La rivolta di
Masaniello
Nella prima
metà del ‘600 Napoli era precipitata in una gravissima crisi
socio-economica, aggravata dall’assoggettamento alla corona di Spagna
che, combattendo guerre sempre più dispendiose, esigeva da Napoli esosi
balzelli. Nel 1646 il viceré spagnolo Rodrigo Ponce de Leòn, duca d'Arcos
aveva ulteriormente aumentato il carico di tasse applicate, sicché
l’anno successivo bastò l’aumento del prezzo della frutta fresca, perché
il 7 luglio del 1647 la rivolta scoppiasse in tutta la sua violenza al
grido di “Viva il re di Spagna, mora il malgoverno”. Il motto
dimostra la gran confusione regnante nel popolo, per il quale il re
impersonava ancora la giustizia e i ricchi l'arbitrio. Non fu una
rivolta antispagnola, come vorrebbe la storiografia italiana
dell'Ottocento, impregnata di retorica nazionalistica, ma
un’insurrezione scaturita dalle miserevoli condizioni in cui versava il
popolo.
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Micco Spadaro,
"La rivolta di Masaniello". Napoli, Museo di San Martino
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I
“lazzaroni”, guidati da alcuni capi tra cui Masaniello
e suo cugino Maso,
armati con armi sottratte alle caserme o ai soldati, sbaragliarono la
guardia spagnola e si riversarono in Palazzo Reale. Travolto chiunque
altro tentasse di fermarli, irruppero negli appartamenti del vicerè
abbandonandosi alla devastazione. L'ira popolare si abbatté contro
nobili e borghesi, molti palazzi signorili furono dati alle fiamme e
furono commessi ogni sorta di delitti. Gruppi di rivoltosi devastarono
gli uffici daziari bruciandone i registri e aprirono le carceri. Furono
attaccate anche le case di funzionari governativi, come quella di
Girolamo Letizia, considerato un infame gabelliere, che fu distrutta e
data alla fiamme nei pressi di Portanova. Venne quindi
insediato un Comitato Rivoluzionario nella Chiesa del Carmine.
Il viceré duca d'Arcos
era uomo inetto e pavido per natura, e fu pertanto assolutamente
incapace di affrontare una situazione tanto drammatica e pericolosa, che
minacciava di ora in ora di allargarsi, come una macchia di olio, anche
nelle altre province del reame. Il duca ebbe appena il tempo per
riparare precipitosamente nel vicino convento di San Luigi e, quando
capì che nemmeno lì stava al sicuro, fuggì con pochi fedeli nel Castello
di Sant'Elmo. Ma il capitano del forte, Martino Galiano, non poté fare
gran che per l'illustre ospite, perché non disponeva di riserve di
munizioni e viveri. Al viceré, quindi, non restò altra alternativa che
ridiscendere in città ed accettare le umilianti e pesanti condizioni
imposte da Masaniello.
Questi era
consigliato dal letterato Giulio Genoino
– secondo alcuni il
vero ideatore della rivolta – ed ottenne dal viceré la concessione di
una costituzione popolare sul modello dei capitoli di Carlo V, che fu
redatta dallo stesso Genoino. Masaniello fu nominato “Capitano generale
del fedelissimo popolo”. Seguirono alcuni giorni di pace apparente che
servirono agli Spagnoli per rifornire abbondantemente i castelli della
città.
Masaniello,
inebriato del potere, cominciò ad ordinare provvedimenti ed esecuzioni
arbitrarie, tanto che la sua breve esperienza rivoluzionaria si concluse
appena nove giorni dopo l'inizio dell'insurrezione, il 16 luglio, quando
fu ucciso.
Quel giorno, in cui si festeggiava Maria SS. del Carmine, Masaniello,
affacciato alla finestra della sua casa, aveva pronunciato un discorso
farneticante, accompagnato da gesti insulsi ed era arrivato persino a
denudarsi. I popolani venuti ad ascoltarlo, gli si rivoltarono contro,
sembra con l'appoggio dello stesso Genoino. Masaniello fuggì nella
chiesa del Carmine, riparando sul pulpito. Venne però catturato e ucciso
a colpi di archibugio da tal Ardizzone con alcuni compari. Uno di loro,
Salvatore Catania,
decapitò il corpo di Masaniello
con un coltello. La testa fu portata al viceré come
prova, mentre i poveri resti furono
trascinati per
l’intera piazza, poi abbandonati in pasto ai cani.
Il giorno dopo
alcuni popolani raccolsero i miseri resti che furono tumulati, con gli
onori militari dovuti ad un generale, nella Chiesa del Carmine
.
Una lapide ed una statua nella chiesa del Carmine ed una piazzetta nei
pressi di Piazza Mercato ricordano oggi Masaniello. Molto miserevole fu
anche la sorte della moglie di Masaniello, Bernardina Pisa, sposata nel
1641. Rimasta sola dovette prostituirsi per campare. Morì poi di peste,
nel 1656.
La
rivoluzione non finì con la morte di Masaniello.
La città era caduta in uno stato d’anarchia, contrassegnato dagli
scontri tra i ceti borghesi che si erano uniti ai rivoltosi e la nobiltà
napoletana. Ad aumentare il clima di forte instabilità vi erano anche
l’azione della Francia, che intendeva approfittare dell’occasione per
rinverdire le pretese sul Regno di Napoli.
Gli scontri contro la nobiltà e i soldati spagnoli si susseguirono
violentissimi per tutto luglio e agosto. Fu infine dichiarata la
Repubblica Napoletana, che fu subito riconosciuta dalla Francia.
La Repubblica Napoletana
Il 22 agosto
1647, di fronte alla minaccia del vicerè di far bombardare Napoli dai
forti, una folta schiera di rivoltosi si avviò verso Sant'Elmo per
attaccare la fortezza. Andrea Polito, uno dei capi, aveva fatto scavare
un profondo cunicolo sotto le mura orientali, minandole. Occorreva
soltanto accendere la miccia per aprire la breccia attraverso la quale
assalire il castello, ma Toraldo Francesco, principe di Massa, che alla
morte di Masaniello aveva assunto il comando dei rivoltosi, impedì
l'azione e preferì patteggiare con il vicerè. L'accordo fu raggiunto ed
i capitolati di pace furono firmati e giurati il 7 settembre 1647 nella
cappella di Santa Barbara di Castelnuovo. L'unica clausola non accettata
dal vicerè fu la custodia del Castel Sant'Elmo in mani napoletane, col
pretesto che mancava la necessaria approvazione del re di Spagna. In
effetti, gli Spagnoli miravano a guadagnare solo un po’ di tempo, quello
necessario per l’arrivo della flotta.
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Micco
Spadaro,
"Piazza Mercatello durante la peste del 1656". Napoli, Museo di San
Martino
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Infatti, dal 10
ottobre 1647 la città venne furiosamente bombardata dai castelli e dalle
navi della flotta spagnola, agli ordini di don Giovanni d'Austria. Sul
finire del mese, Andrea Polito venne impiccato, ed il suo corpo appeso
ad uno dei finestroni di Castello Sant’Elmo. I rivoltosi non si
arresero, anzi la sollevazione divenne generale, e non fu più, come al
tempo di Masaniello, una povera rivolta dei lazzari contro i ricchi, ma
assunse, sotto la guida di Gennaro Annese
[4], un chiaro carattere
indipendentista o, comunque, antispagnolo. Le truppe spagnole furono
ricacciate nei forti e il 22 ottobre 1647 fu dichiarata la Repubblica
Napoletana. Si cercò subito la protezione delle Francia, che rispose
inviando la flotta nel Golfo di Napoli. Ad Enrico di Lorena, duca di
Guisa [5], sbarcato a Napoli
il 15 novembre 1647, venne affidata la guida della Repubblica. e
contattarono appunto Enrico di Lorena, per affidargli la guida di
Napoli. Dopo due secoli, Napoli tornava così nell'orbita francese. La
repubblica assunse diversi nomi ufficiali, che ne evidenziano la doppia
natura, allo stesso tempo repubblicana e monarchica: "Serenissima
Repubblica di questo regno di Napoli", "Reale Repubblica" e "Serenissima
Monarchia repubblicana di Napoli". La bandiera repubblicana fu un
vessillo con scudo rosso recante la sigla S.P.Q.N., sormontato dalla
parola "Libertas" e dallo stemma del duca di Guisa.
I forti
ancora in mani spagnole vennero posti sotto assedio. Per isolare Castel
Sant'Elmo, furono abbattuti casolari e falciati centinaia di alberi.
Anche i monaci della Certosa furono invitati a demolire alcuni
fabbricati. Intanto i nobili filo-spagnoli, riuniti ad Aversa,
controllavano con le loro bande armate la provincia e quindi i
rifornimenti della città. Le truppe del duca di Guisa riuscirono nel
gennaio 1648 a rompere questo assedio, conquistando Aversa.
La guerra
continuò fino al marzo del 1648. Gli Spagnoli, concentrati tutti i
poteri nelle mani di Don Giovanni d'Austria, usarono una tattica
attendista, che mirava a logorare l’avversario. Con la promessa di
futuri privilegi, si assicurarono la fedeltà del ceto aristocratico e
potevano contare sull’appoggio incondizionato del clero. Il 5 aprile
1648 gli Spagnoli sconfissero il duca di Guisa, grazie anche al
tradimento di alcuni dei suoi stessi notabili. Napoli fu rioccupata
praticamente senza colpo ferire. Il duca di Guisa venne inviato in
carcere a Madrid ed i capi ribelli giustiziati. Gennaro Annese,
“l’anima” popolare della Repubblica Napoletana, venne decapitato in
Piazza del Mercato. Con l'arrivo del nuovo vicerè de Guevara, conte di
Ognate, e la partenza dell'odiato duca d'Arcos, il 6 aprile 1648 si
concluse finalmente la pace. L'eco degli eventi napoletani giunse fino
all'Inghilterra dove Oliver Cromwell instaurò la repubblica nel 1648.
Per ben due
volte, il 4 giugno ed il 4 agosto 1648, la flotta francese si ripresentò
nel Golfo, riuscendo a sbarcare a Procida, ma Napoli non si sollevò
poiché stremata da più di un anno di rivoluzione. I Francesi, sconfitti
a Ischia, Pozzuoli e Salerno, dovettero definitivamente ritirarsi.
Il 3 giugno
del 1649, scoppiarono a Napoli nuovi tumulti che furono rapidamente
repressi. Il Regno di Napoli rimase sotto il dominio spagnolo fino al
1713.
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presunto ritratto di Masaniello
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Conclusioni
L’effimera
rivolta di Masaniello e i successivi avvenimenti della Repubblica
segnano un periodo critico nella complicata storia del Regno di Napoli.
Le continue guerre dell’epopea aragonese (1442-1503) e la successiva
conquista di Ferdinando il Cattolico del 1503 avevano impoverito le
campagne e sovrappopolato la capitale. La Spagna utilizzò il Regno come
una colonia da cui attingere risorse, ed in questa opera fu coadiuvata
dal clero e dall’aristocrazia napoletana. Tra le conseguenze più
significative ci fu il
pauperismo dilagante e la completa sfiducia verso
le istituzioni statali e per gli uomini che le rappresentavano. “Sbirri”
e soldati, gabellieri e doganieri, funzionari e giudici divennero con la
dominazione spagnola strumenti di repressione e di potere, del tutto
estranei alla società popolare napoletana nei costumi, nel modo di
pensare, a volte nella lingua. Tale distacco fu talmente forte da
imprimersi quale retaggio indelebile nella mentalità popolare partenopea. Nacquero così
le figure dei
“guappi”, controllori di “codici” popolari per amministrare la vita di tutti i
giorni e per la soluzione di controversie, e nacquero di conseguenza le “società”
camorristiche: un surrogato di uno stato che non si occupava della gente.
Il clero – era l’epoca dell’inquisizione e delle "streghe" al rogo – era
gratificato da tale situazione in quanto poteva esercitare la massima
influenza sui semplici e gestire i rapporti con il potere. In quegli
anni si ampliò il solco tra nobili e popolani, e la nascente borghesia
fu umiliata. Gli aristocratici furono
colmati di privilegi dagli Spagnoli ed utilizzarli a fini sociali per il
mantenimento dello status quo. Generalmente la nobiltà napoletana si
rivelò sempre più attenta alle rendite che alle attività lavorative,
viste addirittura con ripugnanza. Anche questa caratteristica peserà a
lungo e negativamente sui destini del Sud.
Alfonso Grasso
Bibliografia
Note
[1] Masaniello,
accorciativo di Tommaso Aniello, era un umile pescivendolo nato
nel 1620 da Francesco D'Amalfi (cognome e non località), e da
Antonia Gargani. Era finito spesso in carcere per proteste
contro il governo del viceré spagnolo e per il contrabbando del pesce.
Questo l’aveva reso molto popolare tra le classi umili, e lo
aveva fatto notate dai borghesi, che videro in lui l'individuo
capace di farsi interprete del malumore popolare e di guidare
l'insurrezione contro il governo spagnolo. Riguardo all’aspetto
fisico, era basso di statura, bruno di carnagione, con capelli
castani raccolti in un piccolo codino dietro la testa.
[2] Giulio Genoino,
letterato già noto dal 1620 come difensore del popolo contro la
nobiltà e l'eccessiva tassazione, dopo un lungo esilio seguito a
un processo e alle torture, era rientrato a Napoli e divenne
“l’eminenza grigia” di Masaniello e ispiratore delle idee
rivoluzionarie. Dopo lo scoppio della rivolta, i rapporti tra
lui e Masaniello si guastarono rapidamente.
[3] Secondo alcuni, il
corpo fu fatto riesumare da Ferdinando IV per timore che il mito
di Masaniello potesse rinascere. Secondo un’altra ipotesi,
formulata da Ambrogio de Licata, i resti di Masaniello si
troverebbero oggi poco distante dalla chiesa, nell’area occupata
dal porto, a circa dieci metri di profondità.
[4] Di mestiere
armaiolo.
[5] Enrico di Lorena,
duca di Guisa, discendeva da Renato d'Angiò.
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