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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.5e Il Periodo Liberale (1900-1914)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

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L’inizio della fine

409. Ma ormai i tempi stavano cambiando. I due maggiori capintesta della seconda metà dell’Ottocento, Tore ‘e Criscienzo e Ciccio Cappuccio, avevano portato la Bella Società Riformata all’apice del suo potere e del suo consenso sociale.

Con la morte dell’eroe del baccalà[133], quel 5 dicembre 1892, ebbe però inizio il ramo discendente della parabola, che terminò 20 anni dopo, nel 1912, con il disfacimento della Società in seguito al processo Cuòcolo.       

410. L’anno della morte di Cappuccio, il 1892, è lo stesso in cui nasce ufficialmente il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, ed in cui ha inizio il movimento di massa dei fasci siciliani (1892-94); l’anno prima (1891), era stata pubblicata l’enciclica sociale “Rerum novarum” di Leone XIII; e pochi anni dopo (1898), scoppiarono in tutta Italia, ed anche a Napoli, le sommosse popolari per il pane. 

Il popolo, perfino la plebe urbana napoletana, cominciava a prendere coscienza della sua miserevole condizione collettiva e cominciava soprattutto ad organizzarsi in forme moderne per rivendicare una condizione migliore.

411. D’altronde, anche la borghesia italiana del Nord, con la sua appendice subalterna del Sud, all’inizio del nuovo secolo, aveva intrapreso, con Giolitti, una strategia economico-politica nuova[134].

Organizzazioni come la Bella Società Riformata, ormai, non servivano più a nessuno e costituivano, con sempre maggior evidenza, solo una inutile escrescenza parassitaria …

E così la classe borghese, fàttasi Stato con il Risorgimento e l’unità d’Italia, e che fino ad allora aveva usato spregiudicatamente la Bella Società come un utile strumento, provvide infine ad eliminarla senza tanti complimenti.

La transizione: Chirico e Palladino

412. Alla morte di Ciccio Cappuccio nel 1892, seguì un breve periodo di confusione interna, che portò al vertice della Bella Società, entrambi per poco tempo, due Capintesta di scarso carisma: prima, Giuseppe Chirico detto ‘o granatiere perché era alto più di un metro e novanta (ma si sa che “l’altezza è mezza bellezza”); e poi Antonio Palladino detto Totonno ‘o pappavallo che girava portandosi appresso un grosso cane mastino.

‘A muglièra d’’o granatiere

413. Vittorio Paliotti ci racconta la massima impresa per cui viene ricordato ‘O granatiere:

“Il giorno delle sue nozze, nella chiesa della Madonna delle Grazie in Via Forìa, avvenne un fatto imprevedibile. Alla rituale domanda rivòltale dal sacerdote, la promessa sposa rispose con un nettissimo no. Lo scandalo dilagò per tutta Napoli, tanto più che nella chiesa, colma di invitati, si era acceso un grosso parapiglia. Come sempre accade in questi casi, amici comuni fecero da pacieri, ma anche durante la seconda cerimonia la sposa ripeté il suo diniego. Allora, all’uscita dalla chiesa, Giuseppe Chirico si avventò con un rasoio contro la ragazza e le praticò uno sfregio. - Adesso sì che sono disposta a sposarti! Un vero capintesta deve sapere come comportarsi! - esclamò lei tutta contenta; e col volto ancora sanguinante, ritornò all’altare e pronunciò il suo [135].

L’ultimo capintesta: Enrico Alfano detto Erricòne

414. Infine, sorse la stella di Enrico Alfano, detto Erricòne, che sconfisse Totonno ‘o pappavallo con una pubblica e spettacolare zumpàta in Via Vérgini.

Erricòne intendeva proseguire, nel nuovo secolo, la “grande politica” di De Crescenzo e di Cappuccio. Intelligentemente, però, ritenne di non apparire un sovrano assoluto ma un normale capo di governo: al di sopra di lui, pro forma, vi era Luigi Fucci detto ‘o gassusàro (= venditore di “gassose” ovvero bottigline di acqua gasata) con il titolo di “capintesta onorario”; ed anche nei singoli quartieri, vi erano 12 “capintriti onorari” che dipendevano da Fucci, affiancati però da 12 “camorristi scelti”, che dipendevano da Erricòne … e governavano di fatto.

Enrico Alfano detto Erricone

415. Enrico Alfano, figlio di un solachianiéllo (= ciabattino), aveva come mestiere di copertura quello di commerciante di cavalli ma in realtà, con il volto segnato da un inequivocabile taglio sulla guancia destra, continuava l’opera di Ciccio Cappuccio, sia nella “normale” attività estorsiva, sia come “cane da guardia” della classe dominante.

“Nel 1902, la celebre chanteuse Eugènie Fougére, che in quel periodo si esibiva al Salone Margherita, gli affidò una delicata indagine: era stata derubata di tutti i gioielli e l’intervento della Pubblica Sicurezza non aveva dato risultati. Nel giro di pochi giorni, Erricòne individuò i ladri, si fece consegnare la refurtiva e la restituì alla legittima proprietaria”[136].  

416. Ma queste erano quisquilie. Il Nostro venne addirittura ingaggiato ufficialmente come poliziotto privato dalla Società Generale di Illuminazione: in cambio di un regolare stipendio, garantiva alla Società la sua “protezione”, sia nei confronti della malavita comune, sia nei confronti delle pubbliche autorità e della concorrenza.

“Lasciando a Luigi Fucci l’incarico di mantenere i rapporti con i camorristi più umili, Alfano si impegnò a frequentare uffici pubblici, salotti della borghesia e comitati di affari”[137].       

Amici di Erricòne: Giovanni Rapi

417. Suo intimo amico, al punto che veniva considerato una specie di vice-comandante della Società, era Giovanni Rapi[138], ‘o maestro, rientrato dalla Francia nel 1902.

“Dopo il ritorno a Napoli, viveva in Via S. Brigida … Galante nei modi, eloquio in francese, baffi e capelli brizzolati, un po’ obeso, ròseo, elegante, sciolto nel parlare … Giocatore di mestiere, spendeva per le sue conquiste femminili quasi tutto ciò che vinceva: aveva infatti la passione per le donne, soprattutto quelle raffinate e magari titolate … Commerciante di penne di struzzo, agente di donne di spettacolo fra Torino e la Francia, ma soprattutto abile scommettitore. In una cassetta di sicurezza, gli trovarono ben 20 mila lire.

Giovanni Rapi, detto 'o maestro, al processo Cuocolo

418. Aprì in Via Chiaia un circolo, ben frequentato da tutta la società che contava: il Circolo del Mezzogiorno, che in seguito cambiò nome e sede e divenne il Circolo dello Sport in Vico Carminiello a Toledo.

Ma quando era a Via Chiaia, il Circolo era presieduto dal duca Leopoldo de Gregorio; aristocrazia, bei modi, lusso; ed anche l’appoggio dell’influente giornalista Peppino Turco: proprio quello di Funiculì funiculà, nel frattempo coinvolto, ma uscito indenne, dall’inchiesta Saredo del 1901”[139].

419. I soci vi si riunivano soprattutto per giocare ma, in occasione delle votazioni, diventava un decisivo circolo elettorale: svolse infatti un ruolo centrale nelle elezioni del 1904 (vedi oltre). 

“Rapi, esprimendosi in francese e vestito in redingote, vi riceveva importanti personaggi e si assicurava che facesse da tramite fra uomini di governo e la Bella Società Riformata…”[140]

Amici di Erricòne: Don Ciro Vittozzi

420. “Altro intimo di Erricòne, nonché suo padrino di cresima, era l’indegno prete Ciro Vittozzi, cappellano del cimitero di Poggioreale.

Vittozzi, il quale notoriamente conviveva con una donna sposata, esercitava un grande ascendente su tutta la camorra di Porta Capuana e, attraverso un certo Giuseppe Postiglione, proprietario di un malfamato albergo di Via Pica, riscuoteva le tangenti sugli emigranti clandestini; andava armato di pistola e presiedeva nella sua canonica un vero e proprio tribunale di conciliazione; spesso, giovandosi delle sue altolocate amicizie politiche, interveniva presso commissari e magistrati per far rilasciare camorristi arrestati”[141].

Don Ciro Vittozzi al processo Cuocolo

Amici di Erricòne: Gennaro De Marinis

421. A Rapi e Vittozzi, si affiancavano “onoratamente” personaggi come Gennaro De Marinis detto ‘o mandriére, un ex scanna-buoi del macello comunale, divenuto poi fra l’altro il ricettatore esclusivo per tutti i furti che avvenivano nel Comune di S. Giovanni a Teduccio e, contemporaneamente, assiduo frequentatore dei ritrovi più eleganti della Napoli belle èpoque.

Si diceva che fosse arrivato perfino a contendere la chanteuse preferita nientemeno che a Sua Altezza Reale Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta. “Di certo, aveva un curriculum di tutto rispetto nel mondo della malavita: l’attività di gioielliere, ricettatore, strozzino e pappone, era stata talmente proficua da consentirgli di vivere in una grande casa con tanto di servitori”[142].

Gennaro De Marinis, detto 'o mandriére, è il numero 3

Le elezioni del 1904

422. Il loro sfavillìo di maggior gloria, Erricòne ed i suoi amici lo ebbero al tempo delle elezioni parlamentari del 1904, quelle cioè immediatamente successive all’inchiesta Sarédo del 1901. 

“Il deputato socialista Ettore Ciccotti (1863-1939), originario di Potenza, nelle votazioni del giugno 1900, sostenuto dal gruppo de “La propaganda”, era riuscito a prevalere nel collegio della Vicarìa, che pure costituiva da secoli un caposaldo della Bella Società Riformata.

Nelle successive elezioni del 1904, però, Ettore Ciccotti venne sconfitto e scomparve così dal Parlamento nazionale l’unico socialista di tutto il Mezzogiorno continentale.

Ettore Ciccotti

423. Alcuni giornali sostennero che, siccome quel parlamentare era sgradito al premier Giovanni Giolitti, il neo-senatore (dal novembre 1902) Emilio Caracciolo di Sarno (1835-1914), prefetto di Napoli dal dicembre 1903 al settembre 1907, aveva favorito in tutti i modi il candidato liberale Vincenzo Ravaschieri Fieschi, notoriamente legato alla camorra e battezzato dai socialisti il conte della malavita.

Effettivamente, tutta la camorra si mobilitò in Via San Giovanni a Carbonara, presso l’edificio che il 13 novembre 1904 ospitò i seggi elettorali: Enrico Alfano, il prete Ciro Vittozzi e l’insegnante Giovanni Rapi, esponenti della Bella Società ed in seguito implicati nel processo Cuòcolo, furono visti pilotare sfacciatamente le operazioni di voto”[143].

Il troppo stroppia

424. Se non che, all’apice di tanta gloria, Alfano ed i suoi amici si montarono un po’ troppo la testa e non seppero mantenersi nei limiti loro assegnati dalla classe dominante: commisero, cioè, con maggiore ampiezza, la stesso tipo di imprudenza che era già costata la vita al bel Pasquino[144] e perfino i nobiluomini e le dame dell’aristocrazia cominciarono a lamentarsi della loro invadenza.

Il giornalista dell’epoca Ernesto Serao bene esprime il fastidio che i circoli aristocratici iniziarono a provare nei confronti del “camorrista modernissimo e sfrontato … amante di contesse e di marchese, e pretenzioso sportsman … noi dovevamo vederli finanche nel trottoir di Via Caracciolo e della Riviera, scimmiottare malamente i gentiluomini … esasperante canaglia, che vi contendeva il posto migliore, la bibita da voi preferita, il parrucchiere, il camiciaio, il sarto …”  

Emanuele Filiberto di Savoia, duca d'Aosta

425. Ma … “abitava in quegli anni a Napoli, nella Reggia di Capodimonte sottratta ai Borbone, Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta (1869-1931). I salotti di colui che diverrà il comandante della terza armata costituivano il più eletto luogo di ritrovo della nobiltà napoletana. Lì nascevano mille dicerie su questa e quella gran dama, lì fiorivano persino pettegolezzi su Casa Savoia … e fu proprio lì che si incominciò a parlare con insistenza delle bravate mondane dei capi della camorra …

Nel mutato clima generale[145]… si lanciavano appelli al duca d’Aosta. Ed Emanuele Filiberto, infine, promise: alla prima occasione, lui, forte del suo grado di parentela con il Sovrano (era cugino di Vittorio Emanuele III), si sarebbe mosso per smantellare la Bella Società Riformata”[146]. E l’occasione arrivò.

Il caso Cuòcolo (1906-1912)

426. La mattina del 6 giugno 1906, la domestica Felicetta Carusio, recàtasi per servizio, come ogni giorno, in un appartamento di Via Nardones proprio di fronte al locale Commissariato di Polizia, trovò nel grande letto matrimoniale il cadavere insanguinato della sua padrona, Maria Cutinelli; nella stessa mattinata, giunse a Napoli la notizia che, all’alba, in località Cupa Calastro di Torre del Greco, era stato rinvenuto anche il cadavere, crivellato da numerosi colpi di coltello ed il capo fracassato a colpi di bastone, di Gennaro Cuòcolo, marito della Cutinelli.

La morte di Maria Cutinelli in una stampa dell'epoca

Le indagini per il duplice omicidio furono quanto mai intricate ed il relativo processo, svòltosi in una chiesa sconsacrata di Viterbo, iniziò l’11 marzo 1911 e terminò con verdetto emesso l’8 luglio del 1912.

Dove fu rinvenuto il corpo di Gennaro Cuocolo

427. Quel verdetto condannò:

- a 30 anni di carcere, Enrico Alfano, Giovanni Rapi e Gennaro De Marinis, come mandanti del duplice delitto Cuòcolo;

- a 30 anni di carcere, Corrado Sortino, Giuseppe Salvi, Nicola Morra, Antonio Cerrato e Mariano De Gennaro, come esecutori materiali del delitto;

- a 20 anni di carcere, Ferdinando Di Matteo, ritenuto l’organizzatore;

- a 5 anni di carcere, 14 imputati per “associazione a delinquere”, tra cui Luigi Fucci;

- a 4 anni di carcere, altri 2 imputati, sempre per “associazione a delinquere”;

- a 9 anni di carcere, Giacomo Ascrittore, ed a 6 anni il prete Ciro Vittozzi, entrambi per “calunnia” ovvero per aver tentato di scagionare gli imputati, facendo ricadere la colpa su altri due individui, Gaetano Amodeo e Tommaso De Angelis, pregiudicati ma non appartenenti alla Bella Società.

In pratica, vennero contemporaneamente incarcerati quasi tutti i vertici della Bella Società Riformata, infliggendo così a questa un colpo mortale.

Il gabbione degli imputati al processo Cuocolo

428. Finì, in tal modo, un processo che era stato seguito con attenzione da tutta la grande stampa, nazionale ed internazionale, ed addirittura … “Il Mattino, primo fra tutti i giornali del mondo, inizia il reportage cinematografico, offrendo gratuitamente a tutti i suoi lettori, questa sera alle 19.30, nella Galleria Umberto I, la proiezione della prima serie di film eseguiti alla Assise di Viterbo, in occasione del processo Cuòcolo, per conto esclusivo del Mattino, dalla grande casa G. Barattolo di Roma. Questa prima serie sarà seguita da moltissime altre, le quali tutte riprodurranno, giorno per giorno, le emozionanti vicende del dramma giudiziario” (Pre-annuncio pubblicato sul Mattino l’11 marzo 1911, cioè il giorno stesso in cui iniziava il processo).

L'aula del processo Cuocolo a Viterbo

Erricone in America e Joe Petrosino

429. E’ interessante notare che, mentre erano in corso le indagini, Erricone cercò rifugio in America, ma lì fu arrestato dal celebre poliziotto italo-americano Giuseppe (Joe) Petrosino (nato a Padùla, Salerno, nel 1860; ucciso in Piazza Marina a Palermo nel 1909).

“Enrico Alfano fuggì negli USA, ospite dei camorristi emigrati in America, che avevano costituito un’associazione di napoletani, contrapposta a quelle siciliane e calabresi.

Emigrò con un passaporto in cui risultavano le generalità di un certo Enrico Alfonso invece che Alfano. Fingendosi un fuochista, si imbarcò a Marsiglia sul piroscafo Turaine e sbarcò a New York il 17 marzo 1907.

Qui fu poi arrestato, forse cantato alla Polizia dai camorristi, che avevano finto di accoglierlo a braccia aperte ma che in realtà mal sopportavano quella presenza, che avrebbe potuto fare ombra a molti di loro”[147].

Il tenente Joe Petrosino

430. La stessa dinamica degli eventi, pur descritta in modo diverso dal Di Fiore e dal Petacco, spinge a credere che veramente siano stati proprio i camorristi americani a volersi liberare di Erricone.

Versione Di Fiore: il capintesta venne ospitato in casa dello Stucchetiello, un camorrista emigrato a New York e che stava facendo carriera anche oltreoceano … Il tenente Joe Petrosino, con l’aiuto di lettere anonime, giunse a individuare l’abitazione rifugio, al N°108 di Mulberry Street. Alfano si accorse che era in trappola e si nascose armato dietro la porta con due complici, ma il tenente Petrosino abbatté la porta con una spallata e, con i suoi uomini, riuscì ad immobilizzare e ad arrestare i tre.

Versione Petacco: “Petrosino lo arrestò personalmente, in maniera teatrale. Individuato il nascondiglio di Alfano, una bettola malfamata dell’East Side, il detective vi si recò da solo, dopo aver avvertito telefonicamente il capocronista del New York Times che lo ricompensò naturalmente con una ammiratissima descrizione dell’evento.

Erricone era seduto ad un tavolo, assieme a sei individui dall’aria poco raccomandabile, quando il poliziotto entrò nel locale. - Il mio nome è Petrosino - si presentò nel suo tipico modo il detective. Seguì un momento di silenzio. Tutti guardavano il piccolo uomo tarchiato, con la bombetta, che se ne stava fermo sull’uscio. - Enrico Alfano, siete in arresto -  disse ancora – seguitemi! Erricone si alzò in piedi sconcertato, guardò i suoi uomini che non si erano mossi e, non dubitando che fuori vi fossero interi plotoni di agenti, tese i polsi alle manette”.

In ogni caso, era il 17 aprile 1907, solo un mese dopo l’arrivo di Erricone in America.

Joe Petrosino

I defunti coniugi

431. Dei coniugi Cuòcolo, al momento della loro tragica morte, la Polizia sapeva, già da tempo, tutto quello che c’era da sapere.

Gennaro Cuòcolo era figlio di Luigi, un agiàto commerciante di cuoio di Corso Garibaldi, il quale, stanco della vita disordinata del figlio, lo aveva cacciato di casa, garantendogli comunque un assegno mensile di 350 lire. In effetti, Gennaro era entrato in contatto con la camorra per i suoi stravizi giovanili, un po’ come il Nolli[148] ma, a differenza di questi, era poi entrato organicamente a far parte della Bella Società Riformata.

Maria Cutinelli, “figlia della Madonna” nell’orfanotrofio dell’Annunziata, era stata adottata, quando aveva solo pochi mesi, da un povero ombrellaio, di nome Tobia Esposito. A 14 anni, sedotta e poi abbandonata da un poco di buono, scappò di casa e finì come meretrice in una casa di tolleranza, con il soprannome di ‘A Surrentìna.

Gennaro Cuocolo

432. Era senza dubbio una donna molto sveglia e sembra fosse già riuscita ad aprire un negozio di crusca per conto suo, quando incontrò Gennaro Cuòcolo, il quale, colpito dalla sua avvenenza ed intelligenza, l’aveva regolarmente sposata e trasformata in sua collaboratrice: ormai entrambi quarantenni, svolgevano insieme una attività specializzata: fingendo di volerli affittare o comprare, i due visitavano appartamenti e negozi, e ne studiavano attentamente tutti i dettagli, fino a disegnare vere e proprie mappe, che poi passavano a bande di ladri, o vendendogliele semplicemente oppure esigendo, in cambio, di partecipare alla spartizione del bottino.

Ma perché erano stati ammazzati, e da chi?

I coniugi Cuocolo in un disegno dell'epoca

Uno dei tanti omicidi di camorra … o no?

433. Le indagini della Polizia, sotto la guida del Questore Cesare Ballanti e del Delegato Nicola Ippolito, si svolsero assai rapidamente. Furono anche arrestati alcuni importanti esponenti della Bella Società, fra i quali lo stesso Erricone, ma scarcerati subito dopo, in quanto, come al solito, non c’erano prove della loro colpevolezza.

Fino a pochi anni prima, la cosa sarebbe finita lì, come tante altre volte. Ma questa volta non fu così.

Giornali e salotti, aristocratici e borghesi, insorsero contro la scarcerazione: l’intera “società civile” napoletana era ormai disposta a fare a meno della camorra. Naturalmente, però, la tàcita condizione era che nessuna “persona perbene” venisse coinvolta: politici locali e nazionali, uomini d’affari, giornalisti, avvocati, magistrati, prefetti, questori, appartenenti alle forze dell’ordine, e quant’altri erano stati, per molti anni, vantaggiosamente collaboratori della Bella Società, non potevano e non dovevano essere toccati. E così fu. 

434. Emanuele Filiberto sentenziò: - Qui ci vogliono i Carabinieri! Prese direttamente contatti col Comando generale dell’Arma ed impose, al riluttante presidente del Consiglio dei ministri Giovanni Giolitti, che venisse finanziata una nuova e parallela indagine sul caso, affidata al capitano Carlo Fabbroni, marchigiano, comandante la compagnia esterna dei Carabinieri di Napoli, il quale poi scelse, come suo più stretto collaboratore, il maresciallo Erminio Capezzuti, nativo di Cancello Arnone e Comandante della Stazione dei Carabinieri di Capodichino.

E, per eliminare la Bella Società Riformata, i Carabinieri “fabbricarono” quelle prove che non c’erano.

Il capitano Carlo Fabbroni

I carabinieri vanno in carrozza … col cocchiere

435. Il maresciallo Capezzuti si ricordò di aver avuto come delatore, un po’ di tempo prima, un piccolo delinquente, Gennaro Abbatemaggio (1883-1968) detto ‘o cucchieriello (= il piccolo cocchiere), che ostentatamente millantava la sua appartenenza alla Bella Società e stava adesso scontando, nel carcere di S. Maria Capua Vètere, la pena per alcuni piccoli furti.

Andò più volte ad incontrarlo in carcere, gli fece capire ciò che voleva da lui e, come atto di buona volontà, lo fece subito trasferire nel più vicino carcere di Pozzuoli.

Abbatemaggio chiese denaro ai Carabinieri e, contemporaneamente, a quanto sembra, tentò anche di ricattare Enrico Alfano facendogli sapere che aveva la possibilità di denunciarlo, se non gli avesse dato almeno 2.000 lire. Ma il grande capintesta non si degnò nemmeno di rispondere al piccolo mariuòlo e, da quel momento, ‘o cucchieriello divenne definitivamente il camorrista “redento”, passato dalla parte della legalità.

436. Il maresciallo Capezzuti gli fece da padrino di cresima, lo fece uscire dal carcere due mesi prima della scadenza della pena, rese molto più agevole il suo matrimonio con la ragazza con la quale era da tempo fidanzato, abbondò in regali di nozze e … il 23 dicembre 1906, Gennaro Abbatemaggio era nella sua nuova casa, in Via Chiaja n°175, “per il capitone e la minestra maritata di Natale”.

In cambio, ‘o cucchieriello “rivelò” a Fabbroni e Capezzuti, con grande ampiezza di dettagli, ciò che Fabbroni e Capezzuti volevano che rivelasse: ad ordinare il duplice delitto Cuòcolo era stato direttamente il tribunale della Gran Mamma, presieduto formalmente da Luigi Fucci ma guidato di fatto dallo stesso Erricòne, perché Gennaro Cuòcolo aveva “sgarrato” nei confronti della Bella Società.

Gennaro Abbatemaggio nella sua gabbia separata al processo Cuocolo

437. E fu sostanzialmente sulla base di questa falsa testimonianza che venne alla fine emesso il verdetto (vedi sopra), nonostante la contraria opinione della Polizia e di alcuni esponenti della Magistratura che, pur non negando la pericolosità sociale degli imputati, constatavano però la evidente infondatezza delle “prove” addotte nei loro confronti nel caso specifico e, più in generale, contestavano le plateali irregolarità della procedura seguita dai cosacchi di Fabbroni per ottenerne a tutti i costi la condanna.

Dopo il processo: i vinti e … il vincitore?

438. Maria Stendardo, unica donna imputata al processo, fu assolta perché era “solo” la tenutaria di una casa di tolleranza laddove, fra una cosa e l’altra, si tenevano anche riunioni del vertice camorrista.

Subito dopo la lettura della sentenza, Gennaro De Marinis, ‘o mandriére, tentò, o finse di tentare, il suicidio in aula, tagliandosi alla gola con un pezzo di vetro: comunque, non morì.

Chi invece morì veramente fu il Questore Cesare Ballanti, il quale addirittura impazzì e poco dopo si suicidò, mentre il Delegato Ippolito fu trasferito in Sicilia: da quella sentenza, la Polizia era stata, di fatto, svergognata come incapace se non corrotta, al confronto degli “eroici” Carabinieri.  

Anche il sostituto procuratore Leopoldo Lucchesi-Palli, in amareggiata polemica con la sentenza, si dimise dalla magistratura e, a seguire, morì di infarto: era stato commesso, a suo avviso, un clamoroso errore giudiziario e la magistratura aveva ceduto a pressioni estranee all’accertamento della verità sulla base delle corrette procedure legali e processuali.

Il capitano Carlo Fabbroni, esaurito il suo compito, venne promosso maggiore e trasferito ad altra sede: il classico promoveatur ut amoveatur.

Maria Stendardo, unica donna imputata al processo Cuocolo

Dopo il processo: Gennaro Abbatemaggio

439. Gennaro Abbatemaggio, al processo, era stato condannato anche lui a 5 anni, per associazione a delinquere. Avrebbe dovuto, quindi, uscire dal carcere nel 1917 ma, allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1915, ottenne la scarcerazione anticipata arruolandosi come volontario nel corpo d’assalto degli Arditi: in guerra, si comportò peraltro valorosamente e si guadagnò il grado di sergente.

Tornato a casa, scoprì (ironia della sorte!) che, mentre lui era al fronte, la moglie lo tradiva, e proprio con uno dei Carabinieri che avevano il compito di proteggere la sua famiglia da eventuali vendette della camorra: la lasciò e tentò il suicidio nel 1920.

A quanto pare, si riprese dallo sconforto entrando a far parte di una di quelle squadre armate fasciste che, all’inizio degli anni Venti, assaltavano le sedi degli altri partiti e assassinavano gli oppositori politici.

440. Infine, “nel 1927, quindici anni dopo il processo, Gennaro Abbatemaggio si presentò nello studio dell’avvocato Rocco Salomone che, a Viterbo, era stato uno dei più strenui difensori degli imputati e gli consegnò un memoriale … pieno di errori ortografici e grammaticali, ma chiarissimo nella sostanza … nel quale affermava che lui, al processo, si era inventato tutto, allo scopo di ottenere dai Carabinieri la scarcerazione anticipata e molti soldi”[149].

“I Carabinieri avevano pagato testimoni-chiave e importanti firme giornalistiche, versando complessivamente circa 300 mila lire in bustarelle durante il processo. In particolare, avevano speso 40 mila lire per una mazzetta all’ineffabile direttore de “Il Mattino”, Edoardo Scarfoglio che, in cambio di questo gentile contributo alle spese per la gestione della sua barca a vela, aveva dimenticato le sue precedenti simpatie per la Bella Società[150] ed aveva schierato tutto il peso mediatico del suo giornale dalla parte dell’accusa”[151].

Edoardo Scarfoglio

Le scarcerazioni

441. Nonostante il memoriale in suo possesso, però, l’avvocato Salomone non riuscì ad ottenere la revisione del processo, soprattutto a causa dell’invincibile opposizione che comprensibilmente veniva dai Carabinieri e dalla famiglia dei duchi d’Aosta.

“Negli anni successivi, poi, le domande di grazia capitarono sul tavolo di Mussolini. Di suo pugno, il capo del governo scrisse su quelle istanze: si provveda singolarmente, spaziando i provvedimenti nel tempo … Così, ad uno ad uno, i condannati superstiti uscirono dai penitenziari e, come Mussolini aveva previsto, se ne stettero appartati in perfetta tranquillità”[152].

Enrico Alfano detto Erricòne, l’ultimo capintesta, venne scarcerato il 16 ottobre 1934 e di lui si persero le tracce: non si conosce nemmeno la data precisa della sua morte.

Enrico Alfano detto Erricone in manette al processo Cuocolo

Opinione riepilogativa sul “caso Cuòcolo”

442. Chi scrive condivide l’opinione dello storico inglese John Dickie, secondo cui, anche se prove e testimoni per incastrarlo erano smaccatamente falsi, Erricone era però veramente responsabile della morte dei Cuòcolo.

Nella Napoli di quel tempo, nessuno, appartenente o non appartenente alla Bella Società, avrebbe potuto uccidere, e così platealmente, quello che era comunque un suo noto esponente (il Cuòcolo), senza avere almeno il permesso, se non il mandato, di Erricòne.

In fondo, Gennaro Cuòcolo era, per l’Onorata Società, un “corpo estraneo”: veniva dalla borghesia e non dalla plebe; era più istruito e più furbo della media dei camorristi; aveva relazioni importanti per conto suo; si era messo a lavorare “in proprio” insieme alla moglie; era, in definitiva, troppo “indipendente” e poteva costituire per Erricòne un pericoloso rivale.

443. Dall’altro lato, il compito che il capitano Fabbroni aveva ricevuto dai suoi superiori non era quello di trovare gli assassini dei Cuòcolo bensì quello di smantellare la Bella Società Riformata, e Fabbroni svolse egregiamente questo compito, raggiungendo il fine con tutti i mezzi che aveva a disposizione.

Se ne rese perfettamente conto lo stesso Erricone, che in una delle sue deposizioni al processo dichiarò, rivolgendosi a Fabbroni: “Capitano, voi e noi … sappiamo che tutta questa festa non si fa per Cuòcolo, pace all’anima sua, di cui nessuno si è mai curato né si cura: la festa è per noi”.

444. Lo stesso Fabbroni comprese anche, e fu molto attento a rispettare, la tàcita condizione che gli era stata imposta, che era quella di non trascinare nel processo persone troppo importanti[153] le quali, infatti, nonostante le evidenti complicità di cui la Bella Società aveva sempre goduto, non furono mai direttamente coinvolte nel processo.

Ed anche di questo si rese perfettamente conto lo stesso Erricone: “Capitano … voi siete un infelice come me … gente che non sarebbe degna di lustrarvi gli stivali vi detta le condizioni … i peggiori non sono venuti, non si vedono, ma voi li conoscete”.

La degna conclusione

445. Il 24 maggio 1915, come noto, l’Italia entrò ufficialmente nel grande conflitto mondiale, dichiarando guerra all’Impero austro-ungarico.

La sera del giorno dopo, 25 maggio, nelle celebri Grotte-cimitero delle Fontanelle, si svolse l’ultima riunione del Tribunale della Gran Mamma, che decretò l’auto-scioglimento della Bella Società Riformata.

“Erano ancora vive a Napoli, fino a una decina di anni fa, alcune delle persone che parteciparono a quella adunanza straordinaria e si mostravano sempre ben liete, anzi orgogliose, di raccontare ciò che accadde”[154].         

446. Fu Gaetano Del Giudice, uno dei pochi capi camorristi rimasti in libertà dopo il processo Cuòcolo, a convocare e presiedere la riunione.

Gaetano Del Giudice, una quindicina di anni prima, con l’appoggio di suo fratello Francesco, aveva addirittura conteso ad Enrico Alfano il grado di capintesta, anche se era stato clamorosamente da lui sconfitto in una celebre e pubblica zumpàta.

Quella sera del 25 maggio, auto-proclamatosi ultimo capintesta, tenne un coinvolgente discorso nel quale affermò, fra scroscianti applausi, che essendo la Patria impegnata nella sua prima grande guerra unitaria, tutti i camorristi dovevano ascoltare il suo appello e sentire il dovere di contribuire alla vittoria, tanto più che erano ben note ai presenti, e scritte finanche nei libri di storia, le benemerenze patriottiche e risorgimentali che la Bella Società aveva acquisito fin dai tempi di Tore ‘e Criscienzo

Al termine del discorso, nella commozione generale, sventolò una grande bandiera tricolore e si mise alla testa di un entusiastico corteo patriottico che attraversò, notte tempo, tutto il quartiere Sanità, inneggiando alla conquista di Trento e Trieste.

Chi organizzò la “sceneggiata” finale

447. Ma, ad organizzare quella specie di “sceneggiata”, fu molto probabilmente lo stesso Prefetto, il quale si servì della collaborazione, certo non gratuita, di Gaetano Del Giudice … “allo scopo di rendere popolare e ben accetta la guerra anche fra gli strati infimi dei napoletani”.

Si tenga presente che “a metà aprile 1915, il Presidente del Consiglio dei ministri, Salandra, chiedeva ai Prefetti del Regno un rapporto sullo stato dell’ordine pubblico.

E il Prefetto di Napoli, Menzinger, non aveva dubbi sull’ostilità alla guerra, diffusa in città in una misura che egli riteneva di poter determinare nel 90% della popolazione.

Favorevoli alla guerra erano soltanto: gli studenti universitari che venivano dalle province (= i figli di papà che potevano permettersi di mantenerli agli studi); gli esponenti politici, presenti in vari partiti, che erano influenzati dalla Massoneria; e gli industriali interessati alle commesse belliche[155].

In tale situazione, evidentemente, il prefetto Menzinger pensò che anche un vecchio arnese come Del Giudice poteva ancora essere utile …

448. La Bella Società Riformata rendeva così, al momento del suo ormai inevitabile scioglimento, l’ultimo servigio a quella borghesia liberale alla quale era sempre stata organicamente legata.

La Legge speciale per Napoli del 1904

449. Lo scalpore nazionale suscitato dall’inchiesta Sarédo del 1901 e, più in generale, il nuovo clima politico “giolittiano”, furono i presupposti della famosa Legge speciale per Napoli del 1904. 

450. “Il professor Francesco Saverio Nitti (1868-1953) e l’avvocato Pietro Rosano (1846-1903) sembravano avere poco in comune. Nei recenti conflitti politici napoletani, si erano schierati all’avanguardia dei fronti contrapposti, segnati da polemiche feroci: con Saredo, Nitti; contro Saredo, Rosano; contro la camorra, Nitti; alla testa di politici ed amministratori collusi, Rosano.

Eppure, dove si reca Rosano, neo-ministro delle finanze del neo-nato governo Giolitti, la sera di domenica 8 novembre 1903, poche ore prima di spararsi un colpo di rivoltella al cuore? Nell’abitazione del professor Nitti, al numero 70 di Via Monte di Dio.

Per due ore, dalle 5 alle 7 di sera, secondo un appunto del professore, si parlò della questione industriale di Napoli e del problema meridionale, e Rosano disse che ne avrebbe fatta la sua piattaforma politica.

Ma, tornato a casa, alle 5 del mattino seguente, il ministro si suicidò, dopo aver invano tentato altre due volte di farlo, in passato.

451. Qualche giorno dopo, il 14 novembre, ancora sotto la tragica impressione della morte del povero Rosano, Nitti scrisse a Giolitti, spinto dalla convinzione, espressagli dal ministro, che Ella era desiderosissimo di giovare a Napoli ed al Mezzogiorno

Il Presidente del Consiglio apprezzò la lettera di Nitti e gli confermò di voler provvedere subito al Mezzogiorno. Anzi, avrebbe molto gradito una visita a Roma dell’esperto professore, per discorrere di così vitale argomento[156].

Iniziava così la collaborazione che avrebbe portato alla Legge speciale per Napoli del 1904.

Francesco Saverio Nitti e Giovanni Giolitti

L’economia a Napoli all’inizio del Novecento

452. Ma quale era la situazione economica dell’area metropolitana di Napoli in quell’inizio secolo, alla vigilia della emanazione della famosa Legge?[157]

453. Nel periodo borbonico, l’area napoletana era stata all’avanguardia nel settore industriale (meccanica, metallurgia, tessile, etc.), il quale era coordinato, in gran parte, con un sistema che potremmo dire “a partecipazione statale”: in pratica, il Banco di Napoli, che era la banca pubblica gestita dal governo, forniva ampi capitali, soprattutto per gli investimenti iniziali, e conseguentemente lo Stato controllava gli insediamenti industriali, favorendo però, con agevolazioni varie, anche la con-partecipazione azionaria di capitali provenienti dall’estero.

Dopo l’unificazione, nella nuova Italia sabàuda e liberale, questo sistema venne completamente smantellato, a tutto vantaggio dei capitalisti dell’Italia del Nord che, da un lato, si appropriarono di ciò che una volta apparteneva allo Stato borbonico e, dall’altro, cercarono di limitare, soprattutto in regime protezionistico[158], la presenza di capitali stranieri nel settore industriale.

454. Ai capitali stranieri rimase, però, campo libero in tutti i servizi pubblici che, nel secondo Ottocento, si svilupparono in connessione con l’ammodernamento della città.

E dunque: “La compagnia del gas era francese; le società elettriche, svizzere; l’acquedotto del Serìno era gestito da una azienda inglese; il servizio tranviario era saldamente nelle mani dei belgi, che controllavano anche le ferrovie secondarie Napoli-Nola-Baiano e Napoli- Piedimonte d’Alife.

Per contro, nella industria metalmeccanica, permaneva in larga quota la tradizionale iniziativa britannica e francese; e nell’industria tessile era consolidato il predominio svizzero e tedesco”[159].

455. “Così (nel 1902) … tutto è nelle mani di stranieri o di italiani del nord … Dal 1890 in poi, nessuna società importante è stata costituita con capitale napoletano …  Nei 350 milioni circa, che rappresentano tutto il capitale delle società anonime create e cadute o esistenti a Napoli nell’ultimo ventennio, i capitali napoletani non entrano nemmeno per 1 o 2 milioni” (Nitti).

Si confermava quindi che, con l’annessione all’Italia una, sabàuda e liberale, l’antico Regno delle due Sicilie era diventato semplicemente una colonia da sfruttare, con la complicità subalterna della piccola borghesia meridionale, e tale rimaneva anche dopo 40 anni di “magnifiche sorti e progressive”[160]

I servizi pubblici in concessione

456. Particolarmente importante per l’area metropolitana era, come abbiamo detto, il settore dei servizi pubblici, i quali erano in regime di concessione.

“Servizio pubblico in concessione” significa, in pratica, che un Ente pubblico trasferisce ad una Azienda privata la gestione del servizio, e l’Azienda si assume il cosiddetto rischio d’impresa perché il suo guadagno deriva solo dal prezzo che essa fa pagare agli utenti del servizio stesso. Naturalmente, questo presuppone che l’Ente pubblico scelga, come Azienda a cui concedere il servizio, quella che garantisce il miglior rapporto fra qualità e prezzo del servizio stesso, a pro del bene comune di tutti i cittadini.

457. Nel nostro caso, l’Ente pubblico era il Comune di Napoli e l’Azienda privata era una società a capitale francese o inglese o svizzero o belga[161].

E il meccanismo di fatto era questo: le Società corrompevano i politici, locali e nazionali, per ottenere la concessione; i lavoratori napoletani, dipendenti delle Società, erano pesantemente sfruttati, costituendo manodopera a basso costo; i servizi forniti, lasciavano a desiderare; ed i profitti prendevano il volo oltre le Alpi e non contribuivano in alcunché alla crescita sociale e civile del territorio dal quale erano “spremuti”.

458. Questo meccanismo era stato del tutto svelato, ed ampiamente descritto, dall’inchiesta Saredo del 1901: 

“La pubblica opinione si mostrò convinta che le società dell’acqua, dei trams e dell’illuminazione elettrica avessero erogate grosse somme per conseguire lo scopo (= ottenere le concessioni).

In particolare, per quanto riguardava la concessione dei tramways (prima a cavalli e poi elettrici) … l’attitudine della stampa, da una parte; il modo in cui si svolsero le discussioni in Consiglio comunale; la guerra feroce fatta ad uno dei migliori e più rispettabili organismi municipali, quale è il Consiglio tecnico, composto di eminenti personalità che osavano ribellarsi alle imposizioni del sindaco e dell’assessore, in guisa che ne fu decretato lo scioglimento, … radicarono nel pubblico il convincimento che non si fosse giunto all’approvazione finale senza che somme importanti fossero state spese” (Enrico Arlotta, consigliere ed ex assessore comunale).

“Una particolare importanza ha la questione delle concessioni municipali per le acque, per il gas, per la luce elettrica, per i bagni, per i tramways, etc … Gli immensi utili che, con ogni sorta di mezzi, realizzano le compagnie private in simili speculazioni, ed i mercimoni e gli intrighi cui queste danno luogo, sono tali e tanti che … la maggior corruzione viene dai rappresentanti cittadini (= i politici), dai capitalisti e dagli uomini d’affari” (Alfredo Cottrau, ingegnere napoletano di origine francese).

L’idea di Nitti … e i suoi èsiti

459. In tale contesto, dunque, un uomo politico meridionale e non-liberale (apparteneva al Partito Radicale storico) e cioè Francesco Saverio Nitti (Melfi, 1868; Roma, 1953), fatta la diàgnosi, enunciò la terapìa per le malattie del Mezzogiorno d’Italia e di Napoli in particolare.

La diagnosi fu che la malattia di Napoli e del Sud era particolarmente grave, sembrava essere cronica, e le cure fino ad allora apprestate non avevano sortito alcun effetto, anzi l’avevano fatta peggiorare. 

E la ricetta della terapia recava solo due parole: industrializzazione + elettrificazione.

Francesco Saverio Nitti (1868-1953)

460. L’idea di Nitti era, nella sostanza, molto semplice ed in verità alquanto ingenua: il Sud deve diventare come il Nord; se Torino, Milano, Genova sono ormai grandi città industriali, allora anche nel Sud dell’Italia bisogna far nascere grandi città industriali.

Avremo così, anche qui, una borghesia capitalistica “moderna”, fronteggiata da un proletariato industriale anch’esso “moderno”, si vincerà finalmente “l’arretratezza” meridionale e si estenderà a tutta l’Italia il tipo di società europea scaturito dalla seconda rivoluzione industriale.  

E la via maestra, per arrivare a questa meta, è la creazione per legge, nell’Italia meridionale, di “zone franche” ovvero di territori all’interno dei quali siano previste agevolazioni, di vario tipo, per coloro che vi investano i loro capitali. Si tratta cioè di rendere “conveniente”, per i capitalisti privati, l’impiantare fabbriche, con annessi posti di lavoro, nel Sud dell’Italia, e specialmente a Napoli.

In particolare, bisogna fornire, a queste fabbriche, energia elettrica a basso costo, sfruttando la nuova fonte idro-elettrica. 

461. Su questa base teorica, dopo che già nel luglio 1902 erano state varate due leggi speciali a favore di Napoli, il Parlamento liberale votò la Legge n°351 dell’8 luglio 1904: “Provvedimenti per il risorgimento economico della città di Napoli” (pubblicata in Gazzetta Ufficiale n°166 del 16 luglio 1904). 

Avevamo già avuto la legge per il “Risanamento” dopo il colera del 1884, con gli esiti che abbiamo illustrato a suo luogo[162]; adesso era previsto addirittura il “Risorgimento” … economico, dopo che quello politico era avvenuto come sappiamo.

462. A Nitti, sfuggiva evidentemente che, per le condizioni stesse in cui era avvenuta l’unificazione della penisola, il Sud non era semplicemente “arretrato” rispetto al Nord, quanto piuttosto “sfruttato”, e non da un generico “Nord” bensì per l’esattezza dai capitalisti del Nord, con la complicità subalterna dei proprietari terrieri e della borghesia urbana del Sud.

Il suo generoso tentativo riformista ebbe quindi esiti di fatto alquanto modesti, perché andò ad infrangersi contro la gabbia costituita dai concreti rapporti di forza esistenti fra le classi sociali.  

Le disposizioni della Legge speciale del 1904

463. La Legge del 1904 recava quattro capi:

Capo I – Disposizioni d’indole tributaria ed economica.

Capo II – Concessione e distribuzione di forze motrici.

Capo III – Opere pubbliche.

Capo IV – Istituti d’istruzione superiore tecnica e professionale.

464. Il Capo I dettava con precisione le norme per la creazione delle “zone franche” e regolamentava le varie agevolazioni in esse previste per gli investitori.  

Il Capo II prevedeva la creazione di un Ente a capitale interamente pubblico, detto Ente Autonomo del Volturno (EAV), che doveva produrre energia idro-elettrica utilizzando le sorgenti del fiume Volturno, nonché trasportarla e distribuirla, a prezzi mòdici, alle industrie agevolate.

Con il Capo III si stabilivano lavori di sistemazione, ampliamento e ammodernamento del porto di Napoli.

Il Capo IV, infine, elargiva fondi per istituire nuove scuole tecniche e professionali, nonché ampliare e migliorare quelle già esistenti.

Il Capo II: l’elettricità fra pubblico e privato

465. Cominceremo con l’analizzare gli èsiti del Capo II, che riguardava, come detto, il problema della elettrificazione.

“Come l’acqua dei laghi e dei fiumi è proprietà collettiva, così la forza da essi prodotta (= l’energia idro-elettrica) non può essere appropriata a beneficio di singoli individui; ed è lo Stato che deve regolare la produzione e la distribuzione dell’energia idro-elettrica nel modo più conveniente”.

Ma quando Nitti scriveva queste parole, i capitali privati, italiani ed europei, avevano già da tempo fiutato l’affare e non intendevano affatto lasciare allo Stato ed alla proprietà collettiva la nuova, strategica e profittevole “merce” costituita dall’energia idro-elettrica, fattore propulsivo della industrializzazione.

E l’industria elettrica privata ebbe ben presto il sopravvento sul povero Ente Autonomo del Volturno.

Le industrie elettriche private

466. Al momento dell’approvazione della Legge, nel 1904, a Napoli già esisteva la “Compagnia napoletana d’illuminazione e di scaldamento col gas”, fondata nel 1862, con capitale francese e con un direttore generale pure francese[163].

E dal 1887, esisteva anche la “Società Generale di Illuminazione (SGI)”, con capitali romani e sede nella capitale.

Entrambe, però, si trovarono in forti difficoltà quando, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, si doveva ormai necessariamente intraprendere la strada della elettrificazione, per percorrere la quale erano necessari forti capitali di investimento iniziali.

467. Scesero allora in Italia i “lanzichenecchi” svizzeri.

“Si può fissare al 1893 la calata a Napoli degli Svizzeri, già da tempo egèmoni nel settore tessile, anche nel nuovo campo di sviluppo dell’energia elettrica”[164].

Si trattava di un gruppo di capitalisti di Ginevra, inizialmente raccolti nella Compagnie génèvoise pour l’industrie du gaz: acquisirono, di fatto, il controllo azionario di entrambe le pre-esistenti società e, come loro rappresentante nei consigli di amministrazione, indicarono un avvocato napoletano di soli 28 anni, che venne subito nominato anche amministratore delegato con pieni poteri. Chi era mai costui?

Maurizio Capuano (1865-1925)

468. Maurizio Capuano, come detto, era avvocato: non aveva quindi speciali competenze tecniche, né in materia di elettricità né di idraulica né di gas, e fino ad allora si era fatto notare solo per la sua assidua frequentazione dei salotti aristocratici e borghesi della Napoli-bene. Quali erano dunque le sue virtù?

In effetti, sua madre, Tullia Schlaepfer, sposata con l’avvocato e “patrizio” napoletano Odoardo Capuano (1838-1880), era svizzera ed apparteneva per l’appunto ad una nota famiglia di capitalisti del settore tessile, che si era insediata a Napoli già nella prima metà dell’Ottocento, conservando peraltro la nazionalità svizzera nonché stretti rapporti con gli ambienti finanziari della Confederazione.

Inoltre, nel 1894, Maurizio sposò Marta Hémery, ovvero la figlia di colui che era stato, fin dalla fondazione nel 1862 e per i successivi 20 anni, il direttore generale della “Compagnia napoletana d’illuminazione e di scaldamento col gas”[165].

Maurizio Capuano

469. Il giovanotto, dunque, nasceva bene, frequentava gli ambienti giusti ed aveva saputo ben imparentarsi. Del resto, le qualità che gli venivano richieste dai suoi finanziatori non erano tanto quelle tecniche (per questo, bastava retribuire dei buoni ingegneri) quanto piuttosto il sapersi districare nella giungla legislativa e muoversi agevolmente nel sottobosco politico e burocratico da cui ottenere favori e lavori … la capacità di tèssere relazioni e di abbattere la concorrenza … tutte cose che lui seppe egregiamente fare.   

Già nel 1894, la “Compagnia napoletana …” e la SGI, unite di fatto sotto la sua guida, ottennero dal Comune di Napoli il contratto per l’illuminazione elettrica della città, dal Rettifilo alle Terme di Fuorigrotta; nel 1896, acquisirono la fornitura dell’energia elettrica per i tramways; e nel 1897, installarono alla banchina della Porta di Massa una centrale per produrre e fornire energia elettrica al porto di Napoli.

Ma ciò non bastava, e ben presto Maurizio Capuano ebbe modo di dare alla luce la creatura per la quale passò alla storia dell’industria italiana: la SME.  

La Società Meridionale di Elettricità e la Circumvesuviana

470. La Società Meridionale di Elettricità (SME) fu costituita ufficialmente il 20 marzo 1899: il capitale era prevalentemente della Societé franco-suisse pour l’industrie electrique di Ginevra; l’amministratore delegato, Maurizio Capuano; lo scopo sociale, conseguire “la concessione di forza idraulica del fiume Tusciano” e “la costruzione e l'esercizio di impianti idro-elettrici per diffondere nell'Italia meridionale l'impiego dell'energia per illuminazione, forza motrice industriale e trazione”. 

471. Nel 1901, la SME sottoscrisse l’intero aumento di capitale necessario per trasformare la pre-esistente “Società ferroviaria Napoli-Ottaviano” nella nuova Società “Strade Ferrate Secondarie Meridionale (SFSM)”, più nota come “Circumvesuviana”, ed acquisì contestualmente anche l’appalto per i lavori di impianto delle linee.

Nel 1904, venne chiuso il “cerchio” ferroviario intorno al Vesuvio, con Barra come stazione di inter-scambio: tutto con un solo binario e trazione a vapore. L’anno dopo, 1905, la tratta Napoli-Pompei-Poggiomarino fu la prima ad essere elettrificata.

472. Si può qui osservare che la vecchia “Società ferroviaria Napoli-Ottaviano” era a capitale interamente italiano: vi partecipavano infatti la Banca Gattoni di Roma e la ditta di Michele Calderai, imprenditore edile toscano, specializzato nel settore ferroviario, a cui la Provincia di Napoli aveva affidato la concessione della linea.

Con l’acquisizione da parte della SME nel 1901, il tutto passava sotto il controllo dei capitalisti franco-svizzeri di Ginevra. E già nel 1902, la SME aumentava ulteriormente il proprio capitale con la partecipazione di un altro importante socio svizzero: il gruppo di materiale elettrico Brown-Boveri, di Baden.

La SNIE

473. Nello stesso anno della SME, nel 1899, nacque anche la “Società Napoletana Imprese Elettriche (SNIE)”, con capitali torinesi e l’appoggio della famiglia Pavoncelli: i Pavoncelli erano proprietari terrieri nelle Puglie, desiderosi di investire capitali nella nuova industria, ed il conte Giuseppe Pavoncelli era anche deputato e ministro.

Non ostante ciò, la SNIE si trovò subito in difficoltà a reggere la concorrenza della SME e nel 1910 divenne, di fatto, una sua controllata.

L’industria elettrica pubblica: il povero EAV

474. Sull’altro fronte, quello pubblico, abbiamo visto che la Legge del 1904 istituiva l’Ente Autonomo Volturno.

I soldi per far nascere e crescere l’EAV dovevano arrivare, secondo la Legge, dalla “Cassa depositi e prestiti” ma in realtà, ancora nel 1911, l’EAV era riuscito a costruire solo la graziosa, ma minuta, centralina idroelettrica di Rocchetta al Volturno e continuavano ad agitarsi dotte disquisizioni tecnico-giuridiche circa i limiti che la Legge aveva inteso assegnare alla rete di distribuzione dell’Ente.

475. Come mai questa lentezza? Evidentemente, le industrie elettriche private, ovvero Maurizio Capuano, non avevano lesinato “mazzette” a politici e burocrati[166], i quali avevano subito frapposto, da par loro, ogni tipo di ostacoli e “legittimi” impedimenti all’attività dell’Ente pubblico, accusato poi di inefficienza e inadeguatezza.

Nel frattempo, il nostro Maurizio Capuano otteneva concessioni su concessioni da un numero crescente di Comuni e la sua SME trasportava l’energia del fiume Pescara a Napoli con un elettrodotto di 185 km e alla tensione massima raggiunta in Europa.

Ma come meravigliarsi, se abbiamo già visto[167] che la Società Generale di Illuminazione (SGI) non disdegnava di tenere nel suo libro-paga addirittura il capo della Bella Società Riformata, Erricòne Alfano, prima che questi incappasse nell’infortunio del “caso Cuòcolo”?

Come finì l’ìmpari lotta

476. Infine, anche l’ardimentoso Francesco Saverio Nitti comprese che, se voleva continuare la sua brillante, ed appena iniziata, carriera politica, doveva rinunciare ad alcune idee troppo decisamente “il-liberali”[168].

E così, il 31 luglio 1911, il ministro Nitti riceveva il commendator Maurizio Capuano e l’ingegner Angelo Omodeo e comunicava loro che il governo voleva bensì perseguire il fine della industrializzazione del Sud ma l’energia elettrica necessaria la potevano senz’altro fornire le industrie elettriche private, alle quali lo Stato non intendeva fare concorrenza ma, al contrario, procurare agevolazioni economiche e normative …

Il povero Ente Autonomo Volturno (EAV) cominciò a diversificare le sue attività fino ad uscire completamente dal settore elettrico. 

Il Capo I: l’industria nella zona orientale di Napoli

477. Analizzeremo ora[169] gli èsiti del Capo I della Legge speciale del 1904, che riguardava, più specificamente, il problema della industrializzazione.

Abbiamo già detto che l’industrializzazione della zona ad oriente di Napoli era iniziata nel periodo borbonico, sulla cresta dell’onda della prima rivoluzione industriale proveniente dall’Inghilterra[170].

Giovanni Pattison (1815-1899)

478. Personaggio quasi mitico per i vecchi operai della zona orientale di Napoli era l’ingegnere anglo-napoletano Giovanni (John) Pattison, nato a Newcastle in Inghilterra il 31 dicembre 1815 e morto a Napoli il 31 marzo 1899.

Fino ad alcuni decenni or sono, dalle nostre parti, si usava ancora dire “me pare ‘a cemmenèra ‘e Pattisòn” per indicare una persona instancabile o una attività incessante, quale era appunto quella degli stabilimenti Pattison.

E del resto, lo stesso Pattison, anche in età avanzata, “non rinunciò mai all’appuntamento annuale a Londra alla corporazione degli ingegneri, della quale era il decano; ottantenne, si sobbarcò il peso di un viaggio di piacere da Napoli a New York e, sino alla fine, continuò a recarsi tutti i giorni allo stabilimento meccanico”[171].

479. In effetti, egli era concittadino e discepolo niente meno che dello stesso George Stephenson (1781-1848) ovvero l’inventore della locomotiva nonché uno dei padri della prima rivoluzione industriale.

E furono proprio le locomotive, quelle della prima linea ferroviaria realizzata sulla penisola italiana, dai Borbone di Napoli nel 1839, a segnare il suo destino. 

Come è noto, infatti, concessionaria della Napoli-Portici era la ditta francese Bayard, la quale tuttavia acquistò le locomotive da una impresa costruttrice britannica e fu proprio Pattison a curare, fin dall’inizio, per conto di questa impresa, l’impiego e la manutenzione a Napoli di queste locomotive.

480. Abbiamo ricordato più volte le parole di Luigi Settembrini: “Nel 1839, vi furono in Napoli tre cose belle: la ferrovia, l’illuminazione a gas e Te voglio bene assaje”.

Per la precisione, il viaggio inaugurale della ferrovia Napoli-Portici avvenne il 3 ottobre 1839 e due giorni dopo, il 5 ottobre 1839, John Pattison si sposò: la moglie si chiamava Elisabeth Ann Taylor, nata nel 1820, e dal loro matrimonio nacquero tre figli.

Il primo figlio, anch’egli di nome John, nacque in Inghilterra e morì purtroppo all’età di soli sei mesi, nel settembre 1841.

Gli altri due figli nacquero invece in Italia: Cristoforo, a Torre del Greco nel 1843; e Tommaso, a Napoli nel 1845. Anche questi altri due figli, non di meno, pre-morirono al padre: Cristoforo nel 1882, a 39 anni di età; e Tommaso nel 1889, a 44 anni.

Pattison a Napoli (1842)

481. Comunque, nel 1842, cioè poco dopo la morte del primo figlio, Pattison si trasferì definitivamente a Napoli: “onde assicurare un’assistenza adeguata alle linee ferroviarie napoletane in espansione, egli fu indotto da Bayard, presumibilmente attraverso un’allettante offerta economica, a trasferirsi nella capitale del Regno delle Due Sicilie, con la carica di direttore del reparto manutenzione delle officine di riparazione Bayard[172].

Mantenne questa carica per 20 anni, fino al 1862, lavorando inoltre anche in proprio e “ricevendo commesse di fornitura di macchine da tutto il Regno delle due Sicilie”.

482. Si dedicò agli studi sulla riduzione del consumo di coke e, nel 1856-57, progettò e costruì un nuovo tipo di locomotiva, all’avanguardia anche nel campo delle pendenze, alla quale diede il suo nome e che fu utilizzata con buoni risultati in seguito al prolungamento del tratto collinare Nocera - Cava dei Tirreni. 

Contemporaneamente, chiese e ottenne dai Borbone, in concessione, la privativa di pezzi di ruote idrauliche e di altre produzioni meccaniche.

Thomas Richard Guppy (1797-1882)

483. Nel frattempo, nel 1849, sette anni dopo Pattison, era giunto a Napoli un altro ingegnere inglese, Thomas Richard Guppy, noto industriale di Bristol, il quale, lasciata la patria per contrasti con soci in affari, all’età di 52 anni aveva deciso di ricominciare tutto da capo in un nuovo paese.

“Egli sbarcò nella capitale borbonica il 1°dicembre del 1849, portandosi dietro un cospicuo bagaglio del quale facevano parte, oltre che un migliaio di libri, perfino due scrivanie” (Antonio Gamboni).

Guppy e Pattison insieme (1852-1862)

484. Insieme, Pattison e Guppy crearono nel 1852 una Società che acquistò un terreno ed edificò uno stabilimento nella zona del Ponte della Maddalena, non distante dal porto: si trattava di una ferriera, la prima privata nel Napoletano e probabilmente anche in Italia.

Pattison, sia per riguardo verso il collega più anziano, sia per conservare la carica di direttore delle officine Bayard, accettò che fosse intitolata al solo Guppy e la Società fu così battezzata “Guppy & Co”.      

485. La “Guppy & Co” sortì buoni risultati, testimoniati anche dai diversi premi conseguiti in numerose mostre industriali.

“Intorno al 1855, convertì la produzione verso l’attività di fonderia e produzione di macchine ed incrementò in modo significativo la varietà produttiva. Particolarmente importante fu il risultato conseguito nella produzione e vendita di macchine agricole con il conseguente contributo alla meccanizzazione industriale del Regno meridionale.

Alla fine del 1861 (subito dopo l’unità d’Italia), con l’acquisizione di un altro terreno adiacente al primo, la “Guppy & Co” si estendeva su una superficie di oltre 10.000 mq, occupava 575 operai ed era, nel giudizio di un protagonista dell’industria italiana come Giuseppe Colombo (1934, II, p. 1047), la seconda in Italia nel suo settore”[173].

La separazione

486. Nel 1862, però, la vecchia società ferroviaria di Bayard fu acquisita dalla “Società italiana per le strade ferrate meridionali” e i due ruoli di Pattison, dirigente della Società e capitalista in proprio, vennero ritenuti incompatibili fra di loro: si dimise dunque dal primo e si dedicò interamente al secondo.

In quell’anno, Pattison divenne quindi solo un capitalista privato, che ben presto entrò in conflitto con il suo socio Guppy.

Il contrasto fu risolto con una procedura di arbitrato: il giudice lasciò a Guppy lo stabilimento e l’attività, riconoscendo però a Pattison un indennizzo in denaro, stabilito in 382 mila lire italiane, che era circa 9 volte in più di quanto lo stesso Pattison aveva investito 10 anni prima.

La “Guppy – Hawthorn” ed il suo assorbimento in “OM”

487. La “Guppy” continuò la sua attività, nella vecchia sede, ancora a lungo; fino a che, circa 25 anni dopo, nel 1886, si fuse con l’azienda metalmeccanica inglese “Hawthorn Leslie” di Newcastle (la stessa città in cui era nato Pattison) e diede origine alla Società “Guppy – Hawthorn”: Thomas Richard Guppy era morto quattro anni prima, nel 1882.

488. Infine, proprio nel 1904, l’intera proprietà della “Guppy – Hawthorn” venne acquisita dalla Società milanese “Officine Meccaniche (OM)”, la cui genealogia, per chi ne avesse vaghezza, era la seguente:  

-      nel 1847, Felice Grondona fonda a Milano le “Officine Meccaniche Grondona”;

-      nel 1880, Giovanni Miani, fuoriuscito dalle “Officine Meccaniche Grondona”, fonda le “Officine Miani, Venturi & C.” insieme a Prospero Venturi e Girolamo Silvestri;

-      nel 1891, muore Prospero Venturi e la Società diventa la “Miani e Silvestri & C.”;

-      nel 1899, la “Miani e Silvestri” assorbe le “Officine Meccaniche Grondona”, dando vita alle “Officine Meccaniche” (OM).

Lo stabilimento “Pattison” (1866)

489. Pattison, dal canto suo, con i soldi introitati dall’arbitrato, acquistò un terreno nella stessa zona in cui si trovava la Guppy, fra il Ponte della Maddalena e i Granili, e vi fece edificare un suo stabilimento: fonderia e opificio meccanico, la cui attività iniziò ufficialmente il 1°gennaio 1866.

Si confermava così, fra l’altro, l’importanza del tracciato della Napoli-Portici: la ferrovia costituì, infatti, un riferimento strategico per la localizzazione dei primi opifici industriali che caratterizzò, dal punto di vista urbanistico, l’intera zona.

Da quel 1°gennaio 1866, ‘a cemmenèra ‘e Pattisòn non smise più di fumare …

490. Nel 1870, Pattison occupava 4-500 operai, e il vecchio socio Guppy 3-400, ovvero complessivamente all’incirca il 50% in più di quelli che lavoravano nella Società congiunta 10 anni prima.

Il punto debole, per Pattison come per Guppy, era il fatto di dover necessariamente ricorrere alle commesse statali, che però tendevano costantemente a favorire le industrie del Nord.

491. “Un miglioramento si ebbe a partire dal 1876, quando fu nominato Ministro della Règia Marina il generale ed ingegnere torinese Benedetto Brin (1833-1898), acceso fautore di un ampio progetto di costruzione di navi corazzate e di torpediniere.

Pattison colse l’opportunità e, qualche anno dopo, decise di affiancare al vecchio stabilimento ferroviario un cantiere navale per la produzione di motori marini, posto sulla spiaggia dei Gigli: nella prima metà degli anni Ottanta, decisiva per l’espansione aziendale, diverse furono le commesse per la costruzione di torpediniere[174].

492. Nonostante il fatto che le tariffe doganali prevedessero dazi di scarsa efficacia protettiva su locomotive e macchine … “Pattison ottenne buoni successi commerciali dai brevetti di macchine per l’agricoltura e l’industria dello zolfo; da caldaie a vapore più efficienti; mentre ampliò l’offerta in direzione della domanda di macchine per le costruzioni ferroviarie, per le carrozze di treni e funicolari, e per l’alta ingegneria meccanica.

Contemporaneamente, di non minor soddisfazione furono i risultati conseguiti nel settore navale, soprattutto nella componentistica minuta, cosa che permetteva di mantenere al livello di sufficienza il fatturato anche quando venivano a mancare i picchi raggiunti con le commesse statali per la costruzione di torpediniere”[175].

493. Le costruzioni abbandonate, ancor oggi visibili nella zona di S. Erasmo ai Granili, erano quelle dell’antico setifìcio “Beaux”, risalenti probabilmente agli anni Trenta dell’Ottocento, che vennero in seguito assorbite dall’ampliamento degli stabilimenti Pattison. 

Nel 1886, quando la vecchia “Guppy” si fuse con la “Hawthorn”, la “Pattison” occupava circa 24.000 mq, per i tre quarti coperti, organizzati intorno al complesso dell’ex setificio che, nella nuova sistemazione, ospitava l’amministrazione e l’ufficio tecnico.

494. Il cantiere “Pattison” venne poi gravemente danneggiato durante la Prima Guerra mondiale, nella notte fra il 10 e l’11 marzo 1918, da bombe sganciate dal dirigibile tedesco Zeppelin LZ104, partito dalla Bulgaria.  

In tempi nei quali l’aereonautica era ancora allo stadio iniziale, ed i bombardamenti dal cielo piuttosto rari, il cantiere “Pattison” fu il primo a godére di tanta “modernità”.

La “Metallurgica Corradini” … prima di Corradini (1873-1882)

495. Con strumento del 20 febbraio 1873 del notaio Michele Mazzitelli di Napoli,

“la Ditta “Jupply, Mathieu & C.” ed il “Banco Coloniali di Genova”,

avendo stretto relazioni commerciali con i Signori: Placido Caràfa di Noja, Stefano Cas e Errico Deluj Granier, … addivennero coi medesimi ad una combinazione finanziaria … ed in conformità del convenuto …

versarono le somme mutuate ai predetti Signori, i quali èransi costituiti in Società sotto la Ditta “Carafa, Cas & C.”

e fornirono l’occorrente per la pattuita lavorazione a còttimo dei metalli nell’opificio metallurgico impiantato dal Caràfa in San Giovanni a Teduccio …

496. “Errico Deluj Granier era stato prima studente in diritto, poi in ingegneria, indi si era consacrato con tutta l’anima al trattamento dei metalli e, essendo perito nell’arte sua, dopo essere stato operaio negli stabilimenti di Guppy e della Società Nazionale, prese a lavorare per proprio conto.

Ma essendosi, dopo poco, mostrata la difficoltà di poter lavorare utilmente per difetto di capitali, fu pensato di organizzare una Società.

Fatta ogni valutazione, dove’ riconoscersi che l’impresa potea attecchire con vantaggio de’ fondatori e ben presto fu costituita una Società …”[176]

497. La quale fu appunto la “Carafa, Cas & C.”, della quale:

- la Ditta “Jupply, Mathieu & C.” ed il “Banco Coloniali di Genova” costituivano i principali finanziatori; 

- Placido Caràfa di Noja metteva a disposizione il terreno ed i fabbricati preesistenti;

- Errico Deluj Granier, le competenze tecniche;

- e Stefano Cas, presumibilmente, quelle amministrative.   

498. Grazie soprattutto all’afflusso dei nuovi capitali, la “Carafa, Cas & C.” ebbe subito un periodo di forte espansione, passando, dalla iniziale lavorazione di lastre e verghe di rame ed ottone del solo Granier, al trattamento completo degli altri metalli.

Ricopriva una superficie complessiva di 3.000 mq ed utilizzava 5 macchine a vapore (135 HP), con l’impiego potenziale di 200 operai. 

Liquidazione della “Carafa, Cas & C.”

499. Morto poi il Caràfa, la Società “Caràfa, Cas & C.” venne posta in liquidazione per soddisfare finanziatori e creditori, e … con sentenza del 6 marzo 1882 emessa dalla Quinta Sezione del Tribunale Civile di Napoli, si rese aggiudicataria dello stabilimento la Commissione di Stralcio del disciolto “Banco Coloniali di Genova”.

L’acquisto da parte di Giacomo Corradini (1882)

500. Infine, con Atto del 12 agosto 1882 del notaio Vincenzo De Martinis di Napoli,  

“lo svizzero Giovanni Mathieu fu Giacomo, commerciante in Napoli,

nella sua qualità di procuratore speciale

del Signor Giacomo Corradini fu Giovanni, nativo di Sent (Svizzera), negoziante, domiciliato in Napoli alla Via Flavio Gioia n°12,     

ACQUISTA

dall’avvocato Vittorio Lanza, procuratore dei Signori: Francesco Bonini, Angelo Tedeschi, Girolamo Costa e Alfredo Dapplis, componenti la Commissione di Stralcio del disciolto “Banco Coloniali di Genova”,

lo stabilimento metallurgico “Carafa, Cas & C.” sito in San Giovanni a Teduccio, consistente nel fabbricato, officine, macchinario ed ogni altro accessorio e dipendenze, e confinante da un lato con la ferrovia, e dagli altri tre con proprietà della Signorina Giovanna Caràfa”.

Lo stabilimento fu poi progressivamente ampliato, con l’acquisto di terreni confinanti, nel 1888 e nel 1897.

continua


Note

[133] Vedi sopra, n°361.

[134] Vedi sopra, n°84 e segg.

[135] Paliotti, op. cit.

[136] Ibidem

[137] Ibidem

[138] Vedi sopra, n°407.

[139] Paliotti, op. cit.

[140] Ibidem

[141] Ibidem

[142] Dickie, op. cit.

[143] Paliotti, op. cit.

[144] Vedi sopra, n°404 e segg.

[145] Vedi sopra, nn°409-411

[146] Paliotti, op. cit.

[147] Gigi Di Fiore – “La camorra e le sue storie”, UTET, 2005.

[148] Vedi sopra, n°398 e segg.

[149] Paliotti, op. cit.

[150] Vedi sopra, n°367 e n°373

[151] Dickie, op. cit.

[152] Paliotti, op.cit.

[153] Vedi sopra, nn°433-434

[154] Paliotti, op. cit.

[155] Dickie, op. cit.

[156] Francesco Barbagallo – “Napoli, belle èpoque”, Ed. Laterza, 2015. 

[157] Vedi anche nn°102-106 in “Il periodo liberale dal 1896 al 1900”.

[158] Vedi sopra, n°92.

[159] Barbagallo, op. cit.

[160] Vedi anche nn°18-25 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[161] Vedi sopra, n°454

[162] Vedi nn°149-169 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[163] Vedi nn°135-142 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[164] Barbagallo, op. cit.

[165] Vedi sopra, n°466.

[166] Vedi sopra, n°458

[167] Vedi sopra, n°416

[168] Vedi sopra, n°465

[169] Vedi sopra, n°463

[170] Vedi nn°414–426 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[171] Nicola De Ianni – “Dizionario biografico degli italiani (2014)”.

[172] Ibidem

[173] Ibidem

[174] Ibidem

[175] Ibidem

[176] A. Batocchi – “Forze produttive della Provincia di Napoli”, 1874.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, maggio 2018

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