte di suo
pugno o di carattere del Governatore, nei quali sono
segnati pagamenti fatti in diverse epoche …
Fra le persone che più frequentemente sono indicate in
questi appunti, l’onorevole Rocco De Zerbi, deputato al
Parlamento italiano, figura di aver ricevuto in diversi
anni, dal 1888 al 1891, una somma considerevole che,
salvo esatta liquidazione, oltrepassa, a quanto appare
fin d’ora, le quattrocento mila lire (L. 400.000) …
Il cassiere, Comm. Lazzaroni, il quale avrebbe
presenziato ad alcuni sborsi di somme, fatte anche col
mezzo di persona intermediaria, all’onorevole De Zerbi,
dichiara di aver ragione di ritenere che esse siano
state date come compenso per avere favorito in
Parlamento le ragioni e gli interessi della Banca …”
12. “Colla data del 31 gennaio 1893, come vedemmo nel
documento già menzionato, il Procuratore del Re domandò
facoltà al Presidente della Camera di procedere contro
il deputato De Zerbi, accusato d’avere avuto mano nelle
frodi della Banca Romana: facoltà che fu, dalla Camera,
concessa …
Mentre scriviamo queste linee, il De Zerbi non è stato
ancora catturato. E’ stato però già arrestato il suo
intermediario de’ loschi affari, l’avvocato
Bellucci-Sessa, e condotto anch’egli fra i lodati
Commendatori alle carceri di Regina Coeli”.
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Rocco de Zerbi |
Opinione sul De Zerbi
13. In effetti, il giornalista calabrese e parlamentare
della Destra liberale, onorevole Rocco De Zerbi
(1843-1893), colpito da attacco cardiaco, morì il 20
febbraio 1893, esattamente 17 giorni dopo che la Camera
dei Deputati aveva votato, all’unanimità,
l’autorizzazione a procedere contro di lui.
“Aveva scritto fino alle 3 di mattina. Alle 3.45 s’alzò
dalla poltrona, ebbe un sussulto angoscioso e poi cadde
rovescioni. Accorsi i parenti ed amici, fu mandato pel
parroco della chiesa del S. Cuore; questi dié
l’assoluzione all’infermo, che morì poco dopo. Un
giornale parlò di morfina, usata in gran dose dal De
Zerbi e che avrebbe prodotta ipertrofia di cuore”.
14. Il De Zerbi, a parere di chi scrive, fu proprio un
esponente, tipico anche se minore, di quella borghesia
coloniale opportunisticamente subalterna, di cui abbiamo
già scritto a più riprese.
Volontario con Garibaldi, poi passato direttamente
nell’esercito sabàudo, aveva attivamente combattuto
nella campagna “contro il brigantaggio”.
Dopo l’Unità, aveva fondato e diretto a Napoli il
giornale “Il Piccolo” ed era stato eletto deputato,
sostenendo posizioni sempre autoritarie, belliciste e
colonialiste, e sempre con una oratoria ampollosa e
polemica, degna di far parte di una “ideale
storia dell'eloquenza forènse teatrale meridionale” come
ebbe a scrivere il critico letterario Luigi Russo.
“Gli piace stordire la folla con la varietà infinita
delle cognizioni raggranellate, con la scienza delle
cose più astruse, con la conoscenza di molte lingue e di
molte letterature; gli piace che il pubblico grosso si
domandi tutto ammirato: - Come fa costui a sapere tante
cose?” (Federico Verdinois).
15.
Riportiamo di seguito un saggio dei suoi contenuti e
della sua forma:
“Un paese, l’Italia,
uscito dalla corruzione (ohibò!) e dalla
schiavitù, e che nell'unica sua prova militare contro lo
straniero non fu favorito dalla fortuna né in terra né
sul mare (si riferisce alla cosiddetta “Terza guerra
d’indipendenza” del 1866) … deve piuttosto temere
anziché desiderare una troppo lunga èra di pace, deve
piuttosto desiderare anziché temere il lavacro degli
eroi, il tiepido e fumante bagno di sangue!”
Invochiamo dunque misericordia per l’anima sua. E
passiamo oltre.
Gli arresti del gennaio
1893: Tanlongo e Lazzaroni
16. “Minute perquisizioni furono fatte, tanto presso il
Governatore della Banca Romana, il Comm. Tanlongo,
quanto presso il cassiere di quella, il Comm. Cesare
Lazzaroni; e dopo ciò si venne, dall’autorità
giudiziaria, all’arresto d’ambedue.
Il Comm. Lazzaroni fu immantinente tradotto, il 20
gennaio, al carcere Regina Coeli. Il Tanlongo, malato di
gotta, fu guardato in casa per alcuni giorni, finché, il
24, tra una folla numerosa, che crudelmente gridava
Abbasso i ladri, fu trasportato anch’egli a Regina
Coeli.
Il processo intentato contro ambedue è così formulato:
Per sottrazione di somme in danno della Banca Romana,
ed eventualmente dello Stato, per la garanzia dei
biglietti fiduciarii; sottrazione commessa col mezzo di
falso in scrittura e con fraudolente emissione dei
biglietti di scorta.
17. Prima d’arrestare il Tanlongo, però, oltre la
difficoltà della malattia, fu d’uopo superarne un’altra,
la quale, a dir vero, non par tanto onorifica all’on.
Giolitti, Presidente de’ Ministri. Il Tanlongo, cioè,
era da poco stato nominato Senatore (su proposta del
Giolitti). Come poteva dunque essere arrestato senza
l’autorità del Senato? Interrogato all’uopo, il
Presidente del Senato rispose non esservi ostacolo
alcuno all’arresto del Commendatore, poiché la sua
nomina a Senatore non era ancora stata convalidata dal
Senato stesso, a cui appartiene, secondo lo Statuto,
dichiarare del valore de’ titoli, su cui si fonda il
decreto reale di nomina. E dire che il Tanlongo aveva
già prestato giuramento nella seduta reale!”
Gli arresti del gennaio 1893: Monzilli e Lazzaroni
junior
18. “Il terzo arrestato fu un altro Commendatore della
Corona d’Italia, il Sig. Antonio Monzilli.
La sera del 27, mentre egli pacificamente cenava colla
famiglia, ebbe dal delegato Rinaldi il mandato
d’arresto, e fu subito trasportato, prima alla Questura
e poi al menzionato carcere di Regina Coeli.
Il Monzilli era uno de’ capi subalterni nel Ministero
d’Industria e Commercio. L’accusa contro di lui riguarda
l’ispezione della Banca eseguita nel 1889, e
peculiarmente gli si attribuisce una falsa relazione
fatta all’on. Miceli sullo stato della medesima.
19. Il 5 febbraio venne arrestato anche un altro
Commendatore, nipote del Cassiere sopra menzionato, il
giovane Michele Lazzaroni”.
La boccaccesca, e non riuscita, fuga di Vincenzo
Cuciniello
20. “Più grossa è la faccenda del Banco di Napoli. Ciò è
il mancamento di 2 milioni e 450 mila lire scoperto al
Banco di Napoli (sede di Roma), mancamento accompagnato
dalla fuga del Direttore stesso, un altro Commendatore,
Vincenzo Cuciniello.
La notizia di tal fuga cominciò a spargersi il 17 a sera
in Roma, e fino al 22, per ricercar che si facesse, la
dimora del Cuciniello era a tutti un mistero. Chi diceva
esser fuggito a Napoli, chi in Egitto e chi perfino in
Grecia.
Finalmente, il 22 a sera, fu colto in Via Gregoriana, in
casa della signora Carolina Hadin-Marchese (dicono,
la sua amante), presso cui s’era rifugiato quella
sera, coll’intento, a quanto pare, di fuggir quanto
prima da Roma.
Ma il Cuciniello non sembrava più, a prima vista, il
noto Commendatore in marsina e cravatta; poiché fu
sorpreso co’ baffi rasi e travestito di tutto punto
da prete, credendo quell’abito il più acconcio a
passar per galantuomo.
Nell’atto d’esser preso dal delegato (di polizia),
raccontano che facesse atto di bere un veleno da una
boccettina che seco avea, la quale però s’era prima per
avventura vuotata.
|
Il Comm. Vincenzo Cuciniello |
21. Prima del Cuciniello era stato arrestato il cassiere
d’Alessandro, e altri ancora che non monta
registrare. Né a Roma solamente, ma a Firenze altresì e
altrove”.
Il delitto Notàrbartolo
(1 febbraio 1893)
22.
“Il giorno 1°di febbraio 1893, fu commesso in Sicilia un
atroce assassinio. Emanuele Notarbartolo,
Marchese di S. Giovanni e Senatore del Regno, era atteso
a Palermo la sera del 1°febbraio, dovendo tornare da una
scorsa ch’egli aveva fatta ne’ suoi possedimenti nel
territorio di Cerda. Ma ogni attendere fu vano.
Il
Notarbartolo era stato atrocemente ucciso entro la
carrozza del treno, mentre questo correva rapidamente
verso Termini, e il cadavere era stato gittato lungo la
linea. Nel posto della carrozza di prima classe occupato
dal Notarbartolo non si trovò che un lago di sangue. Il
cadavere fu poi rinvenuto presso la stazione di S.
Nicola, allo sbocco d’un traforo, crivellato da 25 colpi
di pugnale.
La
lotta fra l’infelice Marchese e gli assassini dovette
essere accanita, poiché si vide rotta la reticella ove
si depongono le valige e il cadavere aveva le mani
ancora irrigidite in atto di suprema difesa.
L’ucciso contava 57 anni di età; era stato Sindaco di
Palermo e per molti anni Direttore del Banco di Sicilia
…
|
Emanuele Notarbartolo |
23.
La famiglia ritiene che l’assassinio sia avvenuto a
causa di possibili scandali sul Banco di Sicilia, che
avrebbero potuto nascere in seguito all’inchiesta. Il
Comm. Notarbartolo sapeva molte cose e molte persone
avevano interesse che egli serbasse il silenzio …
D’onde il movente non può e non dee tenersi una vendetta
comune, d’individuo ch’abbia patito torto dal
Notarbartolo; ma, direi così, una salvaguardia, un
paracadute, di gente che avrebbe potuto temere da lui
qualche rivelazione grave e pericolosa.
Questa è la voce pubblica, e della famiglia eziandio”.
‘U cignu
24.
In effetti, fin dal momento in cui il corpo ritrovato
accanto ai binari fu identificato come quello di
Emanuele Notarbartolo, la voce pubblica indicò come
mandante del delitto l’onorevole Raffaele Palizzolo
(1843-1918), detto ‘u cignu (= il cigno),
consigliere di amministrazione del Banco di Sicilia,
luogo-tenente di Francesco Crispi nell’isola, nonché
referente politico della famiglia dei Florio, i più
importanti imprenditori siciliani dell’epoca.
|
Raffaele Palizzolo |
25.
Gli esecutori materiali sarebbero stati, invece,
appartenenti a cosche mafiose con le quali ‘u cignu
era, sempre per vox populi, in abituali rapporti
di reciproco scambio di favori.
L’opinione (profetica) de
“La Civiltà Cattolica”
26. “… Questi gravissimi fatti, (sono) resi ancor
più gravi da quel che essi suppongono, cioè una
complicità che, qual vasta rete, deve abbracciare sia
coloro che avrebbero dovuto invigilare alle Banche,
verificando e riscontrando, sia coloro
(personaggi grandi e piccoli, e più i grandi che i
piccoli) in benefizio dei quali s’erogò il denaro, e
sia infine coloro che, forse per proprio vantaggio,
furono conniventi.
Le pubbliche effemèridi (= i giornali) parlano di
deputati e Ministri che ebbero mano nel losco affare;
noi, prima di registrare i nomi nella storia, aspettiamo
che risplenda la luce della certezza. Ma tal luce forse
non mai spunterà, tornando conto, a chi ne ha in mano la
chiave, rimanere nel buio”.
Per capirci qualcosa …
27. Occorre premettere che, a quel tempo, non esisteva
in Italia una Banca Centrale cioè non esisteva, in linea
di principio, un’unica banca di proprietà dello Stato,
con il potere di stampare banconote e di
fissare il tasso di interesse con il quale queste
vengono “prestate” alle banche private, nonché di
vigilare sulla attività di queste medesime banche
private.
Esistevano invece solo banche di proprietà di
azionisti privati, alcune delle quali, e
precisamente 6 di esse (vedi sopra, n°7) erano anche
Istituti di emissione ovvero avevano anche, per
legge, la facoltà di stampare banconote, in una
misura che doveva essere proporzionata alla riserva
aurea da esse custodita nei propri forzieri.
28. Fra queste 6, la “banca dei vincitori” sabàudi,
ovvero la “Banca Nazionale” dell’ex-Regno di Sardegna,
godeva di una posizione privilegiata, soprattutto
perché, avendo concesso allo Stato italiano un mutuo di
oltre 250 milioni di lire per le spese della cosiddetta
“Terza guerra d’indipendenza” (20 giugno - 12 agosto
1866), ne aveva ricevuto, in cambio, la facoltà di
stampare banconote “in regime di corso forzoso” ovvero
senza l’obbligo di detenere una riserva aurea
corrispondente.
29. In 10 anni, dal 1879 al 1889, erano stati formulati
ben 15 progetti di legge “per il riordino e
l’ammodernamento del sistema creditizio”, che
commissioni apposite avevano ampiamente discusso ed
approvato, ma nessuno di questi progetti era
riuscito a diventare legge.
Cosa accadeva, in
sostanza?
30. In questo contesto, alquanto confuso e poco
trasparente, accadeva con relativa facilità che le
banche concedessero a deputati e ministri, e/o a loro
amici, soci in affari e “grandi elettori”, dei
“prestiti” che poi non venivano più restituiti.
31. I politici ricambiavano il favore nel senso che i
“buchi” così prodotti venivano colmati, all’occorrenza,
con denaro pubblico; con disposizioni legislative che,
nel caos normativo, tendevano a favorire ora questa ora
quella banca; e con una “vigilanza”, già di per sé
puramente formale ed abbastanza blanda, che sapeva
quando era necessario chiudere entrambi gli occhi.
32. A ciò si aggiunse il fatto che, soprattutto dopo la
gloriosa “breccia di porta Pia” del 1870, capitali
bancari, che avrebbero potuto essere produttivamente
investiti nell’industria e nell’agricoltura, vennero
invece dirottati, in misura sproporzionata, verso il
settore edilizio, allo scopo di conseguire profitti
maggiori ed in tempi più brevi (vedi sopra, n°4): fino a
che la “bolla” edilizia si sgonfiò ed i relativi
investimenti cominciarono a rimanere senza frutto …
33. Tutto ciò produsse inevitabilmente un aumento della
circolazione cartacea, ben al di là di quella consentita
per legge dalle riserve auree delle banche.
Fra normalità e scandalo
34. Simili pratiche erano, per la verità, abbastanza
“normali” nell’Italia dei “galantuomini”: la nuova
classe dominante borghese (imprenditori, politici,
banchieri, affaristi vari, “grandi giornalisti”
prezzolati emergenti, etc.) considerava “cosa propria”
quel denaro pubblico, che veniva accumulato con tasse
che colpivano “fino all’osso” le grandi masse popolari.
35. Da parte sua, il popolo, formato in gran maggioranza
da contadini ed altri lavoratori per lo più poverissimi
ed analfabeti, “conosceva” per antica esperienza e
“sentiva” sulla pelle quel meccanismo di sfruttamento,
ma ovviamente non aveva gli strumenti per “capire” nei
dettagli come funzionava, né d’altronde avrebbe mai
potuto “avere le prove” ed individuare con precisione
dei “colpevoli”.
36. Erano “imbrogli, frodi e dilapidazioni non di oggi e
di ieri solamente, ma di anni ed anni, e sempre
pietosamente coperti, con colpa o no è inutile dirlo”.
Il fatto extra-ordinario fu che, in quegli anni, per la
prima volta nell’Italia unita, tali pratiche furono
portate, per così dire, ufficialmente alla luce del
sole.
L’ispezione
Alvisi-Biagini del 1889
37. Già nel 1889, come accennato in precedenza (vedi
sopra, n°6), vi era stata una ispezione sulle banche,
che era stata subito provvidamente “affossata”.
Nell’ottobre 1889, infatti, il calabrese Luigi
Alfonso Miceli (1824-1906), eroe del Risorgimento,
ex-cospiratore mazziniano, ex-garibaldino, poi eletto
parlamentare e, in quel tempo (dal 1887 al 1891),
Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel
governo di Francesco Crispi, aveva ordinato una
ispezione sulle sei banche di emissione.
|
Luigi Alfonso Miceli |
Le motivazioni
38. Tale ispezione non aveva, di per sé, motivazioni
molto nobili: semplicemente, il Capo del governo,
Francesco Crispi, intendeva fare un favore
all’autorevole parlamentare ed ex-ministro
pluri-trasformista Giovanni Nicòtera (1828-1894),
rimuovendo dal suo incarico l’allora Direttore del Banco
di Napoli, Girolamo Giusso (1843-1921), già
Sindaco di Napoli dal 1878 al 1883, deputato dal 1886,
ed avversario politico del Nicotera.
Per dare però alla faccenda una parvenza di imparzialità
e di legalità, venne fatta una ispezione non soltanto
sul Banco di Napoli ma su tutti e sei gli Istituti di
emissione.
Gli ispettori
39. Ad eseguirla, venne chiamato il Senatore di Rovigo
Giuseppe Giacomo Alvisi (1825-1892), da tutti
stimato per la sua onestà e competenza, che richiese
come collaboratore operativo Gustavo Biagini, un
bravo funzionario del Ministero del Tesoro, allora retto
da Giovanni Giolitti.
Il ministro Miceli volle però, contro il parere dell’Alvisi,
rendere partécipe dell’ispezione anche Antonio
Monzilli, “Capo-divisione per il credito” del suo
ministero …
|
Giuseppe Giacomo Alvisi |
Le risultanze
40. Alvisi e Biagini, del tutto inconsapevoli di quanto
si tramava sopra ed intorno a loro, si misero all’opera
con scrupoloso zelo ed effettiva imparzialità, e
così dall’ispezione emersero irregolarità minori, di
vario tipo, a carico di tutti e sei gli Istituti di
credito, ma le più gravi furono riscontrate non presso
il Banco di Napoli ma presso la Banca Romana.
41. In sintesi, la Banca risultava aver concesso crediti
e finanziamenti non più restituiti, in particolare a
politici ed al settore edilizio (vedi sopra, nn°30-33).
Per colmare l’ammanco, erano state poi emesse banconote
da 50, 200 e 1000 lire, per un totale di 9.050.000 lire.
Tali banconote, ufficialmente, erano state stampate per
sostituire banconote, di ugual numero e valore,
usurate dal tempo; ma in realtà nessuna banconota
“usurata” era stata tolta dalla circolazione, per cui le
“nuove”, prodotte con gli stessi numeri di serie, erano
semplicemente dei duplicati abusivi delle
“vecchie”.
Complessivamente, poi, risultavano emesse circa
25.000.000 di lire in eccesso rispetto a quanto
consentito, per legge, dalla riserva aurea della
Banca.
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Uno dei biglietti duplicati |
Si corre ai ripari …
42. Già dopo la prima settimana di ispezione, Gustavo
Biagini chiese udienza al ministro Miceli, per
informarlo della gravità della situazione.
43. Il Ministro convocò Bernardo Tanlongo, governatore
della Banca Romana, il quale, costretto dall’evidenza,
confermò sia l’ammanco di cassa sia la
creazione di banconote abusive: le banconote erano state
commissionate alla Società H.C. Sanders & Co. di
Londra e poi, nottetempo, firmate con torchietto da
parte del governatore Tanlongo e del cassiere Cesare
Lazzaroni, attivamente coadiuvati da figlio (Pietro
Tanlongo) e nipote (Michele Lazzaroni).
Il Tanlongo garantì del resto al Ministro che avrebbe
prontamente provveduto a “regolarizzare” la situazione.
Il che, in verità, fece, ma ricorrendo ad altri imbrogli
e cioè: in parte, facendosi prestare soldi, per un tempo
limitato, dalla Banca Nazionale (che tanto poteva
stampare moneta senza vincoli: vedi sopra, n°28); in
altra parte, con la creazione di conti correnti fittizi.
|
Totò, Peppino e Giacomo Furia nel film La
banda degli onesti. Ma la realtà supera la fantasia
(vedi n°43) |
… e l’ispezione viene
affossata
44. E così, quando il senatore Alvisi, sulla base del
rapporto tecnico stilato da Biagini, presentò la
relazione finale al ministro Miceli, questi la integrò
con un’altra relazione, molto più accomodante, compilata
all’uopo dal Monzilli (vedi sopra, n°18 e n°39) e che
riportava un ammanco solo transitorio e di
sole 3 milioni di lire … e presentò il tutto ad una
riunione del Consiglio dei ministri, sul finire del
1889.
45. In questa riunione, alla quale erano presenti sia il
Crispi, in qualità di capo del governo, sia il Giolitti,
in qualità di ministro del tesoro, fu deciso di non dare
alcun seguito alla relazione: ufficialmente, perché si
trattava, in fondo, di parva materia; in realtà,
perché altrimenti molti illustri parlamentari ed
eccellenti ministri, compresi Crispi e Giolitti, ci
avrebbero lasciato le penne.
La relazione Alvisi-Biagini rispunta (1891)
46.
Sembrava quindi che sulla relazione fosse stata posta la
classica pietra tombale, ma l’onesto senatore Giuseppe
Giacomo Alvisi continuò, nei due anni successivi, a non
darsi pace, fino a che, nel giugno 1891, caduto il
governo Crispi e succedutogli il breve governo Di Rudinì
(febbraio 1891 - maggio 1892), credette giunto il
momento di dare pubblica lettura in parlamento della sua
relazione.
Immediatamente, però, dovette fronteggiare ogni genere
di pressioni, dalle offese alle accuse di dabbenaggine,
e soprattutto l’invito a tacere “nell’interesse supremo
della Patria” per non danneggiare la vacillante
credibilità delle istituzioni: e fu soprattutto questo
richiamo patriottico ed istituzionale che lo convinse,
anche in quella circostanza, a non parlare.
47.
Tuttavia, sentendo ormai approssimarsi la morte (morì in
effetti il 24 novembre 1892), decise di consegnare la
scottante relazione all’amico Leone Wollemborg,
in procinto di candidarsi in parlamento, con l’incarico
di utilizzarla “per smascherare finalmente ladri e
manutengoli di questa povera Italia.”
|
Lapide sulla casa natale di
Giuseppe Giacomo Alvisi a Rovigo |
Da Wollemborg a Pantaleoni a Colajanni (1892)
48.
L’Alvisi non aveva scelto a caso il Wollemborg.
Leone Wollemborg (1859-1932),
nato a Padova da ricca famiglia ebraica di origine
tedesca, laureato in giurisprudenza ma studioso di
economia, era soprattutto un profondo conoscitore
dell’opera teorico-pratica di
Friedrich Wilhelm Raiffeisen (1818-1888),
un piccolo borgomastro (= sindaco) austriaco che aveva
elaborato un sistema di depositi e prestiti a contadini
ed artigiani, e perciò è giustamente tutt’oggi
considerato l’ideatore delle Casse Rurali e delle
Cooperative di consumo.
Ispirandosi a Raiffeisen, il Wollemborg aveva fondato,
nel 1883, nel piccolo Comune di Loreggia in provincia di
Padova, con la collaborazione del medico condotto e del
cappellano del paese, la prima Cassa Rurale d’Italia,
con lo scopo di aiutare fittavoli, piccoli proprietari,
e in genere tutto il mondo agricolo, a sollevarsi dalla
miseria e a liberarsi dagli strozzini, con la
concessione di prestiti in denaro a basso interesse ed a
lunga scadenza.
Era dunque certamente, per competenza e sensibilità, la
persona giusta per “smascherare ladri e manutengoli” del
sistema bancario italiano.
|
Leone Wollemborg |
49.
Il Wollemborg, però, da persona accorta anche se allora
ancor giovane (nel 1892, aveva 33 anni), pensò di non
agire da solo e d’impulso.
Si
rivolse a brillanti studiosi, come i due amici Maffeo
Pantaleoni (1857-1924), colui che in seguito sarà
definito “il principe degli economisti italiani”, e
Antonio De Viti de Marco (1858-1943); Vilfredo
Pareto (1848-1923), che li affiancava nella
redazione del “Giornale degli economisti”; e lo storico
e meridionalista napoletano Pasquale Villari
(1826-1917).
A
loro, il Wollemborg chiese di leggere la relazione
Alvisi-Biagini e di valutare il modo migliore per
renderla pubblica.
La
ponderata conclusione fu di seguire bensì la strada
della denuncia in Parlamento, ma individuando un
parlamentare che non avesse gli scrupoli patriottici ed
istituzionali del buon Alvisi né fosse in alcun modo
legato ai tradizionali schieramenti della Destra e della
Sinistra liberale con reciproci trasformismi.
|
Maffeo Pantaleoni |
50.
E l’uomo scelto fu l’onorevole Napoleone Colajanni,
mazziniano e garibaldino di antica e sincera fede,
rimasto fieramente repubblicano anche in quei tempi in
cui molti si erano “convertiti” alla monarchia sabàuda,
lontano sia da Crispi sia da Giolitti ma vicino al
movimento popolare dei fasci siciliani, sufficientemente
esperto di economia.
E
così, esattamente il 10 Dicembre 1892, alle ore 22, nei
corridoi di Montecitorio, meno di un mese dopo la morte
dell’Alvisi, Maffeo Pantaleoni consegnò la
relazione a Napoleone Colajanni il quale si impegnò
a renderla pubblica in Parlamento nella stessa seduta
del 20 dicembre 1892 in cui la Camera era convocata per
votare la proroga dei diritti di emissione alle banche
private (vedi sopra, n°5).
|
La piazza dedicata a Napoleone Colajanni |
Come andò a finire? Il processo Cuciniello (1893)
51.
“Il 12 giugno 1893 venne dal tribunale di Roma
pronunziata la condanna contro il Comm. Vincenzo
Cuciniello, direttore del Banco di Napoli (sede di
Roma) e contro Vincenzo d’Alessandro, primo
cassiere.
Parlammo già del fatto che diede motivo all'arresto di
questi due uomini (vedi sopra, nn°20-21). Due erano le
accuse lanciate contro l’uno e l’altro.
La
prima, che costoro, in uno o in diversi tempi, sino al
10 gennaio del 1893, avessero volontariamente tolta dal
Banco di Napoli, nella sua sede di Roma, la somma di 2
milioni e 450 mila lire.
La
seconda, che i medesimi avessero, in uno o in diversi
tempi, scritto il falso ne’ registri del tesoro dello
stesso Banco, facendo credere all'esistenza della detta
somma, quando già era sottratta.
52.
I giurati, dopo uditi gli avvocati dell’una parte e
dell’altra, affermarono la verità di ambedue le accuse
per il Cuciniello e solo della seconda pel d’Alessandro.
Il
tribunale quindi, posta la verità del fatto, condannò:
il Cuciniello a 10 anni di carcere e alla multa di 5
mila lire; e il d'Alessandro a 6 anni ed 8 mesi di
carcere; ambedue poi alle spese del processo e alla
privazione degli uffici pubblici.
Così la giustizia ha avuto il suo corso, e tutti i buoni
debbono rallegrarsi. Volesse il cielo che, a tutti i
violatori del settimo precetto del decàlogo, grandi e
piccoli, sia che rubino i milioni ed i regni, sia che i
possessori abbiano un nome od un altro, si facesse
sentire inesorabilmente la spada della giustizia, e
senza eccezione! …
53.
Il male fu, come venne osservato dalla Voce della
verità e approvato dalla stessa Tribuna, che
non mancarono, fra i testimoni, dei personaggi,
insigniti anche di pubbliche cariche ragguardevoli, che
gli hanno stretto la mano, dandogli un pubblico
attestato di stima, mentre non avea diritto che alla
compassione …
Abbiamo sentito noi nell'aula un'esclamazione partita da
uno scoppio di buon senso, di un popolano: - Come? Ha
rubato due milioni e mezzo, e gli vanno tutti a
stringere la mano? E quanto doveva rubare per non
stimarlo più?
Il processo per lo
scandalo della Banca Romana
55.
Al processo, gli imputati erano sette:
1)
Bernardo Tanlongo, governatore della Banca
Romana;
2)
Cesare Lazzaroni, cassiere della Banca Romana;
3)
Antonio Monzilli, “capo-divisione per il credito”
del Ministero dell’Industria, Agricoltura e Commercio;
4)
Gaetano Bellucci-Sessa, avvocato dell’on. De
Zerbi;
5)
Luigi Zammarano, commissario per la vigilanza
degli Istituti di emissione;
6)
Giovanni Agazzi, impiegato della Banca Romana;
7)
Pietro Toccafondi, impiegato della Banca Romana.
Come si vede, nessuno degli uomini politici, né
degli uomini d’affari che avevano investito nella
speculazione edilizia, era imputato. Lo erano invece
dirigenti ed impiegati della Banca, due funzionari
ministeriali, e l’avvocato dell’on. De Zerbi, già
defunto.
56.
Inoltre, all’indagine erano stati sottratti un gran
numero di documenti probatori, come testimoniò al
processo il funzionario di polizia Ferdinando
Montalto, che aveva partecipato all’arresto di
Tanlongo ed alle perquisizioni in casa sua e negli
uffici della Banca.
Montalto affermò:
“Io avevo avuto ordine dall’ Ispettore, che era lì
presente (nella casa di Tanlongo), di mettere da
parte tutte le carte aventi il timbro della Camera dei
Deputati, del Senato o di altra autorità politica, o che
contenessero firme di uomini politici” … e precisò di
aver così raccolto due involti di documenti, talmente
voluminosi da dover essere impacchettati e sigillati sul
pavimento, perché nessun tavolo era abbastanza grande da
contenere anche uno solo di essi. Queste carte “erano
tutte di uomini politici o qualificati, e contenevano
richieste di denaro o ringraziamenti”.
Dopo di che, era stato invitato dal suo superiore a
rincasare, data l'ora tarda, sostituito da un collega
giunto nel frattempo, per tornare la mattina dopo alle
otto … ma mentre stava andando via, aveva notato che i
suoi colleghi stavano rimettendo mano ai due involti,
alla presenza di Bernardo e Pietro Tanlongo.
Al suo ritorno, al posto del verbale compilato e
sottoscritto la sera prima, gli vennero presentati due
nuovi verbali di sequestro da firmare, corrispondenti a
due nuovi involucri che sommavano “circa un decimo” dei
documenti selezionati la sera precedente: verbali che
egli aveva firmato sotto la minaccia di azioni
disciplinari.
|
Il processo per lo scandalo della Banca
Romana |
Il verdetto (28 luglio
1894)
57. Ancora una volta è la storica rivista dei Gesuiti
che ci sembra dare la narrazione più precisa, e la
spiegazione più plausibile, degli avvenimenti.
“Il
sabato 28 luglio 1894, rimarrà memorabile nei fasti
della giuria per lo strano verdetto pronunziato nel gran
processo sulla Banca Romana …
L'affare era di alta importanza, come tutti sanno, e più
volte ne parlammo in questa cronistoria: si trattava di
molti milioni scomparsi dalle casse di quella banca; si
trattava di carte messe abusivamente in circolazione; si
trattava di conti falsati e di peculato; si trattava
d'innumerevoli famiglie andate in rovina per que’ fatti;
si trattava perfino di rei confessi.
58.
Ebbene, quale fu il frutto di tanti mesi di processo e
di affare sì grave? Tutti assolti.
I
giudici popolari, detti giurati, alle 27 questioni (a
cui il Presidente aveva ridotte tutte le accuse sulla
reità degl’imputati) risposero con altrettanti no,
con gran maggioranza e persistenza no.
Era
la 122° udienza del gran processo, e l’Italia e l’Europa
stavano con ansia aspettando l’esito d’uno scandalo,
paragonabile solo a quello successo in Francia
nell'impresa del Panama.
Ora, i 7 imputati furono dichiarati tutti innocenti e
immantinente liberati dal carcere e ridati alla vita
civile; benché i giurati, la mattina stessa, avessero
ricevuto lettere anonime minatorie, una delle quali col
disegno d'un pugnale che trafiggeva un cuore, con la
scritta: Italia attende …
Opinione sul verdetto
59.
L’inaspettato verdetto de’ giudici popolari romani si
deve considerare sotto doppio aspetto: in se stesso,
ossia assolutamente, e relativamente.
In se stesso,
a giudizio di tutti, è stato una enormità e ha bollato
l'Italia legale d'un'onta incancellabile; sia che
la colpa debba attribuirsi ai giurati stessi, sia
che debba rifondersi all’istituto della giuria,
magistrato inetto a dar sentenza in cause intralciate e
complicate, com’era questa della Banca Romana.
A
detta di tutti, giudici togati non avrebbero così
sentenziato. Per contrario, come si sarebbero potuto
raccapezzare i giudici popolari in sì lungo processo, di
più mesi, in mezzo a tante chiacchiere di difensori e
d'accusatori, di testimoni e d'imputati? C’immaginiamo
agevolmente come l’un dì sembrasse loro tutto chiaro, e
l’altro, buio pesto.
Aggiungansi a ciò le sottrazioni de' documenti e
l'impunità di molti altri, anche di alto grado, che
tuffarono le mani nella Banca Romana.
Costretti quindi i giurati dagli uomini di toga, e
quindi dalla somma autorità dello Stato, a sentenziare
dopo tante noie e fastidii, e dire se quegl'imputati
fossero rei o no, s'appigliarono al no, con un certo
senso di stizza mal compressa, come chi dice: - Faccia
giustizia chi deve, per conto nostro noi non condanniamo
nessuno.
In
conclusione, se colpa v'è in quel verdetto, essa ci
sembra doversi attribuire più all'istituto della giuria
stessa che ai giurati. E ciò, quanto al primo aspetto
della sentenza.
60.
Quanto al secondo aspetto, che chiamammo
relativo, i giudici popolari hanno fatto, col semplice
senso comune, una giustizia più alta di quella richiesta
dai quesiti del Presidente del tribunale.
Hanno colpito, cioè, in pieno petto il Governo (e
poniamo pure che il mezzo non fosse legittimo), facendo
del loro verdetto di assoluzione un simbolo di
riprovazione dell'operato dal Governo.
Il
Governo, dovettero dire i giurati, ha sottratto i
documenti dal processo; molti pezzi grossi, ch'ebbero
mano negl'intrighi, sono stati sottratti al nostro
giudizio e solo pochi furono rinchiusi dentro la gabbia
degl'imputati. Questa è una burla. Noi non condanniamo
nessuno e con ciò stesso condanniamo e riproviamo questa
maniera di far giustizia. E nell’urna non si trovarono
che schede quasi tutte bianche.
Ecco l'altro aspetto che ha il verdetto de’ giurati
romani nel gran processo della Banca Romana. Esso è una
satira tremenda, e di quel genere satirico onde va per
lo più celebrato lo spirito arguto del popolo di Roma.
|
Bernardo Tanlongo al processo |
I giornali italiani sul
verdetto
61.
Il verdetto dei giurati romani ha coperto di vergogna
l'Italia legale liberalesca, tanto ne' suoi istituti,
com'è questo della giuria (che ora pensano a riformare),
quanto nel modo poco nobile di far giustizia,
ingerendosi ne' processi e salvando i nomi cari alla
rivoluzione, come dissero. È cosa chiara cotesta; ma
udire un paio di testimonianze, anche de' liberali
stessi, non sarà opera inutile.
62.
Il Don Chisciotte (scrive): Il processo della
Banca Romana è finito con l’assoluzione di tutti gli
imputati. Così doveva essere; e così è stato. I giurati
romani hanno gittato in faccia all'on. Giolitti fin
l'ultimo dei Toccafondi; hanno gittato in faccia alla
Questura e alla Magistratura, complici necessari
dell'on. Giolitti, il loro verdetto di protesta, la loro
coscienza di cittadini.
63.
La Corrispondenza verde (scrive): Quel verdetto,
che fu di assoluzione per gl'imputati trascinati davanti
ai giudici, fu invece un verdetto di condanna contro i
delinquenti di maggior levatura cui il Tanlongo, il
Lazzaroni e gli altri dovevano servire di scudo.
La
sentenza della giuria romana significa che la giustizia
popolare sente la maestà sua, non intende scindersi,
e vuole cadere intera ed inesorabile, non sui
piastroni che subdolamente vengono offerti ai suoi
colpi, ma sui veri rèprobi.
E
così giudicando, la giuria romana, cui si avea voluto
legar le mani, restringendo il campo del suo giudizio,
imprigionandola nell'orbita di un processo monco,
artificiale, ha fatto, a sua volta, il suo processo a
tutto il nostro mondo politico ed ha condannato 25 anni
di storia italiana.
Essa non ha detto altro, insomma, se non che era pronta
a condannare, quando davanti al suo tribunale fossero
chiamati a comparire tutti i giudicabili; non volle
invece, condannando gli infimi, assolvere le teste di
papavero che la compiacente magistratura ha sottratto
alla sua giurisdizione.
64.
Il Messaggero (scrive): Che crollo, che sfiducia,
nasce da tutto questo grande sfacelo! E che brutto
momento è quello che attraversiamo! Il verdetto è
satirico, è caustico, ma è pure una confessione
d'impotenza. La Francia, nella faccenda del Panama, ci
avea dato un grandissimo esempio, colpendo ministri,
deputati, e persino quella gloria mondiale che era
Lesseps. Noi, vili, abbiamo avuto paura di colpire certi
uomini, come se l’Italia avesse dovuto rovinare con
loro; e così adesso i giurati romani, sdegnando di
condannare gli strumenti di una politica losca, hanno
schiaffeggiato in pieno viso tutto un mondo lercio e
corrotto.
65.
Simiglianti giudizi hanno dato tutte le effemèridi (=
i giornali), cattoliche e liberali, della Penisola”.
66.
Per una strana ironia della storia, all’incirca un mese
prima del verdetto, e precisamente il giorno 13 giugno
1894, poco dopo le 11, moriva a Vico Equense il barone
Giovanni Nicòtera (vedi sopra, n°38), cioè proprio colui
che, con le sue trame da politicante, aveva
involontariamente innescato quella vera e propria
“bancarotta del patriottismo” (come la definì, qualche
anno dopo, Luigi Pirandello).
Il processo per il delitto Notarbartolo: a Milano
(1899-1900)
67.
Il processo per l’omicidio Notarbartolo (vedi sopra, nn°22-25)
fu quello che durò più a lungo, e si svolse in tre
distinte fasi: a Milano, a Bologna e a Firenze.
Ci
vollero quasi 7 anni perché il caso arrivasse in
Tribunale. Il processo milanese iniziò infatti l’11
novembre 1899 e sul banco degli accusati c’erano
soltanto due ferrovieri: Pancrazio Garufi,
frenatore in servizio nell’ultima carrozza, e
Giuseppe Carollo, il controllore del treno.
“Questo processo (anche questo!) era stato
pensato come uno strumento per sacrificare qualche
pesce piccolo e placare così la domanda di giustizia
nel caso Notarbartolo”.
Leopoldo Notarbartolo
68.
Ma il 16 novembre si presentò in aula, nella sua
uniforme di ufficiale di Marina, Leopoldo
Notarbartolo, figlio dell’ucciso. Il giovane
ufficiale, in quei quasi 7 anni, aveva svolto un lavoro
investigativo in prima persona e si era costituito parte
civile nella causa.
“Il
solo che avesse odio contro mio padre è il commendatore
Raffaele Palizzolo, deputato. Accuso costui di essere il
mandante, di questi ed altri sicàri”.
|
Leopoldo Notarbartolo, figlio di Emanuele |
Giuseppe Fontana
69.
Come “altro sicario”, Leopoldo Notarbartolo indicò tale
Giuseppe Fontana ed il vice-capostazione di
Termini Imerese confermò, in aula, di aver visto il
Fontana entrare nello scompartimento in cui si trovava
il Notarbartolo.
“Giuseppe Fontana era un membro della cosca mafiosa di
Villabate. Solo pochi anni prima, era stato prosciolto
da un’accusa di falsificazione di denaro, grazie alle
potenti protezioni che era stato in grado di mobilitare”.
Il generale Mirri
70.
Infine, “…
con meraviglia di tutti, apparve nell’aula delle Assise
a deporre, come teste, nullameno che il generale Mirri,
ministro della guerra, il quale, essendo stato in
Sicilia comandante del XII corpo d’armata e direttore
della pubblica sicurezza, si trovava in caso di potere
squarciare certi veli oscuri.
Le sue deposizioni contro l’on. Palizzolo furono
terribili, schiaccianti. Ma sovra tutto fu grandissima
l’impressione che destò per queste sue parole testuali,
riferite nel verbale: L’istruttoria del processo fu
fatta, dalla magistratura, colla massima negligenza e
colla massima trascuratezza, anzi con colpevolezza.
La ragione dell’omicidio
Notarbartolo
71. Dalle deposizioni del Mirri e di altri, si può ora
ricavare qual sia stata la cagione vera dell’assassinio
del povero Notarbartolo.
Questi, direttore del Banco di Sicilia, aveva mandato un
rapporto riservatissimo al Ministro d’agricoltura,
industria e commercio, nel quale si indicavano brogli e
operazioni illegittime dovute al Palizzolo, consigliere
del Banco stesso, spalleggiato da altri.
Pochi giorni dopo, in una riunione del Consiglio
d’amministrazione del Banco, il Notarbartolo si sentì
leggere, con sommo stupore, quel rapporto riservatissimo
mandato al Ministro.
Telegrafò a Roma. Il Ministro non avea ricevuto nulla:
il rapporto era bensì arrivato al ministero, ma era
stato consegnato ad un funzionario, che non appartiene
or più all’amministrazione, perché misteriosamente
scomparso. Si fece anche il nome del trafugatore.
Poco dopo il povero Notarbartolo veniva soppresso come
il rapporto accusatore, vale a dire, veniva, per
mandato, credesi, dell’on. Palizzolo, trucidato
barbaramente in ferrovia dai tre sicarii, addetti alla
maffia, Fontana, Carollo e Garufi. Ecco perché fu
ucciso il comm. Notarbartolo”.
Imputati arrestati ma
processo sospeso
72. In seguito a queste testimonianze, sia Giuseppe
Fontana sia Raffaele Palizzolo furono arrestati: il
Palizzolo godeva, invero, dell’immunità parlamentare, ma
la Camera in quella circostanza votò rapidamente
l’autorizzazione a procedere.
“Commossa Palermo, dopo ben 7 anni, tributa ora alla
sventurata vittima splendide onoranze. Il 17 di questo
mese, un maestoso corteo di 30.000 persone, col
gonfalone della città in capo, sfilò silenzioso tra due
fitte ali di popolo per le vie principali fino a piazza
Castelnuovo, dove sopra un palco, vestito a lutto,
spiccava il busto del Comm. Notarbartolo, circondato da
corone di fiori …
73. Ma l’on. Palizzolo, checché ne dica in contrario il
sig. Ernesto Nathan, è un venerabile massone, un pezzo
grosso, se non della massoneria italiana, certo della
massoneria di Palermo, e probabilmente della Loggia
chiamata Grand’oriente dell’ordine di Menfi.
E, per giunta alla derrata, il Palizzolo è pure grande
Ufficiale della Corona d’Italia, nominato il 20 gennaio
del 1898 da Sua Maestà con proprio decreto … Quindi alla
massoneria mette conto lo stendervi sopra un velo
pietoso ad abbuiar tutto”.
Il
10 gennaio 1900, il processo milanese venne sospeso,
“per permettere lo svolgimento di nuove indagini”.
Il processo a Bologna: la
condanna (1902)
74.
Prima dell’inizio del secondo processo a Bologna, morì
di cirrosi epatica Giuseppe Carollo, il controllore del
treno.
75.
Il 30 luglio 1902, alle 9.45 della sera, la giuria
bolognese si ritirò per formulare il verdetto. Il senso
di attesa era proporzionato alle dimensioni del
processo. Esso era durato quasi 11 mesi.
Venne prosciolto il ferroviere Pancrazio Garufi.
Condannati invece a 30 anni di carcere sia Raffaele
Palizzolo sia Giuseppe Fontana, rispettivamente come
mandante e come esecutore del delitto Notarbartolo.
|
Il processo Notarbartolo - Palizzolo a
Bologna |
La Cassazione annulla il
processo
76. La vicenda sembrava dunque conclusa. Se non che …
sei mesi dopo, la Corte di Cassazione annullò la
sentenza bolognese per “vizio di forma”, fissando un
nuovo processo presso la Corte di assise di Firenze.
Il
“vizio di forma” era, nulla di meno, il seguente: una
teste aveva pronunciato il giuramento di rito ed aveva
appena iniziato la sua deposizione, quando si
verificarono nel pubblico alcuni schiamazzi; il
presidente ordinò la sospensione della seduta e lo
sgombero dell’aula; alla ripresa della seduta, la teste
avrebbe dovuto ripetere il giuramento, cosa che
invece non era stata fatta.
Tanto bastò per annullare la condanna di Palizzolo e
Fontana.
Il processo a Firenze:
l’assoluzione (1903-1904)
77.
Il nuovo processo, presso la Corte di Assise di Firenze,
cominciò il 5 Settembre 1903.
“Gli avvocati di Leopoldo Notarbartolo convocarono un
nuovo testimone, potenzialmente importantissimo. Si
trattava di Matteo Filippello, ritenuto essere colui che
teneva i rapporti con Palizzolo per conto della cosca di
Castellabate.
Nel
1896 era stato ferito in una lite che si pensava fosse
stata provocata dalla spartizione del compenso per
l’omicidio Notarbartolo. Le voci circolanti a Palermo
l’avevano precocemente indicato come uno dei due
assassini (l’altro essendo il Fontana) … Ma, la vigilia
del giorno in cui doveva presentarsi in aula, scomparve.
Fu trovato impiccato alla ringhiera della sua pensione,
situata nei pressi di Santa Croce. L’inchiesta decise
che si trattava di suicidio”[29].
78.
Il 23 luglio 1904, con 8 voti favorevoli e 4 contrari,
la giuria assolse Raffaele Palizzolo e Giuseppe Fontana
per insufficienza di prove.
Dopo il processo
79. Raffaele Palizzolo ‘u cignu ritornò a
Palermo, accolto addirittura con onori trionfali, come
un eroe. Del resto, la famiglia Florio, la più
importante dinastia imprenditoriale siciliana di quel
tempo (vedi sopra, n°24), l’aveva sempre sostenuto per
tutta la durata del processo, mobilitando a suo favore
l’opinione pubblica dell’isola, anche attraverso il
giornale “L’Ora” di cui i Florio erano proprietari.
“Ma l’esultanza non durò a lungo. Nelle elezioni
parlamentari del novembre 1904, il martire di Bologna
fu sonoramente battuto. Malgrado il trionfo, era ormai
troppo compromesso ed i suoi potenti amici lo
abbandonarono.
Riprese a tenere udienze nella sua stanza da letto, come
faceva prima, perché conservava pur sempre una posizione
nel governo locale; ma la sua stagione di massimo
esponente del sistema clientelare siciliano era finita”.
|
Raffaele Palizzolo 'u cignu |
80. Leopoldo Notarbartolo continuò la sua
carriera in Marina e raggiunse il grado di Ammiraglio.
Nel 1947, dopo una lunga e dolorosa malattia, morì senza
figli a Firenze, la città in cui aveva scelto di
abitare. Due anni dopo, la moglie pubblicò la biografia,
sua e del padre, che egli aveva scritto durante i suoi
lunghi viaggi per mare.
81. “Anche Giuseppe Fontana lasciò la Sicilia.
Portando con sé le quattro figliolette, emigrò a New
York per proseguire la sua carriera di estorsore e
assassino sulla nuova frontiera della mafia”.
|
Giuseppe Fontana |
La fondazione della Banca
d’Italia (1893)
82.
Comunque sia, effetto permanente di quella stagione di
scandali fu la nascita, dopo più di 30 anni di unità
nazionale, della Banca d’Italia.
“Il
primo rimedio a tanto male fu lo scioglimento della
Banca Romana e l’unione della Banca Nazionale con i due
Istituti toscani d’emissione in una nuova Banca, detta
Banca d’Italia.
Il
18 a sera venne stipulato l’accordo con i capi de’
diversi Istituti. La Banca d’Italia avrà 300 milioni di
capitale, de’ quali 210 interamente versati. Crediamo
inutile per la storia politica qui riferire il modo di
questa unione.
L’istesso
giorno si venne allo scioglimento della Banca Romana,
succedendo a questa la Banca Nazionale (o la nuova Banca
per essa), assumendone i crediti e i debiti, assegnando
agli azionisti L. 450 per azione, invece delle 1.000 che
valevano alla fine del 1892”.
|
La relazione della Commissione
parlamentare sulle banche del 1893 |
83.
La Banca d’Italia venne in effetti ufficialmente
costituita con la Legge n°449 del 10 agosto 1893, come
Società per Azioni, di diritto privato, che aveva
l’esclusiva dell’emissione della moneta, ma non aveva
poteri di vigilanza e di controllo sulle altre banche.
Solo il Banco di Napoli e la Banca di Sicilia
conservarono il diritto di emettere carta-moneta,
perdendolo poi anch’essi nel 1926.
Le “idee nuove” di
Giovanni Giolitti
84. Nonostante l’infortunio (vedi sopra, nn°1-2)
occòrsogli durante il suo primo governo (15 maggio 1892
- 15 dicembre 1893), all’inizio del nuovo secolo, e
precisamente il 3 novembre 1903, Giovanni Giolitti era
di nuovo in sella.
“L’astro nascente” era portatore di una concezione
alternativa a quella autoritaria del Crispi, per la
gestione dello Stato e la difesa degli interessi di
classe della borghesia.
Tale concezione, che può essere considerata come la più
compiuta ed organica espressione della tradizione di
pensiero della Sinistra liberale, prevedeva il pieno
riconoscimento legale delle organizzazioni sindacali e
politiche della classe operaia e la ricerca di una
intesa con i loro dirigenti, al fine di evitare gli
scoppi violenti di rivolta ed inserire gradualmente le
masse popolari all’interno delle istituzioni liberali,
facendo ad esse alcune “concessioni” ben guidate.
|
Giovanni Giolitti (1842 - 1928) |
85. Come scrive lui stesso nelle sue “Memorie”:
“Io consideravo… che, dopo il fallimento della politica
reazionaria, noi ci trovavamo all’inizio di un nuovo
periodo storico, e che ognuno che non fosse cieco doveva
ormai vederlo.
Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra
vita politica, nuovi problemi si affacciavano ogni
giorno, nuove forze sorgevano, con le quali il governo
doveva fare i conti. Il moto ascendente delle classi
operaie si accelerava sempre più ed era moto
invincibile, perché comune a tutti i paesi civili e
perché poggiava sui princìpi dell’uguaglianza fra gli
uomini. Nessuno poteva ormai illudersi di poter impedire
che le classi popolari conquistassero la loro parte di
influenza sia economica che politica; ed il dovere degli
amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi,
e persuaderle non colle chiacchiere ma coi fatti, che
dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai
più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo
interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali
ordinamenti politici e sociali.
Solo con un tale atteggiamento ed una tale condotta da
parte dei partiti costituzionali verso le classi
popolari, si sarebbe ottenuto che l’avvento di queste
classi, invece di essere come un turbine distruttore,
riuscisse a introdurre nelle istituzioni una nuova forza
conservatrice, e ad aumentare grandezza e prosperità
alla nazione …”
86. Attraversando vittoriosamente le elezioni politiche
generali del 1900-1904-1909-1913, la politica di
Giolitti fu sempre, coerentemente, quella del
“conservatore illuminato” ovvero, in quel contesto
storico, del “borghese liberale progressista”.
La base economica del
giolittismo
87. Giolitti fu, in effetti, l’espressione politica
della “nuova borghesia”, del nuovo padronato industriale
dell’Italia settentrionale che, in quegli anni, guidava
il primo vero processo di industrializzazione
dell’Italia unita, conseguente alla seconda
rivoluzione industriale la quale, sia pure in
ritardo rispetto ad altri paesi europei, si andava
estendendo anche presso di noi.
Nel 1899, nacque la FIAT (Fabbrica Italiana Automobili
Torino); nel 1905, l’ILVA; nel 1910, la “Alfa Romeo”.
Contestualmente, nel 1901, venne fondata a Livorno la
FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici); e nel
1906, a Milano, la CGdL (Confederazione Generale del
Lavoro). Sull’altro fronte, a Torino, nel 1910,
l’organizzazione del padronato industriale
(Confindustria).
88. Complessivamente, nel periodo giolittiano, il
contributo dato dall’industria al totale della
produzione aumentò dal 19,6% al 25%, con particolare
sviluppo dell’industria mineraria, metallurgica e
meccanica, ma anche, in misura minore, di quella già
tradizionale (alimentare, tessile, dei tabacchi …).
Si ebbe una significativa crescita della produzione
di energia elettrica, soprattutto quella di fonte
idrica che, essendo l’Italia ricca di acque, non
richiedeva importazioni dall’estero (il “petrolio
bianco”).
Gli investimenti crebbero di tre volte, il risparmio di
cinque; il reddito medio degli italiani crebbe
del 30%.
89. Questa “nuova borghesia”, questo nuovo padronato
della seconda rivoluzione industriale in fase espansiva,
in cambio di commesse da parte dello Stato (soprattutto
armamenti per l’esercito, ma anche opere pubbliche) e di
una minore conflittualità sociale, era disponibile a
concessioni, sul piano salariale e normativo, nei
confronti soprattutto della classe operaia organizzata
del Nord, anche in considerazione del periodo di forti
profitti che stava attraversando (non era quella la
“belle èpoque” di tutta la borghesia europea?).
Il programma
“socialista” di Giolitti
90. Di conseguenza, Giolitti cercò prioritariamente
l’intesa con i socialisti “riformisti” di Filippo
Turati. In pratica, il Giolitti si impegnò a realizzare
(e vi riuscì) quasi tutti i punti che erano previsti dal
programma “minimo” dei socialisti approvato nel loro
Congresso del 1900. In particolare:
1)
libertà di organizzazione sindacale e di sciopero, e
neutralità del governo nei conflitti economici fra
capitalisti e lavoratori;
2)
nazionalizzazione delle ferrovie (1905): le tre
Compagnie private (Mediterranea, Sicula,
Meridionali), che avevano gestito il servizio
fino ad allora, furono liquidate con un congruo
indennizzo (500 milioni di lire) e venne creata
l’azienda autonoma “Ferrovie dello Stato”; il primo
direttore delle FS fu l’ingegnere torinese Riccardo
Bianchi, proveniente dalle ferrovie sìcule, il
quale, da galantuomo di antica tempra, “dichiarò di non
richiedere emolumenti superiori a quelli che ricavava
dal posto che allora occupava” e svolse il suo immane
compito organizzativo con rara efficienza e specchiata
onestà.
3)
riduzione degli interessi pagati dallo Stato ai
possessori di Buoni del Tesoro (1906-1909);
4)
nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita (con la
fondazione dell’INA, Istituto Nazionale Assicurazioni,
nel 1912): gli utili, prima lucrati dalle Compagnie di
assicurazione private, furono da Giolitti destinati, in
parte, alla Cassa per la vecchiaia ed invalidità dei
lavoratori; peraltro, le Compagnie private ottennero di
poter continuare ad esercitare le loro attività per
altri 10 anni, e nel 1923 Mussolini concesse loro una
ulteriore proroga.
5)
legislazione sociale più avanzata: assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; divieto
del lavoro dei fanciulli di età inferiore ai 12 anni;
garanzia del riposo festivo per gli operai
dell’industria, etc.
6)
obbligo per tutti di frequentare le scuole fino a 12
anni (1904) e nuova legge sull’istruzione elementare
(Daneo-Credaro, 1911): fino a quel momento, istituire e
gestire le scuole di base era compito dei Comuni, i
quali, però, per cronica mancanza di fondi, vi
provvedevano in modo assai limitato per quantità e
qualità; con la legge Daneo-Credaro del 1911,
responsabile dell’istruzione elementare divenne
direttamente lo Stato e ciò rese possibile la
costruzione di nuove scuole, l’assunzione di nuovi
insegnanti e il miglioramento dei loro stipendi,
l’istruzione obbligatoria per i militari e i carcerati,
l’aumento dei corsi serali destinati ai lavoratori,
l’istituzione di università popolari, biblioteche, etc.;
il risultato complessivo fu che l’analfabetismo, che
riguardava il 75% degli italiani nel 1861, si ridusse al
38% nel 1911 e, nel triennio 1911-1914, si triplicò il
numero degli alunni delle scuole.
7)
maggiore decentramento amministrativo, indennità ai
deputati, diritto di voto finalmente esteso a tutti
i cittadini maschi (approvato dalla Camera nel
1912): restarono però ancora escluse dal voto le donne
(si ricordi che in Italia le donne voteranno per la
prima volta solo il 2 giugno 1946, per il referendum
monarchia-repubblica e l’Assemblea costituente).
Il prezzo del giolittismo
91. Il miglioramento delle condizioni di vita di un
segmento limitato della classe operaia del Nord (la
cosiddetta “aristocrazia operaia”) ebbe però come
contropartita l’aumento complessivo delle disuguaglianze
economico-sociali nel paese nonché una sensibile
riduzione del numero complessivo delle persone occupate.
In sostanza, la contropartita per l’attuazione del
“programma socialista” di Giolitti fu l’aggravamento
del dislivello tra Nord e Sud dell’Italia,
accompagnato da un massiccio fenomeno di emigrazione.
92. Il meccanismo che permetteva lo sviluppo
industriale, concentrato nelle grandi città del Nord
(Torino, Milano, Genova), era infatti sostanzialmente
quello (tradizionale per la Sinistra liberale) del
cosiddetto protezionismo: il governo, cioè,
imponeva alte tariffe doganali su alcune merci,
in modo da ostacolare il più possibile l’ingresso in
Italia di merci prodotte da industrie straniere e
favorire così le industrie nazionali, che potevano in
tal modo crescere e svilupparsi senza, in pratica, dover
subire alcuna concorrenza.
Al Sud, però, i primi ad essere tutelati erano i
latifondisti (= proprietari di grandi estensioni di
terra coltivata essenzialmente a frumento), per i quali
si applicava la protezione doganale rispetto al grano
proveniente dall’estero, e che avevano quindi
garantita la loro rendita tradizionale, senza aver
bisogno di introdurre alcuna sostanziale innovazione, né
tecnologica né tanto meno nei rapporti con i contadini,
rimanendo dunque gli autentici pilastri dell’immobilismo
meridionale.
93. Il prezzo dello sviluppo industriale, guidato dagli
industriali del Nord, con l’alleanza subalterna dei
latifondisti del Sud, fu quindi pagato, ancora una
volta, soprattutto dall’Italia meridionale e dai
contadini più poveri.
Non a caso, quello giolittiano è anche il periodo
caratterizzato dalla più massiccia emigrazione,
soprattutto verso le Americhe, che l’Italia abbia mai
conosciuto, con addirittura interi paesi, del Sud e del
Veneto, che si trasferirono nel “nuovo mondo”. Basti
dire (con stime approssimate per difetto) che il numero
degli emigranti, che arrivava già a 100.000 persone
l’anno nel 1880, nel 1901 era di 500.000 persone l’anno,
e nel 1913 giunse a 900.000.
L’analisi gramsciana del
giolittismo
94. Come scrisse da par suo Antonio Gramsci, nei
“Quaderni del carcere”:
“Il programma di Giolitti e dei liberali democratici
tendeva a creare nel Nord un blocco urbano (di
industriali e operai) che fosse la base di un sistema
protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia
settentrionale.
Il Mezzogiorno era ridotto ad un mercato di vendita
semi-coloniale, a una fonte di risparmio (le rimesse
degli emigrati erano una delle principali entrate del
bilancio statale) e di imposte.
Esso era tenuto disciplinato con due serie di misure:
1)
misure poliziesche
cioè repressione spietata di ogni movimento di massa,
con gli eccidi periodici di contadini;
2)
misure poliziesche-politiche
cioè favori personali al ceto degli intellettuali (i
“paglietta”) sotto forma di impieghi nelle pubbliche
amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito
delle amministrazioni locali … ovvero incorporamento a
titolo personale, degli elementi meridionali più attivi,
nel personale dirigente statale, con particolari
privilegi giudiziari, burocratici, etc.
Così, lo strato sociale (gli intellettuali) che
avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento
meridionale diventava, invece, uno strumento della
politica settentrionale, un suo accessorio di polizia
privata.
Il malcontento non riusciva, per mancanza di direzione,
ad assumere una forma politica normale e le sue
manifestazioni, esprimendosi solo in modo caotico e
tumultuario, venivano presentate come sfera di
polizia giudiziaria”.
E’ dunque cosa “naturale e ovvia”, continua Gramsci, che
Giolitti “si sia sempre opposto ad ogni diffusione del
socialismo e del sindacalismo nel Mezzogiorno … perché
un protezionismo operaio (riformismo, cooperative,
lavori pubblici) è possibile solo se parziale
cioè ogni privilegio presuppone dei sacrificati e
spogliati”.
Gli oppositori di Giolitti
95. La politica di Giolitti (= collaborazione fra
liberali progressisti e socialisti riformisti) fu
aspramente osteggiata, oltre che da alcuni
chiaroveggenti ma isolati intellettuali meridionali,
come Gaetano Salvemini (1873–1957), da due
fronti:
Ø
da una parte, dai socialisti non-turatiani che furono
detti “massimalisti” o “intransigenti”;
Ø
dall’ altra parte, dalla componente più reazionaria
della borghesia, la quale, sulla base dell’ideologia
imperialista,
non voleva alcun accordo con il movimento
operaio e dette vita in quegli anni al bècero movimento
“nazionalista”, che riuscì ad imporre la guerra di Libia
(settembre 1911- ottobre 1912) coinvolgendo anche una
parte delle masse popolari con la solita vana promessa
delle “terre per i contadini italiani”.
96. La guerra
contro l’Impero turco, per il possesso della Libia, si
concluse (pace di Losanna) con l’attribuzione all’Italia
dello “scatolone di sabbia” libico laddove, anche
volendo, c’era ben poco da coltivare ed il petrolio non
era stato ancora scoperto, nonché delle piccole isole di
Rodi e del Dodecaneso.
L’intesa con i cattolici
97. La linea dell’intesa Giolitti-Turati non riuscì
quindi ad affermarsi e consolidarsi. Fallita questa,
Giolitti “cambiò spalla al suo fucile” (Gramsci) e
ricercò l’accordo con il movimento politico dei
cattolici, attraverso il cosiddetto “Patto Gentiloni”,
che riuscì vittorioso nelle elezioni dell’ottobre 1913,
le prime elezioni a suffragio quasi universale.
Ormai, però, era la complessiva situazione europea che
precipitava rapidamente verso la guerra e trascinava
dietro di sé il mondo intero (Prima guerra mondiale,
1914-1918).
I socialisti negli anni di Giolitti
98. All’interno del Partito socialista italiano, nato
nel 1892[37]
e “battezzato” nel fuoco degli avvenimenti del 1894[38]
e del 1898[39],
si agitava, come in tutta la Seconda Internazionale,
l’acceso confronto tra l’ala “riformista” e quella
“rivoluzionaria”[40].
Nonostante gli aspri contrasti, i “riformisti” di Turati
mantennero sostanzialmente il controllo del Partito in
tutti i Congressi, dal VI all’XI, che si svolsero, ogni
due anni, dal 1900 al 1910.
continua
Vedi nn°156-165 in “Il periodo liberale dal 1876
al 1887”.
Vedi riassuntivamente i nn°105-106 in “Il
periodo liberale dal 1896 al 1900”.
Difendetevi!
- Discorso pronunciato al Teatro Castelli di
Milano, il 2 luglio 1882.
La Civiltà Cattolica, Anno 45° (1894), Serie XV,
Vol. XI, Quaderno 1060, pag.490 e segg.
John Dickie – “Cosa nostra - Storia della mafia
siciliana”, Ed. Laterza, 2007.
La Civiltà Cattolica, Anno 51° (1900), Serie
XVII, Vol. IX, Quaderno 1060, pag.490 e segg.
Vedi anche nn°181-184 in “Il periodo liberale
dal 1876 al 1887”.
Vedi sopra, n°90, punto 7.
Vedi nn°185-188 in “Il periodo liberale dal 1876
al 1887”.