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Camorristi e liberali per l’arrivo di
Garibaldi a Napoli
200. L’11 maggio 1860, Giuseppe Garibaldi sbarcò a
Marsala con i suoi celebri Mille.
Il
25 giugno, Francesco II di Borbone emanò, da Portici,
l’Atto Sovrano sotto riportato, con il quale accordava
“una generale amnistia per tutt’i reati politici
fino a questo giorno” e incaricava proprio il “Barrese”
Antonio Spinelli
della formazione di un nuovo governo, “il quale
compilerà, nel più breve termine possibile, gli articoli
di uno Statuto sulla base delle istituzioni
rappresentative italiane e nazionali”. Si prevedeva,
inoltre, di stabilire “un accordo con Sua Maestà il Re
di Sardegna (= Vittorio Emanuele II di Savoia)
per gli interessi comuni delle due Corone in Italia”.
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Atto Sovrano di Francesco II |
Liborio Romano
(1793-1867)
201. Nel nuovo governo, insediato il 27 giugno, Prefetto
di Polizia, e poi anche Ministro dell’Interno, fu
l’avvocato Liborio Romano, ex carbonaro, massone,
più volte incarcerato ed esiliato in precedenza.
Mentre, però, Antonio Spinelli, pur essendo liberale e
costituzionalista convinto, era tuttavia fedele alla
patria napoletana ed alla dinastia borbonica, Liborio
Romano era personaggio opportunista ed ambiguo.
Egli, da una parte, giurava fedeltà al Re, e dall’altra
apparteneva alla
“cospirazione unitaria”, ovvero a quei Comitati segreti
che, per idealità e/o per denaro, stavano da tempo in
rapporto con la Corte sabàuda e con Cavour (il
cosiddetto Comitato dell’Ordine) nonché, in quel
frangente, già in corrispondenza con Garibaldi avanzante
(il cosiddetto Comitato d’Azione).
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Liborio Romano |
202. “Da ministro borbonico, condusse un gioco politico
tutto suo, operando su tre fronti diversi. Mentre
serviva Francesco II, si tenne in segreta corrispondenza
con Cavour; al tempo stesso, volle mettersi in rapporti
anche con Garibaldi.
Vincendo le fondate resistenze del sovrano, era riuscito
a fare installare nel proprio gabinetto una
apparecchiatura telegrafica, e proprio di questa si
servì per i suoi contatti segreti”.
Inizia il Regno dei camorristi (27 giugno 1860)
203. Seguiamo la narrazione di Giacinto de Sivo:
“Lo
stesso dì 27 giugno 1860, in cui si insediò
ufficialmente il governo … Francesco II, senza
pompa, veniva da Portici a Napoli, percorrendo parte
della città … non ebbe plauso … il mattino passò in
paurosa quiete.
Sul
vespro del 27, s'alzò la bandiera de' tre colori ai
castelli; e al veder quel vessillo … incontanente va in
istrada bieca turba, sozza, proterva; un vociferare
sinistro, minaccioso, foriero di sùbiti guai: ecco la
più vile gente del mondo, alleata del Garibaldi e di
Vittorio … princìpia il regno de' camorristi.
La
sommossa di Masaniello si disse de' Lazzari,
perché la fecero gente semi-nuda, come Lazzari uscenti
di sepolcro; la rivoltura del 1860 si dirà de'
Camorristi, perché da questi goduta …”
Il tumulto del 27 giugno
e Don Liborio
204. Ma perché cominciarono quelle manifestazioni la
sera del 27 giugno? Perché proprio quel giorno (il
nuovo governo) “fece Prefetto di polizia Don Liborio
Romano, storci-leggi ovvero pagliètta,
nato il 1793 in Patù nel Leccese, massone, carbonaro e
mazziniano.
Costui, carcerato nel 1850, andato esule a Parigi,
supplicò per grazia e, avùtala, scriveva il 22 aprile
1854 al Re, protestando devozione e attaccamento alla
sacra persona reale, che aveva coscienza di non
averlo mai offeso, ma ove inconsapevolmente l’avesse,
prometteva per l’avvenire irreprensibile condotta.
Ferdinando II lo accolse in regno; ed egli fe' obblianza
firmata di rispettare le leggi; ma ricospirò più
avveduto.
Ora
però … tenuto patrono e cima di camorristi, era dai
cieli destinato a infame celebrità. Chiamò quei suoi
clièntuli; e fattili certi che la potestà tacerebbe, lor
disse: -Fate”.
205. “Niuno domandi se alzassero la testa, sendo
sicurtati dal Prefetto, e come coraggiosi si lanciassero
a vendicarsi di quei poliziotti ch'avean lor dato la
caccia.
Corso il motto, si radunarono in piazza, anche con loro
donne e bagasce.
Capitanava le femmine una Marianna de Crescenzo,
tavernaia, detta la Sangiovannara, addobbata alla
brigantesca; la quale, tutta di D. Liborio, da molto, co'
denari della setta, aveva abbeverato di vino e
carboneria quella ladronàia: ella con altre andava
avanti come a trionfo, quasi ebbre, piene di fasce e
colori e bandiere e pistole e coltelli.
Capitanavano gli uomini un Nicola Jossa, un Nicola
Capuano, un Salvatore De Crescenzo, un Ferdinando Mele e
altri siffatti.
Li
seguitavano bruzzaglia, monelli, proletari, prostitute e
vagabondi, il più della Pignasecca e di Montecalvario.
206. Sul cader del dì, corsero le vie con grida faziose;
pochi Viva la costituzione, molti Viva
Garibaldi, Italia, Vittorio gridavano; e
minacciavano e percotevano le genti di polizia che
vedessero.
Pugnalarono un Peppe Aversano, stato de' loro,
che aveva all'Aiossa svelati loro segreti.
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Capitanava le femmine una Marianna
De Crescenzo tavernaia detta La Sangiovannara |
207. Fu qualche ispettore di polizia con pattuglia che,
mal sopportando gl'insulti, cavò la spada. Per questo un
giovine ispettore Cioffi fu malconcio, e salvò la
vita a stento.
208. Per questo il più giovine ispettore Perrelli,
a Toledo, presso S. Nicola la Carità, difendendosi, e
lasciato solo dagli immobili gendarmi, pagò con la vita
l'esercizio del suo dovere: messo sanguinoso in una
carrozzella, poteva guarire; ma per ultimo colpo di
Ferdinando Mele, capo della masnada, boccheggiando,
prima d'arrivare all'ospedale, spirò.
E
ve' giustizia di Dio! Esaltata poi la canaglia, e surto
quel Mele a commissario di polizia garibaldesca, venne
anch'esso, nello stesso mese di giugno dell'anno dopo,
assassinato da un Demàta camorrista di quella
stessa sua brigata ch'aveva ucciso il Perrelli; e messo
boccheggiante in consimile carrozza, prima ancora di
giungere all'ospedale, similmente per via lasciò l'anima
trista”.
E’ battuto il Brénier,
ambasciatore di Francia
209. “La città, in balìa di costoro, trepidava. Eglino,
incontrando soldati, gridavano Viva la truppa! e
passavano.
Era
già buio, quando il francese ministro Brénier usciva dal
palagio del Nunzio Apostolico in carrozza; il cocchiere
sferzava i cavalli, come era uso nella quieta Napoli, ma
quel popolo libero bastonò lui; e come il Brénier,
levandosi e dicendo suo nome, si aspettava plausi, ebbe
due colpi di mazza sul capo; sicché sanguinando se ne
andò.
Ciò
fecero, sperando impacciare il re con Francia. Francesco
mandò tosto a visitare il ferito due suoi aiutanti
generali, e lo zio conte di Aquila, che sino a notte
larda gli fe’ compagnia.
210. I liberali strombazzarono il feritore dover essere
assolutista, non potendo il popolo rigenerato
mazzicare il rigeneratore; e per farlo credere
imputarono un Giovanni Manetta, costruttore di
bagni a mare, noto per devozione ai Borboni; ma il
Manetta, con altri, stato carcerato parecchi mesi,
pitoccò lunga pezza il giudizio al sopravvenuto governo
sardo, che benché voglioso di trovarlo reo, da ultimo
innocente l'ebbe a liberare.
211. Nulladimeno fu scritto un indirizzo al Brénier,
firmato da tre personaggi anziani per ogni
quartiere della città, dicentisi incaricati dal popolo
(e dov'era il mandato?) a manifestargli il dolore dei
Napolitani, per la ferita toccata al rappresentante di
Francia; e la certezza fosse colpo di assolutisti e
retrogradi.
Don
Liborio tali cose stampò ai 2 luglio sul Giornale
Ufficiale … Il Brènier rispose ai 4 luglio: esser
convinto del rispetto de' Napolitani al rappresentante
d’un sovrano ch’avea compìti mirabili fatti pel bene
d'Italia. E di tanto bene avea le prove sul capo”.
I camorristi, braccio dei liberali, assaltano i
commissariati (28 giugno 1860):
212. “Le dimane, 28, peggio assai. Il comitato Ordine
comandò s'abbattessero i Commissariati di polizia; e die'
anzi prescritte le ore da durare il disordine.
Camorristi e baldracche, con coltelli, stocchi, pistole
e fucili, correan le vie gridando Italia, Vittorio e
Garibaldi. E siccome le pattuglie de' soldati
avevano ordine di non usar l'arme, sopportavano
l'insulto dell'udirsi celebrare il nemico in viso; onde
quelli, sapendo esser padroni delle strade, impunemente
birboneggiavano. Li seguitavano monelli e paltonieri
(=accattoni), per buscar qualcosa, gridando Mora
la polizia!
213. Assalgono i Commissariati. Le guardie, senza capi,
non difese dai Gendarmi, poche e scoràte, non osan
difendersi, e perciò battute, manomesse, cercano scampo;
in mentre i vincitori gìttano per le finestre carte e
suppellettili, e sin le porte van fendendo e
sgangherando. Poi, giù raccolto il tutto, ne fanno falò,
con balli e canti. Di là difilati ad altri quartieri, vi
fan lo stesso, e in tutti i commissariati, l'un dopo
l'altro.
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Assalgono i commissariati |
214. Alla Stella soltanto, trovata resistenza, nulla
osarono; se non sul tardi, quando i difensori, accòrtisi
che il governo il volea, se n'erano iti; e perciò fu
l'ultimo commissariato disfatto.
215. Così, un solo nodo di manigoldi, in sì ampia città,
ebbe agio di perpetrare tanto atto di ribellione, senza
pericolo.
Dappoi, gli stessi camorristi, con piatti nelle mani,
andavano attorno dimandando mercede per la buon’opera
fatta: e chi volete negasse?
E i
membri del comitato Ordine, poi che si
smascherarono, menarono gran vanto del fatto: lodavanlo
sapienza politica, colpo di stato”.
Lo stato d’assedio (28
giugno – 2 luglio)
216. “Questo stesso dì (28 giugno), il popolo di
S. Lucia, udendo quelle vergogne, s'assembrò ed armò, e
uscì per via di Palazzo gridando Viva il re! ma
la Guardia Reale, a impedir sangue, vietò il passo. Gran
prudenza, che sempre ligàva le braccia agli amici e le
scioglieva ai nemici! …
Il
ministro Federigo Del Re, uomo di pensieri legali, fe'
tosto togliere dal comando della Piazza il generale
Polizzi, che avea permesse quelle ruine, e proclamare lo
stato d'assedio dal nuovo comandante, il duca di S.
Vito; il quale proibì ogni assembramento maggiore di
dieci persone, e l'asportazione di arme e di grossi
bastoni, pena la vita; e anzi volea procedere al
disarmamento secondo l'ordinanze.
Ma
forte s'oppose Don Liborio, che non volea levar l'arme
alla setta, e vinse; sicché lo stato d’assedio seguì
solo pro forma … e venne tolto già ai 2 luglio”.
La nuova polizia (7
luglio 1860)
217. “Un decreto del 7 luglio revocò le attribuzioni
poliziesche, limitandole alla prevenzione de' reati e
alla sicurezza; perciò, fuorché in flagranti, non
potea carcerare, né entrare in case private, senza
mandato di magistrato.
Sarìa stato un bene; ma il decreto uscì per sicurtare i
congiuratori: contro i buoni, a malgrado il decreto, si
carcerava, s'esiliava, s'abbattevan porte, con istizza
settaria.
218. Quel decreto ordinava anche nuova polizia,
con più grasse paghe e nuove assise: e ciò per dar
premio ai Camorristi, arnesi d'ergastoli e lupanàri,
braccio della setta.
Don
Liborio, loro capo, li fece tutti guardie di polizia,
invece dei vecchi, quasi mercede di vittoria: la società
dové pagare i percussori dell'ordine sociale; i
cittadini fur dati in custodia a chi tutta la vita avea
guerreggiato alla roba altrui.
Don
Liborio, a chi nel riprendeva, rispondeva (e così
scrisse nelle sue Memorie) … averli rimunerati per
toglierli alla reazione, cui si sarebbero uniti;
necessità valersi di quelli, non potendo fidar ne'
Gendarmi e ne' soldati, tutti del re; un governo
riparatore aver obbligo di riabilitare quei
poveri parias; l'uomo di Stato dover, negli stessi
elementi di disordine, cercar l'ordine.
Egli, invero, voleva al disordine con gli elementi del
disordine provvedere; ma che ne avesse necessità per far
la rivoluzione, é certo: la camorra era il suo popolo.
219. Vedemmo, in conseguenza, “Commissari” un Cozzolongo,
cameriere di locanda; il garzone d'un parrucchiere a
Chiaia; un parrucchiere del teatro Nuovo; e quel Mele,
uccisore del Perrelli, stato soprastante a' scopatori di
strade; un Callicchio taverniere fatto ispettore; e
altri peggiori, noti per vergogna, meritevoli per essere
spioni della
setta.
Così i ministri stessi del Re iniziarono la cacciata di
Iui, col fargli dalla sua mano creare i suoi percussori,
e costituire la polizia garibaldesca”.
Prosegue l’opera di Don
Liborio
220. In effetti, “Romano, profondo conoscitore del
Regno, utilizzò la sua posizione per modificare la
struttura di potere nelle istituzioni … realizzando
un’operazione politica di ampia portata … Utilizzando
l’incompetenza dei colleghi e la confusione della Corte,
mise mano ai vertici istituzionali dello Stato,
modificandone in poche settimane le strutture di potere.
Sostituì tutti gli intendenti e i sotto-intendenti al
vertice di province e circondari, imponendo funzionari e
politici liberali moderati o autonomisti al posto dei
fedeli alla monarchia.
Consentì agli unitàri di impadronirsi dei vertici
di buona parte delle compagnie di Guardia Nazionale.
Intervenne sul sistema penitenziario e spesso influenzò
incarichi nel settore giudiziario.
Infine lavorò per rinnovare i Sindaci dei centri più
importanti, ed anche dei minori, lasciando spazio alla
vasta area liberaleggiante moderata e interpretando così
la volontà della larga maggioranza del notabilato
provinciale a favore di un cambio di regime controllato.
Nel
giro di poco più di un mese, aveva demolito ogni
possibilità della monarchia borbonica di guidare gli
apparati civili dello Stato”.
“Col nome del Re, comandava dalla reggia l'utile del
nemico” (Giacinto de Sivo).
Non un nuovo Statuto ma
la Costituzione del 1848
221. “Il ministero compì sua insidia a’ 1°luglio 1860.
Con
l'Atto sovrano del 25 giugno (vedi sopra) era dato allo
Spinelli il carico di compilare lo Statuto nuovo. Ma
questi, co' colleghi, consultato Don Liborio, ordine
parlante del Comitato, volse al monarca un indirizzo
dicente: non abbisognar nuovo statuto, laddove quello
del 1848, non mai abrogato, stava nel pubblico diritto
del Regno; si richiami dunque in vigore; e lo straniero
ammirerà la sapienza della mente sovrana in sì alto
provvedimento; e il popolo s'avrà in esso novello pegno
della buona volontà del Re.
Ma
già il giorno innanzi, Don Liborio avea annunziato al
pubblico che la costituzione sarebbe quella del ‘48; ciò
per togliere la faciltà del niego.
222. E perciò Francesco, per non cominciar una lotta nel
primo passo costituzionale, e sospinto dallo Spinelli
che forte la proposta propugnava, cadde, benché il
vedesse, nel laccio; e rispose in iscritto:
l'accettazione partorire gravi conseguenze; mettere a
rischio la dinastia e la pubblica tranquillità;
nondimeno non volersi separare dal suo ministero
responsabile.
223. Così, quel dì stesso, 1° luglio, un decreto
richiamò a vita il malaugurato Statuto del 10 febbraio
1848 …
Un
altro decreto dava al Ministero dell'Interno facoltà di
fare una Commissione per preparare al parlamento i
progetti di legge elettorale, e di leggi sulla Guardia
nazionale, sull'Amministrazione civile, sul Consiglio di
Stato, sulle responsabilità ministeriali, sulla stampa.
Un
decreto del 5 ordinò altra Commissione da preparare
leggi per riforme di tariffe doganali e sulla dogana, la
navigazione, i contrabbandi, e per far depositi di
mercanzie, e ampliare il porto.
A'
15 si dichiarò la Consulta Consiglio di Stato; e messi
molti Consultori a ritiro, si crearono consiglieri
liberaleschi.
224. Richiamando lo statuto del ‘48, il ministero
Spinelli rovesciava sul trono e sul paese una trista
eredità. S’atteggiava in dritto di ripigliarne la via
interrotta, mostrava tenere illegali 11 anni di quieto
governare, metteva la fazione in vista di vittima
ingiustamente oppressa, e le dava facoltà di rivendicare
il suo imperio sulla piazza e ne' tumulti …
Conseguenza logica ne fu il decreto di piena amnistia,
anche pe' contumaci, il richiamo degli esuli, la
condonazione e la restituzione de' danni e delle spese
giudiziarie. Nulla doveva mancare al trionfo.
225. Ma non s'udì un plauso: i faziosi volean altro;
fra' buoni era lutto …
Gli
esuli rientrati … si sparpagliarono per le province … né
ben fidando in questi, il Cavour ci mandò, per muovere
la rivoluzione, parecchie delle sue lance; tra' quali
uno Zanardelli,
e l'ebreo Finzi, l'ingaggiatore garibaldino, cui il
ministero lasciava libero per Napoli brogliare e
congiurare.
Il
conte d'Aquila, stato di tanto aiuto già ammiraglio,
fècesi comandante supremo della Marina, e presto se ne
vide il frutto.
226. Come resistere Francesco, fidente in Napoleone,
sperando guadagnarselo seguendone i consigli
conciliativi, sul pendìo delle concessioni, solo tra
felloni o spauriti, e dal suo stesso sangue insidiato?
E
mentre si preparava l'infrazione ad ogni giuramento,
uscì agli 8 luglio il decreto di formola del nuovo
giuramento al re e alla costituzione”.
La Guardia Nazionale (17
luglio 1860)
227. “Federigo Del Re, ministro dell'Interno, lasciò
fare all'onniscio Romano la bozza del previsto
Decreto per la Guardia nazionale: né dico quant'ei
facésselo amplissimo; ma il ministro, udito il sovrano,
il moderò, e il fe' pubblico a' 5 di luglio, che a'
buoni parve guarentigia dell'ordine.
Vi si chiamavano padri di famiglia,
possidenti, impiegati, mercanti e capi d'arte, e d'età
da' 30 ai 40 anni: 6.000 per Napoli, in 12 battaglioni;
per le province, 40 uomini pe' Comuni di 1000 anime, 60
per quelli di 2000, 100 per sino a' 5000, e 150 pe'
maggiori; i capiluoghi potevano averne 300. Si provvide
altresì a' modi da formarli, e alle divise, all'arme e
alle caserme.
228. Ma la legge, dalla setta disapprovata, restò
scritta: si fece l'opposto.
I
faziosi, preso in ogni paese il comando della Guardia,
la fecero a grado loro; pòservi loro adepti, camorristi,
ragazzoni da quindici anni, broglioni e ladri. Uomini
già tutte le notti sorvegliati in casa, perché non
uscissero a svaligiare i passeggieri, ora appellati
liberali, si dicevan Nazionali e avean l'arme per
tutelare la nazione.
I
buoni, o esclusi, o s'astennero, schifando simili
compagni. E cominciò la tirannide sgherresca, che ancora
non ha fine.
229. In Napoli, poco diversamente: presero i gradi, poi
venne il decreto. A' 13 luglio v'andò comandante il
principe d'Ischitella, stato ministro assoluto, ma
gli fu merito l'essere stato prima gran Murattiano; al
quale si aggiunsero 12 maggiori, de' quali, rinunziando
alcuni, se ne crearono altri a' 27, e altri agli 8 e 22
agosto, che furon poi quelli che dettero giulivi la
patria allo straniero.
La Guardia cominciò in Napoli il servizio la sera del 17
luglio
(designato a posta), tra' plausi d'incomposta turba, e
per tre sere con fiori e luminarie; le quali furono le
prime feste, sussurrandosi fossero pel dì natalizio del
Garibaldi.
La
guardia inoltre, quel dì, fe' un indirizzo d'onore a Don
Liborio; ed ei se ne valse per vincere la renitenza del
re ad ingrossarla; però Francesco, cedendo, gli disse
con profetica ironia: - Si conceda pur questo al tribuno
Romano.
230. Laonde la Guardia, già cresciuta, ebbe la prima
dilatazione legale il 19 luglio, portata con decreto a
9.600 in Napoli; e nelle province al numero delle
abolite guardie urbane; e per l'età scese da' 30 anni a'
25.
Più
tardi, a' 27 agosto, a coprir meglio il già fatto, altro
decreto la crebbe per Napoli a 12.000, oltre quella de’
villaggi.
A'
30 se ne approvò il regolamento disciplinale.
Finalmente, mature le cose, mandarono via l’Ischitella e
fécesi dal re nomar capo supremo il zoppicante generale
Desauget, quello innocentino del ‘48, che doveva
andare a invitare il marinaio Nizzardo”.
A proposito di
legnate e di petriàte
231. “Fra l’altro, il filantropo prefetto (= Don
Liborio) ottenne a' 10 luglio l'abolizione della
pena delle legnate disciplinarie, che dàvansi con
giudizi di speciali Commissioni a ladroncelli, a
lanciatori di pietre e a camorristi di prigioni, per un
rescritto del 10 giugno 1826; il quale era riuscito in
Napoli a seppellire il vezzo del lanciar pietre, uso
secolare de' lazzaroni.
Ora, con riserva di provvedere dappoi con altri
regolamenti, s'abolivano quelle costumate legnate, madri
di tanto bene; laddove avrian dovuto durare, se non
altro per l'esempio della simpatica Inghilterra, che non
a’ mariuoli ma a' suoi soldati le ministra liberalmente.
La
statistica uffiziale del 1859 ne fa sapere di 22.505
legnate date quell'anno a 512 soldati inglesi. Tra noi
le si davano a furfantoni, e di rado, e dopo giudizio:
l'abolirle fu un altro ingraziarsi del Romano a' suoi
camorristi”.
Altri tumulti
232. “Costituzione, decreti, guardie nazionali, e
poliziotti nuovi, fatti per tutela di civiltà e di
ordine, partorirono subito tumulti.
I
congiurati, certi della inazione de' soldati, non
perdean tempo. Tolto a' 2 luglio lo stato d'assedio,
quel dì stesso s'aggrupparono minacciosi … La gente
pacifica spiritava, si serrava pria che imbrunisse,
chiudevansi le botteghe …
L'altro dì i camorristi in folla accompagnarono il
mortorio d'un Aniello Formisano loro compagno, figlio
d'un burraio, finito per colpo toccato da una pattuglia
la sera del 27 giugno.
Il
mattino del giorno 8 luglio n'avean fatta un'altra: si
recarono per mare alla Villa reale, a' bagni del Manetta,
cui imputavano la bastonatura del Brénier, e presero ad
arderli; accorrendo soldati, fuggirono: restò l'impunità
a quelli, e lo spavento ai bagnantisi cittadini … Poi,
la sera del 13, la canaglia aggraffò il figlio di lui; e
con busse e fracasso condottolo alla Prefettura, fu
tenuto per ben catturato, impuniti e lodati i
catturanti, nuovissimi ufficiali di giustizia.
Lo
stesso giorno 13, a' Tribunali, i paglietti
fischiarono tre magistrati mentre giuravano, com'era
prescritto, al re e alla costituzione.
E
la sera del 14 furon busse nel teatro S. Carlo,
perciocché un liberale bastonò un ex ispettore di
polizia.
233. La Camorra tuttodì assaltava le case de' passati
impiegati di polizia; manomettevale e dove trovavan
gente davano coltellate. Poi, per case e botteghe,
estorquevano danari per amor della patria; se no, ferite
e percosse.
Al
26, piglia foco la chiesa di S. Agostino degli Scalzi,
spento da' soldati.
Più
tardi, a' 5 agosto, la Guardia Nazionale fa rumore,
offesa che le si desse il motto di ricognizione, non il
Santo. La dimane, altro spaurimento, per vane voci di
tumulti di poliziotti siciliani.
E
la stampa, ridendosi delle ordinanze, lodava tutto, e
soffiava nel fuoco”.
Reazione dei soldati (15
luglio 1860) e sue conseguenze
234. “I soldati, compressi per disciplina, indignati del
vedersela fare in sul viso, fremevano.
Perlocché, nell'ore vespertine del 15 luglio, surta a
caso una rissa presso il Carmine … come certi Camorristi
gridarono Viva Garibaldi, alquanti granatieri
della guardia e fanti di Marina gridando Viva il Re e
abbasso la Costituzione, se li cacciarono d'avanti
con le spade; e co' ferri insanguinati corsero pe' bassi
quartieri sino a Toledo, dove ruppero altresì vetri a
qualche bottega, e sfogarono l'ira contro i ritratti del
Garibaldi e di Vittorio; della quale profanazione i
liberali ebbero un sacro orrore. La cavalleria, e
parecchi uffiziali usciti a tempo, riposero l'ordine.
235. Questo fatto, che atterrì la città, mostrava
dall'altra parte la pochezza della setta a menar le
mani: perciò avrebbe potuto alzarsi un uomo a dominare
gli eventi, invece ebbe diverse conseguenze.
Imperciocché Francesco, accortosi della malvagità del
ministero, volea mutarlo; e sin dall' 11 luglio avea
dato a Pietro Ulloa, magistrato, il carico di trovargli
uomini costituzionali, buoni a salvare la monarchia, e
già l'Ulloa diceva averli accozzati; ma quel tumulto
soldatesco, che accennava contro la Costituzione,
accrescendo le speranze reazionarie e le irritazioni
rivoluzionarie, fe' che quegli uomini non ebbero animo
di stendere le mani al timone”.
236. Infine, Francesco II decise di lasciare la capitale
(6 settembre 1860), vuoi per evitare che la città
divenisse campo di battaglia e salvaguardarla da stragi
e distruzioni, vuoi per apprestare miglior linea di
difesa sul Volturno e nella fortezza di Gaeta.
L’invito e il bando di
Don Liborio
237. La città rimase nelle mani di Don Liborio Romano.
Garibaldi era giunto a Salerno.
“Prima che (Garibaldi) movesse da Salerno, eran
corse lettere e proclamazioni, che trascrivo a parola,
per memoria dell'italianissimo stile:
All’invittissimo general Garibaldi, dittatore delle Due
Sicilie, Liborio Romano, ministro dell’interno.
Con
la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo, per
salutare il Redentore d'Italia, e deporre nelle sue mani
i poteri dello Stato e i propri destini. In questa
aspettativa, io starò saldo a tutela dell'ordine e della
tranquillità pubblica. La sua voce, già da me resa nota
al popolo, é il più gran pegno del successo di tali
assunti. Mi attendo gli ulteriori ordini suoi, e sono
con illimitato rispetto, di lei, Dittatore invittissimo,
Liborio Romano. 7 settembre 1860.
238. E dopo ch'avea scritto siffatto invito, fe' anche
un bando, così:
Cittadini, chi vi ricorda l'ordine e la tranquillità in
questi solenni momenti è il general Giuseppe Garibaldi.
Osereste non esser docili a quella voce, cui da gran
tempo s'inchinano tutte le genti italiane? No,
certamente. Egli arriverà tra poche ore in mezzo a voi,
ed il plauso che ne avrà chiunque sarà concorso al
sublime intento, sarà la gloria più bella cui cittadino
italiano possa aspirare. Io, quindi, miei buoni
cittadini, aspetto da voi quel che il dittatore
Garibaldi vi raccomanda ed aspetta. Il ministro
dell'interno e della polizia, Liborio Romano. 7
settembre 1860.
E
tali scritte fe' stampare ed affiggere a' muri”.
Garibaldi alla stazione (7 settembre 1860)
239. “Il conquistatore s'avventurò a venire in Napoli,
con solo dieci ufficiali, e altri pochi giovani
napolitani iti a riverirlo, tra' quali, unico
gentiluomo, il principino di Fondi. Méssosi presso
Vietri nella strada di ferro, arrivò sul mezzodì.
Liborio Romano lo aspettava alla stazione, col suo
popolo prezzolato, un battaglione nazionale, i direttori
Giacchi e De Cesare, e il Bardari prefetto.
Cavò di tasca una concione scritta da esso già da più
giorni …”
|
La stazione di Napoli nel 1860 |
240. Ma, per la verità, la prima cosa che il biondo eroe
volle fare appena giunto in Napoli, fu … una pisciatina.
Scese così dal treno dal lato opposto a quello sul quale
lo aspettavano, si appartò brevemente dietro un pilone
della stazione, e ritornò sulla carrozza, evidentemente
rinfrancato, pronto ad ascoltare la “concione”
sciorinata da Don Liborio per la solenne occasione …
241. “Nel suo discorso, il Romano si vantava di aver
fatto il ministro di Francesco solo per iscacciarlo.
Come, da legulèio, sì possono difendere clienti per far
loro perdere la lite, e aver paga dall'avversario, così
da ministro egli avea fatto. E il vincitore il rimeritò
stendendogli la mano (se l’era almeno lavata? non si
sa), appellandolo salvatore di Napoli, e tenendolo
ministro nella sua dittatura”.
|
La celebre stretta di mano fra Garibaldi
e Liborio Romano alla stazione di Napoli il 7 settembre
1860 |
Successive vicende e fine
di Liborio Romano
242. Don Liborio pensava di poter continuare ad essere
il vero padrone della città con Garibaldi, così come lo
era stato con Francesco, ma venne ben presto in urto con
i nuovi arrivati, che ormai non avevano più bisogno di
lui.
E
così, dopo solo 20 giorni, il 27 settembre, si dimise:
“In tal guisa Liborio, dopo 92 giorni, dal 27 giugno al
27 settembre, ne' quali, servito due padroni, avea
compìto il più turpe tradimento che udissero gli uomini,
lasciava l'insozzato seggio.
E
seguì speciosissimo tratto: veggendosi odioso a ogni
partito, andò al Garibaldi, e avutone solenne
dichiarazione d'aver ben meritato della patria,
contentissimo l'affisse alle muraglie. Credetelo, o
posteri: il ministro di Francesco s'onorò d'avere il
ben servito dal Garibaldi”.
243. Il titolo di merito ricevuto da Garibaldi gli servì
in realtà per rimanere a galla. Divenne infatti
nuovamente Ministro dell’Interno quando giunsero
come luogo-tenenti il Carignano ed il Nigra (vedi
oltre).
Ma
anche allora … “Contro di lui correvano petizioni al
luogo-tenente (firmate da liberali) dicenti il paese non
poter sopportare un'amministrazione, i cui atti fanno
ribrezzo alla pubblica moralità. Tra esso e lo
Spaventa, gravi ire in Consiglio, per impieghi da dare o
da togliere. Torme di postulanti e minacciosi
ingombravano i ministeri, sforzavano gli usci, e
presentavano suppliche impugnando pistole …”
244. Infine, si dimise di nuovo e le
sue dimissioni furono accolte in data 12 marzo 1861.
Intanto però, nel gennaio 1861, si erano svolte le prime
elezioni per il nuovo Parlamento nazionale italiano ed
il Nostro, con il consueto appoggio della Bella Società,
era riuscito eletto in ben 8 collegi contemporaneamente.
Da quel momento, la sua azione si inserì quindi in più
vasti orizzonti: dopo essere stato il prototipo dei
trasformisti, divenne anche il prototipo del borghese
meridionale quèrulo ed accattone che, nel Parlamento
nazionale, denuncia fieramente le ingiustizie subite
dal Sud, allo scopo di ottenere finanziamenti … che
finiscono regolarmente nelle sue tasche.
245. Comunque, durò poco: nel 1865 si ritirò definitivamente
dalla vita politica, dopo essere transitato più volte
dalla Destra alla Sinistra liberale e viceversa, senza
riuscire ad ottenere alcunché. Si ritirò nel suo paese
natale ed ivi morì, celibe e senza figli, il 17 luglio
1867.
246. L’immagine di sé che volle lasciare ai posteri è
consegnata nelle sue “Memorie” nonché nell’epigrafe
della sua pietra tombale.
|
Lapide sepolcrale di Liborio Romano |
Ma chi fu, in definitiva,
Liborio Romano?
247. “Paglietta in Napoli significava avvocato
cavilloso, senza coscienza, capace di farsi pagare dal
cliente e dall'avversario, o di vendere l’uno all'altro;
malizioso ma non ingegnoso, ciarlatore ma non eloquente,
saputo ma non dotto, con l'occhio non all'onore ma al
denaro, intento non alla scienza ma al sofisma.
Paglietta é camorrista di tribunali. Ne fu tipo
Liborio Romano.
Cotal genìa fu il nucleo de' comitati settari nelle
province, donde poi, senza rischio, per mezzo di
clienti, stendevano le branche in tutti i paesi.
Protetti da magistrati a loro simili, questi vantavano
giusti, sé invincibili, ed a quelli fama, a sé moneta e
nomèa procacciavano …
Pronti a stare con qualunque vincitore, divennero
Italiani perché stava arrivando Garibaldi; venendo
Abd-el-Kadèr, si farebbero Algerini”.
248. In effetti, Liborio Romano fu semplicemente, nelle
circostanze storiche, l’adeguato rappresentante politico
di quella borghesia meridionale, opportunisticamente
subalterna, di cui abbiamo già descritto l’origine e le
precedenti vicende.
Ma continuiamo ora la nostra storia di camorra.
Entrata del Garibaldi in
Napoli: la folla
249. “Napoli quel giorno 7 settembre 1860 stava così:
nobiltà in esilio, borghesia in casa, botteghe chiuse …
i castelli con soldati règi cui si vietava l'azione,
ogni vero Napolitano commiserante la patria.
Invece, settari di tutto il mondo accorsi al grasso
convito, le migliaia mandati da Torino a simular popolo,
faziosi provinciali fuggiti dalle reazioni, camorristi
prezzolati, contrabbandieri, tristi tenuti tant'anni a
segno ed ora sfuriati, malfattori scarcerati, proletari,
bagasce, monelli, tutti irti d'arme, con pistole e
pugnali sguainati, scorrevano le strade trionfanti.
Inoltre, popolo inerte, venuto a guardare la festa non
più vista, creduta passasse presto; uffiziali civili
nuovi, e i pochi vecchi rimasti, che per amor del soldo
si mascheravano di libertà, e per dar nell’occhio
scorrevano in carrozze, sventolanti bandiere,
inneggianti al nuovo sole.
250. Qualcuno, che aveva avuto dal Borbone a grazia il
servire, ora si pavoneggiava di tradimento e si vantava
liberale dal 1820. V’era di ambiziosi che volevano
torbido, di falliti che risperavano fortuna, di illusi
vagheggianti elìsi, di famèlici al fiuto del banchetto,
ed anche di donne scostumate o vecchie che credevano
trovar marito fra scavezzacolli nuovi.
Ciò
facea folla nelle vie dove avea a passare il corteggio.
S’erano prese locande e osterie e case opportune, dove
nastri, stendardi, fasce, bandiere, avean messo. Ogni
qualunque casa dové sventolar bandiera a tre colori; la
comprava la paura, chi più realista più n’aveva. Fu gran
gridare Italia, Garibaldi, Liborio, Re galantuomo”.
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Garibaldi a Napoli |
L’Italia è una!?
251. “E camorristi maschi e femmine, con coltelli
luccicanti, gridanti a gola piena, sforzavano ogni
persona a gridar con essi Italia una; né si
contentavano d’un viva solo, ma con i pugnali ai
volti volevano le repliche: è una, è una, è una,
ripetevano con gl’indici in alto; senza neppure
intendere che mai quell’una significasse.
Carrozze con camorristi in pié, squassanti arme e
drappi; altre con femminacce, luride baccanti, burlevoli
amazzoni; altre con preti spiritati usciti dal bagno di
Nisida o venuti di lontano a far clericali ovazioni;
altre di monaci, fra' quali un Giuseppe da Foria, mezzo
scherani e mezzo frati, mescolanti corone e coltelli;
altre con nobilicchi, già per vizi esclusi dalla corte;
altre di studenti imbriacati di libertà vocale.
Di
signori, benché invitati, qualcun raro andò; nessuno del
municipio. Presente era la ben creata Guardia Nazionale.
252. In quella indescrivibile orgia, primo il Garibaldi
in carrozza, con accanto il Bertani (Agostino Bertani,
ufficiale medico, 1812-1886), procedeva in pié come
Pompeo Magno, in camicia rossa, e col fazzoletto
svolazzante al collo; e levava alto il cappello colle
code di cappone; e rispondeva coi Viva ai Viva,
ai plausi e ai fiori che la rivoluzione gli versava dai
preparati balconi.
Seguitavano altre carrozze: del Sava, già sartore, poi
lanaiuolo, fatto ricchissimo e cavaliere da' Borboni,
con entro camiciotti rossi; poi il Villamarina
(emissario del Cavour a Napoli); poi il padre
Gavazzi, vestito rosso e nero, accanto a donna in rossa
camicia, tunica verde e bianca veste.
|
Garibaldi a Napoli |
253. Lentamente, pel Piliero al Palazzo, il trionfatore
ascese alla Foresteria; e là, passando da un balcone
all’altro, ringraziava e arringava … poco udito, niente
compreso, moltissimo plaudito.
Poscia, in una sala gli s'appresenta l'Ayala con altri,
che appellò deputati della città, e che gli fece
un tronfissimo discorso, chiedendo dargli un bacio,
bacio di 500 mila abitanti!”
Garibaldi nel Duomo di
Napoli
254. “Tosto ridiscende, nella carrozza del gelataio
Donzelli, e così anche a processione va al Duomo, a
pregar S. Gennaro, copiando le imposture dello
Championnet di 60 anni prima.
Avealo preceduto colà il padre Pantaleo; ma benché iti
gli ordini per l'apertura del Santuario, il trovò
chiuso, senza un prete del luogo. Sforzati i cancelli,
mancano gli arredi sacri; non riescono alla prima a
sfondar le porte della sagrestia, e van per fretta a'
Girolamini; battono il portinaio, e li rapiscono. Cercan
preti, ne vedono uno a caso ad orare, gl'impongono si
vesta, e com'ei nega, là dentro la chiesa il percuotono.
255. Il Pantaleo, venuto il dittatore, sale in pergamo,
irto d'arme, in veste talare e l'ostensorio in mano; e
predica sopra i tre stati della legge. Dice: - Dio pria
die' la legge a Mosé; poi la mandò più perfetta pel
Cristo suo figlio redentore; ora l'inizia perfettissima
per Garibaldi redentore novello.
E
la turba, e il Garibaldi stesso, rispondeva: - Viva Dio!
Viva Maria Immacolata! Viva Giuseppe Garibaldi! Da
ultimo, il sacrilego oratore intona il Te Deum, e
dà la benedizione, tra plausi e risa e baldorie. In
chiesa, come in mercato, compratori e venditori; si
mangia, si beve; chi per curiosità è accorso, stomacato
fugge.
La
setta, che a religione non crede, vuole poi a forza, con
religiose moìne, profanare le cose sante, e celebrare i
suoi eccessi”.
Garibaldi a Palazzo Doria
d’Angri
256. “Il trionfatore, uscito di chiesa, si piglia in
carrozza Liborio Romano, ambo plauditi. Ferma al palazzo
Angri allo Spirito Santo, a dispetto di quel principe di
casa Doria fuggito in Francia; dove pure alloggiarono
pria lo Championnet, poi il Massena. Ei si pose al
quarto piano, sotto il tetto, dissero per sicurezza; gli
appartamenti occupò la sua marmaglia …
Bentosto il Garibaldi cominciò a ricevere visite di
traditori, e tra' primi il generale Lanza, il suo
avversario di Sicilia!”
|
Garibaldi arriva a Palazzo Doria d'Angri |
Una giornata da 24 mila
ducati
257. “Il dì passò quieto: per Toledo, curiosi e
stranieri, poche donne civili, quasi nessun gentiluomo,
molte bandiere e, per voglia o forza, luminarie la sera.
Il rumorìo di quella giornata, fatto a forza di denaro,
gravò sull'erario: e si disse Liborio vi facesse
spendere 24 mila ducati”.
Garibaldi a Piedigrotta
(8 settembre 1860)
258. “La dimane, 8 settembre, dì sacro alla festa
solenne de' re nostri a Piedigrotta,
il dittatore volle esso pure andarvi per divozione,
con Don Liborio. Procedeva in carrozza da nolo, fra ale
di camorristi, con due in pié sugli staffoni, vestiti
rosso colle pistole in resta, pronti a difesa; mentre il
cielo a dirotto pareva piangere dell'onta nostra.
Accanto alla carrozza, vedevi un Pancrazi bigliettaio
del teatro Fiorentini, e quei commedianti armati di
picche, cosa assai buffona.
Il
Gavazzi e il Pantaleo, mancati i preti della chiesa,
posero alla Vergine i tre colori; lui benedissero, e
presentarono, come s'usava ai re, del mazzo di fiori
benedetti; ed ei, col collo torto, rispondeva
cristianamente; e baciucchiava quanti eran là,
camorristi preparatigli a onoranza”.
I contadini difendono i
monumenti
259. “Sin da un'ora prima che partisse il re, s'era
preso a fracassare gigli (simbolo borbonico) dove
se ne vedessero. Vi si svelenivano su con mazze e
martelli, tra parole oscene di sacrileghe bocche, così
iniziando la moralità del governo incivilitore.
N’andarono sfregiati i monumenti patrii; ché quella foga
durò molto, e dura.
Ma
siccome nel reame quanto v'ha di meglio fu opera di
Borbone, v'erano gigli in ogni parte, e pur ne
rimangono, non visti o non tocchi, a dispetto di questi
che vorrebbero abolire la storia.
In
più luoghi, i villani si levarono a difesa de'
monumenti. A Marcianisi i contadini, carpàte falci e
marre, si schierarono avanti la fontana co' marmorei
medaglioni di Ferdinando IV e Carolina, e li salvarono”.
Garibaldi e il gioco del
lotto
260. “Abolito il lotto, quale gioco immorale, ma dal 1°
gennaio seguente; ciò a pompa per lo straniero, perché
in Napoli né il popolo il ricusava,
né i dominatori volean perdere quel provento d'un
milione all'anno”.
Il Corso “Vittorio Emanuele”?
261. “Don Liborio, alla nuova strada Maria Teresa, mutò
nome, con quello di Vittorio Emanuele; acciò questi,
venuto a pigliare, pigliasse anche i nomi dell'opere
altrui”.
Dopo Garibaldi, arrivano
i garibaldini
262. “Stranieri di linguaggi e costumi, diversi di
voglie e pensieri, ignoti l'uno all'altro, biechi,
famelici, disordinati, male armati, peggio coperti,
comparvero nella nobile Napoli tali stranissimi
vincitori.
Tutto è lor lecito. Per loro castelli, regge, arsenali,
monasteri e case; ogni cosa é di questi usciti da tutte
le parti del mondo, seguitati da Siculi e Calabri
prezzolati o delinquenti, già masnadieri, già galeotti,
calpestatori d'ogni diritto, bestemmiatori d'ogni Dio,
ignoranti d'ogni legge.
Si spandono per palagi, paesi e ville: derubano ogni
arnese, minacciano ogni vita, sfregiano ogni monumento,
insultano ogni grandezza. Devastano palàgi di ricchi,
lòrdano case di poveri, attentano all'onore delle donne
e alla maestà della religione.
Napoli che mai non vide Vandali, vide i Garibaldini!”
I frati garibaldini: Antonio Alessandro Gavazzi
(1809-1889)
263. “Si pose su una schiera di frati e preti ambiziosi
e scostumati che, per inneggiare ai vincitori,
rinnegarono i voti sacri e il culto dei padri; ai quali
sùrsero archimandriti certi famosi, sui quali è bene
tornare.
264.
Antonio Gavazzi
di Bologna, ex Barnabita col nome di Alessandro,
già carcerato, e graziato dal papa … die' lezioni
pubbliche di protestantismo in Inghilterra, e poi in
America, ov' ebbe plausi e sassate. Giullare politico,
ridicoloso Sperandio degli oratori, s'infatuò a far
protestanti i Napoletani; e salito in bigoncia entro
chiese e teatri, in sale e piazze vomitava dicerìe pazze
e tronfie, e anco le stampava.
A S. Francesco di Paola, maledice Santa Chiesa e Borboni,
apostrofa le statue di bronzo de' re,
opera del Canova, e minaccia di mutilarle. Dice: - Non
siamo barbari, noi; non vogliamo abbattere queste
statue; rispettiamo il Canova. Ma imitiamo i Romani, che
per risparmiare le opere, vi mutavano le teste. Facciamo
lo stesso; sul corpo di Carlo IlI poniamo il capo del
Garibaldi, e su quello di Ferdinando la testa di
Vittorio. E quella turba batteva le mani.
265. E mentre è istrione in città, predica di Cristo
sulle scene; fa di chiese piazze e di teatri chiese; poi
quelle lordure stampa, e sparge al popolo.
Il
30 settembre, al Mercato, concionò sinché non fu capito;
ma preso a dir male della Vergine, ebbe fischi e sassi,
e solo grazie a’ suoi camorristi, che gli fecero spalla,
poté fuggire. E Io stesso in altre piazze. Più al
sicuro, il 2 ottobre predicò sul palcoscenico al teatro
S. Carlo, pria del dramma.
Mandava poi suoi adepti per le province, con permessi di
sua mano, convalidati dai ministri, ad eruttare dai
pèrgami …”
Piantare il
protestantesimo in Napoli?
266. “Il Gavazzi, col dittatore, volevano piantare il
protestantismo in Napoli; perciò, abolito il concordato
col Papa ed i posteriori decreti sino al 1857, davano
suoli gratuiti ai protestanti, da èrgere un tempio a
Messina, e due a Napoli; de' quali uno per la
Congregazione evangelica.
267. Il Gavazzi, per far più presto, cominciò pigliando
le chiese fatte, cioè voltando chiese cattoliche al
nuovo culto; e pose gli occhi su quelle de' Gesuiti
espulsi, il Gesù nuovo e S. Sebastiano.
Le
ottenne a' 23 ottobre, con decreto dicente: dargli
quei locali, acciò si destinassero al culto cattolico
romano nella sua purità, e alla spiegazione della
Scrittura, e alla semplice evangelizzazione di quelli
che da gran tempo il desideravano.
Il
Gavazzi ne prese possesso il 25, scacciandone il rettore
mèssovi dal cardinale; invano il vicario generale
reclamò e protestò.
268. Subito fe' radere il marmoreo giglio dallo scudo
della porta, simbolo dell’Immacolata, ch’ei credé di
Borbone; tolse i quadri de’ santi gesuiti e una
statuetta bronzea della Madonna, dicendo l’altre
immagini e i confessionali abolirebbe dopo.
A'
27 affisse un cartello nunziando sé direttore, un Miele
rettore, e un Bottini vicerettore; la chiesa appellarsi
Il Cristo risorto; invitarsi il popolo per
l'apertura la dimane, e alla predica del nuovo titolo; e
andar poi tutti in processione al camposanto, a
inghirlandare le teste de' martiri del ‘48.
269. Il popolo ne fremé, e spiacque anche a quei
liberali che non volevano scismi, e più a certi preti
liberali, che in quella chiesa trovavano a dir Messe ben
pagate, i quali giurarono d'impedirlo. Inoltre un
Arduino, maestro di cappella del Gesù, che dal rito
puro prevedeva aver lo sfratto, essendo ufficiale
nazionale, aizzò i colleghi; e corsero in molti dal
general Tupputi, minacciando subbugli; sicché lo
spinsero a ottenere dal pro-dittatore la rivocazione del
decreto.
Pertanto, al mattino, essendo liberali e non liberali
contro il novatore, popolo, nazionali e preti si
schierarono in piazza; e comparso il Bottini con le
chiavi, Francesco Caravita, maggiore del 3° battaglione,
svillaneggiandolo, gliele tolse, e lo mandò via”.
Liberale si, martire no
270. “In quella, parecchi popolani, chiamando con gran
voce il Gavazzi, dicevano: - Voleste la costituzione, e
noi zitti; ora ve la pigliate con la casa di Dio; ma è
finita, oggi chi more more. Gli italianissimi, venuti a
udire la predica del Gerofante, a tal predica non
fiatarono.
Il
popolo, stàtosi là minaccioso più ore, non si partì, se
non viste ite le chiavi al ministero. Poi, messo le spie
al Gavazzi, sapùtolo il 30 ascoso in casa di un amico al
vicolo Carrozzieri, il chiamò giù con istrèpito; ma i
Nazionali accorsi, a scansare il peggio, lo presero
prigione, e tra fischi e improperi sel portarono.
271. Avendolo però a sera rimandato libero, il popolo
gli corse a casa: ei fuggì, s'ascose, si tagliò la
barba, smise la giubba rossa, e con cartelli dichiarò
solennemente di non essere protestante: liberale sì,
martire no.
Rinunziò al decreto e al diritto sulla chiesa; la quale
stette chiusa, sinché, tornato l'arcivescovo, l'ebbe il
parroco del rione.
Si
disse il Gavazzi aver carpito al tesoro fino a 12 mila
ducati, per paga di prediche; ma per allora là restò
l'oscena commedia …”
Successive vicende e fine
del Gavazzi
272. In effetti, dichiarando ai napoletani di non essere
protestante, il Gavazzi aveva comprensibilmente mentito
per salvarsi la pelle.
“Il
suo distacco dal cattolicismo ebbe inizio nel 1850, con
un ciclo di conferenze in una cappella battista di
Londra e con la risposta positiva del pubblico inglese,
soprattutto del ceto medio-alto, richiamato dai discorsi
di un frate italiano che invocava la distruzione del
Papato nel momento in cui più forte era il timore per il
ristabilimento della gerarchia cattolica in Inghilterra.
Coi consensi, arrivarono anche i primi finanziamenti …
per la evangelization of Italy”
|
Alessandro Gavazzi |
273. Conclusa, infatti, in modo così poco glorioso la
parentesi napoletana, nel 1865 il Gavazzi fondò una sua
“Chiesa cristiana libera” cercando altresì il sostegno
delle altre Chiese protestanti, sia quelle storicamente
presenti in Italia (Chiesa Valdese) sia quelle che
proprio allora venivano ufficialmente istituite nel
nostro paese (Chiese Metodista, Battista, Avventista,
etc. …), per arrivare a “una (sola) chiesa
evangelica, per l’Italia una”.
Ma
erano proprio gli altri pastori protestanti che
giudicavano la sua veemente oratoria “troppo carica di
implicazioni politiche e povera, invece, di vera cultura
religiosa”, così che il tentativo di unificazione non
riuscì. Non solo, ma … “i protestanti dovevano avere
ormai perso ogni fiducia in lui, se dalla Scozia
arrivava l'ordine di declassarlo da presidente
effettivo a presidente onorario delle Chiese
libere d'Italia”.
274. Il 9 gennaio del 1889, morì improvvisamente, per
colpo apoplettico, a Roma; il suo corpo venne cremato e
le ceneri riposte in un monumento funebre nel cimitero
a-cattolico del Testaccio. Alcuni anni dopo, nel 1894,
fu inaugurato un busto in suo onore al Gianicolo,
accanto a quelli di altri garibaldini.
Nel
1905, i suoi ultimi seguaci confluirono nella Chiesa
Metodista.
|
Il busto del Gavazzi al Gianicolo |
I frati garibaldini: Giovanni Pantalèo (1831-1879)
275. Meno colto, ma più buffone, del Gavazzi fu il
Pantaleo.
“A
Calatafimi si era presentato (a Garibaldi) un
frate di S. Francesco, padre Giovanni Pantalèo da
Castelvetrano (Trapani), più sgherro che frate,
giovine ignorante ed entusiasta; il quale lo salutò
appellandolo Messia della libertà. Lo avvisò di
stare tra un popolo superstizioso e che ben
farebbe a entrare nel Duomo di Alcamo a udir la messa;
perché volea egli, innanzi a Dio e agli uomini,
tòrgli dal capo l’ingiusta scomunica e rendere a Dio
quel che è di Dio.
(Garibaldi)
si prestò a tal commedia, e prese con sé il frate,
sperando valersene a guadagnare il popolo
superstizioso. E il frate, acconciato a maniera
scenica, con pistole, sciabole, crocifisso e fasce a tre
colori, fu il più gran buffone che mai si vedesse”.
276. Giunti a Napoli, “Frate Pantaleo (alloggiato in
Palazzo Bagnara con la madre e la sorella), come
imbriaco, a mo' teatrale, per piazze e chiese
sceneggiava: stivaloni, sproni a rotella, calzoni
attillati, tunica rossa, con cintura d'acciaio, barba
lunga, capelli arruffati, spadone enorme con elsa a
croce; a cinta, pugnale, pistola, crocifisso e rosario;
e su tutto la cappa da frate, cappellone da pellegrino,
e frusta in mano. Cosi montava sul pulpito.
Allo Spirito Santo, catechizza sacerdoti apostati,
sparla de' sacri dogmi, prèdica le fucilazioni, e si fa
plaudire come in teatro …
277. Volendo poi della chiesa del Gesù far suo teatro,
pose cartelli che al mattino del 16 settembre vi direbbe
Messa e spiegherebbe il Vangelo … Arriva fra una turba
baccante; e vestito come già dissi alla brigantesca,
gittàtasi la pianeta addosso, esce alla Messa. Dopo il
vangelo, si volta a spiegarlo: correva quello
dell'idropico guarito dal redentore; dice l'idropico
esser l'Italia inferma, idropica di Gesuiti, di Papa, di
Borboni; occorrendole il medico, esser venuto redentore
il Garibaldi a guarirla.
Il
grottesco personaggio, il ridicolo sermone, condito di
imprecazioni al pontefice, e grida e gesticolazione
satanica, sì l'oratore affralirono, che compiuta alla
peggio la funzione, gli ammiratori l'ebbero a sorreggere
per ricondurlo in sagrestia; dove esso e quelli, tra
plausi e Viva, si ristorarono con sorbetti e
dolciumi.
278. Un altro dì, in quella sua tragicomica assisa,
insieme con la sua druda (= amante) e altre
madamoselle e camorristi, navigò ad Ischia per
gozzovigliare. Colà, sùrtogli il ticchio di predicare al
vescovado, mentre si sveleniva in bestemmie, tenendo
l'ostensorio nella sinistra e gesticolando da
arlecchino, rovesciò l'ostia per terra; né punto di
raccoglierla si curò. Indi peggio in altre chiese; poi
si sbevazzò con la masnada in bàcchichi deschi; e
sì empiamente trionfante in Napoli fe' ritorno. E ne fe'
mille”.
|
Fra Giovanni Pantaleo |
Successive vicende e fine
del Pantaleo
279. Dopo il periodo napoletano, il Pantalèo continuò a
seguire Garibaldi, anche all’estero, in tutte le
successive spedizioni militari di questi.
In particolare, per l’impresa garibaldina di Aspromonte,
si dedicò a reclutare volontari in Sicilia e “fece
inoltre da tramite con le logge massoniche dell’isola,
dopo essersi affiliato, quello stesso anno (1862),
insieme ad Alexandre Dumas, alla loggia napoletana
Fede italica”.
Continuò sempre a perseguire il progetto di una Chiesa
nazionale “patriottica”, separata dal Papa e dalla
Chiesa cattolica: “per essa, cominciò ad adoperarsi a
Napoli, in contatto con la Società emancipatrice del
sacerdozio cattolico, costituita il 4 aprile
1862”.
280. E proprio a Napoli si stabilì dopo il matrimonio
con Camilla Vahé, avvenuto a Lione, il 22 giugno
1872; e qui nacquero i suoi primi due figli: Elvezia
e Giorgio Imbriani (in onore del suo amico
patriota).
Nel
1876, la famiglia si trasferì a Roma, dove nacque la
terza figlia, Clelia. Nella “nuova” capitale,
ammalato ed in precarie condizioni economiche, nel 1879
ottenne un piccolo sussidio governativo, che gli permise
di trasferirsi in una abitazione più salubre. Ma venne a
morte il 3 agosto di quello stesso anno 1879.
Mons. Michele Caputo
(1808-1862)
281. Oltre al Gavazzi e al Pantaleo, “si resero pur
famosi altri di cotali gerofanti, tra' quali padre Rocco
da Brienza, e padre Giuseppe da Foria … e ben
presto uscì, a capitanare cotale schiera, monsignor
Michele Caputo.
Costui, dell'ordine de' Predicatori (= Domenicani),
proposto più volte vescovo da re Ferdinando, e sempre
rifiutato da Roma, ch'avea mala notizia di lui,
nondimeno per reiterate raccomandazioni règie era
riuscito vescovo ad Oppido Mamertina (Reggio Calabria);
ma vi si fece tanto amare che ne fu scacciato a furor di
popolo, caso unico nel reame nostro.
Eppure, co' favori di Corte, ottenne la diocesi di
Ariano Irpino, dove ospitò, come dissi, re Ferdinando
nell'ultimo suo viaggio di Puglia.
282. Ora, si scopre a un tratto italianissimo … cùmula
il livore contro Roma e il suo benefattore, sciorina un
libello pel diritto nuovo … e il 18 settembre fa
pubblico atto d'adesione nella sala dittatoria in Napoli
… Giurò al regime del magnanimo Vittorio Emmanuele re
d'Italia, sì degnamente rappresentato dall'eroe di
Calatafimi e Palermo.
Subito il giornale a' 22 lo stampò. Fu il solo vescovo
di tutta Italia, che allora di tanto si macchiasse”.
Il cardinale in esilio e
i soldi alla camorra
283. “Il turbine volse infine sull'arcivescovo
cardinal Sisto Riario-Sforza di Napoli.
Il
Garibaldi, avvezzo alla inetta compiacenza
dell'arcivescovo di Palermo, vistosi non accolto al
Duomo, la inghiottì male.
Cominciò subito il Pantaleo l'8 settembre a presentarsi
al porporato, sperando guadagnarlo; vi tornò più
pettoruto il 12; al 19, si portò per ausiliario il
Caputo.
Richiestolo aderisse al governo dittatorio, e trovatolo
duro, il villano frate alzò la voce; talché il cardinale
dignitosamente gli disse: - Chi siete voi? aspettate
fuori. Ond’ei si partì minacciando: - Mi farò
conoscere.
284. Al mattino del 21, comparve un Trecchi, cremonese,
dicentesi colonnello, con lettera firmata dal dittatore,
chiedente tre cose: adesione semplice e schietta;
abilitazione de' preti garibaldini agli uffizi
religiosi; e invito al clero e ai seminaristi di armarsi
per la patria.
Rispose: non potere aderire, ma starebbe neutrale in
cose di governo; abiliterebbe i preti a seconda de'
canoni della chiesa; non potere istigar sacerdoti e
seminaristi a guerra, cosa contraria allo stato
clericale.
|
Il cardinale Sisto Riario Sforza
(1810-1877) |
285. Il Trecchi, lampeggiando castighi, se n'andò; tornò
sulle ore due pomeridiane, comandando: o sottoscrivere o
partire. Il porporato replicò non partirebbe spontaneo,
cederebbe alla violenza. Si ebbe intimato l'esilio tra
quattr'ore.
Sull'imbrunire, lo stesso Cremonese lo condusse alla
Darsena, in carrozza stata di re Francesco, e sull’Elettrico,
vaporetto già règio, il menò.
Colà era anche salito il Pallavicino, settario
piemontese che andava a Torino per conciliare
l'antagonismo tra il Cavour e il Garibaldi; però costui
v'andò pure, come a visitarlo sul legno, sperando forse
parlare col cardinale, o con la sua grandezza
sopraffarlo. Il porporato, sur una sedia, nella stanza
di poppa, impassibile stette; né die', né ricevé saluto.
Fu menato a Genova, donde navigò a Marsiglia.
286. Il buon popolo napolitano stupì dell’atto tirannico
e forte mormorò; perlocché i giornali dissero esser
partito spontaneo. Invece, la domenica 25, il Pantaleo,
presente il Caputo, predicò al Gesù il vero della
cacciata e la cagione: che avendo Austria nel cuore, non
meritava, quel nemico d'Italia, stare in Napoli, e
godersi la mensa.
Lo
stesso dì, un decreto minacciò pene afflittive e
pecuniarie a chi, ecclesiastico, predicando o scrivendo,
avversasse la rivoluzione.
287. E per addormentare con la gola la plebe,
decretarono limòsine per 75 mila ducati; da largirsi
in tre mesi, a discrezione d'una giunta e senza
giustificazione di documenti; da prelevarsi metà dai
beni reali, e metà dalla cassa ecclesiastica … e la
limòsina andò ne' camorristi”.
Altri vescovi carcerati e cacciati dal Garibaldi
288. “Il dittatore, veggendo il popolo a contrariarlo in
quel che più gli coceva, il religioso, ne die' colpa a'
prelati. Perciò contro questi inveì.
Carcerò i vescovi di Montuoro, di Bovino e di Reggio.
L'Apuzzo
di Sorrento, stato presidente d'istruzione pubblica sino
al 1854 … la notte del 15 settembre gli circondarono di
sgherri la casa, gli frugarono le carte e il mobilio, e
lo menarono a Napoli alla prefettura, e dopo un dì alla
Concordia. Passati altri sei giorni, senza fargli vedere
né pur uno de' suoi, lo imbarcarono a Marsiglia.
Il
cardinal Carafa di Benevento, reo d'aver negata
l'adesione, tennero come prigione nel suo palazzo più
dì; lo spaventarono, il 17 settembre, scassando le porte
della chiesa e scampanando per chiamar gente al sermone
d' un prete sciagurato; alla dimane, invasero
l'episcopio e, preso lui, lo mandarono scortato a
Napoli; dove maltrattato, alla fine lo posero sur un
legno, che a Civitavecchia lo sbarcò.
E
fra tanti percossi, il Caputo avea vergognosi onori”.
Fine di mons. Caputo
289. “L’ 8 settembre 1861, festa di Piedigrotta per voto
borboniano, il luogo-tenente Cialdini volle, quasi re,
andarvi. Il Municipio v’invitò per la Messa mons. Caputo
ed egli rispose: pregherò Dio che desse lume al capo
della Chiesa, che cessi di proteggere Francesco re de’
briganti, e si ravveda degli errori ed orrori commessi
con scandalo della cristianità.
Tal
protervia stancò Roma. Già la congregazione del Concilio
l'avea, come dissi, ammonito a' 28 febbraio e il
sopportava; ma a tale indegna offesa, gli scoccò il
monitorio, che nol fece né bianco né rosso.
290. A Piedigrotta, benedì il fucilatore Cialdini, come
l'anno avanti il Gavazzi avea benedetto il filibustiero
Garibaldi. Mancò la gaiezza de' contadini, non accorsi;
mancò la napolitana gaiezza, serrati i balconi de'
palazzi signorili a Chiaia, poca soldatesca, molti
Nazionali, prezzolati plauditori, senza più.
Per
il Caputo, quella festa fu l'ultima, perché appunto
l'anno seguente, la vigilia di essa, comparve al
cospetto di Dio. Chiamato il parroco per l'estrema
unzione, volendo entrare per sapere se fosse confessato,
i preti apòstati glielo vietarono: il vicario gli mandò
il priore de' padri predicatori, al cui ordine il
moribondo apparteneva, e pure fu respinto.
Lo
fecero morire come un cane, costretto a non ritrattarsi.
Il governo, a vendetta, carcerò il parroco ch' avea
negato l'olio santo”.
Fatti di sangue
291. Nel frattempo … “Ogni
dì, atti ferini di sangue.
Un Garibaldino, a' 20 settembre (1860), nella chiesa di
Monserrato, s'avventa a un sacerdote sull'altare, Io
tragge pel collare in terra, e calpesta l'ostie.
Un altro, a Montecalvario, uccide di fucile una madre
col bambino in collo.
Un Pessina, fatto da' Borboni uffiziale per grazia,
disertato e vestito garibaldino, si scaglia furente
sovra un gentiluomo, di cui si dice offeso anni prima, e
traendo la spada a caso taglia l'arteria a un suo
compagno, padre di figli, che tosto morì.
Un altro, nel quartiere di Caserta, brucia il cranio con
la pistola a un garzoncello richiedentegli tre grani,
prezzo di bevuta acquavite.
Il 28, fu rumor grande per due oneste fanciulle a San
Giovanni, rapite al fratello mentre tornavano dal
lavoro.
Nazionali di Torre del Greco sorpresero tre Garibaldini
con addosso arme insanguinate, e cose d'oro e preziose.
292. Queste poche ho notate, che intesi e verificai io;
ma come tante perpetrate scelleratezze ridire? Chiunque
volea vendetta e la roba altrui, vestiva rosso, una
sciabola a strascico, e tutto impune faceva”.
La libertà?
293. “De' tre colori era nausea: a porte, a finestre, al
petto, alle mani; bandiere, cravatte, nastri,
fazzoletti.
Statue di libertà e d’Italia, canti, grida ubriachesche,
bestemmie, atti osceni, urtare, ferire, chiedere,
volere, plaudire, illuminare, sparare, tutto a possa e a
lìbito.
Tutte lingue: Ungari, Prussi, Scozzesi, Inglesi,
Francesi, Greci, Corsi, Alpigiani, a ogni trivio, arme
diversissime, assise d'ogni colore e foggia, teatrali,
dissimili, fatte in brevi dì, luccicanti di rosso e
verde e oro e argento.
294. Bagasce, con lance e stocchi e pistole, far
tresche in istrada; monelli a processioni minacciare,
imporre bandiere e lumi, scagliar sassi, spezzar vetri.
Contrabbandieri
in festa mostrare i contrabbandi col Viva Garibaldi!
e vendere il sale a un grano il rotolo, e gridare
Sono stati cacciati i ladri! essi ladrissimi della
cosa pubblica. Galeotti sgaleràti allora, co' coltelli
alti, trionfare tra quella melma,
insidiando agli offesi parenti delle vittime loro.
Per
soprassello, l'inno garibaldesco, cantato, sonato su
tutti strumenti, ripetuto in terra e in mare, in chiese
e in teatri, dì e notte, sempre, sempre, per rabbia, per
dispetto, per lascivia; martello incessante, ricordo
d'inenarrabili sciagure, scritta sonante di napolitana
vergogna”.
A proposito di bagàsce:
il plebiscito del 21 ottobre 1860
295. “Un decreto del 25 ottobre 1860 chiuse il collegio
del Salvatore per un anno, ed abolì il fondo di soccorsi
a' letterati poveri.
Invece, dettero pensioni alle camorristesse: 12
ducati mensili (circa 2.700 Euro attuali) a
Marianna la Sangiovannara; e altrettanti per
ciascuna ad Antonia Pace, a Carmela Faucitano, a
Costanza Leipnecher e a Pascarella Proto, perché
esempi inimitabili di coraggio civile nel propugnare la
libertà.
Invece de' letterati, pagavano quelle sìlfidi (=
insetti velenosi)”.
296. In effetti, pochi giorni prima, il 21 ottobre, si
era svolto il famoso plebiscito, con il quale si
chiedeva alle popolazioni conquistate se volevano o no
l’Italia unita sotto la dinastia dei Savoia.
Oggi tutti gli storici, anche quelli di parte liberale,
riconoscono che quel plebiscito fu soltanto una
pagliacciata truffaldina: le popolazioni dovevano solo
ratificare formalmente una conquista militare di fatto
già avvenuta; il voto non era segreto (vi era un’urna
per il sì ed una per il no); i seggi erano
vigilati dalle truppe sabàude e dai camorristi; molti
votarono più volte; le schede non furono scrutinate
pubblicamente; in molti seggi i sì erano
addirittura superiori agli aventi diritto al voto; e via
di scorrettezza in scorrettezza …
|
Plebiscito del 21 ottobre 1860 |
297. Quella mattina del 21 ottobre 1860, Marianna De
Crescenzo, tavernaia, detta la Sangiovannara,
cugina del Capintesta della camorra Salvatore De
Crescenzo detto Tore ‘e Criscienzo, accompagnata
dalla corte di prostitute sue dipendenti, fra le quali
spiccavano le ben note (soprattutto agli uomini del
quartiere) Rosa
‘a pazza,
Luisella ‘a lume a
ggiorno e
Nannarella ‘e quatto
grana avvolte in
bandiere tricolori, si presentò al seggio elettorale del
quartiere Montecalvario, alla testa di un corteo
festante, con musiche e canti patriottici, accompagnando
al voto niente di meno che il grande “patriota” Silvio
Spaventa, da poco rientrato dall’esilio.
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Plebiscito del 21 ottobre 1860 |
298. Le donne non avevano diritto di voto, tuttavia il
presidente del seggio, previo riconoscimento effettuato
dallo stesso Silvio Spaventa, fra le acclamazioni della
folla presente, concesse alla Sangiovannara il
privilegio di poter deporre ugualmente la scheda
nell’urna (naturalmente, quella del sì) in
considerazione dei suoi eccezionali meriti patriottici …
Così che, qualunque cosa se ne voglia pensare, è un
fatto storicamente incontestabile che la prima donna ad
aver esercitato il diritto di voto nell’Italia unita e
liberale è stata una camorristessa.
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Marianna De Crescenzo detta La
Sangiovannara |
A proposito di contrabbandieri
299. “Sotto i Borboni, questo commercio fraudolento
facèvasi da una banda speciale, che avea forse delle
intelligenze segrete colla camorra, ma che non si
componeva di camorristi. I capi della banda erano ben
conosciuti da’ negozianti, i quali loro confidavano
volentieri i propri affari, e ricevevano così le
mercanzie, pagando solo la metà, il terzo o il quarto
de’ dazi. I doganieri erano testimoni compiacenti e
talvolta complici e mezzani di siffatti raggiri. Anche i
negozianti più onorevoli non sdegnavano di ricorrervi,
perché in quei tempi di universale corruttela ogni sorta
di frode non era considerata colpevole, quando essa
cadeva a danno del fisco soltanto”.
E’ rrobba d’o si’ Peppe
300. “Ma dopo l'arrivo di Garibaldi la camorra si
impadronì del contrabbando. Non si contentò più
d’imporre contribuzioni a coloro che lo esercitavano e
ne profittavano: lo esercitò per conto proprio e in
grandi proporzioni.
Vi ebbero due contrabbandi, come vi hanno due eserciti,
quello di terra e quello di mare, ognuno dei quali avea
un capo supremo, che arricchiva a un tratto.
301. Salvatore De Crescenzo, il grand'uomo, era
il generalissimo de' marinai, avea sotto i suoi ordini
terribili compagnie di sbarco che, nel corso della
notte, introducevano fraudolentemente di che vestire e
pavesare tutta la città! Uomini violenti, spesso armati,
proteggevano questi raggiri e spaventavano i doganieri,
i quali nulla di meglio chiedevano che d'aver paura. E
la dogana di Napoli, i cui proventi erano ascesi fino a
40 mila ducati il giorno, a mala pena rendeva un
migliaio.
302. Del contrabbando di terra avea il comando supremo
un camorrista non meno celebre, nominato Pasquale
Merolle. Si operava liberamente a tutte le porte
della città. Un picchetto di compagni si appostava
coll'arme in braccio presso l'uffizio della Dogana.
Allorché giungeva un carico di vino, o di carni, o di
latte, e i gabellotti uscivano dalle loro case per far
la visita ed esigere i tributi, i camorristi si
avanzavano numerosi gridando: - Lasciate passare, è
rrobba d’o si’ Peppe (= è roba che appartiene a
Garibaldi). I gabellotti si allontanavano subito e il
vetturale pagava la tassa ai camorristi.
303. Ciò che havvi in questo di più curioso si è che né
i vetturali né i loro padroni guadagnavano cosa alcuna
da questo contrabbando. Pagavano alla camorra presso a
poco gli stessi diritti, che avrebbero dovuto pagare
alla dogana; la differenza era insignificante. Non era
dunque l'economia che li spingeva a questi raggiri, ma
la paura: temevano il potere occulto assai più del
regolare. Fra i due mali, si appigliavano al minore. Se
pagavano il dazio alla setta, non rischiavano che di
essere sorpresi dal fisco e di subire una pena leggera;
ma se la pagavano al fisco, erano sicuri di esser presi
da' camorristi e ricevere una buona bastonatura. Quindi,
pagavano il dazio alla setta.
Da ciò è facile immaginare le perdite considerevoli che
ebbe a soffrire il dazio consumo della città. Fuvvi
perfino un giorno (e garantisco il fatto che ho da fonte
autorevole) nel quale, fra tutte le porte di Napoli,
l'amministrazione non poté percepire che 25 soldi!
Questa enormità aprì gli occhi al potere, che ordinò
gravi provvedimenti. Novanta camorristi furono arrestati
in una sola notte nel dicembre 1860: l'indomani, il
dazio fruttò 800 ducati”[81].
continua
Nico Perrone - “L’inventore del trasformismo:
Liborio Romano, strumento di Cavour per la
conquista di Napoli”, Ed. Rubettino, 2009.
Carmine Pinto – Dizionario biografico degli
italiani, 2017.
Giuseppe Monsagrati, in Dizionario biografico
degli italiani, 1999.
Ugo Dovere in Dizionario biografico degli
italiani, 2014.