Antonio Labriola: Marx “fa il bagno nel
golfo di Napoli”
85.
Antonio Labriola
(1843-1904) fu il primo vero filosofo marxista della penisola ed è
dunque giustamente considerato il “padre” della scuola marxista
italiana, che avrà poi in Antonio Gramsci il suo maggior esponente.
86. Ecco come parla di lui il rivoluzionario russo Lev Trotsky
(1879-1940) ne La mia vita- Tentativo di autobiografia:
“Fu nella mia cella (carcere di Odessa, 1898) che lessi con
delizia due noti saggi di un vecchio italiano marxista-hegeliano,
Antonio Labriola, che giunsero in galera in edizione francese.
Diversamente da molti scrittori latini, Labriola padroneggiava la
dialettica materialistica, se non in politica - nella quale era
impacciato - almeno nella filosofia della storia.
Il brillante dilettantismo della sua esposizione in realtà nascondeva
una perspicacia veramente profonda …
Labriola liquida egregiamente la teoria dei fattori molteplici
che popolerebbero l'olimpo della storia, guidando da lassù i nostri
destini …
Malgrado siano passati trent’anni da quando ho letto i suoi Saggi, il
senso generale dei suoi argomenti è ancora fermamente trincerato nella
mia memoria, insieme col suo continuo ritornello: le idee non cascano
dal cielo”.
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Antonio Labriola (1843-1904) |
87. In effetti, il Labriola si impegnò in un’opera che voleva essere
di divulgazione del pensiero di Marx e di Engels, ma ne
risultò in effetti una vera e propria rielaborazione originale:
di lui si disse, giustamente,
che aveva
fatto fare “al marxismo il bagno nel golfo di Napoli”.
Cenni biografici: nascita e prima
educazione
88. Antonio Labriola (da
non confondersi con il tutt’altro Arturo Labriola) nacque a
Cassino il 2 luglio 1843, ai piedi della celebre abbazia benedettina.
Attualmente, Cassino fa parte del Lazio (provincia di Latina); a quel
tempo, si chiamava San Germano e faceva parte del Regno delle due
Sicilie (provincia di Terra di Lavoro).
89. Per una strana combinazione
genealogica, suo padre Francesco Saverio (1809-1874), professore di
lettere nei ginnasi e nativo di Brienza in Basilicata, era nipote
dell’illuminista massone Mario Pagano
, mentre sua madre Francesca Ponari (1808-1890)
era imparentata con la famiglia De Vio di Gaeta, ovvero la stessa
famiglia alla quale era appartenuto il celebre “Cardinal Gaetano”,
Tommaso (al secolo, Giacomo) De Vio (1469-1534), religioso
domenicano che fu Superiore del suo Ordine, grande teologo (scrisse il
più autorevole Commento alla Summa Theologiae di S.
Tommaso d’Aquino) nonché importante diplomatico pontificio (fu inviato
dal Papa anche a discutere con Martin Lutero nel periodo iniziale della
Riforma).
90. La famiglia fornì al
piccolo Antonio i rudimenti dell’istruzione e lo inviò a compiere gli
studi secondari nel collegio dell'abbazia di Montecassino, laddove
ricevette "la prima educazione a filosofare" dall’abate Pappalettere,
religioso di tendenza liberaleggiante.
Cenni biografici: a Napoli (1)
91. Nell'autunno 1861 la
famiglia si trasferì a Napoli, per consentirgli di frequentare
l'Università.
Un suo amico di quegli anni,
Carlo Fiorilli, un Direttore generale del Ministero della Pubblica
Istruzione che era anche amico di suo padre, dice che “sapeva benissimo
di greco e di latino … aveva imparato il tedesco leggendo giornali e
riviste di quella nazione … andava all'Università quasi esclusivamente
per le lezioni di Bertrando Spaventa; con lui entrava e con lui usciva
dall'aula, e quasi sempre accompagnava a casa il Maestro”
.
92. Ma chi era questo “Maestro”
Bertrando Spaventa e come mai il giovane Labriola (nel 1861, aveva 18
anni) era così prossimo a lui?
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Bertrando Spaventa (1817-1883) |
Bertrando (e Silvio) Spaventa
93. In effetti Bertrando
(all’anagrafe, Beltrando) Spaventa (1817 – 1883), come anche suo
fratello Silvio Spaventa (1822 – 1893), era molto legato
all’ambiente “Cassinese” da cui proveniva Antonio Labriola, e conosceva
e stimava suo padre, Francesco Saverio Labriola, come lui di antichi
sentimenti liberali.
94. I due fratelli Spaventa
erano nati a Bomba, un paesino di circa 2.000 abitanti in provincia di
Chieti (Abruzzi), da un tipico “gentiluomo possidente” (= piccolo
proprietario terriero) meridionale, di nome Eustachio, e da Maria Anna
Croce, che era sorella di Benedetto Croce, magistrato napoletano e
nonno dell’omonimo filosofo.
95. Bertrando aveva studiato
nel Seminario di Chieti ed in quella Diocesi era stato ordinato
sacerdote. Subito dopo, nel 1838, ottenne l’incarico di matematica e
retorica presso il Seminario di Montecassino e quindi si trasferì a
Cassino insieme al fratello Silvio. Anche Silvio, di cinque anni più
giovane di lui, aveva infatti studiato nel Seminario di Chieti ed adesso
completava gli studi nel Seminario di Montecassino.
96. Nel 1840, Bertrando si
trasferì a Napoli, dove ebbe modo di approfondire la conoscenza del
pensiero filosofico europeo dell’epoca e venne in contatto con i circoli
liberali cittadini. Ed anche a Napoli, Silvio lo seguì, nel 1843,
andando a lavorare come precettore dei figli del magistrato Benedetto
Croce (vedi sopra), fratello di sua madre.
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Silvio Spaventa (1822-1893) |
97. Entrambi parteciparono
attivamente ai moti liberali borghesi del “famoso 1848”
.
In seguito alla sconfitta di
quei moti, Bertrando esulò prima a Firenze e poi a Torino, laddove
depose definitivamente l’abito sacerdotale, guadagnandosi da vivere come
giornalista; elaborò compiutamente la sua concezione filosofica
(hegeliana) ed il suo pensiero politico (unitarista, filo-sabàudo ed
anti-clericale); e … divenne un convinto seguace, come suo fratello
Silvio, del conte di Cavour.
98. Quando i Piemontesi
conquistarono Napoli, nel 1860, uno dei primi loro provvedimenti fu la
“messa a riposo” di quasi tutto il “corpo docente” dell’Università di
Napoli, e la sua sostituzione “d’ufficio” con nuovi docenti di provata
fede patriottica italiana, sabàuda e liberale.
99. Così, all’ex professore di
matematica e retorica del Seminario di Montecassino, Bertrando Spaventa,
venne data nel 1861 la Cattedra di Filosofia dell’Università di Napoli,
dalla quale egli, fino alla sua morte nel 1883, si propose di “far
conoscere Hegel agli italiani per rifare l’Italia”.
La filosofia di Giorgio
Guglielmo Federico Hegel (Stoccarda, 1770 – Berlino, 1831) era
ritenuta, non solo da lui, niente di più e niente di meno che il
punto più alto raggiunto dal pensiero umano, nel paese a sua volta
ritenuto il più civile e progredito del mondo (la Germania): essa
era dunque la più idonea per costruire anche in Italia una cultura di
tipo borghese moderno.
Nasceva allora ufficialmente
quello che Carlo Levi avrebbe poi definito “lo Stato etico degli
hegeliani di Napoli”: i “civili ed evoluti galantuomini” italiani,
adesso ben equipaggiati anche con una filosofia compiutamente “moderna”,
erano pronti a combattere la loro prima guerra nazionale, contro gli
“incivili ed arretrati contadini” del Sud con le loro “povere
Madonne dal viso nero”
.
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Hegel durante una lezione |
100. Nel frattempo, il
professor Spaventa fu anche Deputato del Regno d’Italia, naturalmente
negli scranni della Destra liberale, dal 1861 al 1865 e poi ancora dal
1867 al 1876.
101. Morì il 20 settembre del
1883: per una strana coincidenza, era proprio il giorno anniversario
della “breccia di Porta Pia”, che avvenne, com’è noto, il 20 settembre
del 1870.
Per un’altra coincidenza, in
quello stesso anno 1883, il 28 luglio, si verificò il disastroso
terremoto di Casamicciola (isola di Ischia), nel quale perirono entrambi
i genitori, Pasquale e Luisa Sipari, di Benedetto Croce (1866 – 1952)
e questi, allora diciassettenne, fu affidato alla tutela, ed andò a
vivere nella casa, di Silvio Spaventa, suo parente nonché precettore di
suo padre Pasquale (vedi sopra, n°94 e n°96).
Cenni biografici: a Napoli (2)
102. Quando, nel 1861, il
diciottenne Labriola arrivò a Napoli per iscriversi all’Università, il
“Cassinese” Bertrando Spaventa era appena asceso alla cattedra di
filosofia ed accolse il giovane allievo come un promettente virgulto
della “nuova Italia”.
103. Stanti le sue disagiate
condizioni economiche, il “promettente virgulto” doveva però
necessariamente accompagnare gli studi con il lavoro.
E grazie proprio
all’interessamento del suo Maestro, fu nominato nel dicembre 1863
“Applicato di pubblica sicurezza” presso la Questura di Napoli, laddove
avrebbe dovuto occuparsi, manco a dirlo, “di lotta al brigantaggio”.
Successivamente, conseguito nel
settembre 1865 il diploma di abilitazione per materie letterarie nel
ginnasio inferiore, insegnò nel ginnasio dell'ex seminario (1865) e poi
al Principe Umberto (1866-71), impartendo anche lezioni nell'istituto
privato di D. Borselli e presso la scuola tedesca di Napoli.
104. Nel frattempo, anche
grazie alla sua conoscenza della lingua tedesca, aveva iniziato una
corrispondenza epistolare e sentimentale con Rosalia Carolina von
Sprenger (1840-1926), una palermitana di origini tedesche e di
religione evangelica, che insegnava alla "Scuola Garibaldi": asilo e
scuole elementari, aperte a Napoli subito dopo l’unificazione italiana,
presso la Chiesa di Scozia. La sposò il 23 aprile 1867 e fu la compagna
della sua vita, dandogli tre figli: Michelangelo Francesco (che morì
ancor bambino di difterite, nel 1874, a Roma); Francesco Felice Alberto;
e Teresa.
Teresa Labriola (1874-1941)
105. Di quest’ultima, Teresa
Carolina, nata a Napoli il 17 febbraio 1874, il padre teneva nel suo
studio un busto montato su un piedistallo.
Fu la prima donna a laurearsi
in giurisprudenza nell'Università di Roma (1894) e ad ottenere la libera
docenza in “Filosofia del diritto” in quell’ateneo (1900-1918) ma, a
causa dei pregiudizi anti-femminili del tempo, non riuscì mai a
diventare titolare di una cattedra.
Nel 1912 presentò domanda per
l’iscrizione all’Albo degli Avvocati ma anche questo gli venne negato e
perfino la Corte di Cassazione, investita del caso, sentenziò nel 1913
che una donna non poteva essere ammessa all’esercizio dell’avvocatura.
Nel frattempo, a partire dal
1904, aveva iniziato la sua militanza, anche a livello internazionale,
nei movimenti femministi, in particolare per il diritto di voto alle
donne, e nel 1917 pubblicò il volume “Del femminismo come visione della
vita”.
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Teresa Labriola (1874-1941) |
106. Si pronunciò tuttavia a
favore dell’invasione italiana della Libia (1911) e fu accesamente
“interventista” nella I guerra mondiale. Durante la guerra, si separò
definitivamente dalle associazioni femminili democratiche e fondò una
sua “Lega patriottica femminile”, collegata prima al movimento
nazionalista e poi al fascismo.
Lei, figlia di un socialista e
di una donna di origini tedesche, divenne accesamente anti-socialista e
nazionalisticamente anti-tedesca. Aderendo al “femminismo di regime”,
chiedeva adesso, con non miglior fortuna, che il diritto di
rappresentanza fosse riconosciuto esclusivamente alle donne “migliori”,
cioè alle più affidabili sotto il profilo nazionale e patriottico, con
alcune infelici sortite anche sulla “gerarchia fra le razze”.
Rimase sempre nubile.
Progressivamente emarginata dalla vita pubblica, in ristrettezze
economiche, morì a Roma il 6 febbraio 1941.
Cenni biografici: a Napoli (3)
107. Non risulta che Antonio
Labriola abbia conseguito la laurea: di certo non fa riferimento ad essa
tutte le volte che produce i suoi titoli al Ministero.
Tuttavia, il 19 agosto 1871
ottenne la libera docenza in “Filosofia della storia” nell'ateneo
napoletano, grazie alle sue pubblicazioni degli anni precedenti:
Una risposta alla prolusione di Zeller (contro il “ritorno a
Kant”, 1863);
Della relazione della Chiesa allo Stato (in cui sosteneva la
tesi che la Chiesa deve essere “subordinata” allo Stato, 1865);
Origine e natura delle passioni secondo l'Etica di Spinoza
(1867); e una monografia su Socrate (1870).
108. Nel giugno-luglio 1872,
inviò alla Nazione di Firenze le dieci
Lettere napoletane: una serie di articoli, tuttora
interessanti, che tracciano un “ritratto molto vivace, talvolta
impietoso, della mentalità collettiva e dei costumi politici della
città.
Allo scarso senso civico
della popolazione, e alla politica esercitata da una stretta schiera di
mestieranti, convinti di essere tanti Machiavelli, si
aggiungevano i danni arrecati a Napoli dalla perdita dello
status di capitale, e l’insufficienza governativa che
aveva spesso dato pruova di sé, in questa città come in nessun’altra
d'Italia”
.
Cenni biografici: a Roma
109. Nel 1873, partecipò al
concorso per la Cattedra di “Filosofia morale e pedagogia” presso
l’Università di Roma: risultato vincitore (Règio Decreto del 23 gennaio
1874), tenne quell'insegnamento per il resto della sua vita, fino a
quando, ormai negli ultimi suoi anni, passò alla Cattedra di “Filosofia
teoretica” (Règio Decreto del 7 luglio 1902).
Nel 1887 ottenne anche
l'incarico, cui tenne sempre moltissimo, di “Filosofia della storia”.
110. A partire dal 1874 visse
dunque con la sua famiglia a Roma ed ivì morì, all’età di 61 anni.
Colpito da un tumore alla gola, che lo privava, come scrisse,
“dell’organo democratico e pedagogico della voce”, morì la mattina del 2
febbraio 1904, all'ospedale tedesco di Roma, e volle essere sepolto
all'ombra della piramide di Caio Cestio, nel cimitero dei protestanti
della Capitale: ricordiamo infatti che sua moglie era di origini
tedesche e di religione evangelica (vedi sopra, n°104).
Il pensiero di Antonio Labriola
111. Il suo pensiero si può
agevolmente schematizzare in tre fasi successive:
-
nella prima fase, segue semplicemente le orme del suo maestro Bertrando
Spaventa, per cui è idealista hegeliano, in filosofia, e liberale di
destra, in politica;
-
nella seconda fase, si distacca progressivamente dall’idealismo, prima
studiando l’Etica di
Benedetto Spinoza (1632 – 1677) e la figura di Socrate, e poi aderendo,
anche in psico-pedagogia, al
franco realismo decisamente anti-hegeliano di Johann Friedrich Herbart
(1776-1841);
-
infine,
iniziato lo studio sistematico in lingua originale dei testi di Marx e
di Engels, dal 1879 diviene compiutamente marxista e socialista, e nel
1890 entra in corrispondenza con lo stesso Engels (Lettere ad Engels,
pubblicate per la prima volta tra il 1924 e il 1929).
La “conversione”
112. Lui stesso racconta di sé: “Da giovane vissi in quella specie di
palestra (che erano gli hegeliani di Napoli) e non me ne
rincresce.
Vissi per anni con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza. Di Hegel, difesi,
con giovanile ingenuità, la dialettica, contro lo Zeller che iniziava il
neokantismo. Di Spinoza, sapevo a memoria gli scritti e ne
esposi, con intendimento di innamorato, la teoria degli affetti e delle
passioni. Ora, tutte queste cose mi tornano alla mente come lontanissima
preistoria …
113. Dal 1879 cominciai a muovermi in questa via di nuova fede
intellettuale (il socialismo marxista), nella quale mi son
fermato e confermato con gli studi e con la osservazione negli ultimi
tre anni …
Quando venni a Roma come professore (1873), ero un socialista non
cosciente e un avversario dichiarato dell’individualismo unicamente per
motivi astratti …
Fra il 1879 ed il 1880, mi ero già quasi completamente convertito alla
concezione socialista, ma più per la concezione generale della storia
che per un impulso interno di una fattiva convinzione.
Un avvicinamento lento e continuo ai problemi reali della vita, il
disgusto per la corruzione politica, il contatto con gli operai, hanno
poi a poco a poco trasformato il socialista scientifico in abstracto
in vero socialdemocratico …
114. Sono socialista a modo mio ... non ho appreso il socialismo dalla
bocca di un gran maestro … mi ci ha condotto il disgusto del presente
ordine sociale e lo studio diretto delle cose ... Faccio lezione agli
operai di diritti e di doveri”.
115. I suoi interlocutori principali erano dunque: studenti, da
un lato; operai che studiano e prendono coscienza di sé,
dall’altro.
La filosofia della praxis
116. Labriola riteneva che il pensiero di Marx ed Engels (da lui per
primo denominato “filosofia della praxis”) costituisse il
nucleo fondativo di una nuova ed integrale concezione del mondo,
alternativa a qualunque concezione culturale borghese nonché
necessaria e sufficiente per la costruzione di una società socialista
cioè alternativa al capitalismo.
117. “Tutti
codesti scritti (quelli di Marx ed Engels) hanno un fondo comune
e questo è il materialismo storico, inteso nel triplice aspetto:
1)
di tendenza filosofica, nella veduta generale della vita e del
mondo;
2)
di critica dell’economia, che ha modi di procedimento riducibili
in leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica;
3)
di interpretazione della politica e soprattutto di quella che
occorre e giova alla direzione del movimento operaio verso il
socialismo.
Questi tre aspetti, che qui enumero astrattamente, come accade sempre
per comodo di analisi, facevano uno nella mente degli autori stessi”.
118. La filosofia della praxis non doveva quindi essere
snaturata mescolandola confusamente con le filosofie borghesi allora
più in voga nel mondo intellettuale, soprattutto il neo-kantismo
ed il positivismo (il “Sig. Comte” ed il “Grande Eunuco
Spencer”).
Tanto meno, essa si doveva considerare ormai già “superata” ed “in
crisi”, a causa dei cambiamenti nel frattempo intervenuti nella società,
bensì continuamente da approfondire e da sviluppare nel confronto
con i sempre nuovi problemi posti dalle continuamente mutevoli
circostanze storiche.
119. Da una parte, perciò, egli considerava ovviamente indispensabile la
nascita di un “Partito socialista dei lavoratori italiani” aderente alla
Seconda Internazionale.
D’altra parte, però, quando quel partito effettivamente sorse, nel 1892,
egli ne rimase sempre ai margini, considerando il “gruppo milanese”, che
allora lo dirigeva, troppo confuso, sul piano ideologico, e troppo
proclive ad accordi con la controparte borghese, sul piano politico; e
questo perché esso era organicamente legato, di fatto, più ad una
ristretta “aristocrazia operaia” (= i lavoratori più garantiti e meglio
pagati, soprattutto del Nord) che non alle grandi masse dei lavoratori
marginali e dei contadini poveri, soprattutto del Sud.
120. In tal senso, il vero e forse unico continuatore sia del pensiero
sia dell’opera di Labriola fu Antonio Gramsci.
Gli scritti (e le conversazioni) di
Antonio Labriola
121. Le più importanti opere
scritte dal Labriola, dopo la sua adesione al socialismo, sono i tre
“Saggi sulla concezione materialistica della storia”
e cioè:
-
“In memoria del Manifesto dei comunisti” (1895).
-
“Del materialismo storico - Dilucidazione preliminare” (1896).
-
“Discorrendo di socialismo e di filosofia - Lettere a Georges Sorel”
(1897).
Vi è inoltre un quarto Saggio,
“Da un secolo all’altro”, rimasto incompiuto per la morte dell’autore
nel 1904.
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Antonio Labriola (1843-1904) |
122. “A parte, però, questi tre
saggi marxisti, che furono pubblicati dal suo allievo Benedetto Croce, e
alcuni scritti che gli avevano fatto vincere la cattedra universitaria a
Roma, il meglio di Labriola era nelle conversazioni, al caffè
Aragno, in casa di amici, nelle lettere a Croce, ad Engels, ai
socialisti tedeschi, negli articoli e nei corsi universitari.
Il suo modo di parlare doveva
essere vivacissimo. C'è una pagina di Croce che rievoca le serate che
Labriola passava nella casa romana di Silvio Spaventa, dove i due
filosofi si conobbero. Era lui ad animare il dialogo, anche per quella
sua attitudine ai giudizi taglienti.
In particolare, la sua polemica
contro il positivismo che dominava nella seconda metà
dell’Ottocento è astiosa quanto pittoresca”
.
123. I positivisti sono affetti
da “scemità volontaria”, il loro insegnamento è “una zuppa mal preparata
e mal bollita”, ed essi sono i “rappresentanti della degenerazione
cretina del tipo borghese”.
L’illustre Docente di Economia
politica, Accademico dei Lincei e Senatore del Regno, l’ebreo mantovano
Achille Loria (1857-1943), e l’altro illustre Docente,
criminologo allievo di Cesare Lombroso, avvocato, giornalista, politico
socialista e poi fascista, e tante altre cose
, Enrico Ferri (1856–1929) … sono “casi
paradossali di ciarlataneria cretina”. Ed anche il marchese, ingegnere,
economista e sociologo Vilfredo Pareto (1848-1923) è per lui
regolarmente “quel cretino”.
124. In definitiva, diceva di
avere “molta più fiducia nei 19 milioni di analfabeti” (tanti ce
n'erano nell'Italia del tardo Ottocento) che “in tutte le nostre
scuole” (forse avrebbe dovuto dire: “che in tutti i nostri professori
universitari”).
Labriola e il colonialismo
125. Aveva però ragione Trotskj quando diceva che Labriola, molto
profondo in “filosofia della storia” era però alquanto “impacciato” in
politica (vedi sopra, n°86).
E tale “impaccio” lo mostrò proprio su un tema fondamentale, la politica
coloniale: “Egli era espansionista e guardò con simpatia all’impresa
d’Africa e si manifestò favorevole all’occupazione di Tripoli”
.
126. Il partito socialista, nelle aule parlamentari, per la voce del
vecchio e glorioso Andrea Costa (vedi sopra, n°83), aveva una posizione
ferma: “Non un uomo, non un soldo, per le imprese coloniali”; se Crispi
voleva veramente, come diceva, “dare la terra ai contadini” poteva
utilizzare i soldi pubblici e la abbondante manodopera per bonificare le
terre ancora incolte della Sardegna, dell’Agro romano e della Maremma …
Eppure, da questa posizione chiara, semplice e coerente con i princìpi
socialisti, proprio il professor Labriola sbandò paurosamente
.
127. Nel gennaio 1890, a conclusione della prima guerra italo-etiopica,
era stata ufficialmente proclamata la “Colonia italiana di Eritrea”
(vedi sopra, nn°28-30).
Poco dopo, il 9 marzo di quello stesso anno, “Il Risveglio” di Firenze
pubblicava una “Lettera aperta” di Labriola al deputato Alfredo
Baccarini, nella quale scriveva:
“In Africa tanto ci siamo e ci rimarremo. Ormai tutti i rimpianti sono
vani. Tocca ora discutere seriamente e fortemente del modo di ordinare
la colonia ...” Egli proponeva di approfittare dell’Eritrea, “terra
ancora libera da ogni titolo di diritti storici e stabiliti”, per fare
in modo che “i contadini poveri italiani, che attualmente emigrano verso
l’America del Sud, possano avere dei piccoli lotti di terra da
coltivare, come coltivatori diretti o in forma cooperativa”.
128. Era però evidente che:
1)
La terra che gli Italiani, a capriccio di un brillante funzionario
ministeriale, avevano denominato “Eritrea” (vedi sopra, n°30) non era
affatto “libera da ogni titolo di diritti storici” ma apparteneva da
almeno tremila anni ad un Impero, quello Etiope, che era addirittura più
antico dell’Impero Romano.
2)
In Italia c’erano grandi latifondi padronali in gran parte lasciati
incolti nonché vaste terre ancora da bonificare e quindi non si capisce
perché i poveri contadini italiani dovevano essere mandati ad
espropriare i poveri contadini etiopi.
3)
Esternare una simile posizione, da parte di un autorevole socialista,
equivaleva ad avallare ed a giustificare quello che era semplicemente un
paravento propagandistico usato da Crispi (“la terra ai contadini”) per
coprire la difesa di ben altri interessi che quelli dei contadini poveri
(vedi sopra, nn°5-8).
129. Tuttavia, questa sortita del 1890 potrebbe fors’ancora essere
considerata soltanto un non gravissimo errore di ingenuità politica.
Assai peggiore fu la sortita di sette anni dopo, quando “Il Mattino” di
Napoli (23-24 febbraio 1897) pubblicò un intervento di Labriola a
proposito della intricata questione dell’isola di Creta (Candia), per il
possesso della quale era in corso un sanguinoso conflitto fra l’Impero
Turco Ottomano e la Grecia, nel quale erano peraltro intervenute
militarmente anche le principali potenze europee, inclusa l’Italia
appena reduce dalla clamorosa sconfitta di Adua (vedi sopra, nn°31-32).
130. La sua premessa “logica” era che l’Italia non poteva estraniarsi
dai processi imperialistici mondiali, che erano inevitabili, anzi grazie
alle colonie “poteva nuovamente trovare posto nella storia”.
Occorreva solo decidere “se trovarsi dalla parte dei popoli passivi o di
quelli attivi” e “nessun orrore doveva esserci per l’esercizio della
forza”, elemento questo che “pienamente faceva parte” dei processi della
storia.
131. E la conclusione era: “Si prepara la catastrofe dell’oriente
… liquidiamo per ora la Turchia europea, quella asiatica sopravvivrà
ancora un pezzo … In questa gara conquistatrice, che è sempre
legittima laddove non vi sono nazionalità vitali, la parte che tocca
all’Italia è indicata da tutte le ragioni dell’opportunità e della
difesa: intendo dire di ciò che alla Turchia rimane in Africa ossia la
Tripolitania.
Non brontolino i socialisti, anzi mettano sicuro il piede sulla terra
della politica. Noi abbiamo bisogno di terreno coloniale e la
Tripolitania è a ciò indicatissima.
Pensino che 200.000 proletari all’anno emigrano dall’Italia, senza
indirizzo e senza difesa, e ricordino che non può esservi progresso del
proletariato là dove la borghesia stessa è incapace di progredire”.
132. In tal modo, per quanto in buona fede, egli non faceva altro che
esprimere, con una fraseologia “socialista”, esattamente la stessa
posizione ideologica e quindi gli stessi interessi economici
dell’imperialismo coloniale classico
, con argomentazioni
che mostrano quanto egli fosse influenzato, sull’argomento, dalle
opinioni allora egèmoni nel mondo borghese italiano ed europeo.
I discepoli di Antonio Labriola
133. L’influenza del pensiero di Labriola, nel dibattito allora in corso
nella Seconda Internazionale, non fu certo grandissima. Il suo
insegnamento ha però lasciato tracce, ove più ove meno evidenti, in
tutta la cultura italiana a lui successiva.
Anzitutto, ovviamente, nella Scuola marxista italiana del Novecento, di
cui è considerato il “padre nobile” e che trova in Gramsci il suo
massimo esponente.
Ma anche “don” Benedetto Croce, il “pensatore olimpico”, il “papa laico”
della borghesia liberale italiana nella prima metà del Novecento, fu in
gioventù suo allievo e molto imparò da lui, anche se ben presto
ripercorse all’indietro il cammino fatto dal suo maestro e ritornò
dal marxismo verso l’idealismo, da lui stesso peraltro
riveduto e corretto, e rivestito di più aggiornate vesti (neo-idealismo
crociano).
Il
movimento politico dei cattolici nell’Italia unita
134. Il papa Leone XIII
(1878-1903) mantenne, per i cattolici, il divieto, stabilito dal
suo predecessore Pio IX (1846-1878), di partecipare alle elezioni
nel nuovo Stato unitario italiano (“né eletti, né elettori”), in segno
di rifiuto di quella realtà nazionale che si era creata anche attraverso
l’annessione dello Stato pontificio e l’espropriazione delle terre
ecclesiastiche.
Tale divieto era sancito con la
formula non expedit (= non è opportuno, non è cosa che si
convenga ad un cattolico). Non era però vietato partecipare alle
elezioni amministrative, a livello locale, come di fatto fecero in
quegli anni i cattolici più impegnati in politica.
135. A livello nazionale, la
prima forma di organizzazione complessiva dei cattolici
fu la cosiddetta “Opera dei Congressi”, nata nel
1874, cioè quasi subito dopo la famosa “breccia di Porta Pia”, che nel
1870 aveva posto fine al potere temporale dei papi.
“L’Opera dei Congressi e dei
Comitati Cattolici è costituita allo scopo di riunire i Cattolici e
le Associazioni Cattoliche d'Italia, in una comune e concorde
azione, per la difesa dei diritti della Santa Sede, e degli
interessi religiosi e sociali degli Italiani, conforme ai desideri e
agli eccitamenti del Sommo Pontefice, e sotto la scorta dell'Episcopato
e del Clero” (Art.1 dello Statuto dell’Opera).
136. L’Opera dei Congressi
sorgeva, dunque, in polemica con lo Stato sabàudo italiano e le idee
risorgimentali, e in difesa dei “diritti violati” della Chiesa.
Non a caso, ancora al VI
Congresso dell’Opera, tenutosi a Napoli nell’ottobre 1883, troviamo fra
i dirigenti del movimento anche Luigi III (1823-1888), XV ed ultimo
principe di Bisignano (che risiedeva nel palazzo di Barra), il quale
si presentava esplicitamente come “fautore della restaurazione
borbonica”
.
137. Contemporaneamente,
fermentavano, anche all’interno dell’organizzazione cattolica, le
crescenti richieste di maggiore eguaglianza e dignità sociale che,
provenienti dalle masse popolari, sia contadine che operaie, permeavano
sempre di più l’intera società italiana.
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Il primo nucleo della Azione
cattolica italiana |
La rivendicazione dei “diritti
violati” del Papa andava quindi coniugata con una attenta riflessione
sulla nuova “questione sociale”.
Giuseppe Toniolo (1845-1918)
138. In tal senso, studiò ed
operò anzitutto Giuseppe Toniolo (Treviso, 1845 - Pisa, 1918),
professore di economia politica presso l’Università di Padova, poi di
Modena e infine di Pisa, considerato tuttora uno degli esponenti
italiani più significativi della scuola di pensiero che si ispira all’
“insegnamento sociale” della Chiesa.
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Giuseppe Toniolo (1845 - 1918) |
139. Oltre ad una grande
quantità di articoli ed interventi pubblici, il Toniolo fu autore di
saggi di storia economica del Medio Evo, nei quali pose l’accento
soprattutto sulla struttura di tipo corporativistico nei rapporti
di produzione e sulla collaborazione fra le varie classi,
caratteristiche di quella società.
140. Questi studi rappresentano
la verifica, in sede storiografica, delle sue teorie economiche e
sociali, intese a realizzare una più giusta e fraterna convivenza, sulla
base della “dottrina sociale” della Chiesa cattolica, nel tentativo di
dare una risposta alternativa sia al liberalismo che al socialismo.
141. La sua opera sistematica è
il “Trattato di economia sociale”, in 3 volumi, scritto a partire dal
1908 e pubblicato integralmente solo dopo la sua morte, nel 1921.
142. Il Toniolo intervenne
pubblicamente nel movimento organizzato dei cattolici a partire dal
1888, con uno scritto programmatico intitolato “Ragioni e intendimenti
degli studi e dell’azione sociale dei cattolici italiani”, sulla base
del quale nacque, nel dicembre del 1889, la “Unione cattolica per gli
studi sociali in Italia”, di cui fu eletto presidente.
143. Dalla pubblicazione
dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII nel 1891, l’Unione
ricevette nuovo slancio e fervore: celebrò il suo primo Congresso
nazionale a Genova nel 1892 e decise la pubblicazione di una rivista dal
titolo “Rivista internazionale di scienze sociali” che, uscita la prima
volta nel gennaio del 1893, continua tuttora la sua esistenza.
144. Nel 1894 (quindi, due anni
dopo la fondazione del Partito Socialista dei lavoratori italiani,
avvenuta nel 1892), Toniolo scrisse “Il programma dei cattolici di
fronte al socialismo” che, uscito sulla “Rivista” in gennaio, fu poi
approvato e fatto proprio dall’intera Opera, nell’XI Congresso, tenutosi
in febbraio.
Il Programma dei cattolici (1894)
145. Di fronte alla nascita,
anche in Italia, di un forte ed organizzato Partito Socialista aderente
alla Seconda Internazionale, il movimento dei cattolici riconosceva
bensì la fondatezza e legittimità delle aspirazioni a maggiore giustizia
ed eguaglianza delle grandi masse contadine ed operaie, ma negava che il
socialismo fosse la risposta adeguata a quelle aspirazioni.
146. La risposta era da
ricercarsi, invece, in un “restauro sociale cristiano”, che si
concretizzava in una serie di proposte, per l’immediato e per il lungo
periodo.
NELL’INDUSTRIA: difesa delle
piccole e medie imprese; proibizione della rescissione del contratto di
lavoro senza alcun preavviso; introduzione del riposo festivo;
esclusione delle donne e dei fanciulli dal lavoro nei settori più
pesanti e/o nocivi; limitazione dell’orario di lavoro e fissazione di un
salario minimo; ed inoltre, versamento di parte del salario in forma
“indiretta” (sotto forma di alloggi gratuiti, versamenti per
assicurazioni e pensioni, etc.), salario “a compito” invece che “fisso a
tempo”…
A più lungo termine, si
proponeva di concedere all’operaio una parte della sua remunerazione
sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa e, gradualmente,
consentirgli di impiegare i propri risparmi anche per acquisire “azioni”
dell’impresa stessa, divenendo quindi compartecipe della proprietà …
NELL’AGRICOLTURA: favorire la
piccola proprietà, la mezzadria, l’affitto a lungo termine e
l’enfitèusi, ed inoltre tentare la ricostituzione del patrimonio
terriero della Chiesa e dei demàni comunali, in modo da dare garanzie di
sicurezza ai contadini non proprietari, attraverso lunghi e stabili
legami contrattuali con gli enti proprietari …
147. Come metodo da
utilizzare per l’attuazione di questo programma, respingendo la lotta di
classe, si proponeva (ispirandosi agli studi sul medioevo) di affidare
la risoluzione del problema sociale alle corporazioni, cioè ad
associazioni miste di operai e padroni dello stesso settore produttivo,
ammettendo però che i lavoratori potessero organizzarsi in sindacati
esclusivamente operai, qualora “le classi superiori … ripùgnino a
entrare in sodalizi misti con le classi inferiori”.
Nei fatti, a quanto pare,
accadde proprio che “le classi superiori” (o almeno la grande
maggioranza dei loro componenti) “ripugnarono” … Per cui, il risultato
concreto fu il rapido sviluppo del movimento sindacale e cooperativo di
ispirazione cattolica, accanto a quello socialista.
L’Italia del Sud al tempo di Crispi: una
“palla di piombo”?
148. Riprendendo ora il filo di
una analisi già dipanata in precedenza
, citiamo qui una celebre pagina di Antonio
Gramsci, nella quale egli, proprio riferendosi al periodo in cui
governava Francesco Crispi (1887-1896), esamina in particolare l’origine
storica del “complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione riguardo
al Mezzogiorno”:
149. “La miseria del
Mezzogiorno era inspiegabile storicamente per le masse popolari
del Nord. Esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una
base di uguaglianza ma come egemonia del Nord sul
Mezzogiorno … cioè che il Nord, concretamente, era una piovra che
si arricchiva a spese del Sud e che il suo incremento
economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento
dell’economia e dell’agricoltura meridionale.
Il popolano dell’Alta Italia
pensava, invece, che se il Mezzogiorno non progrediva, dopo essere stato
liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il
regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano
esterne, da ricercarsi cioè nelle condizioni economico-politiche
obiettive, ma interne cioè innate nella popolazione meridionale,
tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza
naturale del terreno. Non rimaneva che una spiegazione: l’incapacità
organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica.
Queste opinioni già diffuse (il
lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono
consolidate e addirittura teorizzate dai sociologi del positivismo (Niceforo,
Sergi, Ferri, Orano, etc.) assumendo la forza di “verità scientifiche”
in un tempo di superstizione della scienza.
Si ebbe così una polemica
Nord-Sud sulle razze, e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del
Sud … Intanto, rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una
palla di piombo per l’Italia, la persuasione che più grandi
progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto
senza questa palla di piombo, etc.”
.
Il movimento dei “fasci siciliani”
(1892-1894)
150. Ma, per chi voleva vedere
le cose così com’erano realmente, al di là del velo dei pregiudizi
pseudo-scientifici, proprio in quegli anni (1892-94) il velo fu
squarciato dal movimento dei fasci siciliani, “il primo grande
movimento di massa proletaria che si sia visto in Italia”, come scrisse
Antonio Labriola.
151. Si chiamò dei fasci
perché tendeva ad unire, a mettere in fascio le forze degli
strati più poveri della popolazione, sia a scopo di reciproca
solidarietà, sia per ottenere, con la lotta, migliori condizioni di
vita.
Com’è noto, del nome fascio,
qualche decennio dopo, si appropriò abusivamente Benito Mussolini, per
denominare fascismo il suo movimento, che aveva però
caratteristiche e finalità del tutto diverse, ed anzi opposte, rispetto
a quelle dei fasci siciliani del 1892-94.
Con i fasci siciliani,
per la prima volta, le masse meridionali cominciarono a far proprie le
idee del socialismo moderno, in un clima di fervore quasi
religioso, tanto da poter essere paragonato a quello del cristianesimo
primitivo.
Che cos’era un “fascio”
152. Il movimento si sviluppò
rapidamente, nelle città e nei paesi, con la costituzione di gruppi
locali, dèditi soprattutto alla propaganda delle nuove idee
socialiste ed alla reciproca solidarietà.
“Al tempo del loro maggiore
sviluppo, si contavano in Sicilia su per giù 300 fasci con circa
200 mila iscritti, per lo più contadini.
Nella sola Palermo, il fascio
dei lavoratori contava più di 10 mila soci. La sua attività era molto
complessa.
Ci viene riferito che, nel suo
locale, esisteva una vasta sala destinata alle conferenze e alle recite
di drammi socialisti, tutta piena di iscrizioni di Marx, di Louis Blanc,
di Giovanni Bovio.
Nel corridoio del locale, erano
appesi i campioni delle stoffe con cui i soci sarti offrivano, ai
compagni, dei vestiti a prezzi minimi, nonché le tabelle dei prezzi
ridotti dei pastai, dei barbieri, dei pizzicagnoli, dei calzolai e di
altri facenti parte del fascio.
Nella sede c’era anche una
sala, detta rossa, colle pareti ricoperte dai gonfaloni rossi
delle 63 sezioni d’arti e mestieri nelle quali il fascio si
suddivideva. Troneggiava in questa sala il busto di Marx, su fondo
rosso, fiancheggiato dai busti di Garibaldi e di Mazzini.
153. I fasci
svolgevano una vasta opera di socievolezza e di moralità pubblica.
Furono istituiti
alberi di Natale e date feste da ballo, recitate commedie socialistiche,
scritte e rappresentate dai soci stessi. Con questa attività letteraria
si mirava a tre scopi diversi: quello di divertire ed educare gli
operai, quello di aumentare i fondi di propaganda e quello di aiutare i
compagni bisognosi.
Ogni domenica, una commissione
del fascio usava fare il giro delle osterie a raccomandare ai
fratelli di non ubriacarsi, perché la massima parte delle risse e dei
ferimenti succedono quando c’è di mezzo del vino.
Ogni decurione, capo di
dieci soci del fascio, aveva l’obbligo di sorvegliare i suoi
fratelli aderenti, e di essere per loro un padre. Ed infatti il
sentimento di fratellanza era radicato nei fasci, a tal segno che
quando, ad esempio, ad un socio moriva un mulo, tutti i compagni
sborsavano alcuni soldi a testa perché se ne potesse comprare un altro.
154. I fasci siciliani
erano capitanati da uomini coraggiosi, appartenenti alla piccola o media
borghesia: il possidente Bernardino Verro, il ragioniere Garibaldi
Bosco, il medico Nicola Barbato, l’avvocato Giacomo Montalto, ai quali
si associarono anche alcuni nobili, tra i quali si fece più tardi un
nome: il principe Alessandro Tasca di Cutò, poi deputato socialista per
il collegio di Sciacca. Tutti superava, per ardire e per influenza sulle
masse, il catanese Giuseppe De Felice Giuffrida…”
.
|
Il principe socialista Alessandro
Tasca Filangeri di Cutò (1874-1943) |
155. La composizione sociale
dei gruppi variava alquanto di luogo in luogo, pur essendo prevalente la
presenza dei contadini poveri (braccianti, mezzadri, etc.) e dei
minatori delle zolfàre, con una attiva partecipazione anche delle
donne e dei ragazzi; ad essi si aggiungevano, a volte, operai,
artigiani, piccoli commercianti, piccoli proprietari … Ad esempio, a
Belmonte Mezzagno la composizione sociale del fascio era: 500
contadini, 7 calzolai, 6 lavoranti fornai, 4 barbieri, 3 muratori e 700
donne.
L’ideologia dei “fasci”
156. Non si può
naturalmente pensare che vi fosse subito, ed in tutti gli aderenti, una
coerente chiarezza ideologica.
“Nel movimento dei fasci,
i contadini siciliani, che si chiamavano spesso anche marxisti, usavano
portare nelle loro dimostrazioni, in una armonia perfetta, alla rinfusa,
i ritratti del ribelle Carlo Marx, del loro “buon re” Umberto I e della
Santissima Madre di Dio, accompagnandoli col grido di Viva il re!
Essi professavano anche una venerazione speciale per la memoria di
Garibaldi …”
.
Vi era certamente in tutti un
vivo desiderio di giustizia, alimentato dalla sofferenza per i soprusi
patìti dalle masse popolari: da quelli secolarmente antichi a quelli,
recenti, dei gentiluomini borghesi e del nuovo governo “italiano”, tanto
più odiosi perché venivano a disilludere le speranze suscitate da
Garibaldi e dalla “libertà” da lui promessa ai contadini nella lotta
risorgimentale.
|
Ragazzini che lavoravano (nudi)
nelle miniere di zolfo |
I “fasci” insorgono?
157. I fasci
cominciarono a contrastare le mafie locali ed a partecipare, nella
misura allora possibile
, alle elezioni amministrative per conquistare i
municìpi; avanzarono richieste di miglioramenti salariali, di revisione
dei patti agrari, di diminuzione delle tasse sui generi di prima
necessità (il dazio di consumo) che pesavano fortemente sui più
poveri, etc.
Nel corso del 1893,
il movimento si sviluppò, spontaneamente e senza una precisa strategia,
in molteplici episodi di incendio delle carte e dei registri comunali
(che riportavano le tasse da pagare), di saccheggio degli uffici
governativi, di distruzione dei casotti del dazio, di liberazione dei
compagni fatti prigionieri …
|
Lapide in memoria di Bernardino
Verro |
158. Lo spavento che questo
movimento di massa, che parve pre-rivoluzionario, provocò nella
borghesia isolana e di tutta Italia, fu grandissimo, tanto più che il
Giolitti (vedi sopra, n°80) adottò, anche nei suoi confronti, un
atteggiamento non apertamente ostile, limitandosi a garantire la
sicurezza delle persone.
Ben presto, però, il Giolitti
fu costretto a dimettersi, anche perché implicato nello scandalo
finanziario della Banca Romana; al suo posto, nel dicembre del 1893,
ritornò il Crispi, e ritornarono i metodi tradizionali della classe
dominante.
La repressione ordinata da Francesco
Crispi
159. Proclamato lo
stato d’assedio dell’isola, furono inviati 50 mila soldati ed affidati
all’esercito i pieni poteri, come al tempo del grande “brigantaggio”
. Seguirono violenze, con molti morti e feriti, ed
arresti indiscriminati, processi, severe condanne.
Ma non mancarono
gli episodi di coraggio e di fermezza, di cui furono protagonisti
soprattutto le donne ed i ragazzi.
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Un episodio della repressione |
160. “I ragazzi
partecipavano in fila per due ai cortei e alle altre manifestazioni. A
Grotte, un ragazzo di 12 anni fu arrestato perché parlava del socialismo
a circa 200 suoi coetanei in pubblico.
A Piana dei Greci, la
portabandiera del fascio, che un giornalista descriveva dritta
come una palma, col viso soffuso da un leggero rossore,
affrontò durante una agitazione le armi dei soldati spianate contro il
popolo, dicendo, rivolta ai militari: Avreste il coraggio di tirare
contro di noi? I soldati abbassarono le armi ed il capitano ritirò i
suoi uomini.
A Partinico, nel novembre 1893,
una ventina di donne avvicinò i soldati e, descrivendo le condizioni di
miseria in cui erano costrette a vivere con i figlioli, spinse quei
soldati a fraternizzare col popolo, provocando l’immediato ordine alle
truppe di levare le tende da quel paese”
.
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Donne nei fasci siciliani |
161. Sotto i colpi della
repressione, il movimento ebbe l’appoggio esplicito del Partito
socialista e la solidarietà concreta del Partito social-democratico
tedesco.
In conseguenza di ciò, i capi
del socialismo italiano furono incriminati ed il neo-nato Partito
dichiarato fuori legge e sciolto in tutta Italia nell’ottobre del 1894,
mentre i capi dei fasci siciliani venivano arrestati e
condannati, con rapidi processi, a severe carcerazioni (Giuseppe De
Felice Giuffrida, a 22 anni di carcere; Nicola Barbato e Bernardino
Verro, a 14 anni; Garibaldi Bosco, a 12).
Dopo la repressione
162. La repressione, però, se
spense nel sangue la rivolta siciliana, non poteva certamente spegnerne
le cause sociali profonde, né d’altra parte riuscì a disperdere il
Partito socialista.
Di lì a poco, nel gennaio del
1895, i socialisti d’Italia si riunirono di nuovo a congresso, in Parma,
ed il giorno di Natale del 1896 usciva il primo numero del quotidiano
del Partito
, che recava il celebre titolo Avanti!
Nel frattempo, dopo la
sconfitta di Adua (marzo 1896), Francesco Crispi dovette lasciare la
vita politica, i socialisti imprigionati ritornarono in libertà con
l’amnistia dello stesso marzo 1896, e nuovi movimenti popolari di
protesta sorgevano dalla miseria delle grandi masse.
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il giornale socialista |
Per approfondire
163. Lo studioso lettore potrà
approfondire la conoscenza di questo “primo grande movimento di massa
proletaria che si sia visto in Italia”
nel sito “Il portale del Sud”,
oltre che nelle opere del Michels e del Romano citate in nota.
Indispensabile, poi, la lettura
del bel romanzo di Luigi Pirandello intitolato “I vecchi e i giovani”,
scritto nel 1913, ma ambientato proprio in quel drammatico biennio
siciliano 1892-1894.