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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.5d Il Periodo Liberale (1900-1914)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

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Il degno Omero di quell’Iliade: Alexandre Dumas (1802-1870)

304. “Che sperpero si facesse delle cose règie (dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, il 7 settembre 1860) si può intendere; ma va notato che a’ 14 settembre Don Liborio menò a mano il romanzatore Alessandro Dumas nella règia casina al Chiatamone; e una lettera del Garibaldi gliela die' per un anno; acciò cotesto comico repubblicano francese potesse in Napoli vivere da re.

305. Avea costui già fatto danari mescolandosi nelle forniture d'arme; e molta moneta avea presa all'erario[82].

Ma quasi le sue spampanate narranze garibaldesche non fossero pagate abbastanza, a' 16 di quel mese andò direttore del Museo; e quantunque negasse il giuramento a Vittorio, pur venne insediato. Il primo suo atto fu l'apertura della sala di statue oscene, che pel costume si tenea chiusa.

306. Niente di manco i giornali, anche liberalissimi, stomacarono: dicevano, quegli straniero, ignorante e avido, non potere in quell'uffizio far altro che rapinare cose di valore; e così strepitarono, ch'ei si dimise il 28”[83].

Rimase però direttore onorario del Museo (= percepiva lo stipendio senza fare alcunché) e continuò “ad impiastrare un giornalaccio detto L’Indipendente, pagato dal dittatore” … e pagato poi dai luogo-tenenti sabàudi suoi successori, fino a che se ne ritornò, ben rimpinguato, in Francia nel 1864.

307. Alessandro Dumas è proprio il famoso romanziere francese, autore, fra le tante cose più o meno scritte da lui (aveva infatti molti collaboratori), del ciclo detto “dei 3 moschettieri” ovvero “I tre moschettieri” (1844), “Vent’anni dopo” (1845) e “Il visconte di Bragelonne” (1848); ed inoltre de “Il conte di Montecristo” (1844), “La regina Margot” (1845) e decine e decine di altri romanzi, che venivano pubblicati a puntate sui giornali dell’epoca.

Il quale Dumas, dunque, giunto all’età di circa 55 anni, dopo aver invano tentato di diventare editore, pubblicando un suo giornale dal titolo “Il moschettiere”, affranto dalla delusione economica, intristito dalle conseguenti noie giudiziarie, e perseguitato dai creditori, aveva gran desiderio di distrarsi con nuove avventure.

Nel giugno 1858, una coppia di aristocratici russi, suoi ammiratori, se lo portò (gratis) a San Pietroburgo e gli fece girare da turista (sempre gratis) tutta la Russia, fino a Tiblisi in Georgia, per dieci mesi.

308. Rientrato poi evidentemente entusiasta in Francia, volle subito intraprendere niente di meno che “il grande viaggio di Ulisse” ovvero ripercorrere tutte le tappe, descritte nell’Odissea, dell’itinerario di ritorno del mitico eroe fra le braccia della fedelissima consorte a Itaca. 

Avuta però notizia dello sbarco dei Mille a Marsala l’11 maggio 1860, modificò il suo itinerario e, invece che sulle orme di Ulisse, si pose sulle orme di Garibaldi, approdando a Palermo, su una goletta di sua proprietà chiamata "Emma", per aggregarsi, a modo suo, all’epica impresa.

Alexandre Dumas (1802-1870)

Il grande Alessandro a Palermo

309. Come questo accadde, è efficacemente narrato da un testimone oculare, il garibaldino Giuseppe Bandi[84]:

“Nel tornare a casa, mentre eravamo per scavalcare una barricata, un bel pezzo d’uomo ci venne incontro, e da lungi salutò in lingua francese il generale. Quell’omaccione era tutto vestito di bianco ed aveva in testa un gran cappello di paglia, adorno d’una penna azzurra, d’una penna bianca e d’una rossa.

– Indovinate un po’ chi è colui? – mi chiese Garibaldi.

– Chi può essere? – risposi – Louis Blanc, Ledru Rollin?

– Oibò – soggiunse il generale, ridendo – è Alessandro Dumas.

– Come? L’autore del Conte di Montecristo e dei Tre Moschettieri?

– Proprio lui.

Le grand Alexandre abbracciò Garibaldi con infinite dimostrazioni d’affetto, ed entrò insieme a lui nel Palazzo Pretorio, predicando e ridendo forte, non altrimenti che della sua voce e della sua allegria volesse riempire il palazzo.

310. Fummo chiamati a colazione … Il grande Alessandro mangiò come un poeta, e si mostrò tanto voglioso di discorrere, che mai non volle prestar lo staio a nessuno. Vero è che parlava come sapeva scrivere, e io stetti a bocca aperta ad udirlo, anche quando per la soverchia velocità del discorrere, non capivo un’acca delle sue parole …

Quando comparve in tavola la zucca delle monache, il grand’Alessandro fece tanto d’occhi, e se ne cacciò in bocca una gran fetta; poi si die’ a cantarle il magnificat, e tanto l’ebbe commendata, che il generale la fece riporre in un cartoccio, e tutta gliela offerse perché la portasse con sé.

Monsù Dumas tolse lietamente il cartoccio e lo consegnò al suo ammiraglio, cioè alla femminuccia che aveva seco; e poi disse a Garibaldi: – Voi mi avete regalato una delizia, ma io saprò ben ricambiare il dono.

E, bevendo un ultimo bicchiere di vino di Marsala, dette la fausta novella d’aver recato, a bordo della piccola sua nave che si chiamava Emma, tante e bellissime armi, le quali eran tutte del dittatore, senz’altra fatica che quella di mandarle a prendere.

311. Noto, a questo proposito, che il generale ci mandò più tardi a pigliare le armi d’Alessandro Dumas, e noi ci andammo con un grosso navicello; ma le armi che ci dette il francese, non avrebbero empiuto un carrettino di competenza d’un somaro.

Infatti, tutto quel gran tesoro consisteva in sette o otto sciaboloni da cavalleria, e in dodici vecchie carabine: roba degnissima del ferravecchio.

Ossequienti però al proverbio che a caval donàto non si guarda in bocca, pigliammo le armi e le recammo al generale, che rise assai, paragonando i doni minuscoli del gran romanziere francese colla magnificenza delle sue promesse”.

312. In realtà Garibaldi sapeva benissimo che il contributo militare di Dumas all’impresa sarebbe stato praticamente nullo, ma sapeva anche che assai grande poteva essere, invece, il suo contributo propagandistico; e quindi, come scrive giustamente il de’ Sivo, “decise apposta di portarsi dietro quel cicalòne, che voleva far l'Omero di quell’Iliade”, rimanendo però prudentemente a bordo della sua navicella ad osservare le battaglie a distanza di sicurezza. E così …

Dumas inebriato a Milazzo

313. “(Sempre in Sicilia, dopo la battaglia di Milazzo: 17-24 luglio 1860) … ancor venne a visitare Garibaldi il romanziero Dumas, cui die' il carico d'un giornale, L' Indipendente; e inoltre, sotto titolo d'avere a comprare 1.500 fucili, gli die' lettere per 100 mila franchi, da riscuotere a Palermo.

Il sindaco La Verdura non volle pagare; ma il Depretis (deputato piemontese, inviato del Cavour, nominato pro-dittatore da Garibaldi) ne fece pagar subito 60 mila (dalla cassa del Comune).

314. Allora il Dumas, inebriato di quei denari, sciorinò cose magne: stampò 7.000 Napoletani vinti da 2.500 garibaldini; né so quante dozzine di duelli da epopea; vi ficcò Svizzeri, Bavaresi, e altre baie.

Ma il Garibaldi s'aveva a posta menato questo cicalone, che tolse a far l'Omero di quell’Achille”[85].

Dumas nel golfo di Napoli e Don Liborio

315. Poco dopo, “il romanzatore Dumas, corifeo della rivoluzione, dandosi gran da fare, s'era impunemente ancorato nel golfo, avanti la reggia, sur un battello detto l'Emma, donde spargeva arme e proclamazioni, e teneva le corrispondenze de' felloni col Garibaldi.

316. Don Liborio Romano anch'esso, con mezzano un Muratori, dicentesi presidente del general comitato rivoluzionario, vi trescava; anzi, la notte del 23 andò egli stesso sul battello, e col Dumas convenne: s'affrettasse il Garibaldi; ed egli indurrebbe il re a lasciar Napoli; in contrario, o si salverebbe sur un legno inglese, o dichiarerebbe Francesco traditore della costituzione e solleverebbe la guardia nazionale ed il popolo.

Gli promise, inoltre, che al primo tentativo di reazione del re andrebbe al Garibaldi con due colleghi, per dichiarar lui decaduto, e questo riconoscere dittatore.

Anche gli presentò una gentildonna che gli recherebbe l'ambasciata; intanto domandasse per lui la protezione del Par Kings ammiraglio inglese. Questa di fatto ottenne; e alla dimane mandò al Dumas il suo ritratto, con sotto così scritto: Ritratto d'un vile, se non vi mantengo le promesse che vi feci ieri.

Tali lordure essi stessi hanno poi stampate, per vanto[86].

317. Il re, per verità, ebbe prove di quella visita notturna; e consigliato dal generale duca di S. Vito, stette per far arrestare il traditore Don Liborio; ma questi, o ne avesse sentore o a maggiore inganno, gli si presentò baldanzosamente a raccontare la sua gita sull’Emma, dicendo lavorar col Dumas per far retrocedere il Garibaldi. Non credo Francesco se ne persuadesse; ma (purtroppo) il fe' restar libero, e ministro del suo nemico”[87].

Dumas in Napoli

318. Entrato poi Garibaldi in Napoli, il Dumas ebbe regale appartamento ed onori, e molti soldi (vedi sopra) per raccontare a modo suo le trascorse vicende.

Ed anche dopo che Garibaldi ebbe lasciato la dittatura, giunto il 14 luglio 1861 il massacratore generale Cialdini come quarto luogo-tenente dopo il Farini, il Carignano e il Ponza … “al Dumas, cui si dava casa al Chiatamone, crèbbesi il sussidio a 16 mila franchi, per impiastrare storie contro i Borboni; e giustamente, perché occorreva proprio lui per sì sozzo mandato … Napoli pagava”[88].

319. A quel tempo, il Dumas aveva già scritto “Il corrìcolo (= Il piccolo calesse)”, pubblicato nel 1843: era stato a Napoli per una quindicina di giorni nel 1835, ed alcuni anni dopo, le impressioni e i rapidi incontri avuti in quei giorni, congiunti alla sua fertile fantasia, generarono un volumetto composto di aneddoti e personaggi in gran parte inventati, e di luoghi comuni su Napoli e i napoletani, di facile e gradevole lettura ma di nessun valore quanto a documentazione storica.

Nel periodo napoletano, scrisse un libro di “Memorie di Garibaldi” (1860) ed un altro parallelo su “I garibaldini” (1861) e subito dopo, sempre ben alloggiato nella casina borbonica, elaborò una infamante quanto infondata “Storia dei Borboni di Napoli” (1862).

Scrisse anche un, parimenti improbabile, excursus su “Cento anni di brigantaggio nelle province meridionali d’Italia”, pubblicato nel 1863, e poi varie volte ristampato; nonché alcuni sconclusionati appunti sulla camorra.

320. Nel frattempo, nel 1862, si era ascritto alla Loggia massonica napoletana denominata “Fede italica”, fondata dal “Grande Oriente d’Italia” il 18 agosto 1861, cioè subito dopo l’arrivo come luogo-tenente del massacratore Cialdini, ed in seguito “demolita” ufficialmente il 23 luglio 1877. 

Dumas in patria sua

321. Ritornato infine in patria sua, continuò ad infierire su personaggi storici della patria nostra, scrivendo nel 1864-65 le “biografie romanzate” prima di Emma Lyon (“Le confessioni di una favorita”) e poi di Luisa Sanfelice (“La Sanfelice”): entrambe consigliabili a chi voglia amabilmente pàscere la propria fantasia ma assolutamente controindicate a chi ricerchi la verità storica dei fatti.

Ultimamente (2002), le autorità liberali e massoniche francesi hanno voluto collocare addirittura nel Panthéon nazionale di Parigi la ingombrante salma di questo loro menestrello, evidentemente riconoscenti a colui che ha procurato ai francesi l’indiscutibile privilegio di avere una doppia versione della loro storia: una vera, e l’altra inventata, ma molto più romantica …

Arriva il Savoia: il celebre incontro presso Teano

322. La dittatura garibaldina durò 2 mesi, dal 7 settembre al 7 novembre 1860. Il 21 ottobre si fece il plebiscito. Il 26 ottobre avvenne il celebre incontro fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II presso Teano.

323. “(I garibaldini) … si spinsero in labirinti di viuzze tra Gerusalemme, Bellona e Vitulaccio, saccheggiando la campagna, e pigliando prigionieri qua e là qualche centinaio di soldati borbonici malati, e parecchi degli stranieri, che a posta s' eran rimasti indietro.

Presso Bellona, il Bixio cadde di cavallo in una pozzanghera, e si ruppe una gamba, onde il portarono a Napoli, ed ei si pose nel palazzo Angri.

324. Gli altri fermarono a Calvi; la sera accamparono a Caianello … La notte, il Garibaldi si teneva vicino (come infermiera …) la famosa inglese Jessie White (1832-1906), moglie del garibaldino Alberto Mario; e il Rustow ancor più vicino l'altra non men famosa contessa della Torre (Maria Luisa Salasco, moglie separata di Enrico Martini Giovio della Torre; 1830-1913); le quali due, quando al mattino furono messe insieme in una carrozza, vennero a tali scaramucce, che bisognò torne una, e porla col cocchiere.

Maria Luisa Salasco, moglie separata di Enrico Martini Giovio della Torre (1830-1913)

325. Questo mattino del 26 ottobre, Vittorio col Cialdini e due divisioni veniva da Venafro su Caianello.

Il Nizzardo, co' suoi avviato sur un sentiero che mena a Vairano e Marzanello, avea mandato avanti il Missori con cavalli; il quale tornò con Piemontesi, nunziando il re poco discosto sulla via consolare.

Ei, lasciata la gente, volse là, e incontrò prima il Cialdini, poi Vittorio, cui disse: - Saluto il re d'Italia. Rispose: - Grazie. Se arrossisse, non so.

Si fe' accompagnare da esso a Teano; ma con poco gradimento dei suoi, che dietro le spalle sussurravano i Garibaldini potersene andare; perciò, dopo mezzodì, mandò a questi l'ordine di retrocedere a Calvi.

Il dittatore vide a Teano, con mal piglio, alcuni suoi vecchi con-settàri: il Fanti ministro di guerra; ed il Farini, venuto a soppiantarlo. Si ritrasse a Calvi, il re dormi a Teano”[89].

Il famoso incontro fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II il 26 ottobre 1860

Il Savoia entra in Napoli (7 novembre 1860)

326. Il 7 novembre, sotto una pioggia torrenziale, il re giunse a Napoli.

“Acciò i Napolitani s'accorgessero che dovevano gioire, i congiuratori già alto insediati, volean fargli magnifica I'entrata; e i bruchi piombati sul municipio si davano a spese magne.

Disegnarono dodici archi trionfali e piramidi, un monumento a Napoleone III, quattro statue al Cavour e a tre generali sardi, un certo tempio al Garibaldi con una iscrizione ridicola, tutto carta, pali, tele e funi, con pitture trasparenti, lumi e ghirlande.

Cominciarono venti giorni prima, ma lenti, mancando i denari, o non bastevoli alla sete de' sovrastanti … Rimediarono parecchi simulacri posticci, con vittorie garibaldine e ritratti di Fanti, Cialdini, Turr, Medici, Cosenz, e altri massoni. Quello di Garibaldi, già fatto e posto, tolsero in fretta.

Avanti la reggia, nascosero con panni le colossali statue di Carlo III e Ferdinando I; e v'alzarono sopra un enorme catafalco quadrato, vero mausoleo di carta, e stracci, con pitture.

Il bello furono cento statue di gesso simili, poste per Toledo su piedistalli, con una mano alta e una giù, quasi sonassero il contrabbasso; certe nude femminone, che dicevano essere le cento città d'Italia proclamanti l'unità. Ma tutti ne ridevano; e il garibaldino Rustow ha poi scritto che i napoletani avevano messe quelle bagasce in mostra, per allettare Vittorio a rimanere con noi. Pigliarono da 200 mila ducati, per tali baie.

Ma il cielo, nemico d'Italia, guastò tutto; la notte precedente, acque dirotte e venti e turbini: a pezzi le “città d’Italia”, colanti le pitture, sbrandellati i canavacci, bucherati i cartoni; tutto scollato, vedevi travi e funi, forche e non archi trionfali.

Il Re Vittorio Emanuele II di Savoia in un ritratto 'ufficiale'

327. Tra quei squallori, e piovendo, entrò Vittorio quel dì 7 novembre 1860, sull'ore nove e mezzo, in carrozza, col Garibaldi a lato, e il Pallavicino e il Mordini, pro-dittatori di Napoli e Palermo, a fronte.

Gli facevano corteggio a piedi lazzaroni scamiciati, e camorristi plaudenti e saltellanti con ombrelli e frasche; poi carabinieri armati, lo Stato maggiore, e un drappello di guide, poca gente, scarsi plausi, rari fiori. Ei salutava col guanto dove vedea qualche balcone pieno, quasi voglioso di saluti protettori.

Carlo III borbonico era entrato gittando danari d'oro, bello e giovine; Gioacchino Murat napoleonico, tutto diamanti e pennacchi, da eroe di cento vittorie; costui tapino, sgradevole, spauriva. Faccia scura, occhi gonfi, baffoni, tozzo, sporco; il popolo strabiliava, né si persuadeva sì laida figura portasse tante belle promesse cose.

Ma gli facean rumore attorno i camorristi, tra' quali un Antonio Lubrano, famigerato omicida, che co' suoi strepitanti gli stette sullo sportello della carrozza sino a palazzo. Questi dappoi andò alla Polizia a vantare tal servigio alla causa, protestando non dover più esser carcerato, dopo avuto l'onore di stare ai fianchi di Sua Maestà”[90].

8 novembre 1860

328. Appena giunto alla reggia in Largo di Palazzo, il “re galantuomo” subito prudentemente vi si rinchiuse, né si fece più vedere.

Il giorno dopo, 8 novembre, in quella stessa sede, nella stanza del trono, ricevette ufficialmente i risultati del finto plebiscito con il quale i napoletani avevano “liberamente deciso” di volere lui e i suoi discendenti come re nella nuova Italia.

Vittorio Emanuele II riceve ufficialmente i risultati del plebiscito

329. “L'Omnibus, già favorito dai Borboni, stampò la venuta di Vittorio Emmanuele esser quella del Messia, la venuta di Dio! E questo Dio nero, la sera, al teatro S. Carlo, ebbe l'inno, scritto da Domenico Bolognese.

Costui, inneggiato a libertà nel 1848, non solo scansò qualsiasi pena, ma ottenne da re Ferdinando due impieghi e due stipendi; eppure cantò Garibaldi precursore e angelo di Dio, ed Emmanuele d'Italia Dio. Pose il Petrella la musica, che riuscì misera.

Il re niente n'udì; perché, cominciato lo spettacolo, certi garibaldini, volendo entrare nel teatro già pieno, trassero le pistole, e si fe' rumore, e accorsero Carabinieri, di che turbato Vittorio poco stante si ritirò …

330. Lumi non si videro, e incolparono la pioggia; venuto il sereno, il sindaco supplichevole più volte invitò la popolazione ad illuminare almeno Toledo e qualch'altra strada; ebbe meschino effetto … Ma il cielo, niente adulatorio, piovve quasi sempre … ed anche quelle poche luci, con rovesci d'acqua le spense”[91].

9 novembre 1860: Garibaldi se ne va

331. Il terzo giorno, 9 novembre, il Garibaldi angelo precursore del novello Messia se n’andò.

“Pien di livore, sull’alba del 9, lasciò la città, ben diversamente da quel che v'era entrato; era seco il figlio, un Bassi, un Gusmarolo, un Forsecanti e un servo Manuele. Prima di salpare, salì a far visita al Mundy ammiraglio inglese, e n'ebbe saluto con l'artiglierie … e sull'Annibale, vascello inglese, alla sterile Caprera si riduceva”[92].

Se ne va anche il Savoia, la notte di S. Stefano

332. Liquidato il Garibaldi, Vittorio rimase ancor poco in Napoli. Anche lui, infatti, il novello Messia, aveva i suoi problemi con i napoletani.

Un giorno, “le donne di certi carcerati camorristi fermarono la sua carrozza, gridando grazia, e rinfacciandogli i loro mariti aver fatto entrare il Garibaldi; sentì l'insulto, sferzò i cavalli, e le piantò strepitanti …

Anzi, a fuggire i dimostranti, i minaccianti e gli affamati, se ne salì a Capodimonte; e tra donne e animali, come in harem, si chiuse”[93].

333. Infine, “essendo dunque Napoli e il reame in anarchia e guerra civile … Vittorio un dì si pensò appagare di sua persona il popolo, in pubblica udienza.

Nessun onesto v'andò, v'andò il popolo del plebiscito; entrarono a torme, tutti postulanti, in mille divise; camice rosse, sciabole, stili, e pistole, grida strane e confuse; lazzari, femmine, frati, tutti a sospingere e urtare.

Egli, spinto sotto una finestra, ebbe bisogno delle guardie per ritrarsi, pure in recondite stanze pressato.

Sgombrate a forza le sale, si trovò quel popolo sovrano aver fatto parecchie annessioni d'arnesi di su le tavole.

334. Sgomentato, stanco di tanto gridìo, sentendosi a Napoli straniero e mal sopportato … partì a mo' di fuggiasco, improvvisamente, la notte seguita al 26 dicembre; ed a furia, per le poste a Bologna, di là su vie ferrate, a Torino trionfante giunse la sera del 29”[94].

Il primo luogo-tenente: Farini, l’eccelso

335. Lasciava in vece sua Luigi Carlo Farini (1812-1866), già preventivamente nominato il 6 novembre da Sessa Aurunca e stato al suo fianco, come “Luogo-tenente generale” dei territori napoletani.

Ma l’opera del Farini venne ritenuta tanto poco soddisfacente, che già nel gennaio 1861 fu sostituito da un principe di casa reale, Eugenio di Savoia-Carignano (1816-1888), affiancato dal diplomatico Costantino Nigra (1828-1907) che aveva essenzialmente il compito di inviare continui e dettagliati rapporti al Cavour.

336. Era il Farini un massone romagnolo, dai suoi confratelli denominato in tutta serietà “l’eccelso”, essendo egli vero tempio di virtù, gran politico, gran scienziato e grande scrittore.

In realtà, dopo molto questuare, aveva solamente l’incarico di medico condotto in un paesino del ravennate, donde era assurto, per meriti “patriottici”, al corteggio del re galantuomo.

337. Essendo uomo da chiacchiere, esordì in Napoli con molte promesse … ma “da sì largo promettitore, avemmo due mesi d' incredibili stoltezze”.

Costituì un consiglio di luogotenenza, più una consulta, entrambi formati da persone che non avevano altro merito se non quello di aver fatto parte della delegazione mandata a chiedere al “re galantuomo” di invadere il Regno meridionale.

Si auto-assegnarono anzitutto lauti stipendi … “si dettero ducati 400 mensili per ciascuno, e a un certo Bonghi, segretario, 200. Esso Farini tirava 200 mila franchi per spese di viaggio (che non viaggiava) e 11 mila ducati il mese.

Non potendo, e non sapendo, far altro, mutò i nomi: il Prefetto di polizia si disse Questore, perché così a Torino, quasi avesse a cercare denari. E chiamò impiegati dalla questura di Torino.

L'eccelso Luigi Carlo Farini (1812-1866) primo luogo-tenente generale dei territori napoletani

338. I liberali stessi bistrattavano il Farini; e lo appellavano presuntuosa nullità. E questi, l’eccelso, venuto con tanta prosopopea, e che viveva da re nelle stanze di Francesco II, s'ammalò d'itterizia, per bile.

Aveva scritto voler morire povero; ma graditogli il vivere principesco, niuna grandezza più il contentava.

A Portici, scelse a camera da letto quella già servita a Pio IX, mutata da Ferdinando in oratorio; i custodi cercavano dissuaderlo; cocciuto il volle, e vi pose il letto; ma dopo due giorni, il letto e la stanza, non si sa per qual caso, andarono in fuoco.

Dopo la dittatura nell'Emilia, avea maritata una figlia con pompa a un Riccardi: se lo portò segretario a Napoli; e gli morì la notte della vigilia di Natale.

339. Avvertito, dagli strèpiti universali, che quell'aria non gli poteva durare, si die' da fare per agguantare il meglio, fino a che, mostrata sua solenne incapacità, inviso ad ogni partito, fu gittato da canto; e così, alla prova del fatto, venne meno ridicolosamente quest'altra fatua settaria celebrità.

Vantatosi di restaurare l'ordine morale, fu sopraffatto dalle immoralità sfrenate da esso; e cadde màcero come canna.

Vittorio, nel consiglio del 31 dicembre a Torino, lo cassò; e scorta l'inconvenienza d'aver insultato un reame con un medicuzzo luogotenente, stimarono rimedio mandarvi Eugenio di Carignano, cugino del re”[95].

Il secondo luogo-tenente: Carignano, il principe

340. “Un decreto del 7 gennaio 1861 assegnò al Savoia-Carignano due milioni di lire annuali, a peso dell'erario napoletano, per sole spese di rappresentanza; sicché il reame, fuso nell'unità italiana, restava napoletano solo per pagare a sì sterminato prezzo quest’altro pupo.

Lo investirono di poteri règi sino a parlamento convocato: ma con a fianco un Costantino Nigra, figlio d'uno spedaliero, fanciullone caro al Cavour; stato, dicevano, mezzano de' segreti (anche di femmine) fra costui e Napoleone III; bellimbusto inzuccherato dalla massoneria, fatto segretario generale di stato, da stare al di sopra dei consiglieri, della luogotenenza, e ogni cosa.

Entrambi giunsero a mezzodì del 12 gennaio 1861 a Napoli, ricevuti dai faziosi con grandi speranze, e col consueto fornimento di dimostranti[96].

Costantino Nigro con Cavour sotto il ritratto di Vittorio Emanuele II

Fine dell’eccelso

341. “Il Farini fe' allora l'ultima comparsa; andò a ricevere il successore, e il portò a palazzo, come a cedergli la corona. Poi si ritirò a Portici, a smaltire il veleno, benché avesse titolo e soldo di ministro; e stéttesi in quella reggia sino a' 6 febbraio, quando tornò in Piemonte, a Saluggia, dove avea comprato un castello che, quando arrivava lui, alzava con fasto la bandiera, vero trofeo di sue rapine.

Masaniello, due secoli prima, nelle grandezze impazzì; similmente costui l'anno dopo uscì pazzo, e poi morì, come il Voltaire, mangiando il suo sterco”[97].

Silvio Spaventa alla polizia

342. Anche col duo Carignano-Nigra, però, la situazione rimaneva in pieno caos.

“A Torino pensarono rimediare, con accentrare colà più le cose, restringendo la potestà del Luogotenente, e governando da lontano co' partigiani.

Un decreto del 29 marzo 1861 die' ordini nuovi: alla luogotenenza quattro dicasteri: 1°Interno e polizia; 2° Grazia e giustizia; 3°Istruzione, agricoltura e commercio; 4°Lavori pubblici e Finanze; tutti guidati non più da Consiglieri, ma da Segretari generali, ciascuno dipendente da' ministeri di Torino; ma … scemata la dignità, restarono gli stessi i soldi.

Andò al primo Silvio Spaventa, al secondo Stanislao Mancini, al terzo Paolo Emilio Imbriani, al quarto Vittorio Sacchi; onde i Napolitani ripetevano in canzone: -Lo spavento alla polizia, i sacchi alle finanze[98].

Silvio S(s)paventa  la camorra?

343. “Col Carignano incapace ed imbelle, e il Nigra semplice spione, re vero fu lo Spaventa …

Successore e nemico di Don Liborio, temendone i seguaci, fe’ l’opposto di lui e perseguitò i camorristi: trovàtine vestiti da garibaldini, tenenti e capitani, li rimandò in galera e nelle isole, eccetto chi si desse a lui

Usò peraltro precauzione, attese un pretesto, un'infrazione qualunque alla disciplina stabilita. L'aspettazione non fu lunga. Trovata l'occasione, fece in una sola volta arrestare un centinaio di camorristi, i più terribili, e gl'inviò alle isole”[99].

Contemporaneamente, abolì quella Polizia cittadina che Don Liborio aveva farcito di camorristi, e le sostituì una nuova Guardia di Pubblica Sicurezza già organata da qualche tempo. Proibì, inoltre, ai componenti la Guardia Nazionale, anch’essa inquinata, di portare la divisa fuori dell’orario di servizio: cosa che veniva spesso fatta, onde poter birboneggiare con legale autorità.

Silvio Spaventa

344. La Bella Società, che fino a quel momento era stata alleata fedele e ben retribuita del partito liberale, considerò gli atti di Spaventa come un vero e proprio tradimento.

Montate su l'ire, quel mattino stesso, venerdì 26 aprile 1861, tutti insieme, ufficiali e militi co' soliti tumultuanti, corrono a' ministeri gridando: -Morte allo Spaventa!

Gl'impiegati da' balconi chiamano soccorso, serrano le porte; ma sforzate, lo Spaventa s'acquatta in uno stipo; e in quella confusione viene fatto, a certi Piemontesi e carabinieri, di trafugarlo, senza cappello, per segrete scale, al real palazzo.

I sediziosi, non trovato lui, si gìttano sul mobilio, che fu rubato o guasto; si ripigliano i carcerati della vigilia; e ingrossati fanno calca avanti la reggia. Morte a Spaventa, a Cavour, a Cialdini, Viva Garibaldi solo! e anche Mora Vittorio Emmanuele! si gridò.

Poscia, per Toledo imperversando, incontrano in carrozza Don Antonio Spinelli[100], il già presidente e collega di Don Liborio, e présolo per lo Spaventa bastonano lui e il cocchiere; e l'ammazzavano, quando, avendolo riconosciuto, gli chiedono scusa.

Poi, corsi a casa dello Spaventa (ch'era dello zio, consigliere Croce, borboniano) l'assalgono, la rovistano, vi fanno bottino, e rompono vetri e porte. Indarno il generale Tupputi e altri metteano pace; la folla, per plebe cresciuta a ventimila, ripresi i gessi del Garibaldi e di Masaniello, strilla per via: Viva chi?  Rispondono: - Garibaldi! E mora chi? Rispondono: - Cavour, Cialdini, e talora anche Vittorio!  …  Fini sull' imbrunire per istanchezza”[101].

Caduta dello Spaventa: troppe virgole

345. L’integerrimo patriota Silvio Spaventa, però, … “avendo mandato i camorristi all'isole, pure n'avea di grossi a fianco a guardargli le spalle, ai quali ogni eccesso, purché contro i borboniani, concedeva. Chi voleva una vendetta, disegnava reazionario il nemico, e se ne disfaceva”[102].

346. Anche il liberale Marc Monnier non può tacerlo: “Per ultimo, i camorristi si dettero ad un mestiere anco più immorale. Ho lungamente dubitato di quanto sto per dire, ma fatti numerosi, eloquenti, me lo hanno provato in tal modo, che non potrei più oltre negarlo: la setta poneva una taglia sui borbonici, minacciando di denunziarli alla polizia.

Quando un individuo era sospetto di tenerezza verso l'antico regime, esso riceveva la visita di un incognito, che gli diceva confidenzialmente: - Voi correte grandi pericoli; il governo vigila su di voi: si afferma che sostenete i preti e assoldate i briganti: voi andrete in galera.

Lo sventurato, pallido dalla paura, supplicava il suo misterioso visitatore di trarlo di impaccio. “Non havvi che un mezzo per salvarvi” diceva l'agente della setta “prendete un camorrista al vostro soldo, o comprate il silenzio di quegli che vorrebbe denunziarvi”.

Allora il borbonico, che in realtà non avea corso alcun pericolo, pagava una forte somma, credendosi liberato dal bagno per la venalità del poliziotto, cui egli credeva aver dato il suo danaro”[103].

347. “Di questi ribaldoni, Io Spaventa avea fatto un comitato, detto Virgolatorio perché (essendo Spaventa un letterato) chiamavano virgola la mazza; il cui capo, un Demàta cappellaio, minacciava, bastonava, e per pacifìche case andava danari estorquendo, e taglie e ricatti.

Un dì, chiese 1500 ducati a un barone; questi per salvarsi ne pagò subito 700 e promise il resto la dimane; ma ricorso all’autorità, ne seguì, senza saputa dello Spaventa, l'arresto del Demàta da parte del commissario Ferdinando Mele.

Costui, stato camorrista anch'esso, e anzi complice del Demàta nell'uccisione che narrai dell'ispettore Perrelli, a' 28 giugno dell'anno prima[104], ora scordata la setta antica, lo agguantò.

348. Il Demàta aveva però un fratello, Salvatore, condannato per assassinio, allora evaso di galera, eppure fatto dallo Spaventa impiegato nelle poste, che anche facea parte del virgolatorio comitato; questi, stizzito del vedere il già collega carceratore del fratello, si vendicò con una pugnalata a' 17 luglio sull'ore quattro vespertine; ed il Mele, posto boccheggiante in una carrozzella, come già la sua vittima il Perrelli, Dio volle spirasse similmente pria d'arrivare all'ospedale de' Pellegrini.

All’illustre salma si fe' il mortorio il 20 luglio 1861, che movendo dall'ospedale onorò Pignasecca, Toledo, S. Giacomo, Fontana Medina, Monteoliveto, e tornò dond'era partito, con l'augusta presenza del Questore, de' poliziotti, de' Nazionali, di molti impiegati, e di lurida plebe. Lo Spaventa ebbe a segnare di sua mano, il 20 stesso, il decreto che alla vedova e a' tre orfani dava 180 ducati di pensione all'anno.

349. Ma l'onta che gli cadeva addosso, per l’esistenza di quel suo virgolatorio comitato, lo costrinse a lasciare l'uffizio; e n'ebbe altro maggiore a Torino. Prese quella sedia Filippo De Blasio.

Intanto la polizia, per avere nelle mani l’assassino (Salvatore Demàta), tenuto ascoso dalla Camorra, si chiamò i capi ch'aveano pure gradi nella Guardia Nazionale, e minacciò li terrebbe per correi, se nol consegnassero. Così, svelato da' suoi, fu colto a' 30 del mese in una casa al Sedile di Porto; si difese, ma sanguinoso fu tratto al carcere. Subito confessò. Già a' 22 ottobre fu condannato a' lavori forzati”[105].

Caduto lo Spaventa, anche il questore Tafani fu sostituito: e nuovo questore fu Carlo Aveta.

Il questore Carlo Aveta: l’energico provvedimento

350. Fu Carlo Aveta, ben più di Silvio Spaventa, a condurre una vera lotta a fondo contro la Bella Società.

E così, in data 23 settembre 1862, il Prefetto di Napoli relazionava al Ministro dell’Interno:

“L’Eccellenza Vostra conosce appieno … come i camorristi, stringendosi astutamente a quei partiti politici che più sogliono concitarsi a baldanzose pretenzioni, erano riusciti a imperversare ne’ trascorsi giorni … con maggiori eccessi che mai.

Le entrate del governo erano sul pendio di una totale ruina, pe’ continui contrabbandi che le incalzavano da ogni dove; e le proprietà dei cittadini fatte segno ad incessanti grassazioni, che minacciavano di scuotere gravemente i più saldi ordinamenti della sicurezza sociale.

Sicché si è dato un energico provvedimento che, senza transazioni, senza rilento di forme giudiziarie, inadeguate a raggiungere i nuovi imperversamenti di questo straordinario male sociale, soggiogasse d’un colpo all’impèrio delle leggi la ostinata pervicacia de’ camorristi …

Trecento dei più sfidati camorristi sono stati in pochi giorni ridotti in carcere … e questo arresto, oltre al plauso generale onde è stato circondato, porta dietro a sé, quali documenti irrefragabili, i dazi triplicati, le entrate della lotteria portate a tal cifra di cui finora non si è avuto esempio, le aggressioni contro la proprietà pressoché scomparse, il sentimento della personale sicurtà pienamente rialzato dalla prostrazione…”[106]

Ma quale era questo energico provvedimento, di cui il Prefetto tace prudentemente la natura?

Nicola Jossa

351. Semplicemente, il questore Aveta aveva nominato commissario di pubblica sicurezza tale Nicola Jossa, che già in precedenza si era segnalato per meriti patriottici[107] ed aveva fatto parte della Guardia Nazionale.[108]

Lo Jossa, pur vivendo di sopraffazioni, non era tuttavia affiliato alla Bella Società Riformata: era, per così dire, un “guappo sciolto” che, proprio per questo, aveva con la Società antichi e continui motivi di rancore. 

352. Rivestito ora di nuova autorità, non esitò a sfidare personalmente lo stesso Capintesta Tore ‘e Criscienzo: si recò da solo al Ponte della Maddalena, laddove De Crescenzo regnava indisturbato sulla dogana[109], e lo sfidò ad una regolare zumpàta: se avesse vinto Jossa, il Ponte della Maddalena sarebbe tornato allo Stato; se avesse vinto De Crescenzo, sarebbe rimasto alla camorra.

Vinse Jossa “al primo sangue” (= una ferita al braccio di De Crescenzo) e costui cavallerescamente disse: - Il Ponte della Maddalena appartiene alla legge; accompagnami al carcere. Da dove, sapeva, peraltro, che avrebbe potuto continuare a regnare indisturbato sulla Bella Società, anche facendo a meno del dazio doganale.

353. Ma, sconfitto il Capintesta, Nicola Jossa si diede poi a scovare, ad uno ad uno, i capintrìti e tutti gli altri più importanti esponenti della Bella Società, che conosceva molto bene.

“Li fissava con occhi sprezzanti, li colpiva a scudisciate sulle mani e urlava: - Avanti, vai verso il carcere di Castelcapuano! Io ti seguo a due passi di distanza …”

Tolti così i capi, furono presto raggiunti i 300 camorristi di cui alla relazione del Prefetto.

Una saggia proposta (inascoltata)

354. La quale relazione si concludeva con una proposta, evidentemente suggerita dal Questore Aveta:

“Perché questi salutari benefizi non tornassero effimeri; perché dalle prigioni medesime in cui sono rinchiusi nel seno della città non si attentassero, questi indomati camorristi, a qualche conato di subbuglio e non fossero colà di subdolo incitamento ai loro aderenti…

… sémbrami urgente partito che l’Eccellenza Vostra si faccia a divisare, o nell’isola di Sardegna o altrove, un luogo separato dove potessero sollecitamente confinarsi quelli tra essi che sono in fama del pubblico per più accaniti macchinatori di camorra e che, avuto riguardo alle varie volte in cui hanno richiamato l’attenzione dell’autorità pubblica, è da ritenere che non potrebbero ritornare in libertà senza darsi in balìa delle loro inveterate ed incorreggibili tendenze.

355. Tramutati invece sotto altro cielo 140 o 150 di questi detenuti, la coscienza pubblica sarebbe rassicurata dal pericolo che potrebbe portar seco la loro evasione o il loro confino in terra vicina; un efficace esempio si offrirebbe agli occhi degli altri; e dopo qualche tempo di permanenza in lontane contrade, non sarebbe vano lo sperare che i loro animi medesimi si ritemprassero a sentimenti di obbedienza alla legge e di soggezione alle autorità costituite; infine, non ultimo vantaggio sarebbe quello di diradare le prigioni della città …

Sicuro che tal proposta meriterà il suffragio della Eccellenza Vostra, io mi aspetto al più presto le sue istruzioni”[110].

Mai eccedere nello zelo

356. Il Prefetto, ed il Questore Aveta, attesero invano le istruzioni dell’Eccellenza Ministro: della loro proposta nulla si fece. Ed il perché lo conosce, a suo modo, lo stesso Marc Monnier:    

“Tutti quei bravi dei mercati di Napoli, adesso non si contentavano più di rubare pochi soldi ai sempliciotti: erano addivenuti uomini politici.

Nelle elezioni proibivano tale o tal'altra candidatura, confortando co' loro bastoni la coscienza e la religione degli elettori.

Né si contentavano di inviare un deputato alla Camera, e sorvegliarne da lungi la condotta; spiavano il suo contegno, si facevano leggere i suoi discorsi, non sapendo leggerli da sé medesimi. Quando non erano contenti di lui, lo salutavano, al suo ritorno da Torino, con un bestiale concerto di fischi e di grida, che scoppiava la sera all'improvviso, sotto le finestre della sua casa”[111].

357. In altri termini: con l’Italia unita e liberale, la camorra era ormai diventata parte integrante dello Stato, gli uomini politici locali e nazionali se ne servivano e ne erano asserviti, in un rapporto di reciproca convenienza, e pertanto non avevano alcuna volontà né possibilità di lottare veramente contro di essa; qualche azione dimostrativa ogni tanto, per tranquillizzare l’opinione pubblica, era sufficiente; e la proposta del prefetto e del questore dimostrava pertanto uno zelo eccessivo.

I camorristi dovevano bensì essere rinchiusi in carcere, ma da lì poter continuare ad “esercitare”, ed uscirne dopo non molto tempo … “In tal guisa, persisté la camorra, sempre minacciosa”.

358. Nel caso specifico, l’unico a pagare fu proprio Nicola Jossa che, dopo avere così ben servito lo Stato, fu rinchiuso in una cella di segregazione, dove morì, sembra, di tubercolosi.  

Antonio Lubrano detto Totònno ‘a porta ‘e Massa

359. Un altro che fece assai brutta fine fu il camorrista Antonio Lubrano, che abbiamo visto spavaldamente accompagnare Vittorio Emanuele II nel suo ingresso in Napoli[112].

Il Lubrano, ascritto alla Bella Società Riformata e capintrìto della zona della Porta di Massa, si era opposto nel 1849 alla nomina di Salvatore De Crescenzo a capo della camorra cittadina.

Dopo di che, pur essendo a lui sottoposto secondo il friéno, gli era sempre rimasto nemico: una sorta di “oppositore interno”, che si rifiutava a volte persino di fare i dovuti versamenti nella cassa comune della Società.

Anche negli avvenimenti del 1860, siccome De Crescenzo aveva platealmente sostenuto Garibaldi, lui volle invece apparire vicino a Vittorio Emanuele.

360. Ma non poteva durare. Arrestato il 3 ottobre 1862, nel carcere di Castelcapuano “tre detenuti gli si gettarono addosso e lo scannarono”: il tribunale della Gran Mamma, riunito nelle Caverne delle Fontanelle sotto la presidenza di Salvatore De Crescenzo, lo aveva condannato a morte e la sentenza era stata recapitata al capintrìto temporaneo[113] di Castelcapuano, Antonio Mormino, nascosta in una cesta d’uva che la moglie di un camorrista detenuto aveva portato al marito in carcere. 

Il capintesta (1869-1892) Francesco (detto Ciccio) Cappuccio

361. Al ritorno dal consueto “pellegrinaggio” alla Madonna di Montevergine, mentre stava mangiando in una trattoria poco distante dal Santuario … “Reso euforico dal vino, dichiarò ai suoi gregari che sarebbe stato capace di mangiare un’intera zuppiera di baccalà. Vinse la scommessa e centinaia di camorristi lo applaudirono. Lui si alzò per ringraziare, balbettò qualche parola, poi si abbatté con la testa sulla tavola imbandita, in preda a un attacco cardiaco. Era il 5 dicembre 1892”[114].

Non ostante una morte così poco eroica, l’incauto poeta Ferdinando Russo (1866-1927) se ne uscì, quattro giorni dopo, con l’epico quanto inopportuno lamento che segue, pubblicato su “Il Mattino” del 9 dicembre 1892, nel quale “l’eroe del baccalà” diventa addirittura “il palatino Orlando”, difensore dei diritti dei poveri, delle donne e dei bambini.

Canzone 'e Ciccio Cappuccio

Da ‘o Mercatiello a ‘o Bbùvero,

da Porto a lu Pennino

è corza ‘a voce sùbbeto:

«È mmuorto ‘o Signurino! »

 

Ciccio Cappuccio, ‘o princepo

d’ ‘e guappe ammartenate,

ha nchiuse ll’uocchie d’ àquela,

e sule nce ha lassate!

 

Scugnizze, cape–puòpole,

picciuòtte e cuntaiuòle,

chiagnite a ttante ‘e làcreme!

‘Ite perdute ‘o Sole!

 

Currite, belli fèmmene,

sciuglìteve ‘e capille,

purtàteve all’asèquie

‘e figlie piccirille!

 

Chi ve po’ cchiù difendere?

Senz’isso che ffacite?

A chi jate a ricorrere

si quacche tuorto avite?

 

Isso, sul’isso, era àbbele

a fa scuntà sti tuorte…

Mo’ chi po’ cchiù resistere?

Ciccio Cappuccio è mmuorte!

 

Russo, nquartato, giovane,

pareva justo Urlando

quann’ ‘o verive scennere

mmiezo San Ferdinando!

 

V’allicurdate ‘o sciopero?

Pare successo ajere!

Sull’isso dette ll’ordene,

e ascetteno ‘e cucchiere!

 

E quanno dint’ ‘e carcere

p’ ‘o fatto d’ ‘e turnise

isso avette che ddìcere

cu ‘e guappe calavrise!

 

–Tirate mano!  Armateve!

Tenite core mpietto?

E n’abbattette dudece,

cu ‘e tavole d’ ‘o lietto!

 

Currite! Mo’ s’ ‘o portano!

Menatele ‘e cunfiette!

Sceppateve! Stracciateve

‘e core ‘a dinto ‘e piette!

 

Uommene nun ne nasceno

comm’a Cappuccio, ancora!

Ll’aute so’ buone a schiòvere,

isso vucava fora!

 

Va! Jàteve a fa muònece,

guappe quante nne site!

Cu Ciccio è muorto ‘o ggenio

d’ ‘e palatine ardite!

 

Picciuòtte e cape-puòpolo,

scugnizze e cuntaiuòle,

chiagnite a ttante ‘e lacreme,

‘ite perduto ‘o Sole!

Francesco (detto Ciccio) Cappuccio

Ferdinando Russo (1866-1927)

362. Ma chi era l’autore di questo esaltato elogio del capo della camorra?

Il poeta Ferdinando Russo è, in effetti, un caratteristico esponente della piccola borghesia napoletana nel periodo liberale.

Figlio di un ufficiale del dazio, non portò a termine gli studi, manifestando, da giovane, tumultuosi quanto superficiali sentimenti repubblicani, presto sopìti.

Visse facendo il giornalista, l’autore di canzoni e di macchiette, fino a che, su raccomandazione di Salvatore Di Giacomo, che lo ebbe amico nonostante le divergenze in materia letteraria, fu assunto come impiegato al Museo Archeologico Nazionale.

Ferdinando Russo

363. Ebbe modo di incontrare “occasionalmente”, nel suo celebre negozio di vrennaiuòlo a Piazza S. Ferdinando, lo stesso Ciccio Cappuccio, che lo trattò con simpatia e rispetto, accattivandosi la sua amicizia.

La sua conoscenza della organizzazione e delle vere attività della Bella Società Riformata fu però alquanto superficiale, limitandosi agli aspetti esteriori più appariscenti, come si vede dal libro che scrisse insieme all’altro giornalista Ernesto Serao: “La camorra - Origini, usi, costumi e riti dell’annoràta soggietà”, Ed. Bideri, 1907.

364. Grazie al Cappuccio, “si fece omme ‘e sciammèria (una sorta di camorrista onorario) per potersi introdurre indisturbato tra la gente dei fòndachi e delle suburre, e poterla studiare al microscopio della sua sensibilità di uomo prima che di poeta, e poterla far rivivere … (quasi al modo di un antico cantastorie del Molo) … trasfigurata in una nuova èpica … di fatti di ordinaria e straordinaria miseria … umana e dolorosa” (Luca Torre).

Non a caso, sia il romanziere verista francese Emile Zola sia il poeta classicheggiante Giosuè Carducci lo vollero come guida per visitare monumenti e vicoli di Napoli.

365. Si sposò il 26 novembre 1902, a Bologna, con tale Elisa Rosa Pennazzi, in arte Rosa Saxe, un’attricetta in voga all’epoca, che gli era stata vicino durante una grave malattia. I due, però, si separarono poco dopo. In compenso, il Russo fu sempre un assiduo frequentatore delle “case di tolleranza” cittadine.

Visse tutta la vita insieme alla madre e alla sorella, che morirono a poca distanza di tempo l’una dall’altra, nello stesso anno 1923. Quattro anni dopo (1927), morì anche lui, di diabete, nella sua casa di Via Cagnazzi, 48 (Quartiere Stella). 

366. Le sue opere più significative, anche per il loro valore di ricostruzione storica, sono i poemetti ‘O Luciano d’o rre (1910) e ‘O surdàto ‘e Gaeta (1919) nonché gli importanti studi critici sul Cortese e sul Velardiniello. Viene considerato l’inventore del genere della “macchietta”. Sono sue anche alcune celebri canzoni napoletane, come Scètate e Quanno tramonta ‘o sole

L’articolo de “Il Mattino”

367. A sua volta, l’allora direttore de “Il Mattino” Edoardo Scarfoglio (1860-1917) aveva già pubblicato in grande evidenza sul suo giornale, in data 6 dicembre 1892, il seguente “sin-patico” necrologio dell’illustre defunto Ciccio Cappuccio:

“La notizia della sua morte ha messo, veramente, la costernazione in quanti son napoletani che ricordano i fasti della camorra di un tempo, i tipi più temuti e più fieri di questi eroi del marciapiede che dànno ancora, con la semplice loro presenza, entusiasmi così vergini e così impetuosi ai piccoli palatini ed agli aspiranti alla mala vita.

Ciccio Cappuccio, che da parecchi anni aveva completamente abbandonate le comitive facinorose, che viveva lontano da tutti i suoi compagni ed ammiratori d’una volta, era pur sempre rispettato e temuto, e conservava intatto il suo fatale prestigio di capo-camorrista e di persona sprezzante di ogni genere di pericolo.

Simpaticissimo, pieno di forme, rispettoso, ossequente, egli s’ingegnava d’attenuare l’espressione fiera del suo occhio grigio, con la dolcezza e la mansuetudine dell’uomo che si sente forte e fermamente convinto che nulla al mondo potrebbe opporsi alla sua volontà.

E appunto questa fierezza e questa mansuetudine erano, dirò così, la sua posa. Bastava solo una sguardo, talvolta, per sedare una lite, per far tacere un malcontento, per impartir un ordine.

368. Egli solo, quando i cocchieri scioperarono, bastò a farli addivenire a più miti consigli. Lo aveva promesso alle autorità, e si presentò il giorno appresso nelle stalle, quando ancora gli animi erano esacerbati e vibranti d’ira. Guagliù, mettìte sotto, e ascìte. E queste parole, pronunziate piano, freddamente, a voce bassa, con accento persuasivo, bastarono. Napoli riebbe nuovamente le carrozzelle; circa 600 di esse uscirono a ffatica’, quella mattina; lo sciopero finì.

Bisognava sentir parlare di lui e dei fatti che contribuirono a dargli tutta l’aureola e il prestigio di cui sempre ha goduto. Signo’, faceva cose belle! Era ‘o rre ‘e Napole! Appena compareva, tutte zitte! - mi diceva un cocchiere, parlando di lui con le lacrime agli occhi – Ha fatto cose, verìte, ca manco chelle ca stanno scritte dint’ ‘e storie! E teneva core, ma ne teneva assaie!

369. Come tutti i popolani agiati, egli si recava con la sua donna alle festività più pompose; a Piedigrotta, a Montevergine, alla festa (dei gigli) di Nola, alla Madonna dell’Arco. La folla si fermava per aspettarlo al passaggio e festeggiarlo; ed egli si lasciava ammirare, e attraversava la via, guidando i cavalli cammenatùre, distribuendo sorrisi a destra e a sinistra con la sua aria bonacciona. Tutti gli altri guidatori d’ ‘o lignàmmo gli facevano largo e gli aprivano le fila lasciandogli sempre libera e comoda la parte destra della strada.

E a Nola - mi raccontavano - e dovunque, bastava che uno del suo seguito si facesse al balcone, mentre nella piazza illuminata echeggiavano i canti e scoppiavano le bombe-carte, e accennasse, colla mano, chinandovi su la testa, che Ciccio Cappuccio voleva dormire: i canti rimanevano a mezzo, tacevano i venditori, si sospendevano i suoni e ‘o ffuoco e la festa finiva.

370. Sbaglia però chi crede che egli fosse un sanguinario o un delinquente nato: di carattere impetuoso e di ardito animo, fin da ragazzo, non si lasciò mai sopraffare da alcuno: gli avevano inculcata la religione d’ ‘o rispetto: l’ommo ha da essere ommo!

Ed egli lo dimostrò sempre, servendosi di tutti i mezzi che credeva buoni. Il napoletano è impressionabile ed entusiasta: ‘a guapparìa, l’atto di coraggio lo incantano e lo esaltano: e quando Ciccio Cappuccio fu mandato a domicilio coatto, tutti i suoi seguaci ed ammiratori lo accompagnarono, nelle barche, rendendogli onori, come ad un re.

E quando, prima di questo fatto, giovanotto ancora, egli fu condannato a sette anni di esilio per aver tagliata la faccia al Direttore del lanificio Sava, che ebbe il torto di trattarlo come un ragazzo, Signo’ – continuò l’entusiasta suo amico che mi ha dato qualche cenno sulla vita di lui – facette nu furore, ca ll’avarrìano miso ncopp’ a nu tusello!

371. Ma quello che contribuì ad aumentargli il prestigio di uomo coraggiosissimo, fu il combattimento - proprio il combattimento - nelle carceri, contro dodici camorristi calabresi. Egli solo, inerme, non volle sopportare le imposizioni di quei compagni che il caso gli aveva dato: si ribellò alle loro pretensioni, e quando, meravigliati, i calabresi gli chiesero chi fosse, ei rispose, fiero, afferrando una tavola del letto: - So’ Ciccio Cappuccio! E li atterrò tutti e dodici.

372. L’episodio che chiuse il periodo d’azione di Ciccio Cappuccio, d’ ‘o signorino, come i camorristi con gran rispetto lo chiamavano, fu quello con tal Manlio Novi, detto Amalio ‘e Nola, che lo aggredì, nella nota bottega di crusca e carrube a piazza S. Ferdinando, per affari di donna: il proiettile sfiorò i capelli al signorino.

Da allora Ciccio Cappuccio dette un addio alla vita avventurosa, e visse, tranquillo, nella leggenda, se così si può dire: temuto e rispettato sempre, egli non fece più parlare di sé; anzi era additato dalle autorità come un esempio agl’irrequieti.

Lo adoravano, e la sua morte, una morte quasi improvvisa, ha fatto ai popolani di Napoli una profonda impressione. Per oggi alle 10, gli si preparano splendide esequie”.

Gli intellettuali organici e l’immagine della camorra

373. Da entrambi gli scritti sopra riportati, si può agevolmente notare che, come ogni gruppo umano più o meno organizzato, anche la Bella Società Riformata aveva i suoi “intellettuali organici”: vi erano ovviamente i contaiuòli che dovevano saper leggere, scrivere e far di conto; ma vi erano anche i fiancheggiatori, o perché co-interessati economicamente e nei reciproci favoritismi, come il direttore de “Il Mattino” Edoardo Scarfoglio, o per semplice vanità e moda letteraria, come il poeta Ferdinando Russo.

In entrambi i casi, e al di là delle loro stesse intenzioni, gli intellettuali organici provvedevano, di fatto, a “curare l’immagine”. Che cosa fosse realmente la Bella Società Riformata lo abbiamo sopra descritto; ma l’immagine che essa voleva avere e voleva dare di sé, era proprio quella che vediamo nell’articolo de “Il Mattino” ed ancor più nella bella, ma sciocca, canzone di Russo: una specie di fratellanza di nobili “cavalieri palatini”, forti e coraggiosi, impegnati a far rispettare la giustizia ed a raddrizzare i torti subiti dalla povera gente … un’immagine tanto falsa quanto pienamente integrata nell’ideologia piccolo-borghese della napoletanità[115].

La vita di Ciccio Cappuccio 'romanzata' a teatro nel 1902

La vera biografia di Ciccio Cappuccio: le origini

374. Anche su Ciccio Cappuccio, già mentr’era ancora in vita, cominciarono subito a circolare molte leggende metropolitane, per cui risulta difficile, ma non impossibile, ricostruire la sua vera biografia.

E’ certo, anzitutto, che le origini di colui che Ferdinando Russo paragona al paladino Orlando erano tutt’altro che nobili, provenendo egli dalla dinastia dei capi-zona camorristi della Via dell’Imbrecciata fuori Porta Capuana che era, per definizione, la zona del meretricio.

La Via dell'Imbrecciata nell'Ottocento

375. Abbiamo, in altro luogo, accennato[116] alla vasta diffusione del meretricio nella Napoli del Trecento, ed ai nobili quanto inadeguati sforzi della Regina Sancia, seconda moglie del Re Roberto d’Angiò, per cercare di arginare tale doloroso fenomeno; ma, naturalmente, esso esisteva da ben prima del Trecento e continua ad esistere ben oltre quel secolo.

Nel Settecento, a combattere contro “l’universal meretricio” troviamo il beato Gennaro Maria Sarnelli (1702-1744), amico personale di S. Alfonso Maria de’ Liguori nonché “redentorista” cioè appartenente all’Ordine religioso da questi fondato.

Don Gennaro Sarnelli, il “redentorista” delle meretrici

376. Ordinato sacerdote l’8 luglio del 1732, Don Gennaro fu assegnato dal Card. Pignatelli alla Direzione della Istruzione Religiosa nella Parrocchia dei SS. Francesco e Matteo, ai Quartieri Spagnoli.

“Sopra i Quartieri”, lui che era di origini aristocratiche, figlio del Barone di Cioràni, e nato nel signorile palazzo Zapàta, a poca distanza dalla Reggia, ebbe modo di venire in contatto con la triste realtà del meretricio sempre dilagante.

377. Ecco come ne parla lo stesso S. Alfonso nella sua biografia del Sarnelli:

“Circa poi le donne pubbliche, è ben noto in Napoli quel che fece questo zelante Operario per toglierle dal peccato.

Andava, ogni giorno di festa, alla parrocchia di S. Matteo a predicare, a fine di ricondurre queste misere a penitenza. E fu egli che indusse la Congregazione dell’Arcivescovado a dare a questo fine, ogni anno, gli Esercizi spirituali in quella Parrocchia.

378. Egli, poi, per aiutare queste povere donne perdute a sostenersi, non si riserbava niente di quanto avea da casa sua, fino ad andare tutto làcero per Napoli, come si è detto.

Ne manteneva molte a sue spese, contribuendo a ciascuna di loro un certo sussidio al mese, acciocché si astenessero dal vendere l’onore e le anime loro. E non solo procurava di aiutare quelle che gli si presentavano, ma andava girando attorno, e spiando per Napoli, dove fosse alcuna di loro, per salvarla dal peccato.

Di queste, sedici ne collocò in Conservatorj, molte ne collocò in matrimonio, due specialmente le mantenne per due anni, e poi le collocò provvedendole di letto e di utensili di casa.

E poiché alla spesa grande, che in ciò vi bisognava, egli non poteva arrivare col suo livello, e tra lo spazio di pochi anni, a questa sola opera, vi spese da 500 a 600 ducati … andava perciò in cercando limosine per tutto Napoli, non solo per gli luoghi pii, ma anche per le case particolari, con tanta ripugnanza ch’egli poi diceva sentirsi morire per lo rossore, avendo dovuto, in far quest’ufficio, patire non solo incomodi immensi nel replicare le visite, ma anche rimproveri ed ingiurie: confidò egli ad un amico che alcuni, i quali prima lo stimavano e gradivano, quando poi lo vedevano, lo fuggivano o licenziavano con mali termini”.

Don Gennaro Maria Sarnelli apostolo delle meretrici

Le meretrici, tutte insieme, fuori dalla città (4 maggio 1738)

379. “Specialmente, furono indicibili le fatiche e persecuzioni che soffrì nella grande impresa ch’egli si addossò, a fine di ridurre ad abitare le meretrici fuori della città di Napoli, a luoghi separati.

Considerando il nostro Don Gennaro che, stando queste donne infami disperse ne’ quartieri della città, come in quelli dove prima stavano, sopra Toledo, alla Duchesca, ed altri che sono i più popolati, davano uno scandalo immenso, così ai vicini come a coloro che passavano per le strade, pensò che non vi era altro modo di riparare a questo gran male che ridurle ad abitare tutte insieme fuori della città.

Per giungere al compimento di quest’opera, sa Iddio e tutta Napoli le gran fatiche e spese che fece, stampando più libri a posta sotto il titolo di “Alfonso del meretricio”.

Patì, di più, per questa intrapresa, persecuzioni e rimproveri, così dai nemici come da amici, i quali, stimando impossibile a lui l’ottenere la buona riuscita di questa impresa, lo sconsigliavano o deridevano.

Ma egli, sempre forte colla confidenza in Dio, solo e senza appoggi umani, tanto si adoperò co’ Ministri principali del Re nostro Padrone (Carlo III di Borbone), che finalmente arrivò ad aver la consolazione di vedere adempito il suo desiderio.

380. Essendo uscito un Dispaccio di nove capi, spedito al Signor Duca di Giovinazzo, Reggente allora della Vicarìa, in vigor di esso si pubblicarono poi i Bandi, al 4 di maggio 1738, che tutte le meretrici uscissero dalla città ed andassero ad abitare ne’ luoghi loro stabiliti. E l’ordine reale si eseguì con tanto rigore che a quelle donnacce le quali resisterono a partirsi dalle loro case, furono buttate le robe dalle finestre.

E con ciò furono discacciate dalla città di Napoli da 30 a 40 mila meretrici (!!): delle quali, parte se ne collocarono in matrimonio, parte se ne chiusero ne’ Conservatorj, e l’altre si ritirarono ne’ luoghi assegnati, oppure se ne fuggirono altrove.

381. Ma, per questo affare, il nostro Don Gennaro passò più volte pericolo della vita, e d’essere ucciso dagli Amanti di quelle infelici.

E perciò i suoi nobili parenti non desistevano di impedirlo, per timore di qualche aggravio che venisse fatto a lui, ed in conseguenza a tutta la loro famiglia; ma egli si protestava che era pronto a patire ogni affronto, e che si sarebbe ritenuto fortunato se, per questa opera di tanta gloria di Dio, avesse perduta anche la vita …

Oltre il mentovato libro contro l’abuso del meretricio per la città di Napoli, ne stampò un altro per tutte le Città e Terre del Regno, “Ragioni cattoliche, legali e politiche, in difesa delle città rovinate dall'insolentito meretricio”, dove dimostrò che, in queste Terre e picciole Città, era del tutto interdetto il permettere le meretrici: e questo libro lo mandò a tutti i Vescovi del Regno…”

Dopo il Sarnelli

382. Il Sarnelli, come si vede, intendeva promuovere una vera e propria mobilitazione generale di tutta la società, per chiudere definitivamente la “piaga sanguinante” della prostituzione, fornendo alle meretrici tutti gli aiuti, morali e materiali, necessari per abbandonare “il mestiere”.

Purtroppo, i suoi nobili sforzi non ebbero, alla lunga, miglior fortuna di quelli della Regina Sancia quattro secoli prima. Venuto egli a morte nel 1744, all’età di soli 42 anni, le pubbliche autorità insistettero solo sul lato “coercitivo” del suo programma.

383. Un Editto del 1781 concentrò tutte le case di tolleranza alla Via dell’Imbrecciata fuori Porta Capuana; ed in seguito, nel 1855, venne addirittura costruito un muro con un cancello ben sorvegliato da custodi, che impedivano alle meretrici di uscire dall’Imbrecciata durante il giorno e chiudevano il cancello alle 11.30 di sera: si creò dunque un vero e proprio “ghetto delle prostitute”.

La camorra sul meretrici

384. “E lì, nella strada più lurida e più malfamata di Napoli, in cui la rapina, l’accoltellamento e l’omicidio erano all’ordine del giorno, il capo-paranza della camorra rappresentava l’unica vera autorità, rispettata da tutti e da tutti ossequiata.

Proprietari di immobili, tenutarie di postriboli, ricottàri, ma anche bettolieri e venditori ambulanti, gli versavano, ogni giorno, le dovute tangenti.

In cambio, lui provvedeva al mantenimento dell’ordine e al componimento delle liti, nonché all’intimidazione di quei privati cittadini che, essendosi addentrati in una casa di tolleranza”[117] … mostrassero pretese ritenute eccessive o volessero addirittura sottrarsi al pagamento.

La dinastia Cappuccio

385. Il ruolo di capo-paranza dell’Imbrecciata venne svolto, fin dall’inizio, da un Leopoldo Cappuccio, fondatore di una vera e propria dinastia, che regnò da allora indisturbata, e le cui vicende sono state in seguito ricostruite, per quanto possibile, dal medico e criminologo, di Guardia Sanframondi, Abele De Blasio (1858-1945)

1)    Leopoldo Cappuccio (1756-1784) fu ucciso a coltellate dal nipote Antonio, che volle prendere il suo posto dopo che l’Editto del 1781 aveva enormemente aumentato i guadagni;

2)    Antonio Cappuccio (1784 – 1803), dopo circa 20 anni di regno, morì senza figli, per cui gli succedette il primogenito del fratello;

3)    Francesco Cappuccio (1803-1805), detto “Ciccillo Tagliarella” perché aveva il volto molteplicemente sfregiato, finì all’ergastolo per omicidio dopo solo due anni di regno e lasciò il posto a suo fratello;

4)    Ferdinando Cappuccio (1805-1817);

5)    Antonio Cappuccio (1817 - ?), figlio di Ferdinando, essendosi gravemente ammalato, abdicò anch’egli a favore di suo fratello;

6)    Gabriele Cappuccio (?  - 1826), fratello del precedente, detto ‘a signurina per i suoi modi gentili e ben educati, fu molto probabilmente colui che partecipò, come capo-zona dell’Imbrecciata, alla fondazione ufficiale della Bella Società Riformata, avvenuta nel dicembre 1820 proprio nella chiesa di S. Caterina a Formiello, che si trova poco distante dalla zona di sua pertinenza.   

7)    Giovanni Cappuccio (1826 – 1838), figlio di ‘a signurina, gli succedette per circa un altro decennio;

8)    Salvatore Cappuccio (1838 – 1853), figlio del precedente;

9)    Francesco “Ciccio” Cappuccio (1853 – 1869), figlio di Salvatore, lasciò il posto a suo fratello nel 1869, perché in quell’anno venne eletto Capintesta di tutta la camorra cittadina; 

10) Antonio Cappuccio (1869 – 1880), fratello di Ciccio, abdicò pubblicamente nel 1880, perché il posto ormai non era più remunerativo: a partire dal 1876, infatti, in omaggio ai nuovi princìpi liberali, venne definitivamente abolito l’Editto di circa un secolo prima (1781) per cui la prostituzione poté “liberamente” esercitarsi, come un tempo, non più solo all’Imbrecciata ma in qualsiasi parte della città.

386. Come si vede, dunque, il nostro Ciccio Cappuccio, IX della dinastia, era “figlio d’arte” ed entrò a far parte della Bella Società a titolo, per così dire, “ereditario” e non per particolari gesta di coraggio o di forza, come in seguito si favoleggiò.

E’ quasi certo, anzi, che fu lo stesso suo predecessore come capo della Società, Salvatore De Crescenzo detto Tore ‘e Criscienzo, fàttosi ormai anziano, a spingere il consiglio dei capintriti, ed i capintriti temporanei delle carceri, a riconoscerlo quale Capintesta al suo posto, nel 1869.

Salvatore De Crescenzo (Tore 'e Criscienzo) da anziano

Ciccio nel Risorgimento italiano

387. Del resto, già in precedenza, quando era ancora soltanto il capo-zona dell’Imbrecciata, il Nostro aveva svolto un ruolo decisivo negli avvenimenti che portarono alla trionfale entrata di Giuseppe Garibaldi in Napoli il 7 settembre del 1860.

Infatti, sotto comando dell’allora Capintesta Tore ‘e Criscienzo, che gli pre-pose per l’occorrenza sua cugina Marianna la Sangiovannara, fu Ciccio Cappuccio che organizzò, dall’Imbrecciata, la chiorma delle sue “protette”, prospettando loro il liberalissimo obiettivo di abbattere quel muro che dal 1855 le teneva del tutto recluse. 

388. “Ciccio Cappuccio si mise alla testa di uno strano corteo di indemoniate le quali, nel giro di poche ore, non solo abbatterono il muro, ma si spinsero fin sotto il vicino carcere di S. Francesco prendendolo d’assalto e cercando di far evadere i detenuti”[118]

Rosso-vestite e sventolando bandiera tricolore, abbatterono dunque il muro del “ghetto” ed uscirono per le strade inneggiando a Garibaldi.

Lo abbatterono, il muro, una prima volta durante i tumulti del 27-28 giugno 1860 ma fu subito ricostruito; lo abbatterono una seconda volta nella notte fra il 27 e il 28 agosto 1860, quando anche Ciccio, come altri camorristi, era ormai entrato a far parte della Guardia Nazionale, che aveva in pratica il controllo della città; e con l’arrivo di Garibaldi il 7 settembre, del muro non si parlò più, ma …

389. Ma, fatto il 21 ottobre il plebiscito per l’annessione, il 7 novembre arrivò in Napoli il nuovo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, che rispedì l’ormai inutile Garibaldi nella sua isoletta di Caprera, ed anche la “forza d’urto” delle meretrici durante le manifestazioni “liberali” ormai non serviva più.

“Il 18 novembre 1860, il nuovo Eletto di sezione, Francesco Quarto duca di Belgioioso, convocò il capo-paranza Ciccio Cappuccio e, a nome del Governo, minacciò di punirlo con il domicilio coatto se fosse stato ancora impedito ai muratori di eseguire il restauro del muro”[119].

390. E così, quella stessa mattina del 18 novembre, il Nostro “ardito paladino Orlando”, per non perdere il suo comodissimo feudo e le relative entrate di rendita, “salì su una botte, piazzata proprio al centro dell’Imbrecciata, e disse: - Padrone di casa, metrésse e puttane! Vi raccomando, se vengono i fabbricatori a fare un’altra volta il muro, di non fare rimostranze o chiasso di qualunque specie, perché se la polizia manda in galera qualcuno per colpa vostra, chi ha colpa dovrà vedersela con me”[120]

E così pure, successivamente (30 luglio 1861), il Cappuccio fu uno dei capintrìti che consegnarono alla Polizia il camorrista Salvatore Demàta[121].

Ciccio il capintesta

391. Divenuto dunque capintesta nel 1869, lasciò l’Imbrecciata e le meretrici a suo fratello Antonio e andò ad abitare in un appartamento di Via Nardones; poco distante, in piazza S. Ferdinando, proprio accanto alla chiesa, aprì un negozio da vrennaiuòlo (= venditore di crusca e carrube per cavalli).

Questo mestiere di copertura, in verità ereditato anch’esso dal suo predecessore Tore ‘e Criscienzo, era conforme a quella che divenne da allora la sua attività principale e nella quale raggiunse il monopolio in tutta la città: riscuotere lo sbruffo da cocchieri e stallieri, dalla compra-vendita di cavalli, e naturalmente dagli altri vrennaiuòli.

All’occorrenza, poteva anche prestare denaro ai suoi “protetti”, ad un tasso di interesse che, per quanto esoso, era tuttavia più basso di quello che praticavano ordinariamente gli usurai; ciò spiega, in parte, la popolarità e la fama di uomo “di cuore” di cui godeva presso i cocchieri.

Ciccio e la donna d’altri

392. Come amante e domestica, nella sua nuova casa di Via Nardones, si prese la moglie di un altro: si presentò un giorno in Vico Sergente Maggiore, davanti al “basso” in cui viveva un ladruncolo chiamato Tore ‘o schiavuttiello e, spalleggiato da altri quattro camorristi armati di coltello, gli intimò davanti a tutti: - Voglio tua moglie! Messo così eroicamente in fuga il povero schiavuttiello, andò subito a coricarsi con la di lui moglie, dopo di che se la portò in Via Nardones, non solo con tutti i suoi effetti personali, ma anche con tutto ciò che, di utile, poté trovare nel basso.

Ciccio e le pubbliche istituzioni   

393. Se, con Tore ‘e Criscienzo, la Bella Società aveva partecipato alla conquista del potere da parte della classe borghese napoletana, con Ciccio Cappuccio cominciò a partecipare organicamente e stabilmente all’esercizio di tale potere, divenendo essa stessa un’istituzione quasi ufficiale dello Stato italiano, non solo a Napoli.

Il nostro Ciccio fu protetto e vezzeggiato da “imprenditori”, giornalisti e politici, locali e nazionali, in quanto procacciatore di voti, di protezione negli affari privati, e di agevolazioni negli affari legati agli appalti pubblici.

Mantenne rapporti permanenti con il Prefetto ed il Questore, che chiudevano entrambi gli occhi sulle attività estorsive della Bella Società: in cambio, questa non infastidiva “le persone perbene” dei quartieri alti e teneva sotto controllo la plebe, contribuendo così alla gestione dell’ordine pubblico in città.

394. E fu, quasi certamente, su diretto consiglio della Polizia che il Capintesta introdusse anche alcune significative variazioni alle regole della Bella Società.

Anzitutto: “Avvenendo divisioni di partiti fra camorristi e camorristi, qualunque affiliato può mostrarsi neutrale, senza lèdere alcun diritto”[122]. In altri termini: quando due camorristi si fossero trovati in disaccordo, avrebbero dovuto sbrigarsela fra di loro, senza coinvolgere altri.

Questa nuova regola chiaramente “mirava a ridurre il numero dei dichiaramenti che ormai si svolgevano in continuazione nelle strade di Napoli e a cui partecipavano decine e decine di camorristi, non solo uccidendosi a vicenda ma anche mettendo a repentaglio la vita dei passanti”[123]

Inoltre, i camorristi più importanti, ancorché notoriamente oziosi parassiti, dovevano avere, come lui, un normale e rispettabile mestiere di copertura.

395. Queste novità, ed altre minori, generarono comprensibilmente molte discussioni nell’àmbito del Consiglio dei capintrìti: lui però non cedette ed anzi, nei primi mesi del 1874, operò una sorta di colpo di stato, sostituendo molti capintrìti, regolarmente eletti, con altri nominati da lui. Fino a che …

L’attentato a Ciccio Cappuccio

396. Il 23 aprile 1874, un giovane uomo entrò nella bottega di Ciccio Cappuccio e gli sparò alcuni colpi di pistola, uno dei quali lo sfiorò tra i capelli; l’attentatore venne poi arrestato dalla Polizia.

Abbiamo riferito[124] come “Il Mattino”, nel 1892, raccontò la storia dell’attentato. Ma altri autori, sia antichi (Serao, Consiglio, etc.) sia moderni (Di Fiore, Paliotti, etc.), l’hanno raccontata in modi diversi.

397. Tutto ben ponderato, sembra a chi scrive che la vicenda possa ricostruirsi come segue.

Le innovazioni apportate dal Nostro alle regole della Bella Società, ed ancor più le “epurazioni” da lui effettuate, provocarono certo molti risentimenti nei suoi confronti all’interno dell’organizzazione, ed il dissenso tendeva ad allargarsi a tutta la “politica”, da lui seguita, di sostanziale collaborazione con le istituzioni dello Stato. Ma chi avrebbe mai osato fare qualcosa contro Ciccio Cappuccio?

398. I dissidenti trovarono la persona giusta, che non si chiamava “Manlio Novi, detto Amalio ‘e Nola”, come scrisse poi “Il Mattino”, bensì Manlio Nolli, il cui nome era gergalmente storpiato in ‘O malo ‘e Nola.

Non era uno qualsiasi: la famiglia Nolli era una famiglia aristocratica. In particolare, Rodrigo Nolli (1826-1875), barone di Tollo (Provincia di Chieti, in Abruzzo), allora vivente, era un ex funzionario borbonico poi transitato, come tanti altri, nel nuovo regime liberale, anche perché amico e co-regionale di Silvio Spaventa. Era stato deputato al parlamento italiano con la Destra liberale, dal 1861 al 1863, e poi anche Sindaco di Napoli (dal settembre 1865 al novembre 1866). Nel 1870, risulta essere fra i governatori del Pio Monte della Misericordia.   

399. Il “giovin signore” Nolli, dunque, nelle sue giovanili bisbocce, fra gioco, scommesse, alcool, cavalli, donnine allegre e gozzoviglie varie, era venuto in contatto con camorristi, soprattutto del quartiere Montecalvario.

A quanto pare, inoltre, si era addirittura urtato con Ciccio Cappuccio “per affari di donna”: si sa che il Nostro non andava tanto per il sottile sull’argomento[125], ma il ricco e ben imparentato Nolli, da parte sua, non era certo così remissivo come il povero Tore ‘o schiavuttiello.

Lui, il Nolli, aspettava dunque l’occasione giusta per vendicarsi, e loro, i dissidenti, fecero in modo (cosa altrimenti impensabile) che potesse trovarsi, da solo e con una pistola in tasca, a tu per tu con Ciccio … “nella nota bottega di crusca e carrube a piazza S. Ferdinando”.

Dopo l’attentato

400. Manlio Nolli, dopo aver niente di meno che attentato alla vita del Capintesta della Bella Società Riformata, non subì alcuna ritorsione: “a norma di regola”, per un fatto del genere, si veniva prontamente ammazzati.

Evidentemente, i nobili parenti, dopo l’arresto, provvidero a mettere il giovanotto al sicuro, sia dai rigori della legge sia da quelli della camorra. D’altronde, lo stesso Ciccio comprese probabilmente di non aver alcun interesse a mettersi contro persone così autorevoli.

401. In ogni caso, certamente non è vero che, dopo l’attentato, il Cappuccio “dette un addio alla vita avventurosa, e visse tranquillo … abbandonando le compagnie facinorose” come scrisse poi “Il Mattino”; al contrario, l’episodio avvenne, come detto, nel 1874 cioè dopo solo 5 anni dalla sua elezione a Capintesta nel 1869: era dunque appena all’inizio della sua attività in quel ruolo; e l’attentato contribuì anzi, indirettamente, a consolidare la sua posizione al vertice della Società.

Infatti, pochi giorni dopo, il Nostro organizzò un pellegrinaggio straordinario di ringraziamento, di tutta la Bella Società, alla Madonna di Montevergine; e davanti al Santuario, nonostante la leggera balbuzie, fece anche lui il suo plebiscito: - Chiedo a tutti i qui presenti, indipendentemente dal loro grado: mi volete come vostro capintesta, o no? E proprio come all’altro più celebre plebiscito, tutti risposero, ad una voce, di .

402. Da quel momento, furono abolite le votazioni interne alla Bella Società e lui ne divenne il sovrano assoluto, con la sola collaborazione di due suoi luogotenenti, che si chiamavano Ettore Longo e Gaetano Buongiorno.

Prudentemente, comunque, da allora indossò sempre, “sotto gli indumenti, una speciale maglia di acciaio, fabbricata appositamente per lui da un armaiolo di Via Santa Brigida”[126]

Ciccio: “cane da guardia” della classe dominante

403. “Ignoti ladri penetrarono, al Ponte di Chiaia, nell’appartamento di Giovanni Nicotera, allora Ministro dell’interno, ed asportarono un artistico orologio d’oro. Risultate vane le indagini della Pubblica Sicurezza, la moglie del Ministro, marchesa Nicotera-Ricci, non esitò a rivolgersi a Ciccio Cappuccio: l’oggetto le fu restituito la sera stessa”[127]

“L’esempio della gentildonna venne seguito dal Procuratore del Re Michele Pironti, il quale, alleggerito di una tabacchiera d’oro nell’aula delle udienze, preferì chiedere direttamente l’aiuto di Ciccio Cappuccio, con esito naturalmente positivo”[128].

Questi episodi, fin d’allora assai celebri, sono come delle “illustrazioni per aneddoti” della “linea di governo” della Bella Società seguita costantemente, ed ancor più dopo l’attentato, da Ciccio Cappuccio[129]

Ma ancor più significativo, al riguardo, è l’episodio riguardante il camorrista Luigi Soreca detto Pasquino.

Ciccio, Pasquino e … una “Molto Importante Personalità”

404. “Giovane, alto, snello, biondo, Luigi Sòreca, detto Pasquino, aveva conquistato, col suo sguardo trasognato, il cuore di moltissime donne, e perfino di alcune dame dei salotti borghesi perbene. Inflessibile nell’esigere le tangenti per conto della Bella Società Riformata, Pasquino si comportava invece da perfetto gentiluomo con signore e signorine. Talvolta, di domenica, sulla passeggiata di Via Caracciolo, interveniva per difendere le ragazze della borghesia da corteggiatori troppo molesti, e finiva per diventare a sua volta oggetto delle loro attenzioni … Nel 1884, aveva fatto innamorare perdutamente di sé Matilde Farranche, una bellissima chanteuse che, nel passato, aveva tenuto ai suoi piedi principi e milionari”[130].

405. Purtroppo per lui, però, si spinse troppo in alto nelle sue avventure galanti, cominciando ad intrattenere una relazione con una certa Elvira, detta la Francese, bellissima vedova di un ricco avvocato. 

Dopo la prematura morte del coniuge, “la donna viveva, tutta sola, in un elegante appartamento alla Riviera di Chiaia ed era ufficialmente la mantenuta di un commerciante granaio di Gragnano, un certo Tartarone”[131].

Ma diceva la vox populi che forse Tartarone era soltanto l’uomo di copertura di qualche altro personaggio, vero amante della donna, che era un’importante personalità della politica e che viveva fra Napoli e Roma.

406. Sta di fatto che, la mattina del 29 settembre 1885, mentre Luigi Soreca si trovava in una sala da biliardo in Via Foria, venne affrontato da un altro camorrista, tale Alfonso Viscardi, che ostentatamente lo derise e lo sfidò ad una zumpàta.

Recàtisi insieme in carrozzella al Corso Vittorio Emanuele, nei pressi del ristorante “Pastafina”, il Viscardi colpì a tradimento Pasquino con una sbarra di ferro in testa, ed immediatamente sopraggiunsero altre due persone, poi identificate come certi Ferrucci e Affaitati, che lo finirono a colpi di rivoltella: venne rinvenuto poco dopo, da una pattuglia della Polizia, su un marciapiede del Corso Vittorio Emanuele.  

Le indagini della Polizia accertarono quasi subito i nomi degli esecutori materiali del delitto, da noi sopra riferiti, ma non pervennero mai ad identificare gli eventuali mandanti.  

407. L’ipotesi più plausibile è che “quell’importante personalità della politica, vero amante della donna”, offeso ed infastidito dalla relazione che Pasquino aveva cominciato ad intrattenere con lei, si sia rivolto a Ciccio Cappuccio, capo assoluto della Bella Società, per avere soddisfazione; e che il Nostro abbia prontamente ordinato l’uccisione di Pasquino, incaricando all’uopo, come era consuetudine, proprio un importante camorrista notoriamente amico di Pasquino, e cioè Giovanni Rapi, detto ‘o maestro perché come mestiere di copertura insegnava nella scuola elementare “San Francesco” di Porta Capuana; e che questi, a sua volta, abbia affidato l’esecuzione materiale del delitto ai tre picciotti onorati Viscardi, Ferrucci ed Affaitati.  

Comunque, subito dopo l’omicidio, il maestro Giovanni Rapi fuggì in Francia e della bella vedova Elvira si persero completamente le tracce: nessuno dei due figurò nel rapporto consegnato il 23 aprile del 1886 dal Questore Pennino alla Magistratura.

Il maestro Rapi ritornò poi a Napoli nel 1902, espulso dalla Francia con l’imputazione di aver organizzato una casa da gioco clandestina.  

Ciccio e lo sciopero

408. Il Nostro, invece, continuò fino alla fine nel suo servizio di “cane da guardia” per conto delle Istituzioni e della classe liberale borghese, “mantenendo al suo posto” la marmaglia perché non infastidisse troppo i signori.

L’episodio più importante, a conferma di ciò, è il ruolo da lui svolto in occasione dello sciopero dei cocchieri [132]: proprio mentre la plebe napoletana, soprattutto grazie al diffondersi delle nuove idee repubblicane, anarchiche, socialiste, etc. cominciava appena ad assumere una coscienza di classe e ad organizzarsi per richiedere migliori condizioni di lavoro e di vita per tutti, la Bella Società Riformata interveniva, come braccio forte dello Stato “liberale” borghese, per reprimere e stroncare sul nascere queste “pericolose” novità.  

continua


Note

[82] Vedi oltre, n°313

[83] De Sivo, op. cit.

[84] Giuseppe Bandi - "I mille da Genova a Capua", Ed. Salani, Firenze, 1903.

[85] De Sivo, op. cit.

[86] Vedi oltre, n°319

[87] De Sivo, op. cit.

[88] Ibidem

[89] Ibidem

[90] Ibidem

[91] Ibidem

[92] Ibidem

[93] Ibidem

[94] Ibidem

[95] Ibidem

[96] Ibidem

[97] Ibidem

[98] Ibidem

[99] Ibidem

[100] Vedi sopra, nn°200-201

[101] De Sivo, op.cit.

[102] Ibidem

[103] Monnier, op.cit.

[104] Vedi sopra, n°208

[105] De Sivo, op.cit.

[106] Vedi in Monnier, op.cit.

[107] Vedi sopra, n°205

[108] Vedi sopra nn°228-229

[109] Vedi sopra nn°299 e segg.

[110] Vedi in Monnier, op.cit.

[111] Monnier, op. cit.

[112] Vedi sopra, n°327

[113] Vedi sopra, n°170

[114] Vittorio Paliotti – “Storia della camorra”, Ed. Newton Compton, Napoli, 2004.

[115] Vedi nn°273-274 e 284-287 in “Il periodo liberale dal 1896 al 1900”.

[116] Vedi nn°41-51 in “Il periodo angioino”.

[117] Paliotti, op. cit.

[118] Ibidem

[119] Ibidem

[120] Ibidem

[121] Vedi sopra, n°349.

[122] Paliotti, op. cit.

[123] Ibidem

[124] Vedi sopra, n°367 e segg.

[125] Vedi sopra, n°392

[126] Paliotti, op. cit.

[127] Ibidem

[128] Ibidem

[129] Vedi sopra, n°393.

[130] Paliotti, op. cit.

[131] Ibidem

[132] Vedi sopra, nn°368 e 391.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, maggio 2018

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