Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.3b Il Periodo Liberale (1887-1896)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Antonio Labriola: Marx “fa il bagno nel golfo di Napoli”

85. Antonio Labriola (1843-1904) fu il primo vero filosofo marxista della penisola ed è dunque giustamente considerato il “padre” della scuola marxista italiana, che avrà poi in Antonio Gramsci il suo maggior esponente.

86. Ecco come parla di lui il rivoluzionario russo Lev Trotsky (1879-1940) ne La mia vita- Tentativo di autobiografia:

“Fu nella mia cella (carcere di Odessa, 1898) che lessi con delizia due noti saggi di un vecchio italiano marxista-hegeliano, Antonio Labriola, che giunsero in galera in edizione francese.

Diversamente da molti scrittori latini, Labriola padroneggiava la dialettica materialistica, se non in politica - nella quale era impacciato - almeno nella filosofia della storia.

Il brillante dilettantismo della sua esposizione in realtà nascondeva una perspicacia veramente profonda …  Labriola liquida egregiamente la teoria dei fattori molteplici che popolerebbero l'olimpo della storia, guidando da lassù i nostri destini … 

Malgrado siano passati trent’anni da quando ho letto i suoi Saggi, il senso generale dei suoi argomenti è ancora fermamente trincerato nella mia memoria, insieme col suo continuo ritornello: le idee non cascano dal cielo”.

Antonio Labriola (1843-1904)

87. In effetti, il Labriola si impegnò in un’opera che voleva essere di divulgazione del pensiero di Marx e di Engels, ma ne risultò in effetti una vera e propria rielaborazione originale: di lui si disse, giustamente, che aveva fatto fare “al marxismo il bagno nel golfo di Napoli”.

Cenni biografici: nascita e prima educazione

88. Antonio Labriola (da non confondersi con il tutt’altro Arturo Labriola) nacque a Cassino il 2 luglio 1843, ai piedi della celebre abbazia benedettina. Attualmente, Cassino fa parte del Lazio (provincia di Latina); a quel tempo, si chiamava San Germano e faceva parte del Regno delle due Sicilie (provincia di Terra di Lavoro).

89. Per una strana combinazione genealogica, suo padre Francesco Saverio (1809-1874), professore di lettere nei ginnasi e nativo di Brienza in Basilicata, era nipote dell’illuminista massone Mario Pagano [27], mentre sua madre Francesca Ponari (1808-1890) era imparentata con la famiglia De Vio di Gaeta, ovvero la stessa famiglia alla quale era appartenuto il celebre “Cardinal Gaetano”, Tommaso (al secolo, Giacomo) De Vio (1469-1534), religioso domenicano che fu Superiore del suo Ordine, grande teologo (scrisse il più autorevole Commento alla Summa Theologiae di S. Tommaso d’Aquino) nonché importante diplomatico pontificio (fu inviato dal Papa anche a discutere con Martin Lutero nel periodo iniziale della Riforma).  

90. La famiglia fornì al piccolo Antonio i rudimenti dell’istruzione e lo inviò a compiere gli studi secondari nel collegio dell'abbazia di Montecassino, laddove ricevette "la prima educazione a filosofare" dall’abate Pappalettere, religioso di tendenza liberaleggiante.

Cenni biografici: a Napoli (1)

91. Nell'autunno 1861 la famiglia si trasferì a Napoli, per consentirgli di frequentare l'Università.

Un suo amico di quegli anni, Carlo Fiorilli, un Direttore generale del Ministero della Pubblica Istruzione che era anche amico di suo padre, dice che “sapeva benissimo di greco e di latino … aveva imparato il tedesco leggendo giornali e riviste di quella nazione … andava all'Università quasi esclusivamente per le lezioni di Bertrando Spaventa; con lui entrava e con lui usciva dall'aula, e quasi sempre accompagnava a casa il Maestro” [28].

92. Ma chi era questo “Maestro” Bertrando Spaventa e come mai il giovane Labriola (nel 1861, aveva 18 anni) era così prossimo a lui?

Bertrando Spaventa (1817-1883)

Bertrando (e Silvio) Spaventa

93. In effetti Bertrando (all’anagrafe, Beltrando) Spaventa (1817 – 1883), come anche suo fratello Silvio Spaventa (1822 – 1893), era molto legato all’ambiente “Cassinese” da cui proveniva Antonio Labriola, e conosceva e stimava suo padre, Francesco Saverio Labriola, come lui di antichi sentimenti liberali.

94. I due fratelli Spaventa erano nati a Bomba, un paesino di circa 2.000 abitanti in provincia di Chieti (Abruzzi), da un tipico “gentiluomo possidente” (= piccolo proprietario terriero) meridionale, di nome Eustachio, e da Maria Anna Croce, che era sorella di Benedetto Croce, magistrato napoletano e nonno dell’omonimo filosofo. 

95. Bertrando aveva studiato nel Seminario di Chieti ed in quella Diocesi era stato ordinato sacerdote. Subito dopo, nel 1838, ottenne l’incarico di matematica e retorica presso il Seminario di Montecassino e quindi si trasferì a Cassino insieme al fratello Silvio. Anche Silvio, di cinque anni più giovane di lui, aveva infatti studiato nel Seminario di Chieti ed adesso completava gli studi nel Seminario di Montecassino.

96. Nel 1840, Bertrando si trasferì a Napoli, dove ebbe modo di approfondire la conoscenza del pensiero filosofico europeo dell’epoca e venne in contatto con i circoli liberali cittadini. Ed anche a Napoli, Silvio lo seguì, nel 1843, andando a lavorare come precettore dei figli del magistrato Benedetto Croce (vedi sopra), fratello di sua madre.

Silvio Spaventa (1822-1893)

97. Entrambi parteciparono attivamente ai moti liberali borghesi del “famoso 1848” [29].

In seguito alla sconfitta di quei moti, Bertrando esulò prima a Firenze e poi a Torino, laddove depose definitivamente l’abito sacerdotale, guadagnandosi da vivere come giornalista; elaborò compiutamente la sua concezione filosofica (hegeliana) ed il suo pensiero politico (unitarista, filo-sabàudo ed anti-clericale); e … divenne un convinto seguace, come suo fratello Silvio, del conte di Cavour.   

98. Quando i Piemontesi conquistarono Napoli, nel 1860, uno dei primi loro provvedimenti fu la “messa a riposo” di quasi tutto il “corpo docente” dell’Università di Napoli, e la sua sostituzione “d’ufficio” con nuovi docenti di provata fede patriottica italiana, sabàuda e liberale.

99. Così, all’ex professore di matematica e retorica del Seminario di Montecassino, Bertrando Spaventa, venne data nel 1861 la Cattedra di Filosofia dell’Università di Napoli, dalla quale egli, fino alla sua morte nel 1883, si propose di “far conoscere Hegel agli italiani per rifare l’Italia”.

La filosofia di Giorgio Guglielmo Federico Hegel (Stoccarda, 1770 – Berlino, 1831) era ritenuta, non solo da lui, niente di più e niente di meno che il punto più alto raggiunto dal pensiero umano, nel paese a sua volta ritenuto il più civile e progredito del mondo (la Germania): essa era dunque la più idonea per costruire anche in Italia una cultura di tipo borghese moderno.

Nasceva allora ufficialmente quello che Carlo Levi avrebbe poi definito “lo Stato etico degli hegeliani di Napoli”: i “civili ed evoluti galantuomini” italiani, adesso ben equipaggiati anche con una filosofia compiutamente “moderna”, erano pronti a combattere la loro prima guerra nazionale, contro gli “incivili ed arretrati contadini” del Sud con le loro “povere Madonne dal viso nero” [30].

Hegel durante una lezione

100. Nel frattempo, il professor Spaventa fu anche Deputato del Regno d’Italia, naturalmente negli scranni della Destra liberale, dal 1861 al 1865 e poi ancora dal 1867 al 1876.

101. Morì il 20 settembre del 1883: per una strana coincidenza, era proprio il giorno anniversario della “breccia di Porta Pia”, che avvenne, com’è noto, il 20 settembre del 1870.

Per un’altra coincidenza, in quello stesso anno 1883, il 28 luglio, si verificò il disastroso terremoto di Casamicciola (isola di Ischia), nel quale perirono entrambi i genitori, Pasquale e Luisa Sipari, di Benedetto Croce (1866 – 1952) e questi, allora diciassettenne, fu affidato alla tutela, ed andò a vivere nella casa, di Silvio Spaventa, suo parente nonché precettore di suo padre Pasquale (vedi sopra, n°94 e n°96).

Cenni biografici: a Napoli (2)

102. Quando, nel 1861, il diciottenne Labriola arrivò a Napoli per iscriversi all’Università, il “Cassinese” Bertrando Spaventa era appena asceso alla cattedra di filosofia ed accolse il giovane allievo come un promettente virgulto della “nuova Italia”.

103. Stanti le sue disagiate condizioni economiche, il “promettente virgulto” doveva però necessariamente accompagnare gli studi con il lavoro.

E grazie proprio all’interessamento del suo Maestro, fu nominato nel dicembre 1863 “Applicato di pubblica sicurezza” presso la Questura di Napoli, laddove avrebbe dovuto occuparsi, manco a dirlo, “di lotta al brigantaggio”.

Successivamente, conseguito nel settembre 1865 il diploma di abilitazione per materie letterarie nel ginnasio inferiore, insegnò nel ginnasio dell'ex seminario (1865) e poi al Principe Umberto (1866-71), impartendo anche lezioni nell'istituto privato di D. Borselli e presso la scuola tedesca di Napoli.

104. Nel frattempo, anche grazie alla sua conoscenza della lingua tedesca, aveva iniziato una corrispondenza epistolare e sentimentale con Rosalia Carolina von Sprenger (1840-1926), una palermitana di origini tedesche e di religione evangelica, che insegnava alla "Scuola Garibaldi": asilo e scuole elementari, aperte a Napoli subito dopo l’unificazione italiana, presso la Chiesa di Scozia. La sposò il 23 aprile 1867 e fu la compagna della sua vita, dandogli tre figli: Michelangelo Francesco (che morì ancor bambino di difterite, nel 1874, a Roma); Francesco Felice Alberto; e Teresa.

Teresa Labriola (1874-1941)

105. Di quest’ultima, Teresa Carolina, nata a Napoli il 17 febbraio 1874, il padre teneva nel suo studio un busto montato su un piedistallo.

Fu la prima donna a laurearsi in giurisprudenza nell'Università di Roma (1894) e ad ottenere la libera docenza in “Filosofia del diritto” in quell’ateneo (1900-1918) ma, a causa dei pregiudizi anti-femminili del tempo, non riuscì mai a diventare titolare di una cattedra.

Nel 1912 presentò domanda per l’iscrizione all’Albo degli Avvocati ma anche questo gli venne negato e perfino la Corte di Cassazione, investita del caso, sentenziò nel 1913 che una donna non poteva essere ammessa all’esercizio dell’avvocatura.

Nel frattempo, a partire dal 1904, aveva iniziato la sua militanza, anche a livello internazionale, nei movimenti femministi, in particolare per il diritto di voto alle donne, e nel 1917 pubblicò il volume “Del femminismo come visione della vita”.

Teresa Labriola (1874-1941)

106. Si pronunciò tuttavia a favore dell’invasione italiana della Libia (1911) e fu accesamente “interventista” nella I guerra mondiale. Durante la guerra, si separò definitivamente dalle associazioni femminili democratiche e fondò una sua “Lega patriottica femminile”, collegata prima al movimento nazionalista e poi al fascismo.

Lei, figlia di un socialista e di una donna di origini tedesche, divenne accesamente anti-socialista e nazionalisticamente anti-tedesca. Aderendo al “femminismo di regime”, chiedeva adesso, con non miglior fortuna, che il diritto di rappresentanza fosse riconosciuto esclusivamente alle donne “migliori”, cioè alle più affidabili sotto il profilo nazionale e patriottico, con alcune infelici sortite anche sulla “gerarchia fra le razze”.

Rimase sempre nubile. Progressivamente emarginata dalla vita pubblica, in ristrettezze economiche, morì a Roma il 6 febbraio 1941.

Cenni biografici: a Napoli (3)

107. Non risulta che Antonio Labriola abbia conseguito la laurea: di certo non fa riferimento ad essa tutte le volte che produce i suoi titoli al Ministero.

Tuttavia, il 19 agosto 1871 ottenne la libera docenza in “Filosofia della storia” nell'ateneo napoletano, grazie alle sue pubblicazioni degli anni precedenti: Una risposta alla prolusione di Zeller (contro il “ritorno a Kant”, 1863); Della relazione della Chiesa allo Stato (in cui sosteneva la tesi che la Chiesa deve essere “subordinata” allo Stato, 1865); Origine e natura delle passioni secondo l'Etica di Spinoza (1867); e una monografia su Socrate (1870).

108. Nel giugno-luglio 1872, inviò alla Nazione di Firenze le dieci Lettere napoletane: una serie di articoli, tuttora interessanti, che tracciano un “ritratto molto vivace, talvolta impietoso, della mentalità collettiva e dei costumi politici della città.

Allo scarso senso civico della popolazione, e alla politica esercitata da una stretta schiera di mestieranti, convinti di essere tanti Machiavelli, si aggiungevano i danni arrecati a Napoli dalla perdita dello status di capitale, e l’insufficienza governativa che aveva spesso dato pruova di sé, in questa città come in nessun’altra d'Italia [31].

Cenni biografici: a Roma

109. Nel 1873, partecipò al concorso per la Cattedra di “Filosofia morale e pedagogia” presso l’Università di Roma: risultato vincitore (Règio Decreto del 23 gennaio 1874), tenne quell'insegnamento per il resto della sua vita, fino a quando, ormai negli ultimi suoi anni, passò alla Cattedra di “Filosofia teoretica” (Règio Decreto del 7 luglio 1902).

Nel 1887 ottenne anche l'incarico, cui tenne sempre moltissimo, di “Filosofia della storia”.

110. A partire dal 1874 visse dunque con la sua famiglia a Roma ed ivì morì, all’età di 61 anni. Colpito da un tumore alla gola, che lo privava, come scrisse, “dell’organo democratico e pedagogico della voce”, morì la mattina del 2 febbraio 1904, all'ospedale tedesco di Roma, e volle essere sepolto all'ombra della piramide di Caio Cestio, nel cimitero dei protestanti della Capitale: ricordiamo infatti che sua moglie era di origini tedesche e di religione evangelica (vedi sopra, n°104).

Il pensiero di Antonio Labriola

111. Il suo pensiero si può agevolmente schematizzare in tre fasi successive:

-          nella prima fase, segue semplicemente le orme del suo maestro Bertrando Spaventa, per cui è idealista hegeliano, in filosofia, e liberale di destra, in politica;

-          nella seconda fase, si distacca progressivamente dall’idealismo, prima studiando l’Etica di Benedetto Spinoza (1632 – 1677) e la figura di Socrate, e poi aderendo, anche in psico-pedagogia, al franco realismo decisamente anti-hegeliano di Johann Friedrich Herbart (1776-1841);

-          infine, iniziato lo studio sistematico in lingua originale dei testi di Marx e di Engels, dal 1879 diviene compiutamente marxista e socialista, e nel 1890 entra in corrispondenza con lo stesso Engels (Lettere ad Engels, pubblicate per la prima volta tra il 1924 e il 1929).

La “conversione”

112. Lui stesso racconta di sé: “Da giovane vissi in quella specie di palestra (che erano gli hegeliani di Napoli) e non me ne rincresce.

Vissi per anni con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza. Di Hegel, difesi, con giovanile ingenuità, la dialettica, contro lo Zeller che iniziava il neokantismo. Di Spinoza, sapevo a memoria gli scritti e ne esposi, con intendimento di innamorato, la teoria degli affetti e delle passioni. Ora, tutte queste cose mi tornano alla mente come lontanissima preistoria …

113. Dal 1879 cominciai a muovermi in questa via di nuova fede intellettuale (il socialismo marxista), nella quale mi son fermato e confermato con gli studi e con la osservazione negli ultimi tre anni …

Quando venni a Roma come professore (1873), ero un socialista non cosciente e un avversario dichiarato dell’individualismo unicamente per motivi astratti …

Fra il 1879 ed il 1880, mi ero già quasi completamente convertito alla concezione socialista, ma più per la concezione generale della storia che per un impulso interno di una fattiva convinzione.

Un avvicinamento lento e continuo ai problemi reali della vita, il disgusto per la corruzione politica, il contatto con gli operai, hanno poi a poco a poco trasformato il socialista scientifico in abstracto in vero socialdemocratico …

114. Sono socialista a modo mio ... non ho appreso il socialismo dalla bocca di un gran maestro … mi ci ha condotto il disgusto del presente ordine sociale e lo studio diretto delle cose ... Faccio lezione agli operai di diritti e di doveri”.

115. I suoi interlocutori principali erano dunque: studenti, da un lato; operai che studiano e prendono coscienza di sé, dall’altro.

La filosofia della praxis

116. Labriola riteneva che il pensiero di Marx ed Engels (da lui per primo denominato “filosofia della praxis”) costituisse il nucleo fondativo di una nuova ed integrale concezione del mondo, alternativa a qualunque concezione culturale borghese nonché necessaria e sufficiente per la costruzione di una società socialista cioè alternativa al capitalismo.

117. “Tutti codesti scritti (quelli di Marx ed Engels) hanno un fondo comune e questo è il materialismo storico, inteso nel triplice aspetto:

1)    di tendenza filosofica, nella veduta generale della vita e del mondo;

2)    di critica dell’economia, che ha modi di procedimento riducibili in leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica;

3)    di interpretazione della politica e soprattutto di quella che occorre e giova alla direzione del movimento operaio verso il socialismo.

Questi tre aspetti, che qui enumero astrattamente, come accade sempre per comodo di analisi, facevano uno nella mente degli autori stessi”.

118. La filosofia della praxis non doveva quindi essere snaturata mescolandola confusamente con le filosofie borghesi allora più in voga nel mondo intellettuale, soprattutto il neo-kantismo ed il positivismo (il “Sig. Comte” ed il “Grande Eunuco Spencer”).

Tanto meno, essa si doveva considerare ormai già “superata” ed “in crisi”, a causa dei cambiamenti nel frattempo intervenuti nella società, bensì continuamente da approfondire e da sviluppare nel confronto con i sempre nuovi problemi posti dalle continuamente mutevoli circostanze storiche.

119. Da una parte, perciò, egli considerava ovviamente indispensabile la nascita di un “Partito socialista dei lavoratori italiani” aderente alla Seconda Internazionale.

D’altra parte, però, quando quel partito effettivamente sorse, nel 1892, egli ne rimase sempre ai margini, considerando il “gruppo milanese”, che allora lo dirigeva, troppo confuso, sul piano ideologico, e troppo proclive ad accordi con la controparte borghese, sul piano politico; e questo perché esso era organicamente legato, di fatto, più ad una ristretta “aristocrazia operaia” (= i lavoratori più garantiti e meglio pagati, soprattutto del Nord) che non alle grandi masse dei lavoratori marginali e dei contadini poveri, soprattutto del Sud.

120. In tal senso, il vero e forse unico continuatore sia del pensiero sia dell’opera di Labriola fu Antonio Gramsci.

Gli scritti (e le conversazioni) di Antonio Labriola

121. Le più importanti opere scritte dal Labriola, dopo la sua adesione al socialismo, sono i tre “Saggi sulla concezione materialistica della storia” [32] e cioè:

-          “In memoria del Manifesto dei comunisti” (1895).

-          “Del materialismo storico - Dilucidazione preliminare” (1896).

-          “Discorrendo di socialismo e di filosofia - Lettere a Georges Sorel” (1897).

Vi è inoltre un quarto Saggio, “Da un secolo all’altro”, rimasto incompiuto per la morte dell’autore nel 1904.

Antonio Labriola (1843-1904)

122. “A parte, però, questi tre saggi marxisti, che furono pubblicati dal suo allievo Benedetto Croce, e alcuni scritti che gli avevano fatto vincere la cattedra universitaria a Roma, il meglio di Labriola era nelle conversazioni, al caffè Aragno, in casa di amici, nelle lettere a Croce, ad Engels, ai socialisti tedeschi, negli articoli e nei corsi universitari.

Il suo modo di parlare doveva essere vivacissimo. C'è una pagina di Croce che rievoca le serate che Labriola passava nella casa romana di Silvio Spaventa, dove i due filosofi si conobbero. Era lui ad animare il dialogo, anche per quella sua attitudine ai giudizi taglienti.

In particolare, la sua polemica contro il positivismo che dominava nella seconda metà dell’Ottocento è astiosa quanto pittoresca” [33].

123. I positivisti sono affetti da “scemità volontaria”, il loro insegnamento è “una zuppa mal preparata e mal bollita”, ed essi sono i “rappresentanti della degenerazione cretina del tipo borghese”.

L’illustre Docente di Economia politica, Accademico dei Lincei e Senatore del Regno, l’ebreo mantovano Achille Loria (1857-1943), e l’altro illustre Docente, criminologo allievo di Cesare Lombroso, avvocato, giornalista, politico socialista e poi fascista, e tante altre cose [34], Enrico Ferri (1856–1929) … sono “casi paradossali di ciarlataneria cretina”. Ed anche il marchese, ingegnere, economista e sociologo Vilfredo Pareto (1848-1923) è per lui regolarmente “quel cretino”.

124. In definitiva, diceva di avere “molta più fiducia nei 19 milioni di analfabeti” (tanti ce n'erano nell'Italia del tardo Ottocento) che “in tutte le nostre scuole” (forse avrebbe dovuto dire: “che in tutti i nostri professori universitari”).

Labriola e il colonialismo

125. Aveva però ragione Trotskj quando diceva che Labriola, molto profondo in “filosofia della storia” era però alquanto “impacciato” in politica (vedi sopra, n°86).

E tale “impaccio” lo mostrò proprio su un tema fondamentale, la politica coloniale: “Egli era espansionista e guardò con simpatia all’impresa d’Africa e si manifestò favorevole all’occupazione di Tripoli” [35].

126. Il partito socialista, nelle aule parlamentari, per la voce del vecchio e glorioso Andrea Costa (vedi sopra, n°83), aveva una posizione ferma: “Non un uomo, non un soldo, per le imprese coloniali”; se Crispi voleva veramente, come diceva, “dare la terra ai contadini” poteva utilizzare i soldi pubblici e la abbondante manodopera per bonificare le terre ancora incolte della Sardegna, dell’Agro romano e della Maremma …

Eppure, da questa posizione chiara, semplice e coerente con i princìpi socialisti, proprio il professor Labriola sbandò paurosamente [36].

127. Nel gennaio 1890, a conclusione della prima guerra italo-etiopica, era stata ufficialmente proclamata la “Colonia italiana di Eritrea” (vedi sopra, nn°28-30).

Poco dopo, il 9 marzo di quello stesso anno, “Il Risveglio” di Firenze pubblicava una “Lettera aperta” di Labriola al deputato Alfredo Baccarini, nella quale scriveva:

“In Africa tanto ci siamo e ci rimarremo. Ormai tutti i rimpianti sono vani. Tocca ora discutere seriamente e fortemente del modo di ordinare la colonia ...” Egli proponeva di approfittare dell’Eritrea, “terra ancora libera da ogni titolo di diritti storici e stabiliti”, per fare in modo che “i contadini poveri italiani, che attualmente emigrano verso l’America del Sud, possano avere dei piccoli lotti di terra da coltivare, come coltivatori diretti o in forma cooperativa”.

128. Era però evidente che:

1)    La terra che gli Italiani, a capriccio di un brillante funzionario ministeriale, avevano denominato “Eritrea” (vedi sopra, n°30) non era affatto “libera da ogni titolo di diritti storici” ma apparteneva da almeno tremila anni ad un Impero, quello Etiope, che era addirittura più antico dell’Impero Romano.

2)    In Italia c’erano grandi latifondi padronali in gran parte lasciati incolti nonché vaste terre ancora da bonificare e quindi non si capisce perché i poveri contadini italiani dovevano essere mandati ad espropriare i poveri contadini etiopi.

3)    Esternare una simile posizione, da parte di un autorevole socialista, equivaleva ad avallare ed a giustificare quello che era semplicemente un paravento propagandistico usato da Crispi (“la terra ai contadini”) per coprire la difesa di ben altri interessi che quelli dei contadini poveri (vedi sopra, nn°5-8).

129. Tuttavia, questa sortita del 1890 potrebbe fors’ancora essere considerata soltanto un non gravissimo errore di ingenuità politica.

Assai peggiore fu la sortita di sette anni dopo, quando “Il Mattino” di Napoli (23-24 febbraio 1897) pubblicò un intervento di Labriola a proposito della intricata questione dell’isola di Creta (Candia), per il possesso della quale era in corso un sanguinoso conflitto fra l’Impero Turco Ottomano e la Grecia, nel quale erano peraltro intervenute militarmente anche le principali potenze europee, inclusa l’Italia appena reduce dalla clamorosa sconfitta di Adua (vedi sopra, nn°31-32).

130. La sua premessa “logica” era che l’Italia non poteva estraniarsi dai processi imperialistici mondiali, che erano inevitabili, anzi grazie alle colonie “poteva nuovamente trovare posto nella storia”.

Occorreva solo decidere “se trovarsi dalla parte dei popoli passivi o di quelli attivi” e “nessun orrore doveva esserci per l’esercizio della forza”, elemento questo che “pienamente faceva parte” dei processi della storia.

131. E la conclusione era: “Si prepara la catastrofe dell’oriente … liquidiamo per ora la Turchia europea, quella asiatica sopravvivrà ancora un pezzo … In questa gara conquistatrice, che è sempre legittima laddove non vi sono nazionalità vitali, la parte che tocca all’Italia è indicata da tutte le ragioni dell’opportunità e della difesa: intendo dire di ciò che alla Turchia rimane in Africa ossia la Tripolitania.

Non brontolino i socialisti, anzi mettano sicuro il piede sulla terra della politica. Noi abbiamo bisogno di terreno coloniale e la Tripolitania è a ciò indicatissima.

Pensino che 200.000 proletari all’anno emigrano dall’Italia, senza indirizzo e senza difesa, e ricordino che non può esservi progresso del proletariato là dove la borghesia stessa è incapace di progredire”.

132. In tal modo, per quanto in buona fede, egli non faceva altro che esprimere, con una fraseologia “socialista”, esattamente la stessa posizione ideologica e quindi gli stessi interessi economici dell’imperialismo coloniale classico [37], con argomentazioni che mostrano quanto egli fosse influenzato, sull’argomento, dalle opinioni allora egèmoni nel mondo borghese italiano ed europeo.

I discepoli di Antonio Labriola

133. L’influenza del pensiero di Labriola, nel dibattito allora in corso nella Seconda Internazionale, non fu certo grandissima. Il suo insegnamento ha però lasciato tracce, ove più ove meno evidenti, in tutta la cultura italiana a lui successiva.

Anzitutto, ovviamente, nella Scuola marxista italiana del Novecento, di cui è considerato il “padre nobile” e che trova in Gramsci il suo massimo esponente.

Ma anche “don” Benedetto Croce, il “pensatore olimpico”, il “papa laico” della borghesia liberale italiana nella prima metà del Novecento, fu in gioventù suo allievo e molto imparò da lui, anche se ben presto ripercorse all’indietro il cammino fatto dal suo maestro e ritornò dal marxismo verso l’idealismo, da lui stesso peraltro riveduto e corretto, e rivestito di più aggiornate vesti (neo-idealismo crociano).

Il movimento politico dei cattolici nell’Italia unita

134. Il papa Leone XIII (1878-1903) mantenne, per i cattolici, il divieto, stabilito dal suo predecessore Pio IX (1846-1878), di partecipare alle elezioni nel nuovo Stato unitario italiano (“né eletti, né elettori”), in segno di rifiuto di quella realtà nazionale che si era creata anche attraverso l’annessione dello Stato pontificio e l’espropriazione delle terre ecclesiastiche.

Tale divieto era sancito con la formula non expedit (= non è opportuno, non è cosa che si convenga ad un cattolico). Non era però vietato partecipare alle elezioni amministrative, a livello locale, come di fatto fecero in quegli anni i cattolici più impegnati in politica.

135. A livello nazionale, la prima forma di organizzazione complessiva dei cattolici [38] fu la cosiddetta “Opera dei Congressi”, nata nel 1874, cioè quasi subito dopo la famosa “breccia di Porta Pia”, che nel 1870 aveva posto fine al potere temporale dei papi.

“L’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici è costituita allo scopo di riunire i Cattolici e le Associazioni Cattoliche d'Italia, in una comune e concorde azione, per la difesa dei diritti della Santa Sede, e degli interessi religiosi e sociali degli Italiani, conforme ai desideri e agli eccitamenti del Sommo Pontefice, e sotto la scorta dell'Episcopato e del Clero” (Art.1 dello Statuto dell’Opera).

136. L’Opera dei Congressi sorgeva, dunque, in polemica con lo Stato sabàudo italiano e le idee risorgimentali, e in difesa dei “diritti violati” della Chiesa. 

Non a caso, ancora al VI Congresso dell’Opera, tenutosi a Napoli nell’ottobre 1883, troviamo fra i dirigenti del movimento anche Luigi III (1823-1888), XV ed ultimo principe di Bisignano (che risiedeva nel palazzo di Barra), il quale si presentava esplicitamente come “fautore della restaurazione borbonica” [39]

137. Contemporaneamente, fermentavano, anche all’interno dell’organizzazione cattolica, le crescenti richieste di maggiore eguaglianza e dignità sociale che, provenienti dalle masse popolari, sia contadine che operaie, permeavano sempre di più l’intera società italiana.

Il primo nucleo della Azione cattolica italiana

La rivendicazione dei “diritti violati” del Papa andava quindi coniugata con una attenta riflessione sulla nuova “questione sociale”.

Giuseppe Toniolo (1845-1918)

138. In tal senso, studiò ed operò anzitutto Giuseppe Toniolo (Treviso, 1845 - Pisa, 1918), professore di economia politica presso l’Università di Padova, poi di Modena e infine di Pisa, considerato tuttora uno degli esponenti italiani più significativi della scuola di pensiero che si ispira all’ “insegnamento sociale” della Chiesa.

Giuseppe Toniolo (1845 - 1918)

139. Oltre ad una grande quantità di articoli ed interventi pubblici, il Toniolo fu autore di saggi di storia economica del Medio Evo, nei quali pose l’accento soprattutto sulla struttura di tipo corporativistico nei rapporti di produzione e sulla collaborazione fra le varie classi, caratteristiche di quella società.

140. Questi studi rappresentano la verifica, in sede storiografica, delle sue teorie economiche e sociali, intese a realizzare una più giusta e fraterna convivenza, sulla base della “dottrina sociale” della Chiesa cattolica, nel tentativo di dare una risposta alternativa sia al liberalismo che al socialismo.

141. La sua opera sistematica è il “Trattato di economia sociale”, in 3 volumi, scritto a partire dal 1908 e pubblicato integralmente solo dopo la sua morte, nel 1921.

142. Il Toniolo intervenne pubblicamente nel movimento organizzato dei cattolici a partire dal 1888, con uno scritto programmatico intitolato “Ragioni e intendimenti degli studi e dell’azione sociale dei cattolici italiani”, sulla base del quale nacque, nel dicembre del 1889, la “Unione cattolica per gli studi sociali in Italia”, di cui fu eletto presidente.

143. Dalla pubblicazione dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII nel 1891, l’Unione ricevette nuovo slancio e fervore: celebrò il suo primo Congresso nazionale a Genova nel 1892 e decise la pubblicazione di una rivista dal titolo “Rivista internazionale di scienze sociali” che, uscita la prima volta nel gennaio del 1893, continua tuttora la sua esistenza.

144. Nel 1894 (quindi, due anni dopo la fondazione del Partito Socialista dei lavoratori italiani, avvenuta nel 1892), Toniolo scrisse “Il programma dei cattolici di fronte al socialismo” che, uscito sulla “Rivista” in gennaio, fu poi approvato e fatto proprio dall’intera Opera, nell’XI Congresso, tenutosi in febbraio. 

Il Programma dei cattolici (1894)

145. Di fronte alla nascita, anche in Italia, di un forte ed organizzato Partito Socialista aderente alla Seconda Internazionale, il movimento dei cattolici riconosceva bensì la fondatezza e legittimità delle aspirazioni a maggiore giustizia ed eguaglianza delle grandi masse contadine ed operaie, ma negava che il socialismo fosse la risposta adeguata a quelle aspirazioni.

146. La risposta era da ricercarsi, invece, in un “restauro sociale cristiano”, che si concretizzava in una serie di proposte, per l’immediato e per il lungo periodo.

NELL’INDUSTRIA: difesa delle piccole e medie imprese; proibizione della rescissione del contratto di lavoro senza alcun preavviso; introduzione del riposo festivo; esclusione delle donne e dei fanciulli dal lavoro nei settori più pesanti e/o nocivi; limitazione dell’orario di lavoro e fissazione di un salario minimo; ed inoltre, versamento di parte del salario in forma “indiretta” (sotto forma di alloggi gratuiti, versamenti per assicurazioni e pensioni, etc.), salario “a compito” invece che “fisso a tempo”…

A più lungo termine, si proponeva di concedere all’operaio una parte della sua remunerazione sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa e, gradualmente, consentirgli di impiegare i propri risparmi anche per acquisire “azioni” dell’impresa stessa, divenendo quindi compartecipe della proprietà …

NELL’AGRICOLTURA: favorire la piccola proprietà, la mezzadria, l’affitto a lungo termine e l’enfitèusi, ed inoltre tentare la ricostituzione del patrimonio terriero della Chiesa e dei demàni comunali, in modo da dare garanzie di sicurezza ai contadini non proprietari, attraverso lunghi e stabili legami contrattuali con gli enti proprietari …

147. Come metodo da utilizzare per l’attuazione di questo programma, respingendo la lotta di classe, si proponeva (ispirandosi agli studi sul medioevo) di affidare la risoluzione del problema sociale alle corporazioni, cioè ad associazioni miste di operai e padroni dello stesso settore produttivo, ammettendo però che i lavoratori potessero organizzarsi in sindacati esclusivamente operai, qualora “le classi superiori … ripùgnino a entrare in sodalizi misti con le classi inferiori”.

Nei fatti, a quanto pare, accadde proprio che “le classi superiori” (o almeno la grande maggioranza dei loro componenti) “ripugnarono” … Per cui, il risultato concreto fu il rapido sviluppo del movimento sindacale e cooperativo di ispirazione cattolica, accanto a quello socialista.

L’Italia del Sud al tempo di Crispi: una “palla di piombo”?

148. Riprendendo ora il filo di una analisi già dipanata in precedenza [40], citiamo qui una celebre pagina di Antonio Gramsci, nella quale egli, proprio riferendosi al periodo in cui governava Francesco Crispi (1887-1896), esamina in particolare l’origine storica del “complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione riguardo al Mezzogiorno”:

149. “La miseria del Mezzogiorno era inspiegabile storicamente per le masse popolari del Nord. Esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno … cioè che il Nord, concretamente, era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale.

Il popolano dell’Alta Italia pensava, invece, che se il Mezzogiorno non progrediva, dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi cioè nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne cioè innate nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno. Non rimaneva che una spiegazione: l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica.

Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, etc.) assumendo la forza di “verità scientifiche” in un tempo di superstizione della scienza.

Si ebbe così una polemica Nord-Sud sulle razze, e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud … Intanto, rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una palla di piombo per l’Italia, la persuasione che più grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa palla di piombo, etc.” [41].

Il movimento dei “fasci siciliani” (1892-1894)

150. Ma, per chi voleva vedere le cose così com’erano realmente, al di là del velo dei pregiudizi pseudo-scientifici, proprio in quegli anni (1892-94) il velo fu squarciato dal movimento dei fasci siciliani, “il primo grande movimento di massa proletaria che si sia visto in Italia”, come scrisse Antonio Labriola.

151. Si chiamò dei fasci perché tendeva ad unire, a mettere in fascio le forze degli strati più poveri della popolazione, sia a scopo di reciproca solidarietà, sia per ottenere, con la lotta, migliori condizioni di vita.

Com’è noto, del nome fascio, qualche decennio dopo, si appropriò abusivamente Benito Mussolini, per denominare fascismo il suo movimento, che aveva però caratteristiche e finalità del tutto diverse, ed anzi opposte, rispetto a quelle dei fasci siciliani del 1892-94. 

Con i fasci siciliani, per la prima volta, le masse meridionali cominciarono a far proprie le idee del socialismo moderno, in un clima di fervore quasi religioso, tanto da poter essere paragonato a quello del cristianesimo primitivo.

Che cos’era un “fascio”

152. Il movimento si sviluppò rapidamente, nelle città e nei paesi, con la costituzione di gruppi locali, dèditi soprattutto alla propaganda delle nuove idee socialiste ed alla reciproca solidarietà.

“Al tempo del loro maggiore sviluppo, si contavano in Sicilia su per giù 300 fasci con circa 200 mila iscritti, per lo più contadini.

Nella sola Palermo, il fascio dei lavoratori contava più di 10 mila soci. La sua attività era molto complessa.

Ci viene riferito che, nel suo locale, esisteva una vasta sala destinata alle conferenze e alle recite di drammi socialisti, tutta piena di iscrizioni di Marx, di Louis Blanc, di Giovanni Bovio.

Nel corridoio del locale, erano appesi i campioni delle stoffe con cui i soci sarti offrivano, ai compagni, dei vestiti a prezzi minimi, nonché le tabelle dei prezzi ridotti dei pastai, dei barbieri, dei pizzicagnoli, dei calzolai e di altri facenti parte del fascio.

Nella sede c’era anche una sala, detta rossa, colle pareti ricoperte dai gonfaloni rossi delle 63 sezioni d’arti e mestieri nelle quali il fascio si suddivideva. Troneggiava in questa sala il busto di Marx, su fondo rosso, fiancheggiato dai busti di Garibaldi e di Mazzini.

153. I fasci svolgevano una vasta opera di socievolezza e di moralità pubblica.

Furono istituiti alberi di Natale e date feste da ballo, recitate commedie socialistiche, scritte e rappresentate dai soci stessi. Con questa attività letteraria si mirava a tre scopi diversi: quello di divertire ed educare gli operai, quello di aumentare i fondi di propaganda e quello di aiutare i compagni bisognosi.

Ogni domenica, una commissione del fascio usava fare il giro delle osterie a raccomandare ai fratelli di non ubriacarsi, perché la massima parte delle risse e dei ferimenti succedono quando c’è di mezzo del vino.

Ogni decurione, capo di dieci soci del fascio, aveva l’obbligo di sorvegliare i suoi fratelli aderenti, e di essere per loro un padre. Ed infatti il sentimento di fratellanza era radicato nei fasci, a tal segno che quando, ad esempio, ad un socio moriva un mulo, tutti i compagni sborsavano alcuni soldi a testa perché se ne potesse comprare un altro.

154. I fasci siciliani erano capitanati da uomini coraggiosi, appartenenti alla piccola o media borghesia: il possidente Bernardino Verro, il ragioniere Garibaldi Bosco, il medico Nicola Barbato, l’avvocato Giacomo Montalto, ai quali si associarono anche alcuni nobili, tra i quali si fece più tardi un nome: il principe Alessandro Tasca di Cutò, poi deputato socialista per il collegio di Sciacca. Tutti superava, per ardire e per influenza sulle masse, il catanese Giuseppe De Felice Giuffrida…” [42].

Il principe socialista Alessandro Tasca Filangeri di Cutò (1874-1943)

155. La composizione sociale dei gruppi variava alquanto di luogo in luogo, pur essendo prevalente la presenza dei contadini poveri (braccianti, mezzadri, etc.) e dei minatori delle zolfàre, con una attiva partecipazione anche delle donne e dei ragazzi; ad essi si aggiungevano, a volte, operai, artigiani, piccoli commercianti, piccoli proprietari … Ad esempio, a Belmonte Mezzagno la composizione sociale del fascio era: 500 contadini, 7 calzolai, 6 lavoranti fornai, 4 barbieri, 3 muratori e 700 donne.

L’ideologia dei “fasci”

156. Non si può naturalmente pensare che vi fosse subito, ed in tutti gli aderenti, una coerente chiarezza ideologica.

“Nel movimento dei fasci, i contadini siciliani, che si chiamavano spesso anche marxisti, usavano portare nelle loro dimostrazioni, in una armonia perfetta, alla rinfusa, i ritratti del ribelle Carlo Marx, del loro “buon re” Umberto I e della Santissima Madre di Dio, accompagnandoli col grido di Viva il re! Essi professavano anche una venerazione speciale per la memoria di Garibaldi …” [43].

Vi era certamente in tutti un vivo desiderio di giustizia, alimentato dalla sofferenza per i soprusi patìti dalle masse popolari: da quelli secolarmente antichi a quelli, recenti, dei gentiluomini borghesi e del nuovo governo “italiano”, tanto più odiosi perché venivano a disilludere le speranze suscitate da Garibaldi e dalla “libertà” da lui promessa ai contadini nella lotta risorgimentale.

Ragazzini che lavoravano (nudi) nelle miniere di zolfo

I “fasci” insorgono?

157. I fasci cominciarono a contrastare le mafie locali ed a partecipare, nella misura allora possibile [44], alle elezioni amministrative per conquistare i municìpi; avanzarono richieste di miglioramenti salariali, di revisione dei patti agrari, di diminuzione delle tasse sui generi di prima necessità (il dazio di consumo) che pesavano fortemente sui più poveri, etc.

Nel corso del 1893, il movimento si sviluppò, spontaneamente e senza una precisa strategia, in molteplici episodi di incendio delle carte e dei registri comunali (che riportavano le tasse da pagare), di saccheggio degli uffici governativi, di distruzione dei casotti del dazio, di liberazione dei compagni fatti prigionieri …

Lapide in memoria di Bernardino Verro

158. Lo spavento che questo movimento di massa, che parve pre-rivoluzionario, provocò nella borghesia isolana e di tutta Italia, fu grandissimo, tanto più che il Giolitti (vedi sopra, n°80) adottò, anche nei suoi confronti, un atteggiamento non apertamente ostile, limitandosi a garantire la sicurezza delle persone.

Ben presto, però, il Giolitti fu costretto a dimettersi, anche perché implicato nello scandalo finanziario della Banca Romana; al suo posto, nel dicembre del 1893, ritornò il Crispi, e ritornarono i metodi tradizionali della classe dominante.

La repressione ordinata da Francesco Crispi

159. Proclamato lo stato d’assedio dell’isola, furono inviati 50 mila soldati ed affidati all’esercito i pieni poteri, come al tempo del grande “brigantaggio” [45]. Seguirono violenze, con molti morti e feriti, ed arresti indiscriminati, processi, severe condanne.

Ma non mancarono gli episodi di coraggio e di fermezza, di cui furono protagonisti soprattutto le donne ed i ragazzi.

Un episodio della repressione

160. “I ragazzi partecipavano in fila per due ai cortei e alle altre manifestazioni. A Grotte, un ragazzo di 12 anni fu arrestato perché parlava del socialismo a circa 200 suoi coetanei in pubblico.

A Piana dei Greci, la portabandiera del fascio, che un giornalista descriveva dritta come una palma, col viso soffuso da un leggero rossore, affrontò durante una agitazione le armi dei soldati spianate contro il popolo, dicendo, rivolta ai militari: Avreste il coraggio di tirare contro di noi? I soldati abbassarono le armi ed il capitano ritirò i suoi uomini.

A Partinico, nel novembre 1893, una ventina di donne avvicinò i soldati e, descrivendo le condizioni di miseria in cui erano costrette a vivere con i figlioli, spinse quei soldati a fraternizzare col popolo, provocando l’immediato ordine alle truppe di levare le tende da quel paese” [46].

Donne nei fasci siciliani

161. Sotto i colpi della repressione, il movimento ebbe l’appoggio esplicito del Partito socialista e la solidarietà concreta del Partito social-democratico tedesco.

In conseguenza di ciò, i capi del socialismo italiano furono incriminati ed il neo-nato Partito dichiarato fuori legge e sciolto in tutta Italia nell’ottobre del 1894, mentre i capi dei fasci siciliani venivano arrestati e condannati, con rapidi processi, a severe carcerazioni (Giuseppe De Felice Giuffrida, a 22 anni di carcere; Nicola Barbato e Bernardino Verro, a 14 anni; Garibaldi Bosco, a 12).

Dopo la repressione

162. La repressione, però, se spense nel sangue la rivolta siciliana, non poteva certamente spegnerne le cause sociali profonde, né d’altra parte riuscì a disperdere il Partito socialista.

Di lì a poco, nel gennaio del 1895, i socialisti d’Italia si riunirono di nuovo a congresso, in Parma, ed il giorno di Natale del 1896 usciva il primo numero del quotidiano del Partito [47], che recava il celebre titolo Avanti!   

Nel frattempo, dopo la sconfitta di Adua (marzo 1896), Francesco Crispi dovette lasciare la vita politica, i socialisti imprigionati ritornarono in libertà con l’amnistia dello stesso marzo 1896, e nuovi movimenti popolari di protesta sorgevano dalla miseria delle grandi masse.

il giornale socialista

Per approfondire

163. Lo studioso lettore potrà approfondire la conoscenza di questo “primo grande movimento di massa proletaria che si sia visto in Italia” nel sito “Il portale del Sud”, oltre che nelle opere del Michels e del Romano citate in nota.

Indispensabile, poi, la lettura del bel romanzo di Luigi Pirandello intitolato “I vecchi e i giovani”, scritto nel 1913, ma ambientato proprio in quel drammatico biennio siciliano 1892-1894.


Note

[27] Vedi n°7 in “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”; n°223 e nn°245-249 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[28] Vedi Stefano Miccolis – “Antonio Labriola” in Dizionario biografico degli italiani, 2004.

[29] Vedi nn°432-440 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[30] Vedi nn°91-94 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[31] Vedi Miccolis, op.cit.

[32] Vedi Antonio Labriola – “La concezione materialistica della storia”, pref. di Eugenio Garin, Ed. Laterza, 1973.

[33] Vedi Miccolis, op.cit.

[34] Su Enrico Ferri, è da menzionare, peraltro, anche l’opinione che ne aveva Anna Kuliscioff: “Un gran cialtrone, non ha né cultura solida né ingegno. È un vanesio, che non vive che dell’approvazione pubblica, se gli manca questa non è più niente”.

[35] Benedetto Croce, “Marzocco”, a. IX, n.7, 14 febbraio 1904.

[36] Come noto, anche Giovanni Pascoli, allora socialista, si lasciò prendere dagli “eroici furori” delle “intraprese coloniali”: ma Pascoli era un poeta, non un professore di marxismo …

[37] Vedi nn°170 – 180 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[38] La prima in assoluto fu, però, la Gioventù Cattolica Italiana: già nel 1867, Mario Fani (a Viterbo) e Giovanni Acquaderni (a Bologna) fondarono due circoli di giovani cattolici; dalla loro unificazione, sorse la Società della Gioventù Cattolica Italiana, riconosciuta poi ufficialmente da Pio IX nel 1868.

[39] Vedi n°37 in “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[40] Vedi nn°17-19 e segg. in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[41] A. Gramsci – “Quaderni del carcere – Il Risorgimento”.

[42] Roberto Michels – “Storia critica del movimento socialista italiano”, La Voce, Firenze, 1926.

[43] R. Michels, op. cit.

[44] Si ricordi che il diritto di voto non era ancora universale.

[45] Anche per la Lunigiana (province di Massa e Carrara) fu proclamato lo stato d’assedio, per reprimere un nuovo tentativo di insurrezione promosso dagli anarchici nel gennaio 1894.

[46] Salvatore Francesco Romano - “Storia dei fasci siciliani”, Laterza, Bari, 1959.

[47] Il primo direttore del giornale fu Leònida Bissolati.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, giugno 2017

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