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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.6a Il Periodo Liberale (1914-1918)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Il continente più civile e progredito?

1. L’Europa era, a giudizio dei suoi politici e dei suoi intellettuali, il continente più “civile” e “progredito” del pianeta, sia sul piano culturale, scientifico e tecnico, sia su quello delle istituzioni giuridiche e politiche.

2. Da questo convincimento, si traeva addirittura la conclusione che l’Europa (“l’uomo bianco”) avesse il “diritto” ed anzi, secondo alcuni, addirittura il “dovere” e la “missione” di conquistare e sottomettere i popoli di altri continenti, per portare loro la civiltà e il progresso, il diritto e la pace. Non era forse questa la “giustificazione” morale dell’imperialismo coloniale classico (1870-1914)?[1]

3. Orbene, dal 1914 al 1918, furono proprio le nazioni della civilissima e progredita Europa a dilaniarsi nel più atroce e barbarico conflitto che la storia avesse fino ad allora conosciuto; e coinvolsero, per di più, l’intero pianeta, nella prima guerra giustamente definita “mondiale”.

4. Da una parte, l’impero Austro-ungarico, la Germania, la Turchia, la Bulgaria …; dall’altra, Inghilterra, Francia, Italia, Russia, Grecia, Serbia, Romania …

Si scontrarono per antiche questioni territoriali di confine, ma soprattutto per la spartizione delle materie prime e dei mercati, in Europa e nelle colonie, soprattutto africane e asiatiche.

Il terribile 1914

5. Ed ecco, dagli anni si levò il terribile 1914:

 

L’imperialismo,

nella sua nudità,

col ventre scoperto,

coi denti scoperti,

e un mare di sangue

fino ai ginocchi,

divora i paesi,

irto di baionette.

 

Intorno a lui,

i suoi cortigiani,

i patrioti,

scrivono,

lavandosi le mani nel tradimento:

“Operaio, bàttiti fino all’ultimo sangue!”   (Vladimir Majakovskij)

Le “buone ragioni” per scannarsi: il pretesto

6. La “causa” occasionale e immediata della guerra fu, com’è noto, l’attentato che ebbe luogo a Sarajévo (capitale della Bosnia) il 28 giugno 1914.

Il diciannovenne studente Gavrilo Princip (1894-1918), appartenente alla “Giovane Bosnia”, movimento politico-militare il cui obiettivo era liberare la Bosnia-Erzegovina dal dominio dell’Impero Austro-ungarico ed annetterla al Regno di Serbia, uccise con due colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, erede al trono austro-ungarico, e la sua consorte, invero morganàtica[2], Sofia Chotek duchessa di Hohenberg.

7. L’Austria-Ungheria ritenne il Regno di Serbia co-responsabile dell’attentato e il 28 luglio 1914, giusto un mese dopo l’attentato, invase la Serbia.

Bastarono pochi giorni e già all’inizio di agosto, formalmente per il meccanismo delle Alleanze esistenti (vedi oltre, n°10), tutte le potenze europee entrarono nel macello.

L'attentato di Sarajevo

Le “buone ragioni” per scannarsi: le cause strutturali

8. Al di là, però, della occasionale “scintilla” di Sarajevo e delle sottili ipocrisie politico-diplomatiche che la precedettero e la seguirono, le cause strutturali e più profonde della guerra furono quelle che abbiamo cercato di analizzare nei capitoli dedicati a “l’imperialismo coloniale classico”.[3]

9. Quel conflitto armato era, in realtà, “figlio” del tutto legittimo e naturale di una determinata fase dello sviluppo storico del capitalismo: il capitalismo giunto alla sua fase monopolistica, sulla base tecnologica della seconda rivoluzione industriale.

Nelle circostanze date, la guerra era la conseguenza ovvia ed inevitabile della logica del massimo profitto, che produceva adesso la guerra così come, in precedenza, aveva prodotto l’asservimento dei popoli extra-europei e le vaste ondate di emigrazione.

 

Chi sta in alto dice: “Pace e guerra

sono di essenza diversa”.

Ma la loro pace e la loro guerra

son come vento e tempesta.

La guerra cresce dalla loro pace

come il figlio dalla madre:

ha in faccia

i suoi lineamenti orridi.

La loro guerra uccide

quello che alla loro pace

è sopravvissuto.                   (Bertolt Brecht)

L’Italia e la guerra: restiamo neutrali?

10. Alla vigilia della guerra, l’Europa era divisa diplomaticamente in due blocchi: da una parte, la Triplice intesa (Russia, Francia ed Inghilterra); dall’altra parte, la Triplice alleanza (Austria-Ungheria, Germania ed Italia).

11. L’Italia faceva dunque parte della Triplice alleanza (stipulata nel 1882 e rinnovata nel 1912) e perciò, in teoria, avrebbe dovuto schierarsi con gli Austro-Ungarici e i Tedeschi.

12. D’altronde, però, la Triplice alleanza era, in modo esplicito, una alleanza esclusivamente difensiva e siccome era stata l’Austria a dichiarare per prima la guerra alla Serbia, l’Italia non era vincolata all’intervento.

Inoltre, il trattato costitutivo della Triplice alleanza prevedeva che, nel caso in cui uno degli alleati avesse dovuto scendere in guerra contro uno Stato terzo, gli alleati avrebbero dovuto esserne preventivamente informati e successivamente ricevere adeguati compensi territoriali: l'Austria, dichiarando la guerra e poi occupando la Serbia, non aveva adempiuto a questi due obblighi e dunque, anche per questi ulteriori motivi, l'Italia non era vincolata ad intervenire.

13. Pertanto, il governo italiano (Antonio Salandra, in carica dal 21 marzo al 5 novembre 1914; Ministro degli esteri: Antonino Paternò-Castello, marchese di San Giuliano) si dichiarò ufficialmente neutrale (3 agosto 1914).

Antonino Paternò Castello marchese di S. Giuliano (1852-1914)

Il popolo della pace

14. Questa posizione di neutralità era certamente quella che rispecchiava la volontà della stragrande maggioranza del paese.

15. Il parlamento eletto nel 1913, per la prima volta a suffragio universale sia pur solo maschile[4], era ampiamente “neutralista”: lo stesso presidente della Camera, Giuseppe Marcora, che era favorevole alla guerra, calcolò tuttavia che i parlamentari “interventisti” erano al massimo una sessantina su 523.  

16. In effetti, come già detto[5], l’opposizione alla guerra coloniale in Libia del 1911-12 aveva contribuito a rinsaldare e radicalizzare un blocco sociale formato soprattutto da contadini, operai e ceto medio che, alla lotta per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro, univa adesso una più decisa coscienza anti-colonialista ed anti-militarista.

17. Era pertanto ovvio che la maggior parte dei nuovi deputati eletti con suffragio universale, soprattutto socialisti e cattolici, rispecchiasse la volontà pacifista delle grandi masse popolari contadine e operaie. 

E prudentemente neutralista era anche quella parte della classe dirigente liberale che si riconosceva nel “conservatorismo illuminato” di Giovanni Giolitti[6].

L’èlite della guerra e le sue braccia

18. Non di meno, però, vi era una minuscola èlite (= un gruppetto di “grandi” famiglie aristocratiche e borghesi), numericamente insignificante ma assai potente ed influente, che preferiva la guerra.

Affascinati dalla prospettiva dei facili e lauti guadagni che si potevano ottenere vendendo “alla patria” armamenti e provviste “per i combattenti” … ed animati, più o meno in buona fede, dalla ideologia nazionalista dell’epoca[7] … i membri dell’èlite cercarono e trovarono “le due braccia” necessarie per eseguire la loro volontà: il braccio politico e quello propagandistico.      

Il braccio propagandistico: Mussolini e D’Annunzio

19. Il “braccio propagandistico” fu messo all’opera subito dopo il 3 agosto 1914, per convincere gli italiani che non la neutralità ma la guerra era opportuna e necessaria.      

Ad Enrico Corradini[8] ed agli altri prezzolàti guerrafondài della Associazione Nazionalista Italiana[9], vennero aggiunti due ulteriori “pezzi da novanta”: il futuro “duce”, Benito Mussolini; ed il “superuomo all’amatriciana”, Gabriele Rapagnètta-D’Annunzio[10].

Mussolini, i soldi e la guerra

20. Il socialista rivoluzionario intransigente Benito Mussolini, direttore del giornale “Avanti!” organo ufficiale del partito, fiero sostenitore dell’internazionalismo proletario ed acerrimo oppositore della guerra di Libia[11], infiammato fiancheggiatore della “settimana rossa” nel giugno del 1914[12] … inopinatamente … il 18 ottobre 1914, pubblicò sull’Avanti! un articolo intitolato “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”, che era in contrasto con la posizione ufficiale del partito, e due giorni dopo, il 20 ottobre, si dimise dal suo incarico di direttore.

Benito Mussolini nel 1914

21. Ancora pochi giorni e, il 15 novembre 1914, uscì il primo numero de “Il popolo d’Italia”, un nuovo giornale fondato e diretto dal Mussolini stesso[13], diventato ora un veemente e nobile fautore della guerra patriottica contro l’Impero Austro-Ungarico.

22. In conseguenza, il 29 novembre, Mussolini venne espulso dal Partito Socialista: già allora, la repentinità della sua “conversione” e la scarsa trasparenza sui finanziamenti del nuovo giornale, insospettirono gli ex compagni, e non soltanto loro: molti dissero che egli aveva ricevuto fondi occulti da agenti francesi in Italia, che lo avevano corrotto per farlo aderire alla causa dell'intervento a favore della Triplice Intesa (Francia, Inghilterra e Russia). Ma, come si sa, “ci vogliono le prove”, ed a quel tempo non se ne trovarono.

Le prove

23. E’ possibile che il Mussolini si sia “convertito” in modo assolutamente disinteressato, in seguito cioè ad un profondo travaglio di coscienza e ad un ponderato cambiamento delle sue posizioni ideologiche.

24. E’ certo, però, che:

“Alle prime spese per il giornale fecero fronte alcuni industriali di orientamento più o meno interventista, o comunque interessati a un incremento delle forniture militari: Esterle (Edison); Bruzzone (Unione Zuccheri); Agnelli (FIAT); Perrone (Ansaldo); Parodi (Armatori)”[14].

25. “Nell’ottobre 1914, Carlo Esterle (Edison), insieme con Bruzzone (Unione Zuccheri), Agnelli (FIAT), Perrone (Ansaldo) e Parodi (Armatori), fu tra i primi finanziatori de “Il popolo d’Italia” e l’appoggio al quotidiano mussoliniano continuò anche negli anni seguenti”[15].

26. “Al progetto di finanziamento del quotidiano contribuirono, con laute somme, esponenti politici francesi (nelle persone di Joseph Caillaux, Jules Guesde, Marcel Cachin …); un ambiguo affarista, faccendiere e spia come Paul-Marie Bolo; personalità del Regno Unito (su tutti Sir Samuel Hoare e Lord Northcliffe); finanzieri russi; magnati svizzeri e tedeschi; oltreché tutto l'apparato industriale italiano, composto dalla famiglia Agnelli, da entrambi i fratelli Perrone (proprietari di Ansaldo), l'industria petrolifera, gli industriali zuccherieri italiani, gli agrari emiliani, il Ministro degli Esteri italiano Antonino Paternò-Castello, marchese di San Giuliano, e la Banca Italiana di Sconto”[16].

L’uomo nell’ombra: Filippo Naldi (1886-1972)

27. A quanto pare, il “gran burattinaio” (Montanelli) della “conversione” di Mussolini fu il giornalista e faccendiere massone Filippo Naldi (Borgo San Donnino, 30 maggio 1886 – Roma, 18 ottobre 1972).

 Filippo Naldi (1886-1972)

28. Fu Naldi, allora già direttore de “Il Resto del Carlino”, che andò a “pescare” il giovane e ambizioso leader socialista e che, avvalendosi delle sue relazioni massoniche in Italia e all’estero, lo mise in contatto con le persone interessate ad usufruire dei suoi servigi.

29. “Quello tra Filippo Naldi e Benito Mussolini, più che un rapporto, fu un’associazione a delinquere.

Filippo Naldi era tutto: era un banchiere, un finanziere, era un giornalista, era un massone traditore. Era tutto. Naldi non apparteneva al Grande Oriente d’Italia, apparteneva alla Serenissima Gran Loggia Nazionale di Piazza del Gesù: sospeso più volte, ma vi apparteneva.

Filippo Naldi è l’uomo di potere vero, il Gelli tra le due guerre. E’ lui che convince Mussolini a sposare la linea interventista che lo porterà ad uscire dal Partito Socialista e dalla direzione dell’Avanti. E’ lui che gli troverà i soldi per Il Popolo d’Italia …

Tenga presente che tutti e quattro i quadrumviri della marcia su Roma e del primo regime fascista … De Bono, De Vecchi, Balbo e Bianchi … erano massoni”[17].

30. “Nell’autunno del 1914, Filippo Naldi aiutò Mussolini a fondare Il popolo d’Italia: lo presentò alle Messaggerie Italiane, che dovevano incaricarsi della rivendita del giornale; gli organizzò la rete dei servizi di informazione dall’Italia e dall’estero; e lo mise in contatto con l’Agenzia Italiana di Pubblicità, preziosa per la raccolta dei finanziamenti.

31. Dietro a Naldi, vi erano gruppi industriali, come quelli degli zuccherieri, dei siderurgici e degli elettrici, che si battevano per l’entrata dell’Italia in guerra … in seguito, lo stesso Naldi rivelò di aver agito anche su direttive del Ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano”.[18]

I soldi francesi ed inglesi a Mussolini

32. Il sostegno economico di Francesi ed Inglesi al giornale di Mussolini continuò poi, naturalmente, anche negli anni della guerra combattuta dall’Italia al loro fianco: ancora nel 1917, Mussolini si impegnò con gli Inglesi, per la somma di 100 sterline a settimana, a boicottare eventuali manifestazioni pacifiste in Italia, dopo la disfatta di Caporetto[19].

I due “pezzi da novanta” in azione

33. Il Mussolini venne dunque “comprato” e “messo in opera” dall’èlite guerrafondaia già nell’autunno del 1914.

34. L’altro “pezzo da novanta” propagandistico[20], il Gabriele Rapagnetta-D’Annunzio, venne invece attivato l’anno seguente, per mettere in scena il cosiddetto “maggio radioso”.[21]  

Il braccio politico: Savoia, Salandra e Sonnino

35. Per quanto riguarda, invece, il “braccio politico”[22] dell’èlite, esso era costituito, in pratica, solo da tre ma importantissime persone: il Re Vittorio Emanuele III di Savoia; il primo ministro (Antonio Salandra) ed il ministro degli esteri (Sidney Sonnino) del secondo governo Salandra, in carica dal 5 novembre 1914 al 18 giugno 1916.

Il Sonnino[23] era infatti succeduto, come ministro degli esteri, all’ambiguo marchese di S. Giuliano[24], venuto a morte il 16 ottobre 1914.

Furono in pratica queste tre persone a decidere, politicamente, per la guerra.

 Sidney Sonnino (1847-1922)

Il patto segreto di Londra (26 aprile 1915)

36. Infatti, dopo aver condotto trattative sia con gli Austriaci sia con l’Intesa, per verificare chi offriva di più, il Re Vittorio Emanuele III ed il capo del governo, Antonio Salandra, autorizzarono il marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla, ambasciatore nel Regno Unito, a firmare, all’insaputa del parlamento italiano, un patto con le potenze dell’Intesa (Patto di Londra, 26 aprile 1915) che stabiliva l’entrata in guerra dell’Italia, a fianco di Inghilterra, Francia e Russia, entro un mese dalla firma.      

37. All’interno stesso del governo, tranne i medesimi Salandra e Sonnino, nessuno venne messo al corrente di una così grave decisione.

38. I termini del Patto di Londra rimasero anch’essi segreti, fino al 1917, quando furono resi pubblici dai bolscevichi russi, subito dopo la rivoluzione.

Essi prevedevano, in caso di vittoria, il passaggio all’Italia non solo delle “città italiane irredente” Trento e Trieste, ma anche di Bolzano, dell’Istria, della Dalmazia settentrionale (esclusa Fiume); ed inoltre, la città di Valona in Albania, il mantenimento delle isole del Dodecaneso, una parte delle colonie tedesche in Africa e zone di influenza in Asia Minore.

Per la patria?

39. Anche per l’Italia, non si trattava dunque di una guerra “patriottica”, la quarta guerra d’indipendenza, il completamento del Risorgimento, come si diceva … e come alcuni, in buona fede, ma erroneamente, credettero.

Si trattava semplicemente di partecipare, sia pur sempre “da straccioni[25], alla spartizione imperialistica del mondo.

40. Si può ben dire, in sintesi, che una piccolissima minoranza di affaristi, capeggiati dal Re, volle trascinare in guerra il popolo italiano contro la sua volontà e contro il bene comune dell’Italia.  

Questo non era, però, possibile senza un adeguato “lavaggio dei cervelli” ...

La messa in scena del “maggio radioso” del 1915

41. Pertanto, alla firma del Patto di Londra (26 aprile 1915), seguì un mese, quello che in seguito venne definito “il maggio radioso”, nel quale si organizzarono, in tutta Italia, massicce manifestazioni a favore della guerra, per convincere l’opinione pubblica più riluttante ed iniziare l’indottrinamento delle grandi masse contadine circa i “nobili” e “patriottici” motivi del conflitto.

42. E’ sempre opportuno ribadire, a futura memoria ed a scanso di possibili equivoci, che non si trattò affatto di una sorta di referendum fra “neutralisti” ed “interventisti”, in cui il popolo, alla fine, dovesse decidere fra l’una e l’altra tesi.

La decisione, infatti, era già stata presa, con il patto di Londra, da una ristrettissima èlite di potenti, che avevano deciso loro per tutti.

43. Il “maggio radioso” fu soltanto una grande messa in scena propagandistica, pagata dalla stessa èlite ed appoggiata dal Re e dal capo del governo, che non esitarono a servirsi anche della violenza di piazze appositamente aizzate, per “convincere”, con le buone o con le cattive, il riottoso Parlamento e la più vasta opinione pubblica.

A Napoli, come abbiamo detto[26], “allo scopo di rendere popolare e ben accetta la guerra anche fra gli strati infimi della popolazione” si utilizzarono perfino vecchi arnesi della “Bella Società Riformata”, come Gaetano Del Giudice.    

L’orazione del Rapagnètta-D’Annunzio allo scoglio di Quarto

44. All’uopo, venne richiamato in Italia l’altro “pezzo da novanta” propagandistico[27], il Gabriele Rapagnetta-D’Annunzio[28].

45. Costui, come ci informano tutti i suoi biografi, era scappato in Francia nel 1910, perché pieno di debiti e, comprensibilmente, inseguito dai creditori. 

46. Riapparve però, improvvisamente in Italia la sera del 4 maggio 1915, a Genova, ufficialmente invitato dalle autorità per tenere, all’indomani, il discorso celebrativo per l’inaugurazione del “Monumento ai Mille”, nei pressi di quello scoglio di Quarto, da dove, 55 anni prima (il 5 maggio 1860), era partita la celebre spedizione[29].

 Monumento dei Mille a Genova Quarto

47. E’ qui da notare che, al suo ritorno in Patria, i suoi molti creditori non avanzarono più alcuna pretesa: dobbiamo necessariamente pensare che qualcuno avesse pagato i suoi debiti …  

48. Comunque sia, il 4 maggio l’Italia si ritirò ufficialmente dalla Triplice Alleanza, e l’indomani (= 5 maggio 1915), il Rapagnetta-D’Annunzio, innanzi ad una grande folla, pronunciò una retorica ed altisonante orazione, tanto illogica ed insensata nel contenuto quanto ampollosa ed enfatica nella forma.       

Chi volesse dilettarsene, e farsene direttamente un’opinione, la può facilmente reperire in versione integrale, recentemente pubblicata anche “in rete”, insieme a tutti i discorsi tenuti dal Rapagnètta-D’Annunzio durante il “radioso maggio”.  

49. La maggior parte dei presenti, con alta probabilità, non ci capì nemmeno una parola, ma il grande buffone non mirava certo a farsi capire, ma solo ad instillare retoricamente negli animi la necessità ed anzi la “sacralità” di quella guerra, e ad aizzare la folla contro i “neutralisti” vigliacchi e traditori.     

Il “colpo di stato” del Savoia

50. Fra i neutralisti, il più influente era ancora il Giolitti.

La sua opposizione alla guerra era ben nota a tutti e, rientrato a Roma per la sessione primaverile del Parlamento, ricevette in segno di solidarietà 320 “biglietti da visita” di deputati, che da soli costituivano la maggioranza assoluta della Camera, e quelli di un centinaio di senatori: ed era facile prevedere che, il giorno della convocazione dell'Aula, convergendo tutti i parlamentari nella Capitale, sarebbero ancora aumentati.

La Stampa del 13 maggio 1915

51. Ma, contro Giolitti, il Re e il Salandra attuarono un vero e proprio “colpo di stato”. Il Salandra rinviò l’apertura della Camera dal 12 al 20 maggio e, il 13 maggio, rassegnò formalmente le sue dimissioni nelle mani del Re.

52. Nel frattempo, il Rapagnètta-D’Annunzio, fiancheggiato da un’aggressiva campagna di stampa “interventista”, scese a Roma ad aizzare la piazza, esortando la folla ad usare direttamente la violenza fisica contro i politici neutralisti. 

Il Rapagnetta D'Annunzio arringa in teatro

53. In uno dei suoi tanti comizi romani, il Rapagnètta-D’Annunzio incitò direttamente ad invadere la casa di Giolitti e “ad uccidere quel boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino”. Vennero affissi dei manifesti che ritraevano Giolitti, di spalle, al momento della fucilazione, come i disertori; ed il questore di Roma avvertì Giolitti che non era in grado di garantire la sua incolumità. 

54. La folla, fanatizzata dal “poeta (as)soldato”, fece violentemente irruzione nello stesso edificio della Camera.

Il tentativo di Giolitti

55. In questo clima non proprio sereno, durante le consultazioni per la formazione del nuovo governo, il Re mise al corrente Giolitti dell’esistenza e del contenuto del Patto di Londra, che lo “obbligava” a scendere in guerra entro un mese dalla firma: non farlo, avrebbe compromesso la dignità internazionale dell’Italia ed avrebbe comportato inevitabilmente la stessa abdicazione del Sovrano.

56. Giolitti fece un ultimo disperato tentativo, cercando di “spiegare” al Savoia che la sua abdicazione non sarebbe stata affatto necessaria: siccome il Patto di Londra era stato firmato all’insaputa del Parlamento, sarebbe invece bastato un voto alla Camera che, confermando la neutralità dell’Italia e la piena fiducia nel Re, avesse dato al nuovo governo il mandato di riprendere i negoziati con l'Austria, che nel frattempo era disposta a fare ampie concessioni territoriali (anche Trento e Trieste) in cambio del semplice non-intervento dell’Italia nel conflitto.  

57. Alla fine, però, Giolitti dovette arrendersi all’evidenza: il Re stesso era il capo del partito che voleva, ed aveva progettato, la guerra. Se ne ritornò quindi in Piemonte, senza nemmeno attendere la riapertura della Camera.

Vittorio Emanuele III con Alberto I del Belgio

Alla guerra, alla guerra!

58. Privato così il partito neutralista del suo capo parlamentare, il Re ebbe facile gioco a respingere le dimissioni di Salandra e confermarlo nel suo incarico, già il 16 maggio. Del resto, il famoso Statuto Albertino allora in vigore, attribuiva solo al Re, e non al Parlamento, il potere di dichiarare la guerra.

Antonio Salandra (1853-1931)

59. Il 20 maggio, la Camera si riunì, e Salandra chiese al Parlamento i pieni poteri straordinari per la guerra: 407 deputati, contro 74, votarono a favore; solo i socialisti votarono contro.    

Il 23 maggio, il Consiglio dei ministri firmò la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria e proclamò la mobilitazione generale, affidando la guida dell’esercito al generale Luigi Cadorna.

Il 24 maggio 1915 l’Italia entrò nella Prima guerra mondiale.

Manifesto di chiamata alle armi

La guerra “di trincea”

60. Il poeta Gabriello parlò alla fanteria:

“Coraggio, fantaccini, vi fo’ una poesia”.

I fantaccini dissero al vate Gabriello:

“Tu siedi al tavolino, noi si va al macello”.

Per le grandi masse popolari, essenzialmente di un macello si trattò: i primi attacchi italiani, sull’onda della retorica patriottica, vennero compiuti di giorno, a ranghi compatti, con bandiera e fanfara in testa … ma ben presto tutti presero coscienza, assai crudamente, della tragica realtà che era la guerra “di trincea”.

61. La trincea era uno scavo di circa un metro di profondità nel terreno (spesso nella roccia), rialzato ai bordi di un altro metro con pietre, sacchi di calce o di terra.

Guerra di trincea

Si andava all’attacco uscendo di corsa dalla propria trincea, a piedi e allo scoperto, per conquistare la trincea del nemico, inquadrati e sospinti dagli ufficiali, che non poche volte dovevano “convincere” con le armi i propri stessi soldati ad andare all’assalto …

62. Dalla trincea avversaria, di solito protetta anche da reticolati, si levava allora il fuoco di sbarramento di fucili, mitragliatrici e piccoli calibri da campo.

Le mitragliatrici erano, in queste condizioni, particolarmente micidiali (400 colpi al minuto); i calibri, a loro volta, erano solitamente caricati a shrapnel, ossia proiettili che esplodevano a terra o a poca distanza dal suolo, sprigionando una rosa di palle di piombo e pezzetti di ferro.

I reticolati fermavano l’impeto degli attacchi, invischiando i soldati in matasse ferrose, che vanamente si cercava di tagliare, sotto il fuoco nemico, con pinze e cesoie, o di far saltare con cariche esplosive montate su tubi di ferro.

Chi riusciva a superare una trincea, se ne trovava poi di fronte un’altra, esattamente uguale alla precedente.

Guerra di trincea

63. Questa “catena di montaggio” della morte, questo ben pianificato massacro a ondate successive, era dunque la guerra “moderna”.

continua


Note

[1] Vedi “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”, nn°170-184.

[2] Si definisce “matrimonio morganatico” il matrimonio fra un Sovrano ed una donna di nobiltà inferiore, o addirittura non nobile, in cui la moglie e i figli sono esclusi da qualsiasi diritto di successione dinastica. 

[3] Vedi “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”, nn°170-180.

[4] Vedi “Il periodo liberale dal 1900 al 1914”, nn°95-97.

[5] Vedi idem, n°105.

[6] Vedi idem, nn°84-86.

[7] Vedi “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”, nn°177-180.

[8] Vedi “Il periodo liberale dal 1900 al 1914”, nn°126-130.

[9] Vedi idem, nn°119-125.

[10] Il padre di Gabriele D’Annunzio si chiamava, alla nascita, Francesco Paolo Rapagnètta. Ma i suoi genitori, quando lui aveva 13 anni, lo diedero in adozione (Corte Civile dell’Aquila, Decreto del 4 dicembre 1851) ad un facoltoso commerciante, di famiglia arricchitasi durante il Decennio Francese, di nome Antonio d’Annunzio, il quale aveva sposato in seconde nozze Anna Lolli, sorella della mamma di Francesco. Francesco Paolo Rapagnètta divenne perciò, in seguito all’adozione, Francesco Paolo d’Annunzio: sposàtosi poi con Luisa De Benedictis, ne ebbe 5 figli, dei quali Gabriele fu il terzo.

[11] Vedi “il periodo liberale dal 1900 al 1914”, n°103.

[12] Vedi idem, n°115.

[13] Vedi idem, nn°116-118.

[14] Renzo De Felice – “Mussolini il rivoluzionario”, Ed. Einaudi, 1965.

[15] Claudio Pavese – “Carlo Esterle” in Dizionario biografico degli italiani, 1993.

[16] Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira – “Storia d’Italia nel periodo fascista”, Einaudi, 1956.

[17] Corrado Li Greci intervista Giovanni Francesco Pecoraro (Carpeoro) in Avanti! del 2-2-2017.

[18] Mauro Canali – “Filippo Naldi” in Dizionario biografico degli italiani, 2012.

[19] Vedi “The Times” del 14 ottobre 2009.

[20] Vedi sopra, n°18-19.

[21] Vedi oltre, n°44.

[22] Vedi sopra, n°18.

[23] Vedi “Il periodo liberale dal 1896 al 1900”, n°3.

[24] Vedi sopra, n°13, n°26 e n°31.

[25] Vedi “Il periodo liberale dal 1887 al 1896”, n°7.

[26] Vedi “Il periodo liberale dal 1900 al 1914”, nn°445-448.

[27] Vedi sopra, nn°33-34.

[28] Il Rapagnetta-D’Annunzio, abilissimo giocoliere delle parole, buon ben dirsi il “Nietzsche de noàntri”. La sua filosofia di vita era fatta di frasi del tipo: “Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori”. E lui era, naturalmente, convintissimo di essere fra questi “uomini superiori”: “Io sono un animale di lusso; e il superfluo m’è necessario come il respiro” … Benito Mussolini, suo degno compàre, lo descrisse adeguatamente: “D’Annunzio è il dente cariàto d’Italia: bisogna o strapparlo o ricoprirlo d’oro”. Preferirono ricoprirlo d’oro.

[29] E’ opinione di chi scrive, e senza offesa per alcuno, che il “Monumento ai Mille” sia di una ridicola bruttezza. Esso si ispira all’Inno di Garibaldi, scritto dal poeta Luigi Mercantini nel 1858, i cui versi iniziali sono “Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti” e raffigura, infatti, un gruppo di uomini nudi, addossati l’uno all’altro, che sembrano uscire da sotto terra. Primeggia tra essi la figura di Garibaldi, che scruta in piedi l’orizzonte. Il tutto è sormontato da una figura femminile alata, significante la Vittoria, che cinge la testa di Garibaldi con le braccia arcuate come una corona.

Le fattezze di Garibaldi sono quelle dell’attore genovese Bartolomeo Pagano, che aveva interpretato il personaggio di “Maciste” nel kolossal-film muto “Cabìria”, uscito nel 1914, alla cui sceneggiatura aveva collaborato lo stesso Rapagnètta-D’Annunzio, che era l’inventore anche dei nomi Maciste e Cabìria (= Nata dal fuoco).  

Autore del Monumento è lo scultore Eugenio Baroni (1880-1935) il quale, peraltro, fece anche cose migliori.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, maggio 2019

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