Le mille città del Sud

 


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Campania

 

Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.5c Il Periodo Liberale (1900-1914)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

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Camorristi e liberali per l’arrivo di Garibaldi a Napoli

200. L’11 maggio 1860, Giuseppe Garibaldi sbarcò a Marsala con i suoi celebri Mille.

Il 25 giugno, Francesco II di Borbone emanò, da Portici, l’Atto Sovrano sotto riportato, con il quale accordava “una generale amnistia per tutt’i reati politici fino a questo giorno” e incaricava proprio il “Barrese” Antonio Spinelli[57] della formazione di un nuovo governo, “il quale compilerà, nel più breve termine possibile, gli articoli di uno Statuto sulla base delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali”. Si prevedeva, inoltre, di stabilire “un accordo con Sua Maestà il Re di Sardegna (= Vittorio Emanuele II di Savoia) per gli interessi comuni delle due Corone in Italia”.

 Atto Sovrano di Francesco II

Liborio Romano (1793-1867)

201. Nel nuovo governo, insediato il 27 giugno, Prefetto di Polizia, e poi anche Ministro dell’Interno, fu l’avvocato Liborio Romano, ex carbonaro, massone, più volte incarcerato ed esiliato in precedenza.  

Mentre, però, Antonio Spinelli, pur essendo liberale e costituzionalista convinto, era tuttavia fedele alla patria napoletana ed alla dinastia borbonica, Liborio Romano era personaggio opportunista ed ambiguo.

Egli, da una parte, giurava fedeltà al Re, e dall’altra apparteneva alla “cospirazione unitaria”, ovvero a quei Comitati segreti che, per idealità e/o per denaro, stavano da tempo in rapporto con la Corte sabàuda e con Cavour (il cosiddetto Comitato dell’Ordine) nonché, in quel frangente, già in corrispondenza con Garibaldi avanzante (il cosiddetto Comitato d’Azione).

 Liborio Romano

202. “Da ministro borbonico, condusse un gioco politico tutto suo, operando su tre fronti diversi. Mentre serviva Francesco II, si tenne in segreta corrispondenza con Cavour; al tempo stesso, volle mettersi in rapporti anche con Garibaldi.

Vincendo le fondate resistenze del sovrano, era riuscito a fare installare nel proprio gabinetto una apparecchiatura telegrafica, e proprio di questa si servì per i suoi contatti segreti”.[58]

Inizia il Regno dei camorristi (27 giugno 1860)

203. Seguiamo la narrazione di Giacinto de Sivo[59]:

 “Lo stesso dì 27 giugno 1860, in cui si insediò ufficialmente il governo … Francesco II, senza pompa, veniva da Portici a Napoli, percorrendo parte della città … non ebbe plauso … il mattino passò in paurosa quiete.

Sul vespro del 27, s'alzò la bandiera de' tre colori ai castelli; e al veder quel vessillo … incontanente va in istrada bieca turba, sozza, proterva; un vociferare sinistro, minaccioso, foriero di sùbiti guai: ecco la più vile gente del mondo, alleata del Garibaldi e di Vittorio …  princìpia il regno de' camorristi.

La sommossa di Masaniello si disse de' Lazzari, perché la fecero gente semi-nuda, come Lazzari uscenti di sepolcro; la rivoltura del 1860 si dirà de' Camorristi, perché da questi goduta …”

Il tumulto del 27 giugno e Don Liborio

204. Ma perché cominciarono quelle manifestazioni la sera del 27 giugno? Perché proprio quel giorno (il nuovo governo) “fece Prefetto di polizia Don Liborio Romano, storci-leggi ovvero pagliètta, nato il 1793 in Patù nel Leccese, massone, carbonaro e mazziniano.

Costui, carcerato nel 1850, andato esule a Parigi, supplicò per grazia e, avùtala, scriveva il 22 aprile 1854 al Re, protestando devozione e attaccamento alla sacra persona reale, che aveva coscienza di non averlo mai offeso, ma ove inconsapevolmente l’avesse, prometteva per l’avvenire irreprensibile condotta. Ferdinando II lo accolse in regno; ed egli fe' obblianza firmata di rispettare le leggi; ma ricospirò più avveduto.

Ora però … tenuto patrono e cima di camorristi, era dai cieli destinato a infame celebrità. Chiamò quei suoi clièntuli; e fattili certi che la potestà tacerebbe, lor disse: -Fate”.

205. “Niuno domandi se alzassero la testa, sendo sicurtati dal Prefetto, e come coraggiosi si lanciassero a vendicarsi di quei poliziotti ch'avean lor dato la caccia.

Corso il motto, si radunarono in piazza, anche con loro donne e bagasce.

Capitanava le femmine una Marianna de Crescenzo, tavernaia, detta la Sangiovannara, addobbata alla brigantesca; la quale, tutta di D. Liborio, da molto, co' denari della setta, aveva abbeverato di vino e carboneria quella ladronàia: ella con altre andava avanti come a trionfo, quasi ebbre, piene di fasce e colori e bandiere e pistole e coltelli.

Capitanavano gli uomini un Nicola Jossa, un Nicola Capuano, un Salvatore De Crescenzo, un Ferdinando Mele e altri siffatti.

Li seguitavano bruzzaglia, monelli, proletari, prostitute e vagabondi, il più della Pignasecca e di Montecalvario.

206. Sul cader del dì, corsero le vie con grida faziose; pochi Viva la costituzione, molti Viva Garibaldi, Italia, Vittorio gridavano; e minacciavano e percotevano le genti di polizia che vedessero.

Pugnalarono un Peppe Aversano, stato de' loro, che aveva all'Aiossa svelati loro segreti.

 Capitanava le femmine una Marianna De Crescenzo tavernaia detta La Sangiovannara

207. Fu qualche ispettore di polizia con pattuglia che, mal sopportando gl'insulti, cavò la spada. Per questo un giovine ispettore Cioffi fu malconcio, e salvò la vita a stento.

208. Per questo il più giovine ispettore Perrelli, a Toledo, presso S. Nicola la Carità, difendendosi, e lasciato solo dagli immobili gendarmi, pagò con la vita l'esercizio del suo dovere: messo sanguinoso in una carrozzella, poteva guarire; ma per ultimo colpo di Ferdinando Mele, capo della masnada, boccheggiando, prima d'arrivare all'ospedale, spirò.

E ve' giustizia di Dio! Esaltata poi la canaglia, e surto quel Mele a commissario di polizia garibaldesca, venne anch'esso, nello stesso mese di giugno dell'anno dopo, assassinato da un Demàta camorrista di quella stessa sua brigata ch'aveva ucciso il Perrelli; e messo boccheggiante in consimile carrozza, prima ancora di giungere all'ospedale, similmente per via lasciò l'anima trista”.

E’ battuto il Brénier, ambasciatore di Francia

209. “La città, in balìa di costoro, trepidava. Eglino, incontrando soldati, gridavano Viva la truppa! e passavano.

Era già buio, quando il francese ministro Brénier usciva dal palagio del Nunzio Apostolico in carrozza; il cocchiere sferzava i cavalli, come era uso nella quieta Napoli, ma quel popolo libero bastonò lui; e come il Brénier, levandosi e dicendo suo nome, si aspettava plausi, ebbe due colpi di mazza sul capo; sicché sanguinando se ne andò.

Ciò fecero, sperando impacciare il re con Francia. Francesco mandò tosto a visitare il ferito due suoi aiutanti generali, e lo zio conte di Aquila, che sino a notte larda gli fe’ compagnia.

210. I liberali strombazzarono il feritore dover essere assolutista, non potendo il popolo rigenerato mazzicare il rigeneratore; e per farlo credere imputarono un Giovanni Manetta, costruttore di bagni a mare, noto per devozione ai Borboni; ma il Manetta, con altri, stato carcerato parecchi mesi, pitoccò lunga pezza il giudizio al sopravvenuto governo sardo, che benché voglioso di trovarlo reo, da ultimo innocente l'ebbe a liberare.

211. Nulladimeno fu scritto un indirizzo al Brénier, firmato da tre personaggi anziani per ogni quartiere della città, dicentisi incaricati dal popolo (e dov'era il mandato?) a manifestargli il dolore dei Napolitani, per la ferita toccata al rappresentante di Francia; e la certezza fosse colpo di assolutisti e retrogradi.

Don Liborio tali cose stampò ai 2 luglio sul Giornale Ufficiale … Il Brènier rispose ai 4 luglio: esser convinto del rispetto de' Napolitani al rappresentante d’un sovrano ch’avea compìti mirabili fatti pel bene d'Italia. E di tanto bene avea le prove sul capo”.

I camorristi, braccio dei liberali, assaltano i commissariati (28 giugno 1860):

212. “Le dimane, 28, peggio assai. Il comitato Ordine comandò s'abbattessero i Commissariati di polizia; e die' anzi prescritte le ore da durare il disordine.

Camorristi e baldracche, con coltelli, stocchi, pistole e fucili, correan le vie gridando Italia, Vittorio e Garibaldi. E siccome le pattuglie de' soldati avevano ordine di non usar l'arme, sopportavano l'insulto dell'udirsi celebrare il nemico in viso; onde quelli, sapendo esser padroni delle strade, impunemente birboneggiavano. Li seguitavano monelli e paltonieri (=accattoni), per buscar qualcosa, gridando Mora la polizia!

213. Assalgono i Commissariati. Le guardie, senza capi, non difese dai Gendarmi, poche e scoràte, non osan difendersi, e perciò battute, manomesse, cercano scampo; in mentre i vincitori gìttano per le finestre carte e suppellettili, e sin le porte van fendendo e sgangherando. Poi, giù raccolto il tutto, ne fanno falò, con balli e canti. Di là difilati ad altri quartieri, vi fan lo stesso, e in tutti i commissariati, l'un dopo l'altro.

Assalgono i commissariati

214. Alla Stella soltanto, trovata resistenza, nulla osarono; se non sul tardi, quando i difensori, accòrtisi che il governo il volea, se n'erano iti; e perciò fu l'ultimo commissariato disfatto.

215. Così, un solo nodo di manigoldi, in sì ampia città, ebbe agio di perpetrare tanto atto di ribellione, senza pericolo.

Dappoi, gli stessi camorristi, con piatti nelle mani, andavano attorno dimandando mercede per la buon’opera fatta: e chi volete negasse?

E i membri del comitato Ordine, poi che si smascherarono, menarono gran vanto del fatto: lodavanlo sapienza politica, colpo di stato”.

Lo stato d’assedio (28 giugno – 2 luglio)

216. “Questo stesso dì (28 giugno), il popolo di S. Lucia, udendo quelle vergogne, s'assembrò ed armò, e uscì per via di Palazzo gridando Viva il re! ma la Guardia Reale, a impedir sangue, vietò il passo. Gran prudenza, che sempre ligàva le braccia agli amici e le scioglieva ai nemici! …

Il ministro Federigo Del Re, uomo di pensieri legali, fe' tosto togliere dal comando della Piazza il generale Polizzi, che avea permesse quelle ruine, e proclamare lo stato d'assedio dal nuovo comandante, il duca di S. Vito; il quale proibì ogni assembramento maggiore di dieci persone, e l'asportazione di arme e di grossi bastoni, pena la vita; e anzi volea procedere al disarmamento secondo l'ordinanze.

Ma forte s'oppose Don Liborio, che non volea levar l'arme alla setta, e vinse; sicché lo stato d’assedio seguì solo pro forma … e venne tolto già ai 2 luglio”.

La nuova polizia (7 luglio 1860)

217. “Un decreto del 7 luglio revocò le attribuzioni poliziesche, limitandole alla prevenzione de' reati e alla sicurezza; perciò, fuorché in flagranti, non potea carcerare, né entrare in case private, senza mandato di magistrato.

Sarìa stato un bene; ma il decreto uscì per sicurtare i congiuratori: contro i buoni, a malgrado il decreto, si carcerava, s'esiliava, s'abbattevan porte, con istizza settaria.

218. Quel decreto ordinava anche nuova polizia, con più grasse paghe e nuove assise: e ciò per dar premio ai Camorristi, arnesi d'ergastoli e lupanàri, braccio della setta.

Don Liborio, loro capo, li fece tutti guardie di polizia, invece dei vecchi, quasi mercede di vittoria: la società dové pagare i percussori dell'ordine sociale; i cittadini fur dati in custodia a chi tutta la vita avea guerreggiato alla roba altrui.

Don Liborio, a chi nel riprendeva, rispondeva (e così scrisse nelle sue Memorie) … averli rimunerati per toglierli alla reazione, cui si sarebbero uniti; necessità valersi di quelli, non potendo fidar ne' Gendarmi e ne' soldati, tutti del re; un governo riparatore aver obbligo di riabilitare quei poveri parias; l'uomo di Stato dover, negli stessi elementi di disordine, cercar l'ordine.

Egli, invero, voleva al disordine con gli elementi del disordine provvedere; ma che ne avesse necessità per far la rivoluzione, é certo: la camorra era il suo popolo.

219. Vedemmo, in conseguenza, “Commissari” un Cozzolongo, cameriere di locanda; il garzone d'un parrucchiere a Chiaia; un parrucchiere del teatro Nuovo; e quel Mele, uccisore del Perrelli, stato soprastante a' scopatori di strade; un Callicchio taverniere fatto ispettore; e altri peggiori, noti per vergogna, meritevoli per essere spioni della setta.

Così i ministri stessi del Re iniziarono la cacciata di Iui, col fargli dalla sua mano creare i suoi percussori, e costituire la polizia garibaldesca”.

Prosegue l’opera di Don Liborio

220. In effetti, “Romano, profondo conoscitore del Regno, utilizzò la sua posizione per modificare la struttura di potere nelle istituzioni … realizzando un’operazione politica di ampia portata … Utilizzando l’incompetenza dei colleghi e la confusione della Corte, mise mano ai vertici istituzionali dello Stato, modificandone in poche settimane le strutture di potere.

Sostituì tutti gli intendenti e i sotto-intendenti al vertice di province e circondari, imponendo funzionari e politici liberali moderati o autonomisti al posto dei fedeli alla monarchia.

Consentì agli unitàri di impadronirsi dei vertici di buona parte delle compagnie di Guardia Nazionale.

Intervenne sul sistema penitenziario e spesso influenzò incarichi nel settore giudiziario.

Infine lavorò per rinnovare i Sindaci dei centri più importanti, ed anche dei minori, lasciando spazio alla vasta area liberaleggiante moderata e interpretando così la volontà della larga maggioranza del notabilato provinciale a favore di un cambio di regime controllato.

Nel giro di poco più di un mese, aveva demolito ogni possibilità della monarchia borbonica di guidare gli apparati civili dello Stato”[60]. “Col nome del Re, comandava dalla reggia l'utile del nemico” (Giacinto de Sivo).

Non un nuovo Statuto ma la Costituzione del 1848

221. “Il ministero compì sua insidia a’ 1°luglio 1860.

Con l'Atto sovrano del 25 giugno (vedi sopra) era dato allo Spinelli il carico di compilare lo Statuto nuovo. Ma questi, co' colleghi, consultato Don Liborio, ordine parlante del Comitato, volse al monarca un indirizzo dicente: non abbisognar nuovo statuto, laddove quello del 1848, non mai abrogato, stava nel pubblico diritto del Regno; si richiami dunque in vigore; e lo straniero ammirerà la sapienza della mente sovrana in sì alto provvedimento; e il popolo s'avrà in esso novello pegno della buona volontà del Re.

Ma già il giorno innanzi, Don Liborio avea annunziato al pubblico che la costituzione sarebbe quella del ‘48; ciò per togliere la faciltà del niego.

222. E perciò Francesco, per non cominciar una lotta nel primo passo costituzionale, e sospinto dallo Spinelli che forte la proposta propugnava, cadde, benché il vedesse, nel laccio; e rispose in iscritto: l'accettazione partorire gravi conseguenze; mettere a rischio la dinastia e la pubblica tranquillità; nondimeno non volersi separare dal suo ministero responsabile. 

223. Così, quel dì stesso, 1° luglio, un decreto richiamò a vita il malaugurato Statuto del 10 febbraio 1848 …

Un altro decreto dava al Ministero dell'Interno facoltà di fare una Commissione per preparare al parlamento i progetti di legge elettorale, e di leggi sulla Guardia nazionale, sull'Amministrazione civile, sul Consiglio di Stato, sulle responsabilità ministeriali, sulla stampa.

Un decreto del 5 ordinò altra Commissione da preparare leggi per riforme di tariffe doganali e sulla dogana, la navigazione, i contrabbandi, e per far depositi di mercanzie, e ampliare il porto.

A' 15 si dichiarò la Consulta Consiglio di Stato; e messi molti Consultori a ritiro, si crearono consiglieri liberaleschi.

224. Richiamando lo statuto del ‘48, il ministero Spinelli rovesciava sul trono e sul paese una trista eredità. S’atteggiava in dritto di ripigliarne la via interrotta, mostrava tenere illegali 11 anni di quieto governare, metteva la fazione in vista di vittima ingiustamente oppressa, e le dava facoltà di rivendicare il suo imperio sulla piazza e ne' tumulti …

Conseguenza logica ne fu il decreto di piena amnistia, anche pe' contumaci, il richiamo degli esuli, la condonazione e la restituzione de' danni e delle spese giudiziarie. Nulla doveva mancare al trionfo.

225. Ma non s'udì un plauso: i faziosi volean altro; fra' buoni era lutto …

Gli esuli rientrati … si sparpagliarono per le province … né ben fidando in questi, il Cavour ci mandò, per muovere la rivoluzione, parecchie delle sue lance; tra' quali uno Zanardelli[61], e l'ebreo Finzi, l'ingaggiatore garibaldino, cui il ministero lasciava libero per Napoli brogliare e congiurare.

Il conte d'Aquila, stato di tanto aiuto già ammiraglio, fècesi comandante supremo della Marina, e presto se ne vide il frutto.

226. Come resistere Francesco, fidente in Napoleone, sperando guadagnarselo seguendone i consigli conciliativi, sul pendìo delle concessioni, solo tra felloni o spauriti, e dal suo stesso sangue insidiato?

E mentre si preparava l'infrazione ad ogni giuramento, uscì agli 8 luglio il decreto di formola del nuovo giuramento al re e alla costituzione”.

La Guardia Nazionale (17 luglio 1860)

227. “Federigo Del Re, ministro dell'Interno, lasciò fare all'onniscio Romano la bozza del previsto Decreto per la Guardia nazionale: né dico quant'ei facésselo amplissimo; ma il ministro, udito il sovrano, il moderò, e il fe' pubblico a' 5 di luglio, che a' buoni parve guarentigia dell'ordine.

Vi si chiamavano padri di famiglia[62], possidenti, impiegati, mercanti e capi d'arte, e d'età da' 30 ai 40 anni: 6.000 per Napoli, in 12 battaglioni; per le province, 40 uomini pe' Comuni di 1000 anime, 60 per quelli di 2000, 100 per sino a' 5000, e 150 pe' maggiori; i capiluoghi potevano averne 300. Si provvide altresì a' modi da formarli, e alle divise, all'arme e alle caserme.

228. Ma la legge, dalla setta disapprovata, restò scritta: si fece l'opposto.

I faziosi, preso in ogni paese il comando della Guardia, la fecero a grado loro; pòservi loro adepti, camorristi, ragazzoni da quindici anni, broglioni e ladri. Uomini già tutte le notti sorvegliati in casa, perché non uscissero a svaligiare i passeggieri, ora appellati liberali, si dicevan Nazionali e avean l'arme per tutelare la nazione.

I buoni, o esclusi, o s'astennero, schifando simili compagni. E cominciò la tirannide sgherresca, che ancora non ha fine.

229. In Napoli, poco diversamente: presero i gradi, poi venne il decreto. A' 13 luglio v'andò comandante il principe d'Ischitella, stato ministro assoluto, ma gli fu merito l'essere stato prima gran Murattiano; al quale si aggiunsero 12 maggiori, de' quali, rinunziando alcuni, se ne crearono altri a' 27, e altri agli 8 e 22 agosto, che furon poi quelli che dettero giulivi la patria allo straniero.

La Guardia cominciò in Napoli il servizio la sera del 17 luglio (designato a posta), tra' plausi d'incomposta turba, e per tre sere con fiori e luminarie; le quali furono le prime feste, sussurrandosi fossero pel dì natalizio del Garibaldi.

La guardia inoltre, quel dì, fe' un indirizzo d'onore a Don Liborio; ed ei se ne valse per vincere la renitenza del re ad ingrossarla; però Francesco, cedendo, gli disse con profetica ironia: - Si conceda pur questo al tribuno Romano.

230. Laonde la Guardia, già cresciuta, ebbe la prima dilatazione legale il 19 luglio, portata con decreto a 9.600 in Napoli; e nelle province al numero delle abolite guardie urbane; e per l'età scese da' 30 anni a' 25.

Più tardi, a' 27 agosto, a coprir meglio il già fatto, altro decreto la crebbe per Napoli a 12.000, oltre quella de’ villaggi.

A' 30 se ne approvò il regolamento disciplinale. Finalmente, mature le cose, mandarono via l’Ischitella e fécesi dal re nomar capo supremo il zoppicante generale Desauget, quello innocentino del ‘48, che doveva andare a invitare il marinaio Nizzardo”.

A proposito di legnate e di petriàte

231. “Fra l’altro, il filantropo prefetto (= Don Liborio) ottenne a' 10 luglio l'abolizione della pena delle legnate disciplinarie, che dàvansi con giudizi di speciali Commissioni a ladroncelli, a lanciatori di pietre e a camorristi di prigioni, per un rescritto del 10 giugno 1826; il quale era riuscito in Napoli a seppellire il vezzo del lanciar pietre, uso secolare de' lazzaroni.

Ora, con riserva di provvedere dappoi con altri regolamenti, s'abolivano quelle costumate legnate, madri di tanto bene; laddove avrian dovuto durare, se non altro per l'esempio della simpatica Inghilterra, che non a’ mariuoli ma a' suoi soldati le ministra liberalmente.

La statistica uffiziale del 1859 ne fa sapere di 22.505 legnate date quell'anno a 512 soldati inglesi. Tra noi le si davano a furfantoni, e di rado, e dopo giudizio: l'abolirle fu un altro ingraziarsi del Romano a' suoi camorristi”.

Altri tumulti

232. “Costituzione, decreti, guardie nazionali, e poliziotti nuovi, fatti per tutela di civiltà e di ordine, partorirono subito tumulti.

I congiurati, certi della inazione de' soldati, non perdean tempo. Tolto a' 2 luglio lo stato d'assedio[63], quel dì stesso s'aggrupparono minacciosi … La gente pacifica spiritava, si serrava pria che imbrunisse, chiudevansi le botteghe …

L'altro dì i camorristi in folla accompagnarono il mortorio d'un Aniello Formisano loro compagno, figlio d'un burraio, finito per colpo toccato da una pattuglia la sera del 27 giugno.

Il mattino del giorno 8 luglio n'avean fatta un'altra: si recarono per mare alla Villa reale, a' bagni del Manetta[64], cui imputavano la bastonatura del Brénier, e presero ad arderli; accorrendo soldati, fuggirono: restò l'impunità a quelli, e lo spavento ai bagnantisi cittadini …  Poi, la sera del 13, la canaglia aggraffò il figlio di lui; e con busse e fracasso condottolo alla Prefettura, fu tenuto per ben catturato, impuniti e lodati i catturanti, nuovissimi ufficiali di giustizia.

Lo stesso giorno 13, a' Tribunali, i paglietti fischiarono tre magistrati mentre giuravano, com'era prescritto, al re e alla costituzione.

E la sera del 14 furon busse nel teatro S. Carlo, perciocché un liberale bastonò un ex ispettore di polizia.

233. La Camorra tuttodì assaltava le case de' passati impiegati di polizia; manomettevale e dove trovavan gente davano coltellate. Poi, per case e botteghe, estorquevano danari per amor della patria; se no, ferite e percosse.

Al 26, piglia foco la chiesa di S. Agostino degli Scalzi, spento da' soldati.

Più tardi, a' 5 agosto, la Guardia Nazionale fa rumore, offesa che le si desse il motto di ricognizione, non il Santo. La dimane, altro spaurimento, per vane voci di tumulti di poliziotti siciliani.

E la stampa, ridendosi delle ordinanze, lodava tutto, e soffiava nel fuoco”.

Reazione dei soldati (15 luglio 1860) e sue conseguenze

234. “I soldati, compressi per disciplina, indignati del vedersela fare in sul viso, fremevano.

Perlocché, nell'ore vespertine del 15 luglio, surta a caso una rissa presso il Carmine … come certi Camorristi gridarono Viva Garibaldi, alquanti granatieri della guardia e fanti di Marina gridando Viva il Re e abbasso la Costituzione, se li cacciarono d'avanti con le spade; e co' ferri insanguinati corsero pe' bassi quartieri sino a Toledo, dove ruppero altresì vetri a qualche bottega, e sfogarono l'ira contro i ritratti del Garibaldi e di Vittorio; della quale profanazione i liberali ebbero un sacro orrore. La cavalleria, e parecchi uffiziali usciti a tempo, riposero l'ordine.

235. Questo fatto, che atterrì la città, mostrava dall'altra parte la pochezza della setta a menar le mani: perciò avrebbe potuto alzarsi un uomo a dominare gli eventi, invece ebbe diverse conseguenze.

Imperciocché Francesco, accortosi della malvagità del ministero, volea mutarlo; e sin dall' 11 luglio avea dato a Pietro Ulloa, magistrato, il carico di trovargli uomini costituzionali, buoni a salvare la monarchia, e già l'Ulloa diceva averli accozzati; ma quel tumulto soldatesco, che accennava contro la Costituzione, accrescendo le speranze reazionarie e le irritazioni rivoluzionarie, fe' che quegli uomini non ebbero animo di stendere le mani al timone”.

236. Infine, Francesco II decise di lasciare la capitale (6 settembre 1860), vuoi per evitare che la città divenisse campo di battaglia e salvaguardarla da stragi e distruzioni, vuoi per apprestare miglior linea di difesa sul Volturno e nella fortezza di Gaeta[65].

L’invito e il bando di Don Liborio

237. La città rimase nelle mani di Don Liborio Romano. Garibaldi era giunto a Salerno.

“Prima che (Garibaldi) movesse da Salerno, eran corse lettere e proclamazioni, che trascrivo a parola, per memoria dell'italianissimo stile:

All’invittissimo general Garibaldi, dittatore delle Due Sicilie, Liborio Romano, ministro dell’interno.

Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo, per salutare il Redentore d'Italia, e deporre nelle sue mani i poteri dello Stato e i propri destini. In questa aspettativa, io starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica. La sua voce, già da me resa nota al popolo, é il più gran pegno del successo di tali assunti. Mi attendo gli ulteriori ordini suoi, e sono con illimitato rispetto, di lei, Dittatore invittissimo, Liborio Romano. 7 settembre 1860.

238. E dopo ch'avea scritto siffatto invito, fe' anche un bando, così:

Cittadini, chi vi ricorda l'ordine e la tranquillità in questi solenni momenti è il general Giuseppe Garibaldi. Osereste non esser docili a quella voce, cui da gran tempo s'inchinano tutte le genti italiane? No, certamente. Egli arriverà tra poche ore in mezzo a voi, ed il plauso che ne avrà chiunque sarà concorso al sublime intento, sarà la gloria più bella cui cittadino italiano possa aspirare. Io, quindi, miei buoni cittadini, aspetto da voi quel che il dittatore Garibaldi vi raccomanda ed aspetta. Il ministro dell'interno e della polizia, Liborio Romano. 7 settembre 1860.

E tali scritte fe' stampare ed affiggere a' muri”.

Garibaldi alla stazione (7 settembre 1860)

239. “Il conquistatore s'avventurò a venire in Napoli, con solo dieci ufficiali, e altri pochi giovani napolitani iti a riverirlo, tra' quali, unico gentiluomo, il principino di Fondi. Méssosi presso Vietri nella strada di ferro, arrivò sul mezzodì.

Liborio Romano lo aspettava alla stazione, col suo popolo prezzolato, un battaglione nazionale, i direttori Giacchi e De Cesare, e il Bardari prefetto. Cavò di tasca una concione scritta da esso già da più giorni …”

La stazione di Napoli nel 1860

240. Ma, per la verità, la prima cosa che il biondo eroe volle fare appena giunto in Napoli, fu … una pisciatina. Scese così dal treno dal lato opposto a quello sul quale lo aspettavano, si appartò brevemente dietro un pilone della stazione, e ritornò sulla carrozza, evidentemente rinfrancato, pronto ad ascoltare la “concione” sciorinata da Don Liborio per la solenne occasione …

241. “Nel suo discorso, il Romano si vantava di aver fatto il ministro di Francesco solo per iscacciarlo. Come, da legulèio, sì possono difendere clienti per far loro perdere la lite, e aver paga dall'avversario, così da ministro egli avea fatto. E il vincitore il rimeritò stendendogli la mano (se l’era almeno lavata? non si sa), appellandolo salvatore di Napoli, e tenendolo ministro nella sua dittatura”.

La celebre stretta di mano fra Garibaldi e Liborio Romano alla stazione di Napoli il 7 settembre 1860

Successive vicende e fine di Liborio Romano

242. Don Liborio pensava di poter continuare ad essere il vero padrone della città con Garibaldi, così come lo era stato con Francesco, ma venne ben presto in urto con i nuovi arrivati, che ormai non avevano più bisogno di lui.

E così, dopo solo 20 giorni, il 27 settembre, si dimise: “In tal guisa Liborio, dopo 92 giorni, dal 27 giugno al 27 settembre, ne' quali, servito due padroni, avea compìto il più turpe tradimento che udissero gli uomini, lasciava l'insozzato seggio.

E seguì speciosissimo tratto: veggendosi odioso a ogni partito, andò al Garibaldi, e avutone solenne dichiarazione d'aver ben meritato della patria, contentissimo l'affisse alle muraglie. Credetelo, o posteri: il ministro di Francesco s'onorò d'avere il ben servito dal Garibaldi”.

243. Il titolo di merito ricevuto da Garibaldi gli servì in realtà per rimanere a galla. Divenne infatti nuovamente Ministro dell’Interno quando giunsero come luogo-tenenti il Carignano ed il Nigra (vedi oltre).

Ma anche allora … “Contro di lui correvano petizioni al luogo-tenente (firmate da liberali) dicenti il paese non poter sopportare un'amministrazione, i cui atti fanno ribrezzo alla pubblica moralità. Tra esso e lo Spaventa, gravi ire in Consiglio, per impieghi da dare o da togliere. Torme di postulanti e minacciosi ingombravano i ministeri, sforzavano gli usci, e presentavano suppliche impugnando pistole …”

244. Infine, si dimise di nuovo e le sue dimissioni furono accolte in data 12 marzo 1861. Intanto però, nel gennaio 1861, si erano svolte le prime elezioni per il nuovo Parlamento nazionale italiano ed il Nostro, con il consueto appoggio della Bella Società, era riuscito eletto in ben 8 collegi contemporaneamente.

Da quel momento, la sua azione si inserì quindi in più vasti orizzonti: dopo essere stato il prototipo dei trasformisti, divenne anche il prototipo del borghese meridionale quèrulo ed accattone che, nel Parlamento nazionale, denuncia fieramente le ingiustizie subite dal Sud, allo scopo di ottenere finanziamenti … che finiscono regolarmente nelle sue tasche.  

245. Comunque, durò poco: nel 1865 si ritirò definitivamente dalla vita politica, dopo essere transitato più volte dalla Destra alla Sinistra liberale e viceversa, senza riuscire ad ottenere alcunché. Si ritirò nel suo paese natale ed ivi morì, celibe e senza figli, il 17 luglio 1867.

246. L’immagine di sé che volle lasciare ai posteri è consegnata nelle sue “Memorie” nonché nell’epigrafe della sua pietra tombale.

Lapide sepolcrale di Liborio Romano

Ma chi fu, in definitiva, Liborio Romano?

247. “Paglietta in Napoli significava avvocato cavilloso, senza coscienza, capace di farsi pagare dal cliente e dall'avversario, o di vendere l’uno all'altro; malizioso ma non ingegnoso, ciarlatore ma non eloquente, saputo ma non dotto, con l'occhio non all'onore ma al denaro, intento non alla scienza ma al sofisma. Paglietta é camorrista di tribunali. Ne fu tipo Liborio Romano.

Cotal genìa fu il nucleo de' comitati settari nelle province, donde poi, senza rischio, per mezzo di clienti, stendevano le branche in tutti i paesi.

Protetti da magistrati a loro simili, questi vantavano giusti, sé invincibili, ed a quelli fama, a sé moneta e nomèa procacciavano … 

Pronti a stare con qualunque vincitore, divennero Italiani perché stava arrivando Garibaldi; venendo Abd-el-Kadèr, si farebbero Algerini”.

248. In effetti, Liborio Romano fu semplicemente, nelle circostanze storiche, l’adeguato rappresentante politico di quella borghesia meridionale, opportunisticamente subalterna, di cui abbiamo già descritto l’origine e le precedenti vicende.

Ma continuiamo ora la nostra storia di camorra.

Entrata del Garibaldi in Napoli: la folla

249. “Napoli quel giorno 7 settembre 1860 stava così: nobiltà in esilio, borghesia in casa, botteghe chiuse … i castelli con soldati règi cui si vietava l'azione, ogni vero Napolitano commiserante la patria.

Invece, settari di tutto il mondo accorsi al grasso convito, le migliaia mandati da Torino a simular popolo, faziosi provinciali fuggiti dalle reazioni, camorristi prezzolati, contrabbandieri, tristi tenuti tant'anni a segno ed ora sfuriati, malfattori scarcerati, proletari, bagasce, monelli, tutti irti d'arme, con pistole e pugnali sguainati, scorrevano le strade trionfanti.

Inoltre, popolo inerte, venuto a guardare la festa non più vista, creduta passasse presto; uffiziali civili nuovi, e i pochi vecchi rimasti, che per amor del soldo si mascheravano di libertà, e per dar nell’occhio scorrevano in carrozze, sventolanti bandiere, inneggianti al nuovo sole.

250. Qualcuno, che aveva avuto dal Borbone a grazia il servire, ora si pavoneggiava di tradimento e si vantava liberale dal 1820. V’era di ambiziosi che volevano torbido, di falliti che risperavano fortuna, di illusi vagheggianti elìsi, di famèlici al fiuto del banchetto, ed anche di donne scostumate o vecchie che credevano trovar marito fra scavezzacolli nuovi.

Ciò facea folla nelle vie dove avea a passare il corteggio. S’erano prese locande e osterie e case opportune, dove nastri, stendardi, fasce, bandiere, avean messo. Ogni qualunque casa dové sventolar bandiera a tre colori; la comprava la paura, chi più realista più n’aveva. Fu gran gridare Italia, Garibaldi, Liborio, Re galantuomo”.

Garibaldi a Napoli

L’Italia è una!?

251. “E camorristi maschi e femmine, con coltelli luccicanti, gridanti a gola piena, sforzavano ogni persona a gridar con essi Italia una; né si contentavano d’un viva solo, ma con i pugnali ai volti volevano le repliche: è una, è una, è una, ripetevano con gl’indici in alto; senza neppure intendere che mai quell’una significasse.

Carrozze con camorristi in pié, squassanti arme e drappi; altre con femminacce, luride baccanti, burlevoli amazzoni; altre con preti spiritati usciti dal bagno di Nisida o venuti di lontano a far clericali ovazioni; altre di monaci, fra' quali un Giuseppe da Foria, mezzo scherani e mezzo frati, mescolanti corone e coltelli; altre con nobilicchi, già per vizi esclusi dalla corte; altre di studenti imbriacati di libertà vocale.

Di signori, benché invitati, qualcun raro andò; nessuno del municipio. Presente era la ben creata Guardia Nazionale.

252. In quella indescrivibile orgia, primo il Garibaldi in carrozza, con accanto il Bertani (Agostino Bertani, ufficiale medico, 1812-1886), procedeva in pié come Pompeo Magno, in camicia rossa, e col fazzoletto svolazzante al collo; e levava alto il cappello colle code di cappone; e rispondeva coi Viva ai Viva, ai plausi e ai fiori che la rivoluzione gli versava dai preparati balconi.

Seguitavano altre carrozze: del Sava, già sartore, poi lanaiuolo, fatto ricchissimo e cavaliere da' Borboni, con entro camiciotti rossi; poi il Villamarina (emissario del Cavour a Napoli); poi il padre Gavazzi, vestito rosso e nero, accanto a donna in rossa camicia, tunica verde e bianca veste.

Garibaldi a Napoli

253. Lentamente, pel Piliero al Palazzo, il trionfatore ascese alla Foresteria; e là, passando da un balcone all’altro, ringraziava e arringava … poco udito, niente compreso, moltissimo plaudito.

Poscia, in una sala gli s'appresenta l'Ayala con altri, che appellò deputati della città, e che gli fece un tronfissimo discorso, chiedendo dargli un bacio, bacio di 500 mila abitanti!”

Garibaldi nel Duomo di Napoli

254. “Tosto ridiscende, nella carrozza del gelataio Donzelli, e così anche a processione va al Duomo, a pregar S. Gennaro, copiando le imposture dello Championnet di 60 anni prima.

Avealo preceduto colà il padre Pantaleo; ma benché iti gli ordini per l'apertura del Santuario, il trovò chiuso, senza un prete del luogo. Sforzati i cancelli, mancano gli arredi sacri; non riescono alla prima a sfondar le porte della sagrestia, e van per fretta a' Girolamini; battono il portinaio, e li rapiscono. Cercan preti, ne vedono uno a caso ad orare, gl'impongono si vesta, e com'ei nega, là dentro la chiesa il percuotono.

255. Il Pantaleo, venuto il dittatore, sale in pergamo, irto d'arme, in veste talare e l'ostensorio in mano; e predica sopra i tre stati della legge. Dice: - Dio pria die' la legge a Mosé; poi la mandò più perfetta pel Cristo suo figlio redentore; ora l'inizia perfettissima per Garibaldi redentore novello.

E la turba, e il Garibaldi stesso, rispondeva: - Viva Dio! Viva Maria Immacolata! Viva Giuseppe Garibaldi! Da ultimo, il sacrilego oratore intona il Te Deum, e dà la benedizione, tra plausi e risa e baldorie. In chiesa, come in mercato, compratori e venditori; si mangia, si beve; chi per curiosità è accorso, stomacato fugge.

La setta, che a religione non crede, vuole poi a forza, con religiose moìne, profanare le cose sante, e celebrare i suoi eccessi”.

Garibaldi a Palazzo Doria d’Angri

256. “Il trionfatore, uscito di chiesa, si piglia in carrozza Liborio Romano, ambo plauditi. Ferma al palazzo Angri allo Spirito Santo, a dispetto di quel principe di casa Doria fuggito in Francia; dove pure alloggiarono pria lo Championnet, poi il Massena. Ei si pose al quarto piano, sotto il tetto, dissero per sicurezza; gli appartamenti occupò la sua marmaglia …

Bentosto il Garibaldi cominciò a ricevere visite di traditori, e tra' primi il generale Lanza, il suo avversario di Sicilia!”

Garibaldi arriva a Palazzo Doria d'Angri

Una giornata da 24 mila ducati

257. “Il dì passò quieto: per Toledo, curiosi e stranieri, poche donne civili, quasi nessun gentiluomo, molte bandiere e, per voglia o forza, luminarie la sera.

Il rumorìo di quella giornata, fatto a forza di denaro, gravò sull'erario: e si disse Liborio vi facesse spendere 24 mila ducati”.

Garibaldi a Piedigrotta (8 settembre 1860)

258. “La dimane, 8 settembre, dì sacro alla festa solenne de' re nostri a Piedigrotta[66], il dittatore volle esso pure andarvi per divozione, con Don Liborio. Procedeva in carrozza da nolo, fra ale di camorristi, con due in pié sugli staffoni, vestiti rosso colle pistole in resta, pronti a difesa; mentre il cielo a dirotto pareva piangere dell'onta nostra.

Accanto alla carrozza, vedevi un Pancrazi bigliettaio del teatro Fiorentini, e quei commedianti armati di picche, cosa assai buffona.

Il Gavazzi e il Pantaleo, mancati i preti della chiesa, posero alla Vergine i tre colori; lui benedissero, e presentarono, come s'usava ai re, del mazzo di fiori benedetti; ed ei, col collo torto, rispondeva cristianamente; e baciucchiava quanti eran là, camorristi preparatigli a onoranza”.

I contadini difendono i monumenti

259. “Sin da un'ora prima che partisse il re, s'era preso a fracassare gigli (simbolo borbonico) dove se ne vedessero. Vi si svelenivano su con mazze e martelli, tra parole oscene di sacrileghe bocche, così iniziando la moralità del governo incivilitore. N’andarono sfregiati i monumenti patrii; ché quella foga durò molto, e dura.

Ma siccome nel reame quanto v'ha di meglio fu opera di Borbone, v'erano gigli in ogni parte, e pur ne rimangono, non visti o non tocchi, a dispetto di questi che vorrebbero abolire la storia.

In più luoghi, i villani si levarono a difesa de' monumenti. A Marcianisi i contadini, carpàte falci e marre, si schierarono avanti la fontana co' marmorei medaglioni di Ferdinando IV e Carolina, e li salvarono”.

Garibaldi e il gioco del lotto

260. “Abolito il lotto, quale gioco immorale, ma dal 1° gennaio seguente; ciò a pompa per lo straniero, perché in Napoli né il popolo il ricusava, né i dominatori volean perdere quel provento d'un milione all'anno”.

Il Corso “Vittorio Emanuele”?

261. “Don Liborio, alla nuova strada Maria Teresa, mutò nome, con quello di Vittorio Emanuele; acciò questi, venuto a pigliare, pigliasse anche i nomi dell'opere altrui”.

Dopo Garibaldi, arrivano i garibaldini

262. “Stranieri di linguaggi e costumi, diversi di voglie e pensieri, ignoti l'uno all'altro, biechi, famelici, disordinati, male armati, peggio coperti, comparvero nella nobile Napoli tali stranissimi vincitori.

Tutto è lor lecito. Per loro castelli, regge, arsenali, monasteri e case; ogni cosa é di questi usciti da tutte le parti del mondo, seguitati da Siculi e Calabri prezzolati o delinquenti, già masnadieri, già galeotti, calpestatori d'ogni diritto, bestemmiatori d'ogni Dio, ignoranti d'ogni legge.

Si spandono per palagi, paesi e ville: derubano ogni arnese, minacciano ogni vita, sfregiano ogni monumento, insultano ogni grandezza. Devastano palàgi di ricchi, lòrdano case di poveri, attentano all'onore delle donne e alla maestà della religione.

Napoli che mai non vide Vandali, vide i Garibaldini!”

I frati garibaldini: Antonio Alessandro Gavazzi (1809-1889)

263. “Si pose su una schiera di frati e preti ambiziosi e scostumati che, per inneggiare ai vincitori, rinnegarono i voti sacri e il culto dei padri; ai quali sùrsero archimandriti certi famosi, sui quali è bene tornare.

264. Antonio Gavazzi di Bologna, ex Barnabita col nome di Alessandro, già carcerato, e graziato dal papa … die' lezioni pubbliche di protestantismo in Inghilterra, e poi in America, ov' ebbe plausi e sassate. Giullare politico, ridicoloso Sperandio degli oratori, s'infatuò a far protestanti i Napoletani; e salito in bigoncia entro chiese e teatri, in sale e piazze vomitava dicerìe pazze e tronfie, e anco le stampava.

A S. Francesco di Paola, maledice Santa Chiesa e Borboni, apostrofa le statue di bronzo de' re, opera del Canova, e minaccia di mutilarle. Dice: - Non siamo barbari, noi; non vogliamo abbattere queste statue; rispettiamo il Canova. Ma imitiamo i Romani, che per risparmiare le opere, vi mutavano le teste. Facciamo lo stesso; sul corpo di Carlo IlI poniamo il capo del Garibaldi, e su quello di Ferdinando la testa di Vittorio. E quella turba batteva le mani.

265. E mentre è istrione in città, predica di Cristo sulle scene; fa di chiese piazze e di teatri chiese; poi quelle lordure stampa, e sparge al popolo.

Il 30 settembre, al Mercato, concionò sinché non fu capito; ma preso a dir male della Vergine, ebbe fischi e sassi, e solo grazie a’ suoi camorristi, che gli fecero spalla, poté fuggire. E Io stesso in altre piazze. Più al sicuro, il 2 ottobre predicò sul palcoscenico al teatro S. Carlo, pria del dramma.

Mandava poi suoi adepti per le province, con permessi di sua mano, convalidati dai ministri, ad eruttare dai pèrgami …”

Piantare il protestantesimo in Napoli?

266. “Il Gavazzi, col dittatore, volevano piantare il protestantismo in Napoli; perciò, abolito il concordato col Papa ed i posteriori decreti sino al 1857, davano suoli gratuiti ai protestanti, da èrgere un tempio a Messina, e due a Napoli; de' quali uno per la Congregazione evangelica.

267. Il Gavazzi, per far più presto, cominciò pigliando le chiese fatte, cioè voltando chiese cattoliche al nuovo culto; e pose gli occhi su quelle de' Gesuiti espulsi, il Gesù nuovo e S. Sebastiano.

Le ottenne a' 23 ottobre, con decreto dicente: dargli quei locali, acciò si destinassero al culto cattolico romano nella sua purità, e alla spiegazione della Scrittura, e alla semplice evangelizzazione di quelli che da gran tempo il desideravano.

Il Gavazzi ne prese possesso il 25, scacciandone il rettore mèssovi dal cardinale; invano il vicario generale reclamò e protestò.

268. Subito fe' radere il marmoreo giglio dallo scudo della porta, simbolo dell’Immacolata, ch’ei credé di Borbone; tolse i quadri de’ santi gesuiti e una statuetta bronzea della Madonna, dicendo l’altre immagini e i confessionali abolirebbe dopo.

A' 27 affisse un cartello nunziando sé direttore, un Miele rettore, e un Bottini vicerettore; la chiesa appellarsi Il Cristo risorto; invitarsi il popolo per l'apertura la dimane, e alla predica del nuovo titolo; e andar poi tutti in processione al camposanto, a inghirlandare le teste de' martiri del ‘48.

269. Il popolo ne fremé, e spiacque anche a quei liberali che non volevano scismi, e più a certi preti liberali, che in quella chiesa trovavano a dir Messe ben pagate, i quali giurarono d'impedirlo. Inoltre un Arduino, maestro di cappella del Gesù, che dal rito puro prevedeva aver lo sfratto, essendo ufficiale nazionale, aizzò i colleghi; e corsero in molti dal general Tupputi, minacciando subbugli; sicché lo spinsero a ottenere dal pro-dittatore la rivocazione del decreto.

Pertanto, al mattino, essendo liberali e non liberali contro il novatore, popolo, nazionali e preti si schierarono in piazza; e comparso il Bottini con le chiavi, Francesco Caravita, maggiore del 3° battaglione, svillaneggiandolo, gliele tolse, e lo mandò via”.

Liberale si, martire no

270. “In quella, parecchi popolani, chiamando con gran voce il Gavazzi, dicevano: - Voleste la costituzione, e noi zitti; ora ve la pigliate con la casa di Dio; ma è finita, oggi chi more more. Gli italianissimi, venuti a udire la predica del Gerofante, a tal predica non fiatarono.

Il popolo, stàtosi là minaccioso più ore, non si partì, se non viste ite le chiavi al ministero. Poi, messo le spie al Gavazzi, sapùtolo il 30 ascoso in casa di un amico al vicolo Carrozzieri, il chiamò giù con istrèpito; ma i Nazionali accorsi, a scansare il peggio, lo presero prigione, e tra fischi e improperi sel portarono.

271. Avendolo però a sera rimandato libero, il popolo gli corse a casa: ei fuggì, s'ascose, si tagliò la barba, smise la giubba rossa, e con cartelli dichiarò solennemente di non essere protestante: liberale sì, martire no.

Rinunziò al decreto e al diritto sulla chiesa; la quale stette chiusa, sinché, tornato l'arcivescovo, l'ebbe il parroco del rione.

Si disse il Gavazzi aver carpito al tesoro fino a 12 mila ducati, per paga di prediche; ma per allora là restò l'oscena commedia …”

Successive vicende e fine del Gavazzi

272. In effetti, dichiarando ai napoletani di non essere protestante, il Gavazzi aveva comprensibilmente mentito per salvarsi la pelle.

“Il suo distacco dal cattolicismo ebbe inizio nel 1850, con un ciclo di conferenze in una cappella battista di Londra e con la risposta positiva del pubblico inglese, soprattutto del ceto medio-alto, richiamato dai discorsi di un frate italiano che invocava la distruzione del Papato nel momento in cui più forte era il timore per il ristabilimento della gerarchia cattolica in Inghilterra. Coi consensi, arrivarono anche i primi finanziamenti … per la evangelization of Italy[67]

Alessandro Gavazzi

273. Conclusa, infatti, in modo così poco glorioso la parentesi napoletana, nel 1865 il Gavazzi fondò una sua “Chiesa cristiana libera” cercando altresì il sostegno delle altre Chiese protestanti, sia quelle storicamente presenti in Italia (Chiesa Valdese) sia quelle che proprio allora venivano ufficialmente istituite nel nostro paese (Chiese Metodista, Battista, Avventista, etc. …), per arrivare a “una (sola) chiesa evangelica, per l’Italia una”.

Ma erano proprio gli altri pastori protestanti che giudicavano la sua veemente oratoria “troppo carica di implicazioni politiche e povera, invece, di vera cultura religiosa”, così che il tentativo di unificazione non riuscì. Non solo, ma … “i protestanti dovevano avere ormai perso ogni fiducia in lui, se dalla Scozia arrivava l'ordine di declassarlo da presidente effettivo a presidente onorario delle Chiese libere d'Italia”[68]

274. Il 9 gennaio del 1889, morì improvvisamente, per colpo apoplettico, a Roma; il suo corpo venne cremato e le ceneri riposte in un monumento funebre nel cimitero a-cattolico del Testaccio. Alcuni anni dopo, nel 1894, fu inaugurato un busto in suo onore al Gianicolo, accanto a quelli di altri garibaldini.

Nel 1905, i suoi ultimi seguaci confluirono nella Chiesa Metodista.

 Il busto del Gavazzi al Gianicolo

I frati garibaldini: Giovanni Pantalèo (1831-1879)

275. Meno colto, ma più buffone, del Gavazzi fu il Pantaleo.

“A Calatafimi si era presentato (a Garibaldi) un frate di S. Francesco, padre Giovanni Pantalèo da Castelvetrano (Trapani), più sgherro che frate, giovine ignorante ed entusiasta; il quale lo salutò appellandolo Messia della libertà. Lo avvisò di stare tra un popolo superstizioso e che ben farebbe a entrare nel Duomo di Alcamo a udir la messa; perché volea egli, innanzi a Dio e agli uomini, tòrgli dal capo l’ingiusta scomunica e rendere a Dio quel che è di Dio

(Garibaldi) si prestò a tal commedia, e prese con sé il frate, sperando valersene a guadagnare il popolo superstizioso. E il frate, acconciato a maniera scenica, con pistole, sciabole, crocifisso e fasce a tre colori, fu il più gran buffone che mai si vedesse”[69].

276. Giunti a Napoli, “Frate Pantaleo (alloggiato in Palazzo Bagnara con la madre e la sorella), come imbriaco, a mo' teatrale, per piazze e chiese sceneggiava: stivaloni, sproni a rotella, calzoni attillati, tunica rossa, con cintura d'acciaio, barba lunga, capelli arruffati, spadone enorme con elsa a croce; a cinta, pugnale, pistola, crocifisso e rosario; e su tutto la cappa da frate, cappellone da pellegrino, e frusta in mano. Cosi montava sul pulpito.

Allo Spirito Santo, catechizza sacerdoti apostati, sparla de' sacri dogmi, prèdica le fucilazioni, e si fa plaudire come in teatro … 

277. Volendo poi della chiesa del Gesù far suo teatro, pose cartelli che al mattino del 16 settembre vi direbbe Messa e spiegherebbe il Vangelo … Arriva fra una turba baccante; e vestito come già dissi alla brigantesca, gittàtasi la pianeta addosso, esce alla Messa. Dopo il vangelo, si volta a spiegarlo: correva quello dell'idropico guarito dal redentore; dice l'idropico esser l'Italia inferma, idropica di Gesuiti, di Papa, di Borboni; occorrendole il medico, esser venuto redentore il Garibaldi a guarirla.

Il grottesco personaggio, il ridicolo sermone, condito di imprecazioni al pontefice, e grida e gesticolazione satanica, sì l'oratore affralirono, che compiuta alla peggio la funzione, gli ammiratori l'ebbero a sorreggere per ricondurlo in sagrestia; dove esso e quelli, tra plausi e Viva, si ristorarono con sorbetti e dolciumi.

278. Un altro dì, in quella sua tragicomica assisa, insieme con la sua druda (= amante) e altre madamoselle e camorristi, navigò ad Ischia per gozzovigliare. Colà, sùrtogli il ticchio di predicare al vescovado, mentre si sveleniva in bestemmie, tenendo l'ostensorio nella sinistra e gesticolando da arlecchino, rovesciò l'ostia per terra; né punto di raccoglierla si curò. Indi peggio in altre chiese; poi si sbevazzò con la masnada in bàcchichi deschi; e sì empiamente trionfante in Napoli fe' ritorno. E ne fe' mille”[70].

Fra Giovanni Pantaleo

Successive vicende e fine del Pantaleo

279. Dopo il periodo napoletano, il Pantalèo continuò a seguire Garibaldi, anche all’estero, in tutte le successive spedizioni militari di questi.

In particolare, per l’impresa garibaldina di Aspromonte, si dedicò a reclutare volontari in Sicilia e “fece inoltre da tramite con le logge massoniche dell’isola, dopo essersi affiliato, quello stesso anno (1862), insieme ad Alexandre Dumas, alla loggia napoletana Fede italica[71].

Continuò sempre a perseguire il progetto di una Chiesa nazionale “patriottica”, separata dal Papa e dalla Chiesa cattolica: “per essa, cominciò ad adoperarsi a Napoli, in contatto con la Società emancipatrice del sacerdozio cattolico, costituita il 4 aprile 1862”[72].

280. E proprio a Napoli si stabilì dopo il matrimonio con Camilla Vahé, avvenuto a Lione, il 22 giugno 1872; e qui nacquero i suoi primi due figli: Elvezia e Giorgio Imbriani (in onore del suo amico patriota).

Nel 1876, la famiglia si trasferì a Roma, dove nacque la terza figlia, Clelia. Nella “nuova” capitale, ammalato ed in precarie condizioni economiche, nel 1879 ottenne un piccolo sussidio governativo, che gli permise di trasferirsi in una abitazione più salubre. Ma venne a morte il 3 agosto di quello stesso anno 1879.

Mons. Michele Caputo (1808-1862)

281. Oltre al Gavazzi e al Pantaleo, “si resero pur famosi altri di cotali gerofanti, tra' quali padre Rocco da Brienza, e padre Giuseppe da Foria … e ben presto uscì, a capitanare cotale schiera, monsignor Michele Caputo.

Costui, dell'ordine de' Predicatori (= Domenicani), proposto più volte vescovo da re Ferdinando, e sempre rifiutato da Roma, ch'avea mala notizia di lui, nondimeno per reiterate raccomandazioni règie era riuscito vescovo ad Oppido Mamertina (Reggio Calabria); ma vi si fece tanto amare che ne fu scacciato a furor di popolo, caso unico nel reame nostro.

Eppure, co' favori di Corte, ottenne la diocesi di Ariano Irpino, dove ospitò, come dissi, re Ferdinando nell'ultimo suo viaggio di Puglia.

282. Ora, si scopre a un tratto italianissimo … cùmula il livore contro Roma e il suo benefattore, sciorina un libello pel diritto nuovo … e il 18 settembre fa pubblico atto d'adesione nella sala dittatoria in Napoli … Giurò al regime del magnanimo Vittorio Emmanuele re d'Italia, sì degnamente rappresentato dall'eroe di Calatafimi e Palermo.

Subito il giornale a' 22 lo stampò. Fu il solo vescovo di tutta Italia, che allora di tanto si macchiasse”[73].

Il cardinale in esilio e i soldi alla camorra

283. “Il turbine volse infine sull'arcivescovo cardinal Sisto Riario-Sforza di Napoli.

Il Garibaldi, avvezzo alla inetta compiacenza dell'arcivescovo di Palermo, vistosi non accolto al Duomo, la inghiottì male.

Cominciò subito il Pantaleo l'8 settembre a presentarsi al porporato, sperando guadagnarlo; vi tornò più pettoruto il 12; al 19, si portò per ausiliario il Caputo.

Richiestolo aderisse al governo dittatorio, e trovatolo duro, il villano frate alzò la voce; talché il cardinale dignitosamente gli disse: - Chi siete voi? aspettate fuori. Ond’ei si partì minacciando: - Mi farò conoscere.

284. Al mattino del 21, comparve un Trecchi, cremonese, dicentesi colonnello, con lettera firmata dal dittatore, chiedente tre cose: adesione semplice e schietta; abilitazione de' preti garibaldini agli uffizi religiosi; e invito al clero e ai seminaristi di armarsi per la patria.

Rispose: non potere aderire, ma starebbe neutrale in cose di governo; abiliterebbe i preti a seconda de' canoni della chiesa; non potere istigar sacerdoti e seminaristi a guerra, cosa contraria allo stato clericale.

Il cardinale Sisto Riario Sforza (1810-1877)

285. Il Trecchi, lampeggiando castighi, se n'andò; tornò sulle ore due pomeridiane, comandando: o sottoscrivere o partire. Il porporato replicò non partirebbe spontaneo, cederebbe alla violenza. Si ebbe intimato l'esilio tra quattr'ore.

Sull'imbrunire, lo stesso Cremonese lo condusse alla Darsena, in carrozza stata di re Francesco, e sull’Elettrico, vaporetto già règio, il menò.

Colà era anche salito il Pallavicino, settario piemontese che andava a Torino per conciliare l'antagonismo tra il Cavour e il Garibaldi; però costui v'andò pure, come a visitarlo sul legno, sperando forse parlare col cardinale, o con la sua grandezza sopraffarlo. Il porporato, sur una sedia, nella stanza di poppa, impassibile stette; né die', né ricevé saluto. Fu menato a Genova, donde navigò a Marsiglia.

286. Il buon popolo napolitano stupì dell’atto tirannico e forte mormorò; perlocché i giornali dissero esser partito spontaneo. Invece, la domenica 25, il Pantaleo, presente il Caputo, predicò al Gesù il vero della cacciata e la cagione: che avendo Austria nel cuore, non meritava, quel nemico d'Italia, stare in Napoli, e godersi la mensa.

Lo stesso dì, un decreto minacciò pene afflittive e pecuniarie a chi, ecclesiastico, predicando o scrivendo, avversasse la rivoluzione.

287. E per addormentare con la gola la plebe, decretarono limòsine per 75 mila ducati; da largirsi in tre mesi, a discrezione d'una giunta e senza giustificazione di documenti; da prelevarsi metà dai beni reali, e metà dalla cassa ecclesiastica … e la limòsina andò ne' camorristi”[74].

Altri vescovi carcerati e cacciati dal Garibaldi

288. “Il dittatore, veggendo il popolo a contrariarlo in quel che più gli coceva, il religioso, ne die' colpa a' prelati. Perciò contro questi inveì.

Carcerò i vescovi di Montuoro, di Bovino e di Reggio.

L'Apuzzo di Sorrento, stato presidente d'istruzione pubblica sino al 1854 … la notte del 15 settembre gli circondarono di sgherri la casa, gli frugarono le carte e il mobilio, e lo menarono a Napoli alla prefettura, e dopo un dì alla Concordia. Passati altri sei giorni, senza fargli vedere né pur uno de' suoi, lo imbarcarono a Marsiglia.

Il cardinal Carafa di Benevento, reo d'aver negata l'adesione, tennero come prigione nel suo palazzo più dì; lo spaventarono, il 17 settembre, scassando le porte della chiesa e scampanando per chiamar gente al sermone d' un prete sciagurato; alla dimane, invasero l'episcopio e, preso lui, lo mandarono scortato a Napoli; dove maltrattato, alla fine lo posero sur un legno, che a Civitavecchia lo sbarcò.

E fra tanti percossi, il Caputo avea vergognosi onori”[75].

Fine di mons. Caputo

289. “L’ 8 settembre 1861, festa di Piedigrotta per voto borboniano, il luogo-tenente Cialdini volle, quasi re, andarvi. Il Municipio v’invitò per la Messa mons. Caputo ed egli rispose: pregherò Dio che desse lume al capo della Chiesa, che cessi di proteggere Francesco re de’ briganti, e si ravveda degli errori ed orrori commessi con scandalo della cristianità.

Tal protervia stancò Roma. Già la congregazione del Concilio l'avea, come dissi, ammonito a' 28 febbraio e il sopportava; ma a tale indegna offesa, gli scoccò il monitorio, che nol fece né bianco né rosso.

290. A Piedigrotta, benedì il fucilatore Cialdini, come l'anno avanti il Gavazzi avea benedetto il filibustiero Garibaldi. Mancò la gaiezza de' contadini, non accorsi; mancò la napolitana gaiezza, serrati i balconi de' palazzi signorili a Chiaia, poca soldatesca, molti Nazionali, prezzolati plauditori, senza più.

Per il Caputo, quella festa fu l'ultima, perché appunto l'anno seguente, la vigilia di essa, comparve al cospetto di Dio. Chiamato il parroco per l'estrema unzione, volendo entrare per sapere se fosse confessato, i preti apòstati glielo vietarono: il vicario gli mandò il priore de' padri predicatori, al cui ordine il moribondo apparteneva, e pure fu respinto.

Lo fecero morire come un cane, costretto a non ritrattarsi. Il governo, a vendetta, carcerò il parroco ch' avea negato l'olio santo”[76].

Fatti di sangue

291. Nel frattempo … “Ogni dì, atti ferini di sangue.

Un Garibaldino, a' 20 settembre (1860), nella chiesa di Monserrato, s'avventa a un sacerdote sull'altare, Io tragge pel collare in terra, e calpesta l'ostie.

Un altro, a Montecalvario, uccide di fucile una madre col bambino in collo.

Un Pessina, fatto da' Borboni uffiziale per grazia, disertato e vestito garibaldino, si scaglia furente sovra un gentiluomo, di cui si dice offeso anni prima, e traendo la spada a caso taglia l'arteria a un suo compagno, padre di figli, che tosto morì.

Un altro, nel quartiere di Caserta, brucia il cranio con la pistola a un garzoncello richiedentegli tre grani, prezzo di bevuta acquavite.

Il 28, fu rumor grande per due oneste fanciulle a San Giovanni, rapite al fratello mentre tornavano dal lavoro.

Nazionali di Torre del Greco sorpresero tre Garibaldini con addosso arme insanguinate, e cose d'oro e preziose.

292. Queste poche ho notate, che intesi e verificai io; ma come tante perpetrate scelleratezze ridire? Chiunque volea vendetta e la roba altrui, vestiva rosso, una sciabola a strascico, e tutto impune faceva”[77].

La libertà?

293. “De' tre colori era nausea: a porte, a finestre, al petto, alle mani; bandiere, cravatte, nastri, fazzoletti.

Statue di libertà e d’Italia, canti, grida ubriachesche, bestemmie, atti osceni, urtare, ferire, chiedere, volere, plaudire, illuminare, sparare, tutto a possa e a lìbito.

Tutte lingue: Ungari, Prussi, Scozzesi, Inglesi, Francesi, Greci, Corsi, Alpigiani, a ogni trivio, arme diversissime, assise d'ogni colore e foggia, teatrali, dissimili, fatte in brevi dì, luccicanti di rosso e verde e oro e argento.

294. Bagasce, con lance e stocchi e pistole, far tresche in istrada; monelli a processioni minacciare, imporre bandiere e lumi, scagliar sassi, spezzar vetri.

Contrabbandieri in festa mostrare i contrabbandi col Viva Garibaldi! e vendere il sale a un grano il rotolo, e gridare Sono stati cacciati i ladri! essi ladrissimi della cosa pubblica. Galeotti sgaleràti allora, co' coltelli alti, trionfare tra quella melma, insidiando agli offesi parenti delle vittime loro.

Per soprassello, l'inno garibaldesco, cantato, sonato su tutti strumenti, ripetuto in terra e in mare, in chiese e in teatri, dì e notte, sempre, sempre, per rabbia, per dispetto, per lascivia; martello incessante, ricordo d'inenarrabili sciagure, scritta sonante di napolitana vergogna”[78].

A proposito di bagàsce: il plebiscito del 21 ottobre 1860

295. “Un decreto del 25 ottobre 1860 chiuse il collegio del Salvatore per un anno, ed abolì il fondo di soccorsi a' letterati poveri.

Invece, dettero pensioni alle camorristesse: 12 ducati mensili (circa 2.700 Euro attuali) a Marianna la Sangiovannara; e altrettanti per ciascuna ad Antonia Pace, a Carmela Faucitano, a Costanza Leipnecher e a Pascarella Proto, perché esempi inimitabili di coraggio civile nel propugnare la libertà.

Invece de' letterati, pagavano quelle sìlfidi (= insetti velenosi)[79].

296. In effetti, pochi giorni prima, il 21 ottobre, si era svolto il famoso plebiscito, con il quale si chiedeva alle popolazioni conquistate se volevano o no l’Italia unita sotto la dinastia dei Savoia.

Oggi tutti gli storici, anche quelli di parte liberale, riconoscono che quel plebiscito fu soltanto una pagliacciata truffaldina: le popolazioni dovevano solo ratificare formalmente una conquista militare di fatto già avvenuta; il voto non era segreto (vi era un’urna per il ed una per il no); i seggi erano vigilati dalle truppe sabàude e dai camorristi; molti votarono più volte; le schede non furono scrutinate pubblicamente; in molti seggi i erano addirittura superiori agli aventi diritto al voto; e via di scorrettezza in scorrettezza …

Plebiscito del 21 ottobre 1860

297. Quella mattina del 21 ottobre 1860, Marianna De Crescenzo, tavernaia, detta la Sangiovannara, cugina del Capintesta della camorra Salvatore De Crescenzo detto Tore ‘e Criscienzo, accompagnata dalla corte di prostitute sue dipendenti, fra le quali spiccavano le ben note (soprattutto agli uomini del quartiere) Rosa ‘a pazza, Luisella ‘a lume a ggiorno e Nannarella ‘e quatto grana avvolte in bandiere tricolori, si presentò al seggio elettorale del quartiere Montecalvario, alla testa di un corteo festante, con musiche e canti patriottici, accompagnando al voto niente di meno che il grande “patriota” Silvio Spaventa, da poco rientrato dall’esilio. 

Plebiscito del 21 ottobre 1860

298. Le donne non avevano diritto di voto, tuttavia il presidente del seggio, previo riconoscimento effettuato dallo stesso Silvio Spaventa, fra le acclamazioni della folla presente, concesse alla Sangiovannara il privilegio di poter deporre ugualmente la scheda nell’urna (naturalmente, quella del ) in considerazione dei suoi eccezionali meriti patriottici …

Così che, qualunque cosa se ne voglia pensare, è un fatto storicamente incontestabile che la prima donna ad aver esercitato il diritto di voto nell’Italia unita e liberale è stata una camorristessa.

Marianna De Crescenzo detta La Sangiovannara

A proposito di contrabbandieri

299. “Sotto i Borboni, questo commercio fraudolento facèvasi da una banda speciale, che avea forse delle intelligenze segrete colla camorra, ma che non si componeva di camorristi. I capi della banda erano ben conosciuti da’ negozianti, i quali loro confidavano volentieri i propri affari, e ricevevano così le mercanzie, pagando solo la metà, il terzo o il quarto de’ dazi. I doganieri erano testimoni compiacenti e talvolta complici e mezzani di siffatti raggiri. Anche i negozianti più onorevoli non sdegnavano di ricorrervi, perché in quei tempi di universale corruttela ogni sorta di frode non era considerata colpevole, quando essa cadeva a danno del fisco soltanto”[80].

E’ rrobba d’o si’ Peppe

300. “Ma dopo l'arrivo di Garibaldi la camorra si impadronì del contrabbando. Non si contentò più d’imporre contribuzioni a coloro che lo esercitavano e ne profittavano: lo esercitò per conto proprio e in grandi proporzioni.

Vi ebbero due contrabbandi, come vi hanno due eserciti, quello di terra e quello di mare, ognuno dei quali avea un capo supremo, che arricchiva a un tratto.

301. Salvatore De Crescenzo, il grand'uomo, era il generalissimo de' marinai, avea sotto i suoi ordini terribili compagnie di sbarco che, nel corso della notte, introducevano fraudolentemente di che vestire e pavesare tutta la città! Uomini violenti, spesso armati, proteggevano questi raggiri e spaventavano i doganieri, i quali nulla di meglio chiedevano che d'aver paura. E la dogana di Napoli, i cui proventi erano ascesi fino a 40 mila ducati il giorno, a mala pena rendeva un migliaio.

302. Del contrabbando di terra avea il comando supremo un camorrista non meno celebre, nominato Pasquale Merolle. Si operava liberamente a tutte le porte della città. Un picchetto di compagni si appostava coll'arme in braccio presso l'uffizio della Dogana. Allorché giungeva un carico di vino, o di carni, o di latte, e i gabellotti uscivano dalle loro case per far la visita ed esigere i tributi, i camorristi si avanzavano numerosi gridando: - Lasciate passare, è rrobba d’o si’ Peppe (= è roba che appartiene a Garibaldi). I gabellotti si allontanavano subito e il vetturale pagava la tassa ai camorristi.

303. Ciò che havvi in questo di più curioso si è che né i vetturali né i loro padroni guadagnavano cosa alcuna da questo contrabbando. Pagavano alla camorra presso a poco gli stessi diritti, che avrebbero dovuto pagare alla dogana; la differenza era insignificante. Non era dunque l'economia che li spingeva a questi raggiri, ma la paura: temevano il potere occulto assai più del regolare. Fra i due mali, si appigliavano al minore. Se pagavano il dazio alla setta, non rischiavano che di essere sorpresi dal fisco e di subire una pena leggera; ma se la pagavano al fisco, erano sicuri di esser presi da' camorristi e ricevere una buona bastonatura. Quindi, pagavano il dazio alla setta.

Da ciò è facile immaginare le perdite considerevoli che ebbe a soffrire il dazio consumo della città. Fuvvi perfino un giorno (e garantisco il fatto che ho da fonte autorevole) nel quale, fra tutte le porte di Napoli, l'amministrazione non poté percepire che 25 soldi!

Questa enormità aprì gli occhi al potere, che ordinò gravi provvedimenti. Novanta camorristi furono arrestati in una sola notte nel dicembre 1860: l'indomani, il dazio fruttò 800 ducati”[81].

continua


Note

[57] Vedi nn°87-94 in “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[58] Nico Perrone - “L’inventore del trasformismo: Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli”, Ed. Rubettino, 2009.

[59] De Sivo, op.cit.

[60] Carmine Pinto – Dizionario biografico degli italiani, 2017.

[61] Vedi nn°36-41 in “Il periodo liberale dal 1887-1896”.

[62] Fra questi, anche Francesco Mastriani: vedi n°185 in “Il periodo liberale dal 1896 al 1900”.

[63] Vedi sopra, n°216.

[64] Vedi sopra, nn°209-210.

[65] Vedi nn°463-464 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[66] Vedi n°244 in “Il periodo liberale dal 1896 al 1900”.

[67] Giuseppe Monsagrati, in Dizionario biografico degli italiani, 1999.

[68] Ibidem

[69] De Sivo, op. cit.

[70] Ibidem

[71] Ugo Dovere in Dizionario biografico degli italiani, 2014.

[72] Ibidem

[73] De Sivo, op. cit.

[74] Ibidem

[75] Ibidem

[76] Ibidem

[77] Ibidem

[78] Ibidem

[79] Ibidem

[80] Monnier, op. cit.

[81] Ibidem

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, maggio 2018

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