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L’inizio della fine
409. Ma ormai i tempi stavano cambiando. I due maggiori
capintesta della seconda metà dell’Ottocento, Tore ‘e
Criscienzo e Ciccio Cappuccio, avevano
portato la Bella Società Riformata all’apice del suo
potere e del suo consenso sociale.
Con la morte dell’eroe del baccalà,
quel 5 dicembre 1892, ebbe però inizio il ramo
discendente della parabola, che terminò 20 anni dopo,
nel 1912, con il disfacimento della Società in seguito
al processo Cuòcolo.
410. L’anno della morte di Cappuccio, il 1892, è lo stesso in
cui nasce ufficialmente il Partito Socialista dei
Lavoratori Italiani, ed in cui ha inizio il movimento di
massa dei fasci siciliani (1892-94); l’anno prima
(1891), era stata pubblicata l’enciclica sociale “Rerum
novarum” di Leone XIII; e pochi anni dopo (1898),
scoppiarono in tutta Italia, ed anche a Napoli, le
sommosse popolari per il pane.
Il popolo, perfino la plebe urbana napoletana, cominciava a
prendere coscienza della sua miserevole condizione
collettiva e cominciava soprattutto ad organizzarsi in
forme moderne per rivendicare una condizione migliore.
411. D’altronde, anche la borghesia italiana del Nord, con la
sua appendice subalterna del Sud, all’inizio del nuovo
secolo, aveva intrapreso, con Giolitti, una strategia
economico-politica nuova.
Organizzazioni come la Bella Società Riformata, ormai, non
servivano più a nessuno e costituivano, con sempre
maggior evidenza, solo una inutile escrescenza
parassitaria …
E così la classe borghese, fàttasi Stato con il Risorgimento e
l’unità d’Italia, e che fino ad allora aveva usato
spregiudicatamente la Bella Società come un utile
strumento, provvide infine ad eliminarla senza tanti
complimenti.
La transizione: Chirico e
Palladino
412. Alla morte di Ciccio Cappuccio nel 1892, seguì un breve
periodo di confusione interna, che portò al vertice
della Bella Società, entrambi per poco tempo, due
Capintesta di scarso carisma: prima, Giuseppe Chirico
detto ‘o granatiere perché era alto più di un
metro e novanta (ma si sa che “l’altezza è mezza
bellezza”); e poi Antonio Palladino detto Totonno ‘o
pappavallo che girava portandosi appresso un grosso
cane mastino.
‘A muglièra d’’o
granatiere
413. Vittorio Paliotti ci racconta la massima impresa per cui
viene ricordato ‘O granatiere:
“Il giorno delle sue nozze, nella chiesa della Madonna delle
Grazie in Via Forìa, avvenne un fatto imprevedibile.
Alla rituale domanda rivòltale dal sacerdote, la
promessa sposa rispose con un nettissimo no. Lo
scandalo dilagò per tutta Napoli, tanto più che nella
chiesa, colma di invitati, si era acceso un grosso
parapiglia. Come sempre accade in questi casi, amici
comuni fecero da pacieri, ma anche durante la seconda
cerimonia la sposa ripeté il suo diniego. Allora,
all’uscita dalla chiesa, Giuseppe Chirico si avventò con
un rasoio contro la ragazza e le praticò uno sfregio. -
Adesso sì che sono disposta a sposarti! Un vero
capintesta deve sapere come comportarsi! - esclamò lei
tutta contenta; e col volto ancora sanguinante, ritornò
all’altare e pronunciò il suo sì”.
L’ultimo capintesta:
Enrico Alfano detto Erricòne
414. Infine, sorse la stella di Enrico Alfano, detto
Erricòne, che sconfisse Totonno ‘o pappavallo
con una pubblica e spettacolare zumpàta in Via
Vérgini.
Erricòne
intendeva proseguire, nel nuovo secolo, la “grande
politica” di De Crescenzo e di Cappuccio.
Intelligentemente, però, ritenne di non apparire un
sovrano assoluto ma un normale capo di governo: al di
sopra di lui, pro forma, vi era Luigi Fucci detto ‘o
gassusàro (= venditore di “gassose” ovvero
bottigline di acqua gasata) con il titolo di “capintesta
onorario”; ed anche nei singoli quartieri, vi erano 12
“capintriti onorari” che dipendevano da Fucci,
affiancati però da 12 “camorristi scelti”, che
dipendevano da Erricòne … e governavano di fatto.
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Enrico Alfano detto Erricone |
415. Enrico Alfano, figlio di un solachianiéllo (=
ciabattino), aveva come mestiere di copertura quello di
commerciante di cavalli ma in realtà, con il volto
segnato da un inequivocabile taglio sulla guancia
destra, continuava l’opera di Ciccio Cappuccio, sia
nella “normale” attività estorsiva, sia come “cane da
guardia” della classe dominante.
“Nel 1902, la celebre chanteuse Eugènie Fougére, che in
quel periodo si esibiva al Salone Margherita, gli affidò
una delicata indagine: era stata derubata di tutti i
gioielli e l’intervento della Pubblica Sicurezza non
aveva dato risultati. Nel giro di pochi giorni,
Erricòne individuò i ladri, si fece consegnare la
refurtiva e la restituì alla legittima proprietaria”.
416. Ma queste erano quisquilie. Il Nostro venne addirittura
ingaggiato ufficialmente come poliziotto privato
dalla Società Generale di Illuminazione: in cambio di un
regolare stipendio, garantiva alla Società la sua
“protezione”, sia nei confronti della malavita comune,
sia nei confronti delle pubbliche autorità e della
concorrenza.
“Lasciando a Luigi Fucci l’incarico di mantenere i rapporti
con i camorristi più umili, Alfano si impegnò a
frequentare uffici pubblici, salotti della borghesia e
comitati di affari”.
Amici di Erricòne: Giovanni Rapi
417. Suo intimo amico, al punto che veniva considerato una
specie di vice-comandante della Società, era Giovanni
Rapi,
‘o maestro, rientrato dalla Francia nel
1902.
“Dopo il ritorno a Napoli, viveva in Via S. Brigida … Galante
nei modi, eloquio in francese, baffi e capelli
brizzolati, un po’ obeso, ròseo, elegante, sciolto nel
parlare … Giocatore di mestiere, spendeva per le sue
conquiste femminili quasi tutto ciò che vinceva: aveva
infatti la passione per le donne, soprattutto quelle
raffinate e magari titolate … Commerciante di penne di
struzzo, agente di donne di spettacolo fra Torino e la
Francia, ma soprattutto abile scommettitore. In una
cassetta di sicurezza, gli trovarono ben 20 mila lire.
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Giovanni Rapi, detto 'o maestro, al
processo Cuocolo |
418. Aprì in Via Chiaia un circolo, ben frequentato da tutta
la società che contava: il Circolo del Mezzogiorno,
che in seguito cambiò nome e sede e divenne il Circolo
dello Sport in Vico Carminiello a Toledo.
Ma quando era a Via Chiaia, il Circolo era presieduto dal duca
Leopoldo de Gregorio; aristocrazia, bei modi,
lusso; ed anche l’appoggio dell’influente giornalista
Peppino Turco: proprio quello di Funiculì funiculà,
nel frattempo coinvolto, ma uscito indenne,
dall’inchiesta Saredo del 1901”.
419. I soci vi si riunivano soprattutto per giocare ma, in
occasione delle votazioni, diventava un decisivo circolo
elettorale: svolse infatti un ruolo centrale nelle
elezioni del 1904 (vedi oltre).
“Rapi, esprimendosi in francese e vestito in redingote,
vi riceveva importanti personaggi e si assicurava che
facesse da tramite fra uomini di governo e la Bella
Società Riformata…”
Amici di Erricòne: Don Ciro
Vittozzi
420. “Altro intimo di Erricòne, nonché suo padrino di
cresima, era l’indegno prete Ciro Vittozzi,
cappellano del cimitero di Poggioreale.
Vittozzi, il quale notoriamente conviveva con una donna
sposata, esercitava un grande ascendente su tutta la
camorra di Porta Capuana e, attraverso un certo Giuseppe
Postiglione, proprietario di un malfamato albergo di Via
Pica, riscuoteva le tangenti sugli emigranti
clandestini; andava armato di pistola e presiedeva nella
sua canonica un vero e proprio tribunale di
conciliazione; spesso, giovandosi delle sue altolocate
amicizie politiche, interveniva presso commissari e
magistrati per far rilasciare camorristi arrestati”.
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Don Ciro Vittozzi al processo Cuocolo |
Amici di Erricòne: Gennaro De
Marinis
421. A Rapi e Vittozzi, si affiancavano “onoratamente”
personaggi come Gennaro De Marinis detto ‘o
mandriére, un ex scanna-buoi del macello comunale,
divenuto poi fra l’altro il ricettatore esclusivo per
tutti i furti che avvenivano nel Comune di S. Giovanni a
Teduccio e, contemporaneamente, assiduo frequentatore
dei ritrovi più eleganti della Napoli belle èpoque.
Si diceva che fosse arrivato perfino a contendere la
chanteuse preferita nientemeno che a Sua Altezza
Reale Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta. “Di
certo, aveva un curriculum di tutto rispetto nel mondo
della malavita: l’attività di gioielliere, ricettatore,
strozzino e pappone, era stata talmente proficua da
consentirgli di vivere in una grande casa con tanto di
servitori”.
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Gennaro De Marinis, detto 'o mandriére, è
il numero 3 |
Le elezioni del 1904
422. Il loro sfavillìo di maggior gloria, Erricòne ed i
suoi amici lo ebbero al tempo delle elezioni
parlamentari del 1904, quelle cioè immediatamente
successive all’inchiesta Sarédo del 1901.
“Il deputato socialista Ettore Ciccotti (1863-1939),
originario di Potenza, nelle votazioni del giugno 1900,
sostenuto dal gruppo de “La propaganda”, era riuscito a
prevalere nel collegio della Vicarìa, che pure
costituiva da secoli un caposaldo della Bella Società
Riformata.
Nelle successive elezioni del 1904, però, Ettore Ciccotti
venne sconfitto e scomparve così dal Parlamento
nazionale l’unico socialista di tutto il Mezzogiorno
continentale.
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Ettore Ciccotti |
423. Alcuni giornali sostennero che, siccome quel parlamentare
era sgradito al premier Giovanni Giolitti, il
neo-senatore (dal novembre 1902) Emilio Caracciolo di
Sarno (1835-1914), prefetto di Napoli dal dicembre
1903 al settembre 1907, aveva favorito in tutti i modi
il candidato liberale Vincenzo Ravaschieri Fieschi,
notoriamente legato alla camorra e battezzato dai
socialisti il conte della malavita.
Effettivamente, tutta la camorra si mobilitò in Via San
Giovanni a Carbonara, presso l’edificio che il 13
novembre 1904 ospitò i seggi elettorali: Enrico Alfano,
il prete Ciro Vittozzi e l’insegnante Giovanni Rapi,
esponenti della Bella Società ed in seguito implicati
nel processo Cuòcolo, furono visti pilotare
sfacciatamente le operazioni di voto”.
Il troppo stroppia
424. Se non che, all’apice di tanta gloria, Alfano ed i suoi
amici si montarono un po’ troppo la testa e non seppero
mantenersi nei limiti loro assegnati dalla classe
dominante: commisero, cioè, con maggiore ampiezza, la
stesso tipo di imprudenza che era già costata la vita al
bel Pasquino
e perfino i nobiluomini e le dame dell’aristocrazia
cominciarono a lamentarsi della loro invadenza.
Il giornalista dell’epoca Ernesto Serao bene esprime il
fastidio che i circoli aristocratici iniziarono a
provare nei confronti del “camorrista modernissimo e
sfrontato … amante di contesse e di marchese, e
pretenzioso sportsman … noi dovevamo vederli
finanche nel trottoir di Via Caracciolo e della
Riviera, scimmiottare malamente i gentiluomini …
esasperante canaglia, che vi contendeva il posto
migliore, la bibita da voi preferita, il parrucchiere,
il camiciaio, il sarto …”
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Emanuele Filiberto di Savoia, duca
d'Aosta |
425. Ma … “abitava in quegli anni a Napoli, nella Reggia di
Capodimonte sottratta ai Borbone, Emanuele Filiberto
di Savoia, duca d’Aosta (1869-1931). I salotti di
colui che diverrà il comandante della terza armata
costituivano il più eletto luogo di ritrovo della
nobiltà napoletana. Lì nascevano mille dicerie su questa
e quella gran dama, lì fiorivano persino pettegolezzi su
Casa Savoia … e fu proprio lì che si incominciò a
parlare con insistenza delle bravate mondane dei capi
della camorra …
Nel mutato clima generale…
si lanciavano appelli al duca d’Aosta. Ed Emanuele
Filiberto, infine, promise: alla prima occasione, lui,
forte del suo grado di parentela con il Sovrano (era
cugino di Vittorio Emanuele III), si sarebbe mosso
per smantellare la Bella Società Riformata”.
E l’occasione arrivò.
Il caso Cuòcolo
(1906-1912)
426. La mattina del 6 giugno 1906, la domestica Felicetta
Carusio, recàtasi per servizio, come ogni giorno, in un
appartamento di Via Nardones proprio di fronte al locale
Commissariato di Polizia, trovò nel grande letto
matrimoniale il cadavere insanguinato della sua padrona,
Maria Cutinelli; nella stessa mattinata, giunse a
Napoli la notizia che, all’alba, in località Cupa
Calastro di Torre del Greco, era stato rinvenuto anche
il cadavere, crivellato da numerosi colpi di coltello ed
il capo fracassato a colpi di bastone, di Gennaro
Cuòcolo, marito della Cutinelli.
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La morte di Maria Cutinelli in una stampa
dell'epoca |
Le indagini per il duplice omicidio furono quanto mai
intricate ed il relativo processo, svòltosi in una
chiesa sconsacrata di Viterbo, iniziò l’11 marzo 1911 e
terminò con verdetto emesso l’8 luglio del 1912.
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Dove fu rinvenuto il corpo di Gennaro
Cuocolo |
427. Quel verdetto condannò:
- a 30 anni di carcere, Enrico Alfano, Giovanni Rapi e Gennaro
De Marinis, come mandanti del duplice delitto Cuòcolo;
- a 30 anni di carcere, Corrado Sortino, Giuseppe Salvi,
Nicola Morra, Antonio Cerrato e Mariano De Gennaro, come
esecutori materiali del delitto;
- a 20 anni di carcere, Ferdinando Di Matteo, ritenuto
l’organizzatore;
- a 5 anni di carcere, 14 imputati per “associazione a
delinquere”, tra cui Luigi Fucci;
- a 4 anni di carcere, altri 2 imputati, sempre per
“associazione a delinquere”;
- a 9 anni di carcere, Giacomo Ascrittore, ed a 6 anni il
prete Ciro Vittozzi, entrambi per “calunnia” ovvero per
aver tentato di scagionare gli imputati, facendo
ricadere la colpa su altri due individui, Gaetano Amodeo
e Tommaso De Angelis, pregiudicati ma non appartenenti
alla Bella Società.
In pratica, vennero contemporaneamente incarcerati quasi tutti
i vertici della Bella Società Riformata, infliggendo
così a questa un colpo mortale.
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Il gabbione degli imputati al processo
Cuocolo |
428. Finì, in tal modo, un processo che era stato seguito con
attenzione da tutta la grande stampa, nazionale ed
internazionale, ed addirittura … “Il Mattino,
primo fra tutti i giornali del mondo, inizia il
reportage cinematografico, offrendo gratuitamente a
tutti i suoi lettori, questa sera alle 19.30, nella
Galleria Umberto I, la proiezione della prima serie di
film eseguiti alla Assise di Viterbo, in occasione del
processo Cuòcolo, per conto esclusivo del Mattino,
dalla grande casa G. Barattolo di Roma. Questa prima
serie sarà seguita da moltissime altre, le quali tutte
riprodurranno, giorno per giorno, le emozionanti vicende
del dramma giudiziario” (Pre-annuncio pubblicato sul
Mattino l’11 marzo 1911, cioè il giorno stesso in cui
iniziava il processo).
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L'aula del processo Cuocolo a Viterbo |
Erricone
in America e Joe Petrosino
429. E’ interessante notare che, mentre erano in corso le
indagini, Erricone cercò rifugio in America, ma lì fu
arrestato dal celebre poliziotto italo-americano
Giuseppe (Joe) Petrosino (nato a Padùla, Salerno,
nel 1860; ucciso in Piazza Marina a Palermo nel 1909).
“Enrico Alfano fuggì negli USA, ospite dei camorristi emigrati
in America, che avevano costituito un’associazione di
napoletani, contrapposta a quelle siciliane e calabresi.
Emigrò con un passaporto in cui risultavano le generalità di
un certo Enrico Alfonso invece che Alfano. Fingendosi un
fuochista, si imbarcò a Marsiglia sul piroscafo
Turaine e sbarcò a New York il 17 marzo 1907.
Qui fu poi arrestato, forse cantato alla Polizia dai
camorristi, che avevano finto di accoglierlo a braccia
aperte ma che in realtà mal sopportavano quella
presenza, che avrebbe potuto fare ombra a molti di loro”.
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Il tenente Joe Petrosino |
430. La stessa dinamica degli eventi, pur descritta in modo
diverso dal Di Fiore e dal Petacco, spinge a credere che
veramente siano stati proprio i camorristi americani a
volersi liberare di Erricone.
Versione Di Fiore: il capintesta venne ospitato in casa dello Stucchetiello,
un camorrista emigrato a New York e che stava facendo
carriera anche oltreoceano … Il tenente Joe Petrosino,
con l’aiuto di lettere anonime, giunse a individuare
l’abitazione rifugio, al N°108 di Mulberry Street.
Alfano si accorse che era in trappola e si nascose
armato dietro la porta con due complici, ma il tenente
Petrosino abbatté la porta con una spallata e, con i
suoi uomini, riuscì ad immobilizzare e ad arrestare i
tre.
Versione Petacco: “Petrosino lo arrestò personalmente, in maniera teatrale.
Individuato il nascondiglio di Alfano, una bettola
malfamata dell’East Side, il detective vi si recò
da solo, dopo aver avvertito telefonicamente il
capocronista del New York Times che lo ricompensò
naturalmente con una ammiratissima descrizione
dell’evento.
Erricone era seduto ad un tavolo, assieme a sei individui dall’aria
poco raccomandabile, quando il poliziotto entrò nel
locale. - Il mio nome è Petrosino - si presentò nel suo
tipico modo il detective. Seguì un momento di silenzio.
Tutti guardavano il piccolo uomo tarchiato, con la
bombetta, che se ne stava fermo sull’uscio. - Enrico
Alfano, siete in arresto - disse ancora – seguitemi!
Erricone si alzò in piedi sconcertato, guardò i suoi
uomini che non si erano mossi e, non dubitando che fuori
vi fossero interi plotoni di agenti, tese i polsi alle
manette”.
In ogni caso, era il 17 aprile 1907, solo un mese dopo
l’arrivo di Erricone in America.
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Joe Petrosino |
I defunti coniugi
431. Dei coniugi Cuòcolo, al momento della loro tragica morte,
la Polizia sapeva, già da tempo, tutto quello che c’era
da sapere.
Gennaro Cuòcolo era figlio di Luigi, un agiàto commerciante di
cuoio di Corso Garibaldi, il quale, stanco della vita
disordinata del figlio, lo aveva cacciato di casa,
garantendogli comunque un assegno mensile di 350 lire.
In effetti, Gennaro era entrato in contatto con
la camorra per i suoi stravizi giovanili, un po’ come il
Nolli
ma, a differenza di questi, era poi entrato
organicamente a far parte della Bella Società
Riformata.
Maria Cutinelli, “figlia della Madonna” nell’orfanotrofio
dell’Annunziata, era stata adottata, quando aveva solo
pochi mesi, da un povero ombrellaio, di nome Tobia
Esposito. A 14 anni, sedotta e poi abbandonata da un
poco di buono, scappò di casa e finì come meretrice in
una casa di tolleranza, con il soprannome di ‘A
Surrentìna.
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Gennaro Cuocolo |
432. Era senza dubbio una donna molto sveglia e sembra fosse
già riuscita ad aprire un negozio di crusca per conto
suo, quando incontrò Gennaro Cuòcolo, il quale, colpito
dalla sua avvenenza ed intelligenza, l’aveva
regolarmente sposata e trasformata in sua
collaboratrice: ormai entrambi quarantenni, svolgevano
insieme una attività specializzata: fingendo di
volerli affittare o comprare, i due visitavano
appartamenti e negozi, e ne studiavano attentamente
tutti i dettagli, fino a disegnare vere e proprie mappe,
che poi passavano a bande di ladri, o vendendogliele
semplicemente oppure esigendo, in cambio, di partecipare
alla spartizione del bottino.
Ma perché erano stati ammazzati, e da chi?
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I coniugi Cuocolo in un disegno
dell'epoca |
Uno dei tanti omicidi di
camorra … o no?
433. Le indagini della Polizia, sotto la guida del Questore
Cesare Ballanti e del Delegato Nicola Ippolito, si
svolsero assai rapidamente. Furono anche arrestati
alcuni importanti esponenti della Bella Società, fra i
quali lo stesso Erricone, ma scarcerati subito dopo, in
quanto, come al solito, non c’erano prove della loro
colpevolezza.
Fino a pochi anni prima, la cosa sarebbe finita lì, come tante
altre volte. Ma questa volta non fu così.
Giornali e salotti, aristocratici e borghesi, insorsero contro
la scarcerazione: l’intera “società civile” napoletana
era ormai disposta a fare a meno della camorra.
Naturalmente, però, la tàcita condizione era che
nessuna “persona perbene” venisse coinvolta: politici
locali e nazionali, uomini d’affari, giornalisti,
avvocati, magistrati, prefetti, questori, appartenenti
alle forze dell’ordine, e quant’altri erano stati, per
molti anni, vantaggiosamente collaboratori della Bella
Società, non potevano e non dovevano essere toccati. E
così fu.
434. Emanuele Filiberto sentenziò: - Qui ci vogliono i
Carabinieri! Prese direttamente contatti col Comando
generale dell’Arma ed impose, al riluttante presidente
del Consiglio dei ministri Giovanni Giolitti, che
venisse finanziata una nuova e parallela indagine sul
caso, affidata al capitano Carlo Fabbroni, marchigiano,
comandante la compagnia esterna dei Carabinieri di
Napoli, il quale poi scelse, come suo più stretto
collaboratore, il maresciallo Erminio Capezzuti, nativo
di Cancello Arnone e Comandante della Stazione dei
Carabinieri di Capodichino.
E, per eliminare la Bella Società Riformata, i Carabinieri
“fabbricarono” quelle prove che non c’erano.
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Il capitano Carlo Fabbroni |
I carabinieri
vanno in carrozza … col cocchiere
435. Il maresciallo Capezzuti si ricordò di aver avuto come
delatore, un po’ di tempo prima, un piccolo delinquente,
Gennaro Abbatemaggio (1883-1968) detto ‘o
cucchieriello (= il piccolo cocchiere), che
ostentatamente millantava la sua appartenenza alla Bella
Società e stava adesso scontando, nel carcere di S.
Maria Capua Vètere, la pena per alcuni piccoli furti.
Andò più volte ad incontrarlo in carcere, gli fece capire ciò
che voleva da lui e, come atto di buona volontà, lo fece
subito trasferire nel più vicino carcere di Pozzuoli.
Abbatemaggio chiese denaro ai Carabinieri e,
contemporaneamente, a quanto sembra, tentò anche di
ricattare Enrico Alfano facendogli sapere che aveva la
possibilità di denunciarlo, se non gli avesse dato
almeno 2.000 lire. Ma il grande capintesta non si
degnò nemmeno di rispondere al piccolo mariuòlo
e, da quel momento, ‘o cucchieriello divenne
definitivamente il camorrista “redento”, passato dalla
parte della legalità.
436. Il maresciallo Capezzuti gli fece da padrino di cresima,
lo fece uscire dal carcere due mesi prima della scadenza
della pena, rese molto più agevole il suo matrimonio con
la ragazza con la quale era da tempo fidanzato, abbondò
in regali di nozze e … il 23 dicembre 1906, Gennaro
Abbatemaggio era nella sua nuova casa, in Via Chiaja
n°175, “per il capitone e la minestra maritata di
Natale”.
In cambio, ‘o cucchieriello “rivelò” a Fabbroni e
Capezzuti, con grande ampiezza di dettagli, ciò che
Fabbroni e Capezzuti volevano che rivelasse: ad ordinare
il duplice delitto Cuòcolo era stato direttamente il
tribunale della Gran Mamma, presieduto formalmente da
Luigi Fucci ma guidato di fatto dallo stesso Erricòne,
perché Gennaro Cuòcolo aveva “sgarrato” nei confronti
della Bella Società.
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Gennaro Abbatemaggio nella sua gabbia
separata al processo Cuocolo |
437. E fu sostanzialmente sulla base di questa falsa
testimonianza che venne alla fine emesso il verdetto
(vedi sopra), nonostante la contraria opinione della
Polizia e di alcuni esponenti della Magistratura che,
pur non negando la pericolosità sociale degli imputati,
constatavano però la evidente infondatezza delle “prove”
addotte nei loro confronti nel caso specifico e, più in
generale, contestavano le plateali irregolarità della
procedura seguita dai cosacchi di Fabbroni per
ottenerne a tutti i costi la condanna.
Dopo il processo: i vinti
e … il vincitore?
438. Maria Stendardo, unica donna imputata al processo, fu
assolta perché era “solo” la tenutaria di una casa di
tolleranza laddove, fra una cosa e l’altra, si tenevano
anche riunioni del vertice camorrista.
Subito dopo la lettura della sentenza, Gennaro De Marinis,
‘o mandriére, tentò, o finse di tentare, il suicidio
in aula, tagliandosi alla gola con un pezzo di vetro:
comunque, non morì.
Chi invece morì veramente fu il Questore Cesare Ballanti, il
quale addirittura impazzì e poco dopo si suicidò, mentre
il Delegato Ippolito fu trasferito in Sicilia: da quella
sentenza, la Polizia era stata, di fatto, svergognata
come incapace se non corrotta, al confronto degli
“eroici” Carabinieri.
Anche il sostituto procuratore Leopoldo Lucchesi-Palli, in
amareggiata polemica con la sentenza, si dimise dalla
magistratura e, a seguire, morì di infarto: era stato
commesso, a suo avviso, un clamoroso errore giudiziario
e la magistratura aveva ceduto a pressioni estranee
all’accertamento della verità sulla base delle corrette
procedure legali e processuali.
Il capitano Carlo Fabbroni, esaurito il suo compito, venne
promosso maggiore e trasferito ad altra sede: il
classico promoveatur ut amoveatur.
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Maria Stendardo, unica donna imputata al
processo Cuocolo |
Dopo il processo: Gennaro
Abbatemaggio
439. Gennaro Abbatemaggio, al processo, era stato condannato
anche lui a 5 anni, per associazione a delinquere.
Avrebbe dovuto, quindi, uscire dal carcere nel 1917 ma,
allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1915,
ottenne la scarcerazione anticipata arruolandosi come
volontario nel corpo d’assalto degli Arditi: in guerra,
si comportò peraltro valorosamente e si guadagnò il
grado di sergente.
Tornato a casa, scoprì (ironia della sorte!) che, mentre lui
era al fronte, la moglie lo tradiva, e proprio con uno
dei Carabinieri che avevano il compito di proteggere la
sua famiglia da eventuali vendette della camorra: la
lasciò e tentò il suicidio nel 1920.
A quanto pare, si riprese dallo sconforto entrando a far parte
di una di quelle squadre armate fasciste che, all’inizio
degli anni Venti, assaltavano le sedi degli altri
partiti e assassinavano gli oppositori politici.
440. Infine, “nel 1927, quindici anni dopo il processo,
Gennaro Abbatemaggio si presentò nello studio
dell’avvocato Rocco Salomone che, a Viterbo, era stato
uno dei più strenui difensori degli imputati e gli
consegnò un memoriale … pieno di errori ortografici e
grammaticali, ma chiarissimo nella sostanza … nel quale
affermava che lui, al processo, si era inventato tutto,
allo scopo di ottenere dai Carabinieri la scarcerazione
anticipata e molti soldi”.
“I Carabinieri avevano pagato testimoni-chiave e importanti
firme giornalistiche, versando complessivamente circa
300 mila lire in bustarelle durante il processo. In
particolare, avevano speso 40 mila lire per una mazzetta
all’ineffabile direttore de “Il Mattino”, Edoardo
Scarfoglio che, in cambio di questo gentile contributo
alle spese per la gestione della sua barca a vela, aveva
dimenticato le sue precedenti simpatie per la Bella
Società
ed aveva schierato tutto il peso mediatico del suo
giornale dalla parte dell’accusa”.
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Edoardo Scarfoglio |
Le scarcerazioni
441. Nonostante il memoriale in suo possesso, però, l’avvocato
Salomone non riuscì ad ottenere la revisione del
processo, soprattutto a causa dell’invincibile
opposizione che comprensibilmente veniva dai Carabinieri
e dalla famiglia dei duchi d’Aosta.
“Negli anni successivi, poi, le domande di grazia capitarono
sul tavolo di Mussolini. Di suo pugno, il capo del
governo scrisse su quelle istanze: si provveda
singolarmente, spaziando i provvedimenti nel tempo …
Così, ad uno ad uno, i condannati superstiti uscirono
dai penitenziari e, come Mussolini aveva previsto, se ne
stettero appartati in perfetta tranquillità”.
Enrico Alfano detto Erricòne, l’ultimo capintesta,
venne scarcerato il 16 ottobre 1934 e di lui si persero
le tracce: non si conosce nemmeno la data precisa della
sua morte.
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Enrico Alfano detto Erricone in manette
al processo Cuocolo |
Opinione riepilogativa
sul “caso Cuòcolo”
442. Chi scrive condivide l’opinione dello storico inglese
John Dickie, secondo cui, anche se prove e testimoni per
incastrarlo erano smaccatamente falsi, Erricone
era però veramente responsabile della morte dei
Cuòcolo.
Nella Napoli di quel tempo, nessuno, appartenente o non
appartenente alla Bella Società, avrebbe potuto
uccidere, e così platealmente, quello che era comunque
un suo noto esponente (il Cuòcolo), senza avere almeno
il permesso, se non il mandato, di Erricòne.
In fondo, Gennaro Cuòcolo era, per l’Onorata Società, un
“corpo estraneo”: veniva dalla borghesia e non dalla
plebe; era più istruito e più furbo della media dei
camorristi; aveva relazioni importanti per conto suo; si
era messo a lavorare “in proprio” insieme alla moglie;
era, in definitiva, troppo “indipendente” e poteva
costituire per Erricòne un pericoloso rivale.
443. Dall’altro lato, il compito che il capitano Fabbroni
aveva ricevuto dai suoi superiori non era quello di
trovare gli assassini dei Cuòcolo bensì quello di
smantellare la Bella Società Riformata, e Fabbroni
svolse egregiamente questo compito, raggiungendo il
fine con tutti i mezzi che aveva a
disposizione.
Se ne rese perfettamente conto lo stesso Erricone, che in una
delle sue deposizioni al processo dichiarò, rivolgendosi
a Fabbroni: “Capitano, voi e noi … sappiamo che tutta
questa festa non si fa per Cuòcolo, pace all’anima sua,
di cui nessuno si è mai curato né si cura: la festa è
per noi”.
444. Lo stesso Fabbroni comprese anche, e fu molto attento a
rispettare, la tàcita condizione che gli era stata
imposta, che era quella di non trascinare nel processo
persone troppo importanti
le quali, infatti, nonostante le evidenti complicità di
cui la Bella Società aveva sempre goduto, non furono mai
direttamente coinvolte nel processo.
Ed anche di questo si rese perfettamente conto lo stesso
Erricone: “Capitano … voi siete un infelice come me …
gente che non sarebbe degna di lustrarvi gli stivali vi
detta le condizioni … i peggiori non sono venuti, non si
vedono, ma voi li conoscete”.
La degna conclusione
445. Il 24 maggio 1915, come noto, l’Italia entrò
ufficialmente nel grande conflitto mondiale, dichiarando
guerra all’Impero austro-ungarico.
La sera del giorno dopo, 25 maggio, nelle celebri
Grotte-cimitero delle Fontanelle, si svolse l’ultima
riunione del Tribunale della Gran Mamma, che decretò
l’auto-scioglimento della Bella Società Riformata.
“Erano ancora vive a Napoli, fino a una decina di anni fa,
alcune delle persone che parteciparono a quella adunanza
straordinaria e si mostravano sempre ben liete, anzi
orgogliose, di raccontare ciò che accadde”.
446. Fu Gaetano Del Giudice, uno dei pochi capi
camorristi rimasti in libertà dopo il processo Cuòcolo,
a convocare e presiedere la riunione.
Gaetano Del Giudice, una quindicina di anni prima, con
l’appoggio di suo fratello Francesco, aveva addirittura
conteso ad Enrico Alfano il grado di capintesta, anche
se era stato clamorosamente da lui sconfitto in una
celebre e pubblica zumpàta.
Quella sera del 25 maggio, auto-proclamatosi ultimo
capintesta, tenne un coinvolgente discorso nel quale
affermò, fra scroscianti applausi, che essendo la Patria
impegnata nella sua prima grande guerra unitaria, tutti
i camorristi dovevano ascoltare il suo appello e sentire
il dovere di contribuire alla vittoria, tanto più che
erano ben note ai presenti, e scritte finanche nei libri
di storia, le benemerenze patriottiche e risorgimentali
che la Bella Società aveva acquisito fin dai tempi di
Tore ‘e Criscienzo.
Al termine del discorso, nella commozione generale, sventolò
una grande bandiera tricolore e si mise alla testa di un
entusiastico corteo patriottico che attraversò, notte
tempo, tutto il quartiere Sanità, inneggiando alla
conquista di Trento e Trieste.
Chi organizzò la
“sceneggiata” finale
447. Ma, ad organizzare quella specie di “sceneggiata”, fu
molto probabilmente lo stesso Prefetto, il quale si
servì della collaborazione, certo non gratuita, di
Gaetano Del Giudice … “allo scopo di rendere popolare e
ben accetta la guerra anche fra gli strati infimi dei
napoletani”.
Si tenga presente che “a metà aprile 1915, il Presidente del
Consiglio dei ministri, Salandra, chiedeva ai Prefetti
del Regno un rapporto sullo stato dell’ordine
pubblico.
E il Prefetto di Napoli, Menzinger, non aveva dubbi
sull’ostilità alla guerra, diffusa in città in una
misura che egli riteneva di poter determinare nel 90%
della popolazione.
Favorevoli alla guerra erano soltanto: gli studenti
universitari che venivano dalle province (= i figli
di papà che potevano permettersi di mantenerli agli
studi); gli esponenti politici, presenti in vari
partiti, che erano influenzati dalla Massoneria;
e gli industriali interessati alle commesse belliche”.
In tale situazione, evidentemente, il prefetto Menzinger pensò
che anche un vecchio arnese come Del Giudice poteva
ancora essere utile …
448. La Bella Società Riformata rendeva così, al momento del
suo ormai inevitabile scioglimento, l’ultimo servigio a
quella borghesia liberale alla quale era sempre stata
organicamente legata.
La Legge speciale per
Napoli del 1904
449. Lo scalpore nazionale suscitato dall’inchiesta
Sarédo del 1901 e, più in generale, il nuovo clima
politico “giolittiano”, furono i presupposti della
famosa Legge speciale per Napoli del 1904.
450. “Il professor Francesco Saverio Nitti
(1868-1953) e l’avvocato Pietro Rosano
(1846-1903) sembravano avere poco in comune. Nei
recenti conflitti politici napoletani, si erano
schierati all’avanguardia dei fronti contrapposti,
segnati da polemiche feroci: con Saredo, Nitti; contro
Saredo, Rosano; contro la camorra, Nitti; alla testa di
politici ed amministratori collusi, Rosano.
Eppure, dove si reca Rosano, neo-ministro delle finanze
del neo-nato governo Giolitti, la sera di domenica 8
novembre 1903, poche ore prima di spararsi un colpo di
rivoltella al cuore? Nell’abitazione del professor
Nitti, al numero 70 di Via Monte di Dio.
Per due ore, dalle 5 alle 7 di sera, secondo un appunto
del professore, si parlò della questione industriale
di Napoli e del problema meridionale, e Rosano disse
che ne avrebbe fatta la sua piattaforma politica.
Ma, tornato a casa, alle 5 del mattino seguente, il
ministro si suicidò, dopo aver invano tentato altre due
volte di farlo, in passato.
451. Qualche giorno dopo, il 14 novembre, ancora
sotto la tragica impressione della morte del povero
Rosano, Nitti scrisse a Giolitti, spinto dalla
convinzione, espressagli dal ministro, che Ella
era desiderosissimo di giovare a Napoli ed al
Mezzogiorno …
Il Presidente del Consiglio apprezzò la lettera di Nitti
e gli confermò di voler provvedere subito al
Mezzogiorno. Anzi, avrebbe molto gradito una visita
a Roma dell’esperto professore, per discorrere di
così vitale argomento”.
Iniziava così la collaborazione che avrebbe portato alla
Legge speciale per Napoli del 1904.
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Francesco Saverio Nitti e Giovanni
Giolitti |
L’economia a Napoli
all’inizio del Novecento
452. Ma quale era la situazione economica dell’area
metropolitana di Napoli in quell’inizio secolo, alla
vigilia della emanazione della famosa Legge?
453. Nel periodo borbonico, l’area napoletana era stata
all’avanguardia nel settore industriale
(meccanica, metallurgia, tessile, etc.), il quale era
coordinato, in gran parte, con un sistema che potremmo
dire “a partecipazione statale”: in pratica, il Banco di
Napoli, che era la banca pubblica gestita dal governo,
forniva ampi capitali, soprattutto per gli investimenti
iniziali, e conseguentemente lo Stato controllava gli
insediamenti industriali, favorendo però, con
agevolazioni varie, anche la con-partecipazione
azionaria di capitali provenienti dall’estero.
Dopo l’unificazione, nella nuova Italia sabàuda e
liberale, questo sistema venne completamente
smantellato, a tutto vantaggio dei capitalisti
dell’Italia del Nord che, da un lato, si appropriarono
di ciò che una volta apparteneva allo Stato borbonico e,
dall’altro, cercarono di limitare, soprattutto in
regime protezionistico,
la presenza di capitali stranieri nel settore
industriale.
454. Ai capitali stranieri rimase, però, campo libero in
tutti i servizi pubblici che, nel secondo
Ottocento, si svilupparono in connessione con
l’ammodernamento della città.
E dunque: “La compagnia del gas era francese; le
società elettriche, svizzere; l’acquedotto del
Serìno era gestito da una azienda inglese; il
servizio tranviario era saldamente nelle mani dei
belgi, che controllavano anche le ferrovie
secondarie Napoli-Nola-Baiano e Napoli- Piedimonte d’Alife.
Per contro, nella industria metalmeccanica, permaneva in
larga quota la tradizionale iniziativa britannica e
francese; e nell’industria tessile era consolidato il
predominio svizzero e tedesco”.
455. “Così (nel 1902) … tutto è nelle mani di
stranieri o di italiani del nord … Dal 1890 in poi,
nessuna società importante è stata costituita con
capitale napoletano … Nei 350 milioni circa, che
rappresentano tutto il capitale delle società anonime
create e cadute o esistenti a Napoli nell’ultimo
ventennio, i capitali napoletani non entrano
nemmeno per 1 o 2 milioni” (Nitti).
Si confermava quindi che, con l’annessione all’Italia
una, sabàuda e liberale, l’antico Regno delle due
Sicilie era diventato semplicemente una colonia da
sfruttare, con la complicità subalterna della
piccola borghesia meridionale, e tale rimaneva anche
dopo 40 anni di “magnifiche sorti e progressive”.
I servizi pubblici in
concessione
456. Particolarmente importante per l’area metropolitana
era, come abbiamo detto, il settore dei servizi
pubblici, i quali erano in regime di concessione.
“Servizio pubblico in concessione” significa, in
pratica, che un Ente pubblico trasferisce ad una
Azienda privata la gestione del servizio,
e l’Azienda si assume il cosiddetto rischio d’impresa
perché il suo guadagno deriva solo dal prezzo che
essa fa pagare agli utenti del servizio stesso.
Naturalmente, questo presuppone che l’Ente pubblico
scelga, come Azienda a cui concedere il servizio,
quella che garantisce il miglior rapporto fra qualità e
prezzo del servizio stesso, a pro del bene comune
di tutti i cittadini.
457. Nel nostro caso, l’Ente pubblico era il
Comune di Napoli e l’Azienda privata era una
società a capitale francese o inglese o svizzero o belga.
E il meccanismo di fatto era questo: le Società
corrompevano i politici, locali e nazionali, per
ottenere la concessione; i lavoratori napoletani,
dipendenti delle Società, erano pesantemente sfruttati,
costituendo manodopera a basso costo; i servizi forniti,
lasciavano a desiderare; ed i profitti prendevano il
volo oltre le Alpi e non contribuivano in alcunché alla
crescita sociale e civile del territorio dal quale erano
“spremuti”.
458. Questo meccanismo era stato del tutto svelato, ed
ampiamente descritto, dall’inchiesta Saredo del 1901:
“La pubblica opinione si mostrò convinta che le società
dell’acqua, dei trams e dell’illuminazione elettrica
avessero erogate grosse somme per conseguire lo scopo
(= ottenere le concessioni).
In particolare, per quanto riguardava la concessione dei
tramways (prima a cavalli e poi elettrici)
… l’attitudine della stampa, da una parte; il modo in
cui si svolsero le discussioni in Consiglio comunale; la
guerra feroce fatta ad uno dei migliori e più
rispettabili organismi municipali, quale è il Consiglio
tecnico, composto di eminenti personalità che osavano
ribellarsi alle imposizioni del sindaco e
dell’assessore, in guisa che ne fu decretato lo
scioglimento, … radicarono nel pubblico il convincimento
che non si fosse giunto all’approvazione finale senza
che somme importanti fossero state spese” (Enrico
Arlotta, consigliere ed ex assessore comunale).
“Una particolare importanza ha la questione delle
concessioni municipali per le acque, per il gas, per la
luce elettrica, per i bagni, per i tramways, etc
… Gli immensi utili che, con ogni sorta di mezzi,
realizzano le compagnie private in simili speculazioni,
ed i mercimoni e gli intrighi cui queste danno
luogo, sono tali e tanti che … la maggior corruzione
viene dai rappresentanti cittadini (= i politici),
dai capitalisti e dagli uomini d’affari” (Alfredo
Cottrau, ingegnere napoletano di origine francese).
L’idea di Nitti … e i
suoi èsiti
459. In tale contesto, dunque, un uomo politico
meridionale e non-liberale (apparteneva al Partito
Radicale storico) e cioè Francesco Saverio Nitti
(Melfi, 1868; Roma, 1953), fatta la diàgnosi,
enunciò la terapìa per le malattie del
Mezzogiorno d’Italia e di Napoli in particolare.
La diagnosi fu che la malattia di Napoli e del
Sud era particolarmente grave, sembrava essere cronica,
e le cure fino ad allora apprestate non avevano sortito
alcun effetto, anzi l’avevano fatta peggiorare.
E la ricetta della terapia recava solo due
parole: industrializzazione + elettrificazione.
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Francesco Saverio Nitti (1868-1953) |
460. L’idea di Nitti era, nella sostanza, molto semplice
ed in verità alquanto ingenua: il Sud deve diventare
come il Nord; se Torino, Milano, Genova sono ormai
grandi città industriali, allora anche nel Sud
dell’Italia bisogna far nascere grandi città
industriali.
Avremo così, anche qui, una borghesia capitalistica
“moderna”, fronteggiata da un proletariato industriale
anch’esso “moderno”, si vincerà finalmente
“l’arretratezza” meridionale e si estenderà a tutta
l’Italia il tipo di società europea scaturito dalla
seconda rivoluzione industriale.
E la via maestra, per arrivare a questa meta, è la
creazione per legge, nell’Italia meridionale, di “zone
franche” ovvero di territori all’interno dei quali siano
previste agevolazioni, di vario tipo, per coloro che vi
investano i loro capitali. Si tratta cioè di rendere
“conveniente”, per i capitalisti privati, l’impiantare
fabbriche, con annessi posti di lavoro, nel Sud
dell’Italia, e specialmente a Napoli.
In particolare, bisogna fornire, a queste fabbriche,
energia elettrica a basso costo, sfruttando la nuova
fonte idro-elettrica.
461. Su questa base teorica, dopo che già nel luglio
1902 erano state varate due leggi speciali a favore di
Napoli, il Parlamento liberale votò la Legge n°351
dell’8 luglio 1904: “Provvedimenti per il risorgimento
economico della città di Napoli” (pubblicata in
Gazzetta Ufficiale n°166 del 16 luglio 1904).
Avevamo già avuto la legge per il “Risanamento” dopo il
colera del 1884, con gli esiti che abbiamo illustrato a
suo luogo;
adesso era previsto addirittura il “Risorgimento” …
economico, dopo che quello politico era avvenuto come
sappiamo.
462. A Nitti, sfuggiva evidentemente che, per le
condizioni stesse in cui era avvenuta l’unificazione
della penisola, il Sud non era semplicemente “arretrato”
rispetto al Nord, quanto piuttosto “sfruttato”, e non da
un generico “Nord” bensì per l’esattezza dai
capitalisti del Nord, con la complicità
subalterna dei proprietari terrieri e della
borghesia urbana del Sud.
Il suo generoso tentativo riformista ebbe quindi esiti
di fatto alquanto modesti, perché andò ad infrangersi
contro la gabbia costituita dai concreti rapporti di
forza esistenti fra le classi sociali.
Le disposizioni della
Legge speciale del 1904
463. La Legge del 1904 recava quattro capi:
Capo I – Disposizioni d’indole tributaria ed economica.
Capo II – Concessione e distribuzione di forze motrici.
Capo III – Opere pubbliche.
Capo IV – Istituti d’istruzione superiore tecnica e
professionale.
464. Il Capo I dettava con precisione le norme per la
creazione delle “zone franche” e regolamentava le varie
agevolazioni in esse previste per gli investitori.
Il Capo II prevedeva la creazione di un Ente a capitale
interamente pubblico, detto Ente Autonomo del Volturno (EAV),
che doveva produrre energia idro-elettrica
utilizzando le sorgenti del fiume Volturno, nonché
trasportarla e distribuirla, a prezzi mòdici,
alle industrie agevolate.
Con il Capo III si stabilivano lavori di sistemazione,
ampliamento e ammodernamento del porto di Napoli.
Il Capo IV, infine, elargiva fondi per istituire nuove
scuole tecniche e professionali, nonché ampliare e
migliorare quelle già esistenti.
Il Capo II: l’elettricità fra pubblico e privato
465. Cominceremo con l’analizzare gli èsiti del Capo II,
che riguardava, come detto, il problema della
elettrificazione.
“Come l’acqua dei laghi e dei fiumi è
proprietà collettiva, così la forza da essi prodotta
(= l’energia idro-elettrica) non può essere
appropriata a beneficio di singoli individui; ed è lo
Stato che deve regolare la produzione e la
distribuzione dell’energia idro-elettrica nel
modo più conveniente”.
Ma quando Nitti scriveva queste parole, i capitali
privati, italiani ed europei, avevano già da tempo
fiutato l’affare e non intendevano affatto lasciare allo
Stato ed alla proprietà collettiva la
nuova, strategica e profittevole “merce” costituita
dall’energia idro-elettrica, fattore propulsivo della
industrializzazione.
E l’industria elettrica privata ebbe ben presto il
sopravvento sul povero Ente Autonomo del Volturno.
Le industrie
elettriche private
466. Al momento dell’approvazione della Legge, nel 1904,
a Napoli già esisteva la
“Compagnia napoletana d’illuminazione e di scaldamento
col gas”, fondata nel 1862, con
capitale francese e con un direttore generale pure
francese.
E dal 1887, esisteva anche la “Società Generale di
Illuminazione (SGI)”, con capitali romani e sede nella
capitale.
Entrambe, però, si trovarono in forti difficoltà quando,
nell’ultimo decennio dell’Ottocento, si doveva ormai
necessariamente intraprendere la strada della
elettrificazione, per percorrere la quale erano
necessari forti capitali di investimento iniziali.
467. Scesero allora in Italia i “lanzichenecchi”
svizzeri.
“Si può fissare al 1893 la calata a Napoli degli
Svizzeri, già da tempo egèmoni nel settore tessile,
anche nel nuovo campo di sviluppo dell’energia
elettrica”.
Si trattava di un gruppo di capitalisti di Ginevra,
inizialmente raccolti nella Compagnie génèvoise pour
l’industrie du gaz: acquisirono, di fatto, il
controllo azionario di entrambe le pre-esistenti società
e, come loro rappresentante nei consigli di
amministrazione, indicarono un avvocato napoletano di
soli 28 anni, che venne subito nominato anche
amministratore delegato con pieni poteri. Chi era mai
costui?
Maurizio Capuano
(1865-1925)
468. Maurizio Capuano, come detto, era avvocato: non
aveva quindi speciali competenze tecniche, né in materia
di elettricità né di idraulica né di gas, e fino ad
allora si era fatto notare solo per la sua assidua
frequentazione dei salotti aristocratici e borghesi
della Napoli-bene. Quali erano dunque le sue virtù?
In effetti, sua madre, Tullia Schlaepfer, sposata con
l’avvocato e “patrizio” napoletano Odoardo Capuano
(1838-1880), era svizzera ed apparteneva per l’appunto
ad una nota famiglia di capitalisti del settore tessile,
che si era insediata a Napoli già nella prima metà
dell’Ottocento, conservando peraltro la nazionalità
svizzera nonché stretti rapporti con gli ambienti
finanziari della Confederazione.
Inoltre, nel 1894, Maurizio sposò Marta Hémery, ovvero
la figlia di colui che era stato, fin dalla fondazione
nel 1862 e per i successivi 20 anni, il direttore
generale della
“Compagnia napoletana d’illuminazione e di scaldamento
col gas”.
|
Maurizio Capuano |
469. Il giovanotto, dunque, nasceva bene, frequentava
gli ambienti giusti ed aveva saputo ben imparentarsi.
Del resto, le qualità che gli venivano richieste dai
suoi finanziatori non erano tanto quelle tecniche (per
questo, bastava retribuire dei buoni ingegneri) quanto
piuttosto il sapersi districare nella giungla
legislativa e muoversi agevolmente nel sottobosco
politico e burocratico da cui ottenere favori e lavori …
la capacità di tèssere relazioni e di abbattere la
concorrenza … tutte cose che lui seppe egregiamente
fare.
Già nel 1894, la “Compagnia napoletana …” e la SGI,
unite di fatto sotto la sua guida, ottennero dal Comune
di Napoli il contratto per l’illuminazione elettrica
della città, dal Rettifilo alle Terme di Fuorigrotta;
nel 1896, acquisirono la fornitura dell’energia
elettrica per i tramways; e nel 1897,
installarono alla banchina della Porta di Massa una
centrale per produrre e fornire energia elettrica al
porto di Napoli.
Ma ciò non bastava, e ben presto Maurizio Capuano ebbe
modo di dare alla luce la creatura per la quale passò
alla storia dell’industria italiana: la SME.
La Società Meridionale di
Elettricità e la Circumvesuviana
470. La Società Meridionale di Elettricità (SME) fu
costituita ufficialmente il 20 marzo 1899: il capitale
era prevalentemente della Societé franco-suisse pour
l’industrie electrique di Ginevra; l’amministratore
delegato, Maurizio Capuano; lo
scopo sociale, conseguire “la concessione di forza
idraulica del fiume Tusciano” e “la costruzione e
l'esercizio di impianti idro-elettrici per
diffondere nell'Italia meridionale l'impiego
dell'energia per illuminazione, forza motrice
industriale e trazione”.
471. Nel 1901, la SME sottoscrisse l’intero aumento di
capitale necessario per trasformare la pre-esistente
“Società ferroviaria Napoli-Ottaviano” nella nuova
Società “Strade Ferrate Secondarie Meridionale (SFSM)”,
più nota come “Circumvesuviana”, ed acquisì
contestualmente anche l’appalto per i lavori di impianto
delle linee.
Nel
1904, venne chiuso il “cerchio” ferroviario intorno al
Vesuvio, con Barra come stazione di inter-scambio: tutto
con un solo binario e trazione a vapore. L’anno dopo,
1905, la tratta Napoli-Pompei-Poggiomarino fu la prima
ad essere elettrificata.
472. Si può qui osservare che la vecchia
“Società ferroviaria Napoli-Ottaviano” era a capitale
interamente italiano: vi partecipavano infatti la Banca
Gattoni di Roma e
la ditta di Michele Calderai,
imprenditore edile toscano, specializzato nel settore
ferroviario, a
cui la Provincia di Napoli aveva affidato la concessione
della linea.
Con
l’acquisizione da parte della SME nel 1901, il tutto
passava sotto il controllo dei capitalisti
franco-svizzeri di Ginevra. E già nel 1902, la SME
aumentava ulteriormente il proprio capitale con la
partecipazione di un altro importante socio svizzero: il
gruppo di materiale elettrico Brown-Boveri, di Baden.
La SNIE
473. Nello stesso anno della SME, nel 1899, nacque anche
la “Società Napoletana Imprese Elettriche (SNIE)”, con
capitali torinesi e l’appoggio della famiglia Pavoncelli:
i Pavoncelli erano proprietari terrieri nelle Puglie,
desiderosi di investire capitali nella nuova industria,
ed il conte Giuseppe Pavoncelli era anche
deputato e ministro.
Non ostante ciò, la SNIE si trovò subito in difficoltà a
reggere la concorrenza della SME e nel 1910 divenne, di
fatto, una sua controllata.
L’industria elettrica
pubblica: il povero EAV
474. Sull’altro fronte, quello pubblico, abbiamo visto
che la Legge del 1904 istituiva l’Ente Autonomo
Volturno.
I soldi per far nascere e crescere l’EAV dovevano
arrivare, secondo la Legge, dalla “Cassa depositi e
prestiti” ma in realtà, ancora nel 1911, l’EAV era
riuscito a costruire solo la graziosa, ma minuta,
centralina idroelettrica di Rocchetta al Volturno e
continuavano ad agitarsi dotte disquisizioni
tecnico-giuridiche circa i limiti che la Legge aveva
inteso assegnare alla rete di distribuzione dell’Ente.
475. Come mai questa lentezza? Evidentemente, le
industrie elettriche private, ovvero Maurizio Capuano,
non avevano lesinato “mazzette” a politici e burocrati,
i quali avevano subito frapposto, da par loro, ogni tipo
di ostacoli e “legittimi” impedimenti all’attività
dell’Ente pubblico, accusato poi di inefficienza e
inadeguatezza.
Nel frattempo, il nostro Maurizio Capuano otteneva
concessioni su concessioni da un numero crescente di
Comuni e la sua SME trasportava l’energia del fiume
Pescara a Napoli con un elettrodotto di 185 km e alla
tensione massima raggiunta in Europa.
Ma come meravigliarsi, se abbiamo già visto
che la Società Generale di Illuminazione (SGI) non
disdegnava di tenere nel suo libro-paga addirittura il
capo della Bella Società Riformata, Erricòne
Alfano, prima che questi incappasse nell’infortunio del
“caso Cuòcolo”?
Come finì l’ìmpari
lotta
476. Infine, anche l’ardimentoso Francesco Saverio Nitti
comprese che, se voleva continuare la sua brillante, ed
appena iniziata, carriera politica, doveva rinunciare ad
alcune idee troppo decisamente “il-liberali”.
E così, il 31 luglio 1911, il ministro Nitti
riceveva il commendator Maurizio Capuano e l’ingegner
Angelo Omodeo e comunicava loro che il governo voleva
bensì perseguire il fine della industrializzazione del
Sud ma l’energia elettrica necessaria la potevano
senz’altro fornire le industrie elettriche private, alle
quali lo Stato non intendeva fare concorrenza ma, al
contrario, procurare agevolazioni economiche e normative
…
Il povero Ente Autonomo Volturno (EAV) cominciò a
diversificare le sue attività fino ad uscire
completamente dal settore elettrico.
Il Capo I: l’industria
nella zona orientale di Napoli
477. Analizzeremo ora
gli èsiti del Capo I della Legge speciale del 1904, che
riguardava, più specificamente, il problema della
industrializzazione.
Abbiamo già detto che l’industrializzazione della zona
ad oriente di Napoli era iniziata nel periodo borbonico,
sulla cresta dell’onda della prima rivoluzione
industriale proveniente dall’Inghilterra.
Giovanni Pattison
(1815-1899)
478. Personaggio quasi mitico per i vecchi operai della
zona orientale di Napoli era l’ingegnere
anglo-napoletano Giovanni (John) Pattison, nato a
Newcastle in Inghilterra il 31 dicembre 1815 e morto a
Napoli il 31 marzo 1899.
Fino ad alcuni decenni or sono, dalle nostre parti, si
usava ancora dire “me pare ‘a cemmenèra ‘e Pattisòn”
per indicare una persona instancabile o una attività
incessante, quale era appunto quella degli stabilimenti
Pattison.
E
del resto, lo stesso Pattison, anche in età avanzata,
“non rinunciò mai all’appuntamento annuale a Londra alla
corporazione degli ingegneri, della quale era il decano;
ottantenne, si sobbarcò il peso di un viaggio di piacere
da Napoli a New York e, sino alla fine, continuò a
recarsi tutti i giorni allo stabilimento meccanico”.
479. In effetti, egli era concittadino e discepolo
niente meno che dello stesso George Stephenson
(1781-1848) ovvero l’inventore della locomotiva
nonché uno dei padri della prima rivoluzione
industriale.
E furono proprio le locomotive, quelle della prima linea
ferroviaria realizzata sulla penisola italiana, dai
Borbone di Napoli nel 1839, a segnare il suo destino.
Come è noto, infatti, concessionaria della
Napoli-Portici era la ditta francese Bayard, la
quale tuttavia acquistò le locomotive da una impresa
costruttrice britannica e fu proprio Pattison a
curare, fin dall’inizio, per conto di questa impresa,
l’impiego e la manutenzione a Napoli di queste
locomotive.
480. Abbiamo ricordato più volte le parole di Luigi
Settembrini: “Nel 1839, vi furono in Napoli tre cose
belle: la ferrovia, l’illuminazione a gas e Te voglio
bene assaje”.
Per
la precisione, il viaggio inaugurale della ferrovia
Napoli-Portici avvenne il 3 ottobre 1839 e due giorni
dopo, il 5 ottobre 1839, John Pattison si sposò: la
moglie si chiamava Elisabeth Ann Taylor, nata nel 1820,
e dal loro matrimonio nacquero tre figli.
Il
primo figlio, anch’egli di nome John, nacque in
Inghilterra e morì purtroppo all’età di soli sei mesi,
nel settembre 1841.
Gli
altri due figli nacquero invece in Italia: Cristoforo, a
Torre del Greco nel 1843; e Tommaso, a Napoli nel 1845.
Anche questi altri due figli, non di meno, pre-morirono
al padre: Cristoforo nel 1882, a 39 anni di età; e
Tommaso nel 1889, a 44 anni.
Pattison a Napoli
(1842)
481. Comunque, nel 1842, cioè poco dopo la morte del
primo figlio, Pattison si trasferì definitivamente a
Napoli: “onde
assicurare un’assistenza adeguata alle linee ferroviarie
napoletane in espansione, egli fu indotto da Bayard,
presumibilmente attraverso un’allettante offerta
economica, a trasferirsi nella capitale del Regno delle
Due Sicilie, con la carica di direttore del reparto
manutenzione delle officine di riparazione Bayard”.
Mantenne questa carica per 20 anni, fino al 1862,
lavorando inoltre anche in proprio e “ricevendo commesse
di fornitura di macchine da tutto il Regno delle due
Sicilie”.
482. Si dedicò agli studi sulla riduzione del consumo di
coke e, nel 1856-57, progettò e costruì un
nuovo tipo di locomotiva, all’avanguardia anche nel
campo delle pendenze, alla quale diede il suo
nome e che fu utilizzata con buoni risultati in seguito
al prolungamento del tratto collinare Nocera - Cava dei
Tirreni.
Contemporaneamente, chiese e ottenne dai Borbone, in
concessione, la privativa di pezzi di ruote idrauliche e
di altre produzioni meccaniche.
Thomas
Richard Guppy (1797-1882)
483. Nel frattempo, nel 1849,
sette anni dopo Pattison, era giunto a Napoli un altro
ingegnere inglese,
Thomas Richard Guppy,
noto industriale di Bristol, il quale, lasciata la
patria per contrasti con soci in affari, all’età di 52
anni aveva deciso di ricominciare tutto da capo in un
nuovo paese.
“Egli sbarcò nella capitale borbonica il 1°dicembre del
1849, portandosi dietro un cospicuo bagaglio del quale
facevano parte, oltre che un migliaio di libri, perfino
due scrivanie” (Antonio Gamboni).
Guppy e Pattison insieme
(1852-1862)
484. Insieme, Pattison e Guppy crearono nel 1852 una
Società
che
acquistò un terreno ed edificò uno stabilimento nella
zona del Ponte della Maddalena, non distante dal porto:
si trattava di una ferriera, la prima privata nel
Napoletano e probabilmente anche in Italia.
Pattison, sia per riguardo verso il collega più anziano,
sia per conservare la carica di direttore delle officine
Bayard, accettò che fosse intitolata al solo Guppy e la
Società fu così battezzata “Guppy & Co”.
485. La “Guppy & Co” sortì buoni risultati, testimoniati
anche dai diversi premi conseguiti in numerose mostre
industriali.
“Intorno al 1855, convertì la produzione verso
l’attività di fonderia e produzione di
macchine ed incrementò in modo significativo la
varietà produttiva. Particolarmente importante fu il
risultato conseguito nella produzione e vendita di
macchine agricole con il conseguente contributo alla
meccanizzazione industriale del Regno meridionale.
Alla fine del 1861 (subito dopo l’unità d’Italia),
con l’acquisizione di un altro terreno adiacente al
primo, la “Guppy & Co” si estendeva su una superficie di
oltre 10.000 mq, occupava 575 operai ed era, nel
giudizio di un protagonista dell’industria italiana come
Giuseppe Colombo (1934, II, p. 1047), la seconda in
Italia nel suo settore”.
La separazione
486. Nel 1862, però, la vecchia società ferroviaria di
Bayard fu acquisita dalla “Società italiana per le
strade ferrate meridionali” e i due ruoli di Pattison,
dirigente della Società e capitalista in
proprio, vennero ritenuti incompatibili fra di loro: si
dimise dunque dal primo e si dedicò interamente al
secondo.
In quell’anno, Pattison divenne quindi solo un
capitalista privato, che ben presto entrò in conflitto
con il suo socio Guppy.
Il contrasto fu risolto con una procedura di arbitrato:
il giudice lasciò a Guppy lo stabilimento e l’attività,
riconoscendo però a Pattison un indennizzo in denaro,
stabilito in 382 mila lire italiane, che era circa 9
volte in più di quanto lo stesso Pattison aveva
investito 10 anni prima.
La “Guppy – Hawthorn” ed
il suo assorbimento in “OM”
487. La “Guppy” continuò la sua attività, nella vecchia
sede, ancora a lungo; fino a che, circa 25 anni dopo,
nel 1886, si fuse con l’azienda metalmeccanica inglese
“Hawthorn Leslie” di Newcastle (la stessa città in cui
era nato Pattison) e diede origine alla Società “Guppy –
Hawthorn”:
Thomas Richard Guppy era morto quattro anni prima, nel
1882.
488. Infine, proprio nel 1904,
l’intera proprietà della “Guppy – Hawthorn” venne
acquisita dalla Società milanese “Officine
Meccaniche (OM)”, la cui genealogia, per chi ne avesse
vaghezza, era la seguente:
-
nel 1847, Felice Grondona fonda a Milano
le “Officine Meccaniche Grondona”;
-
nel 1880, Giovanni Miani, fuoriuscito dalle
“Officine Meccaniche Grondona”, fonda le “Officine Miani,
Venturi & C.” insieme a Prospero Venturi e Girolamo
Silvestri;
-
nel 1891, muore Prospero Venturi e la Società
diventa la “Miani e Silvestri & C.”;
-
nel 1899, la “Miani e Silvestri” assorbe le
“Officine Meccaniche Grondona”, dando vita alle
“Officine Meccaniche” (OM).
Lo stabilimento
“Pattison” (1866)
489. Pattison, dal canto suo, con i soldi introitati
dall’arbitrato, acquistò un terreno nella stessa zona in
cui si trovava la Guppy, fra il Ponte della Maddalena e
i Granili, e vi fece edificare un suo stabilimento:
fonderia e opificio meccanico, la cui attività iniziò
ufficialmente il 1°gennaio 1866.
Si confermava così, fra l’altro, l’importanza del
tracciato della Napoli-Portici: la ferrovia costituì,
infatti, un riferimento strategico per la localizzazione
dei primi opifici industriali che caratterizzò, dal
punto di vista urbanistico, l’intera zona.
Da
quel 1°gennaio 1866, ‘a cemmenèra ‘e Pattisòn non
smise più di fumare …
490. Nel 1870,
Pattison occupava 4-500 operai, e il vecchio socio Guppy
3-400, ovvero complessivamente all’incirca il 50% in più
di quelli che lavoravano nella Società congiunta 10 anni
prima.
Il punto debole, per Pattison come per Guppy, era il
fatto di dover necessariamente ricorrere alle commesse
statali, che però tendevano costantemente a favorire le
industrie del Nord.
491. “Un miglioramento si ebbe a partire dal 1876,
quando fu nominato Ministro della Règia Marina il
generale ed ingegnere torinese Benedetto Brin
(1833-1898), acceso fautore di un ampio progetto di
costruzione di navi corazzate e di torpediniere.
Pattison colse l’opportunità e, qualche anno dopo,
decise di affiancare al vecchio stabilimento ferroviario
un cantiere navale per la produzione di motori marini,
posto sulla spiaggia dei Gigli: nella prima metà degli
anni Ottanta, decisiva per l’espansione aziendale,
diverse furono le commesse per la costruzione di
torpediniere”.
492. Nonostante il fatto che le tariffe doganali
prevedessero dazi di scarsa efficacia protettiva su
locomotive e macchine … “Pattison
ottenne buoni successi commerciali dai brevetti di
macchine per l’agricoltura e l’industria dello zolfo; da
caldaie a vapore più efficienti; mentre ampliò l’offerta
in direzione della domanda di macchine per le
costruzioni ferroviarie, per le carrozze di treni e
funicolari, e per l’alta ingegneria meccanica.
Contemporaneamente, di non minor soddisfazione furono i
risultati conseguiti nel settore navale, soprattutto
nella componentistica minuta, cosa che permetteva di
mantenere al livello di sufficienza il fatturato anche
quando venivano a mancare i picchi raggiunti con le
commesse statali per la costruzione di torpediniere”.
493. Le costruzioni abbandonate, ancor oggi visibili
nella zona di S. Erasmo ai Granili, erano quelle
dell’antico setifìcio “Beaux”, risalenti
probabilmente agli anni Trenta dell’Ottocento, che
vennero in seguito assorbite dall’ampliamento degli
stabilimenti Pattison.
Nel
1886, quando la vecchia “Guppy” si fuse con la “Hawthorn”,
la “Pattison” occupava circa 24.000 mq, per i tre quarti
coperti, organizzati intorno al complesso dell’ex
setificio che, nella nuova sistemazione, ospitava
l’amministrazione e l’ufficio tecnico.
494. Il cantiere “Pattison” venne poi gravemente
danneggiato durante la Prima Guerra mondiale, nella
notte fra il 10 e l’11 marzo 1918, da bombe sganciate
dal dirigibile tedesco Zeppelin LZ104, partito
dalla Bulgaria.
In
tempi nei quali l’aereonautica era ancora allo stadio
iniziale, ed i bombardamenti dal cielo piuttosto rari,
il cantiere “Pattison” fu il primo a godére di
tanta “modernità”.
La “Metallurgica
Corradini” … prima di Corradini (1873-1882)
495. Con strumento del 20 febbraio 1873 del notaio
Michele Mazzitelli di Napoli,
“la
Ditta “Jupply, Mathieu & C.” ed il “Banco
Coloniali di Genova”,
avendo stretto relazioni commerciali con i Signori:
Placido Caràfa di Noja, Stefano Cas e
Errico Deluj Granier, … addivennero coi medesimi ad
una combinazione finanziaria … ed in conformità del
convenuto …
versarono le somme mutuate ai predetti Signori, i quali
èransi costituiti in Società sotto la Ditta “Carafa,
Cas & C.”
e
fornirono l’occorrente per la pattuita lavorazione a
còttimo dei metalli nell’opificio metallurgico
impiantato dal Caràfa in San Giovanni a Teduccio …”
496. “Errico Deluj Granier era stato prima
studente in diritto, poi in ingegneria, indi si era
consacrato con tutta l’anima al trattamento dei metalli
e, essendo perito nell’arte sua, dopo essere stato
operaio negli stabilimenti di Guppy e della Società
Nazionale, prese a lavorare per proprio conto.
Ma
essendosi, dopo poco, mostrata la difficoltà di poter
lavorare utilmente per difetto di capitali, fu
pensato di organizzare una Società.
Fatta ogni valutazione, dove’ riconoscersi che l’impresa
potea attecchire con vantaggio de’ fondatori e ben
presto fu costituita una Società …”
497. La quale fu appunto la “Carafa, Cas & C.”,
della quale:
-
la Ditta “Jupply, Mathieu & C.” ed il “Banco
Coloniali di Genova” costituivano i principali
finanziatori;
- Placido Caràfa di Noja
metteva a disposizione il terreno ed i fabbricati
preesistenti;
- Errico Deluj Granier,
le competenze tecniche;
- e
Stefano Cas, presumibilmente, quelle
amministrative.
498. Grazie soprattutto all’afflusso dei nuovi capitali,
la “Carafa, Cas & C.” ebbe subito un periodo di
forte espansione, passando, dalla iniziale lavorazione
di lastre e verghe di rame ed ottone del solo Granier,
al trattamento completo degli altri metalli.
Ricopriva una superficie complessiva di 3.000 mq ed
utilizzava 5 macchine a vapore (135 HP), con l’impiego
potenziale di 200 operai.
Liquidazione della “Carafa,
Cas & C.”
499. Morto poi il Caràfa, la Società “Caràfa, Cas &
C.” venne posta in liquidazione per soddisfare
finanziatori e creditori, e … con sentenza del 6 marzo
1882 emessa dalla Quinta Sezione del Tribunale Civile di
Napoli, si rese aggiudicataria dello stabilimento la
Commissione di Stralcio del disciolto “Banco Coloniali
di Genova”.
L’acquisto da parte di
Giacomo Corradini (1882)
500. Infine, con Atto del 12 agosto 1882 del notaio
Vincenzo De Martinis di Napoli,
“lo
svizzero Giovanni Mathieu fu Giacomo, commerciante in
Napoli,
nella sua qualità di procuratore speciale
del
Signor Giacomo Corradini fu Giovanni, nativo di
Sent (Svizzera), negoziante, domiciliato in Napoli alla
Via Flavio Gioia n°12,
ACQUISTA
dall’avvocato Vittorio Lanza, procuratore dei Signori:
Francesco Bonini, Angelo Tedeschi, Girolamo Costa e
Alfredo Dapplis, componenti la Commissione di
Stralcio del disciolto “Banco Coloniali di Genova”,
lo
stabilimento metallurgico “Carafa, Cas & C.” sito
in San Giovanni a Teduccio, consistente nel fabbricato,
officine, macchinario ed ogni altro accessorio e
dipendenze, e confinante da un lato con la ferrovia, e
dagli altri tre con proprietà della Signorina Giovanna
Caràfa”.
Lo
stabilimento fu poi progressivamente ampliato, con
l’acquisto di terreni confinanti, nel 1888 e nel 1897.
continua
Vedi anche nn°102-106 in “Il periodo liberale
dal 1896 al 1900”.
Vedi anche nn°18-25 in “Il periodo liberale dal
1860 al 1876”.
Vedi nn°414–426 in “Il periodo borbonico dal
1790 al 1860”.
A. Batocchi – “Forze produttive della Provincia
di Napoli”, 1874.