Nasce il movimento operaio: la “Prima
Internazionale” (1864-1876)
110. Mentre nell’Italia meridionale la grande rivolta contadina si
esauriva con la repressione del brigantaggio e con l’emigrazione
oltre mare, il diffondersi dell’industria in tutta Europa recava con
sé il sorgere ed il progressivo consolidarsi del movimento
operaio, che diventava sempre di più l’asse della opposizione al
sistema liberale.
Il movimento operaio si sviluppò impetuosamente in tutti i paesi
europei, in ciascuno secondo diverse caratteristiche nazionali, ma
sempre con una comune tendenza all’unità sovra-nazionale.
111. Nacque così, nel 1864, la “Associazione Internazionale dei
Lavoratori”, detta comunemente la “Prima Internazionale”.
La stesura dei primi Statuti provvisori e dell’Indirizzo
inaugurale di essa furono affidati a Karl Marx (1818-1883), un
rivoluzionario tedesco di origine ebraica, che già nel 1848, con il
“Manifesto del partito comunista”, scritto insieme al suo grande
amico e collaboratore Friedrich Engels (1820-1895), aveva lanciato
per il mondo il suo grido di battaglia contro la società liberale
borghese: Proletari di tutti i paesi, unitevi!
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Karl Marx (1818-1883) |
112. Nell’ “Indirizzo inaugurale”, il Marx partiva dalle esperienze
già compiute fino a quel momento dal movimento operaio, e cioè la
conquista legislativa della riduzione della giornata lavorativa a
dieci ore
e lo sviluppo del movimento
cooperativo, il quale aveva coi fatti “dimostrato che la
produzione, su grande scala e in accordo con le esigenze della
scienza moderna, è possibile senza l’esistenza di una
classe di padroni che impieghi una classe di lavoratori; che i
mezzi di lavoro non hanno bisogno, per dare i loro frutti, di essere
monopolizzati come uno strumento di asservimento e di sfruttamento
del lavoratore; e che il lavoro salariato, come il lavoro
dello schiavo, come il lavoro del servo della gleba, è solo una
forma transitoria ed inferiore, destinata a sparire dinanzi al
lavoro associato...”
113. “La classe operaia” argomentava il Marx “possiede un elemento
del successo, il numero; ma i numeri pesano sulla bilancia
solo quando sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla
conoscenza.
L’esperienza del passato ha insegnato come il dispregio di quel
legame fraterno, che dovrebbe esistere tra gli operai dei diversi
paesi e spronarli a sostenersi gli uni con gli altri in tutte le
loro lotte per l’emancipazione, venga punito inesorabilmente con la
sconfitta comune dei loro sforzi incoerenti.
Questa idea ha spinto operai di diversi paesi, radunati il 28
settembre 1864 in pubblica assemblea in St. Martin’s Hall
(Londra), a fondare l’Associazione Internazionale degli
Operai”.
114. La “Prima Internazionale” fu, in effetti, una singolare e
litigiosa famiglia multi-linguistica di operai e di intellettuali
idealisti.
Nei suoi congressi, si consumò dapprima lo scontro fra le tesi di
Marx e quelle della scuola francese di Pierre-Joseph Proudhon
(1809-1865); poi, quello fra Marx e gli anarchici, il cui capo
carismatico era il rivoluzionario russo Michail Bakùnin (1814-1876)
e che avevano un forte seguito soprattutto in Spagna e in Italia.
Gli anarchici, nel 1872, furono espulsi dall’Internazionale, che
però di lì a poco (nel 1876, lo stesso anno della morte di Bakùnin)
si sciolse del tutto.
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Michail Bakunin e Karl Marx |
La Comune di Parigi (18 marzo - 27
maggio 1871)
115. L’evento politico più rilevante, negli anni della “Prima
Internazionale”, fu la cosiddetta “Comune di Parigi”: la prima
esperienza di “governo operaio” della storia, conclusasi però
tragicamente, in poco più di 2 mesi, con una feroce repressione da
parte della classe borghese.
116. La circostanza occasionale dell’evento fu la guerra tra la
Prussia di Bismarck e la Francia di Napoleone III: guerra provocata
dallo stesso Bismarck e conclusasi rapidamente a suo favore, con
relativa disfatta francese (battaglia di Sedàn, 2 settembre 1870;
conquista di Parigi, 28 gennaio 1871).
La sconfitta militare provocò, in Francia, la caduta di Napoleone
III e la sua sostituzione con un governo repubblicano, guidato dallo
storico Adolphe Thiers, che negoziò con la Prussia l’umiliante
trattato di pace da questa imposto, che prevedeva la cessione al
Reich tedesco di alcune regioni francesi di confine (l’Alsazia e
la Lorena) nonché il pagamento di una esorbitante “indennità di
guerra” (5 miliardi di franchi-oro).
117. Il malcontento per il sentimento nazionale offeso, unito alla
protesta sociale, accese la scintilla della rivolta del proletariato
e della piccola borghesia di Parigi, che diedero vita ad un autonomo
governo municipale (“La Comune di Parigi”, appunto), invitando anche
le altre città della Francia a fare altrettanto, per costruire su
nuove basi uno “Stato operaio” francese.
“All’alba del 18 marzo 1871, Parigi fu svegliata da un colpo di
tuono: - Vive la Commune!”
.
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Viva la Comune |
118. I provvedimenti di governo presi dai comunardi ebbero
uno spiccato carattere anti-borghese e socialista: le fabbriche
furono confiscate ed affidate a cooperative di operai per la
gestione; furono condonati i canoni di affitto dovuti dagli
inquilini; la Chiesa fu separata dallo Stato e tutti i beni
ecclesiastici parimenti confiscati ...
119. Ma il governo francese “legittimo” di Adolphe Thiers, riparato
a Versailles, non tardò a ripristinare “l’ordine”, apprestando la
riconquista militare di Parigi; gli stessi prussiani non
disdegnarono di dare il loro appoggio, liberando per l’occasione 100
mila prigionieri di guerra, affinché potessero riunirsi all’esercito
francese.
Così, il 21 maggio 1871, Parigi rossa fu attaccata
dall’esercito regolare francese; gli operai comunardi
resistettero strenuamente, casa per casa, per una intera “settimana
di sangue”, fino al 27 maggio, quando dovettero infine soccombere
alle soverchianti forze avverse: la battaglia costò 20 mila morti.
120. Subito dopo, iniziò la spietata repressione: circa altri 20
mila comunardi furono giustiziati in seguito a processi
sommari, e 7.500 condannati ai lavori forzati e alla deportazione in
Nuova Caledonia (Oceania francese).
Per la prima volta, come scrisse in seguito il Marx, la classe
operaia aveva tentato di “dare l’assalto al cielo”, ossia di
rovesciare l’ordine borghese, ma gli dèi del denaro si erano
duramente vendicati ...
La “Prima Internazionale” nell’Italia meridionale
121. In Italia, negli anni immediatamente successivi all’unità, gli
intellettuali borghesi più progressisti ed il nascente movimento
operaio si riconoscevano principalmente nel pensiero repubblicano,
di ispirazione romantica ed umanitaria, di Giuseppe Mazzini
(1805-1872).
Quando nacque l’Internazionale (1864), Mazzini ne prese però quasi
subito le distanze, ritenendo le proprie concezioni del tutto
incompatibili con quelle prevalenti nell’ Associazione.
122. La prima diffusione delle idee internazionaliste in Italia fu
opera, soprattutto, di Michail Bakùnin: il suo nome e il suo
pensiero (l’anarchismo), per molti anni, soprattutto in Italia
meridionale, furono ben più conosciuti del nome e del pensiero di
Marx.
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Michail Bakunin (1814-1876) |
Michail Bakùnin (1814 - 1876)
123. Michail Aleksandrovic Bakùnin nacque l’8 maggio del 1814, a
Prjamuchino, un piccolo villaggio del distretto di Torzhok, nel
governatorato di Tver (l’attuale Kalinin), nella Russia zarista. Di
famiglia aristocratica, venne avviato, secondo l’usanza della sua
classe, alla carriera militare, frequentando la Scuola di
Artiglieria di Pietroburgo.
124. Ben presto, però, insofferente della disciplina e desideroso di
orizzonti più vasti, si dedicò agli studi di filosofia.
A Berlino nel 1840, si accostò agli ambienti e alle idee della
cosiddetta “sinistra hegeliana”. Poco dopo, a Parigi, conobbe
personalmente sia Marx che Proudhon, e si dedicò da allora
interamente alla causa del socialismo rivoluzionario.
Partecipò attivamente alle rivolte di Parigi nel 1848 e di Dresda
nel 1849 (insieme a Richard Wagner).
Arrestato dagli Austriaci, fu consegnato ai Russi nel 1851 e per 10
anni rimase confinato e carcerato in Siberia, finché nel 1861 non
riuscì ad evadere e a raggiungere Londra, dove conobbe, fra gli
altri esuli, Mazzini, Kossuth e Herzen.
125. Continuò poi a girare instancabilmente per tutta l’Europa,
propagando le idee rivoluzionarie e tessendo continuamente le fila
dell’organizzazione anarchica, in Italia, in Svizzera, in Spagna, in
Belgio, in Svezia ...
Alla nascita della Prima Internazionale, nel 1864, ne fu uno dei
principali animatori e responsabili, insieme ed in opposizione al
Marx, finché non si addivenne all’aperta rottura fra marxisti ed
anarchici, nel 1872.
In quell’anno, gli anarchici furono espulsi dall’Internazionale e la
sede di questa fu spostata, da Marx, a New York. Bakunin si stabilì
in Svizzera, da dove continuò ad ispirare e dirigere la sua
“Internazionale anti-autoritaria”, mantenendo legami e
corrispondenze in tutta Europa (fra gli altri, con gli italiani
Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Andrea Costa ...)
126. Quattro anni dopo, nel 1876, si ebbero, quasi
contemporaneamente, la morte di Bakunin (Berna, 1°luglio) e lo
scioglimento dell’Internazionale da parte del suo grande
antagonista, Karl Marx.
Bakunin in Italia ed a Napoli
127. “E’ certo che i primi giornali socialisti, le prime sezioni
dell’Internazionale, si ebbero in quei luoghi dove l’agitatore russo
si fermò e strinse relazioni, cioè a Firenze ed a Napoli; come è
certo che i primi propagandisti dell’Internazionale in Italia furono
suoi ammiratori e scolari”
.
“Italiani! Gli eventi precipitano: la bancarotta dello Stato si
approssima, da un lato, e dall’altro la rivoluzione avanza
inesorabile. Fate vostro il suo programma: giustizia ovvero
eguaglianza ovvero libertà. Fate vostra questa parola santa. Per
quanti la ricusano, ve n’è un’altra che mormora da secoli
nell’orecchio del popolo: vendetta.
La massa dei contadini rappresenta già di per sé un esercito
immenso e onnipotente … che sarà invincibile se guidato dal
proletariato urbano e organizzato dalla gioventù socialista”
(Bakunin).
128. “Nell’estate del 1865, recatosi a Napoli (da Firenze)
per un breve soggiorno, Bakunin vi scopre la sua vera patria
politica, il centro ideale per la sua attività rivoluzionaria, in
mezzo ad una schiera di amici in spontanea e viva simpatia per le
sue concezioni. Vi resterà senza interruzioni per 2 anni, dal 1865
al 1867, quando rientrò in Svizzera: un biennio che segna, nella
biografia di Bakunin, la definitiva formazione anarchica del suo
pensiero e, nella nostra storia, la nascita dell’anarchismo
come movimento di idee”
.
A differenza di Giacomo Leopardi
[41], a Napoli Bakunin si trovò perfettamente a suo agio
[42]: dei napoletani gli piaceva il carattere
“vulcanico”, l’intelligenza, la fantasia, la creatività,
l’entusiasmo, il calore umano.
Amò le allegre tavolate all’aperto con i compagni, nelle quali,
davanti ad un buon bicchiere di vino rosso e ad una tazzina di
caffè, si poteva discutere appassionatamente di politica e sognare
la “società futura” nella quale, dopo aver eliminato le ingiustizie
sociali e qualsiasi forma di autorità e di Stato, tutti gli esseri
umani avrebbero potuto vivere liberi, uguali e fraternamente felici
…
129. Il rapporto dell’agitatore russo con Napoli non fu
astrattamente teorico né solamente politico: fu un rapporto insieme
intellettuale, affettivo ed operativo.
Non meraviglia, perciò, che proprio a Napoli Bakunin abbia
definitivamente maturato il suo pensiero e proprio qui sia dunque
nato l’anarchismo come movimento politico.
I napoletani, soprattutto i numerosissimi appartenenti alla plebe
urbana, da secoli erano abituati ad “arrangiarsi fra di loro”
facendo a meno di uno Stato nei loro confronti indifferente quando
non ostile, e comunque estraneo.
Così che il tradizionale spirito comunitario popolare che vigeva nei
vicoli e nei bassi dei quartieri proletari contribuì certamente a
far maturare nella mente di Bakunin l’idea dell’autogoverno
popolare dal basso.
La famiglia “napoletana” di Bakunin
130. Egli giunse a Napoli con la giovane moglie,
Antonia Kviatovoska (1839-1887),
detta Antòssia, che aveva 25 anni meno di lui ed era figlia
di un deportato politico polacco.
“Era alta, formosa, piuttosto lenta. Aveva occhi intelligenti e
chiari, dallo sguardo onesto e amichevole ... era donna che ispirava
piuttosto il rispetto e la fiducia che non il desiderio. Non era di
grande nascita né di molta istruzione, ma di nativa finezza, dignità
e penetrazione ... Forse, non era neppure anarchica … Condotta dalla
sorte, ch’ella conosceva e alla quale non si ribellava mai, al
contrario di Bakunin che le si ribellava sempre senza conoscerla
mai”
.
E alla morte del marito, nel 1876, Antonia ritornò a Napoli,
insieme ai tre figli avuti da lui: Carlo (nato a Ginevra) che aveva
allora 8 anni; Giulia Sofia (nata ad Orselina presso Locarno in
Svizzera) che ne aveva 6; e Maria (nata a Krasnojarsk in Siberia)
allora in età di soli 3 anni.
A Napoli, la vedova Bakunin sposò Carlo Gambuzzi
(1837–1902), uno dei primi ferventi discepoli di Michail ma, pur
essendo quasi sua coetanea, morì 15 anni prima del secondo marito,
a S. Giorgio a Cremano, il 2 giugno 1887.
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Michail Bakunin con la moglie Antonia Kviatovoska
(1839-1887) |
131. Il Gambuzzi amò e curò amorevolmente i tre figli del maestro,
al pari della figlia che ebbe poi da Antonia, di nome Tatiana, che
andò a sua volta sposa ad un polacco.
I fratelli Bakunin frequentarono il Liceo classico Umberto I. Di
essi, Carlo si dedicò agli studi di ingegneria; si trasferì
poi in Argentina; morì a Ginevra nel 1943.
Giulia Sofia (Sonia)
si laureò in medicina e chirurgia all’Università di Napoli nel 1893,
sposò il chirurgo napoletano Giuseppe Caccioppoli (1852-1947) e
divenne la madre del famoso matematico Renato Caccioppoli
(1904-1959); morì nel 1956.
132. Infine, Maria (detta Marussia) intraprese
gli studi di chimica nella stessa Università e sposò Agostino
Oglialoro (1847-1923), direttore dell’Istituto, di cui era diventata
collaboratrice.
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Maria Bakunin (1873-1960) |
133. Fu una delle prime docenti donna dell’Università Federico II;
la prima presidente, su indicazione di Benedetto Croce, della
risorta Accademia Pontaniana dopo la sospensione fascista (1944); e
la prima donna socia dell’Accademia nazionale dei Lincei nella
classe delle scienze fisiche (1947).
La sua fama cittadina è legata alla difesa del "suo" Istituto di
chimica durante la Seconda guerra mondiale: quando i tedeschi misero
a fuoco le biblioteche di via Mezzocannone, la Bakunin si sedette in
prossimità delle fiamme incrociando le braccia; il tenente tedesco
comandante, stupefatto da tanto coraggio, dette ordine di ritirarsi
e così molti libri si salvarono.
In precedenza, nel 1938, era intervenuta in soccorso del nipote
Renato Caccioppoli, convincendo le autorità della sua malattia
mentale e facendolo internare per breve tempo in un manicomio,
salvandolo così dal carcere dove era finito per aver fatto suonare
“La Marsigliese” in presenza di un gruppo di gerarchi fascisti.
134. “Marussia per gli amici, la Signora per gli altri … fu una
grande scienziata, donna forte e coraggiosa fino all’audacia.
Da taluni ritenuta violenta e prepotente, esercitò un forte potere
su chiunque, uomo o donna che fosse, ricco o povero, debole o
potente. Fu temuta e riverita da tutti e nessuno si ribellò (morì
prima del ’68!)”
.
135. Ritrovatasi vedova ancor giovane, “coniugava autorità ed
inflessibilità con l’amicizia ed una quasi triste gentilezza; dava
ricevimenti conviviali ed ospitava nel salotto della sua abitazione,
attigua all’Università, amici ed esponenti del mondo intellettuale,
perseguitati e rifugiati”
.
“I cibi erano molto semplici e sempre gli stessi: pasta nera
scondita, carne di cavallo e patate lesse, un caffè di semi da lei
stessa tostati. All’inizio, tre o quattro gatti balzavano sul grande
tavolo e finivano col mangiare nel piatto dell’ospite.
La Signora abitava, con alcuni gatti, in locali ampi e tetri,
attigui al numero civico 8 di Via Mezzocannone, ed ai quali si
accedeva da una porticina. Quando usciva di casa per recarsi
all’Istituto, al civico n°4, vi era un fuggi-fuggi generale, mentre
l’Istituto chimico appariva straordinariamente operoso.
Era molto dura ed esigente con il personale. Ho una sua
pubblicazione scientifica dove, nell’angolo destro in alto, è
scritto: prendere a calci Vincenzino (il custode) perché non si è
fatto le basette. Ma se qualcuno di loro si ammalava, allora
correva a visitarli e ad assisterli”
.
136. “Romano Gatto, professore dell’Ateneo napoletano, mentre
svolgeva una sua ricerca … si imbatté in una grossa scatola di
cartone che conteneva documenti relativi ad una attività
filantropica da lei svolta, negli anni del dopo guerra, a favore di
studenti napoletani affetti da tubercolosi: aveva infatti intessuto
una rete di relazioni internazionali per ricevere donazioni utili a
questa causa”
.
137. Verso la fine della sua vita, usciva raramente di casa,
dedicandosi allo studio delle lingue. In questo periodo, il non
ancora cardinale Ursi, che sarà poi arcivescovo di Napoli dal 1966
al 1987, le faceva visita di frequente. Disse di lei: - Questa donna
è come l’arcangelo dalla spada fiammeggiante.
Morì nella sua abitazione di Via Mezzocannone, il 17 aprile 1960. I
suoi resti mortali riposano nella cappella della famiglia Gambuzzi
nel cimitero di Poggioreale.
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Cappella funeraria della famiglia Gambuzzi nel
cimitero di Poggioreale |
La diffusione dell’anarchismo nell’
ex- Regno borbonico
138. Già nel 1865, uscì a Napoli il periodico “Libertà e Giustizia”,
che si auto-definiva “giornale di educazione popolare” ed i cui
redattori Giuseppe Fanelli (1827-1877), Carlo Gambuzzi (1837–1902),
Attanasio Dramis (1829-1911), il siciliano Saverio Friscia
(1813-1886), il giovane Alberto Tucci (1848? - 1920) ed il
“pasticcione” Stefano Caporusso che fu poi espulso
dall’organizzazione nel 1870, erano i primi discepoli ed amici
personali di Bakùnin.
139. Nel 1867, nacque la sezione internazionalista di Castellammare
di Stabia e nel 1869 la sezione di Napoli, costituita ufficialmente
il 31 gennaio di quell’anno, svolgeva il ruolo di “Centro
provvisorio” dell’Internazionale per tutta l’Italia
.
Al congresso dell’Internazionale che si tenne a Basilea dal 6 al 12
settembre del 1869, su 4 delegati italiani, ben 3 erano napoletani o
comunque espressione della città di Napoli.
Questi delegati, infatti (oltre ad Heng, che rappresentava gli
italiani di Ginevra), erano: il Caporusso, in rappresentanza del
“Centro provvisorio” nazionale di Napoli; lo stesso Bakunin, in
rappresentanza della sezione dei “meccanici” di Napoli; e un altro
napoletano, il Fanelli, eletto come delegato dalle associazioni
operaie di Firenze.
140. In quel congresso, il Caporusso intervenne con una relazione,
breve ma molto significativa sia per la situazione che descriveva
sia per il linguaggio adoperato.
La relazione diceva fra l’altro: “(A Napoli) ... in questo
antico ricettacolo di tutte le turpitudini monarchiche e monacàli,
in questo paese che si lasciò affascinare dalle promesse degli
unitari italiani … una borghesia, simile in tutto a quella di
Francia e d’Inghilterra, fece ai lazzaroni sostituire operai che
lavoravano oltre 15 ore al giorno per guadagnare 2-3 lire e sostituì
la camorra speculando sulla fame e sul lavoro del popolo.
La sezione di Napoli fa una propaganda attivissima nell’Italia
meridionale, verso cui tutte le infelici popolazioni della penisola
volgono lo sguardo, come verso i precursori della vera libertà.
Gli operai napoletani mettono in fascio tutte le loro forze sul
terreno del socialismo rivoluzionario ed hanno mandato i loro
rappresentanti a questo congresso per suggellarvi, con i
rappresentanti di tutte le altre sezioni d’Europa, l’alleanza
universale che deve preparare, con l’abolizione di tutte le
enormezze (!) sociali, la vera sovranità del popolo”.
141. Nell’agosto del 1871, il Ministero dell’Interno sciolse la
sezione di Napoli dell’Internazionale, come sovversiva e pericolosa
per l’ordine pubblico, ma essa rinacque poco dopo, con il giornale
“La campàna”, avente per direttore Alberto Tucci e, fra i redattori,
Carlo Cafiero e Tito Zanardelli.
142. Furono comunque meridionali alcune delle figure più coerenti ed
appassionate del primo internazionalismo anarchico: si riportano di
seguito alcuni cenni biografici del napoletano Giuseppe Fanelli,
mentre si invita il lettore a ricostruire per conto suo le
avventurose esistenze del pugliese (di Barletta) Carlo Cafiero
(1846–1892) e del casertano (di S. Maria Capua Vètere) Errico
Malatesta (1853-1932).
Giuseppe Fanelli (1827 -1877)
143. Giuseppe Fanelli nacque a Napoli il 13 ottobre 1827, da agiata
famiglia borghese.
Il padre, Lelio Maria, originario di Martina Franca (Puglia), era un
affermato giureconsulto borbonico. Lui studiò architettura senza
arrivare alla laurea e fu, sin da giovanissimo, ardente
mazziniano.
Lo troviamo nella difesa della Repubblica romana nel 1849,
nell’organizzazione dell’impresa di Carlo Pisacane a Sapri, e con i
Mille di Garibaldi.
144. Rimase però molto deluso quando Garibaldi consegnò il
conquistato regno a Vittorio Emanuele II e, a partire dall’arrivo di
Bakunin a Napoli nell’estate del 1865, abbandonò progressivamente il
partito mazziniano per abbracciare la propaganda internazionalista
ed anarchica.
Da allora, fu il vero luogo-tenente di Bakunin a Napoli. Legato a
lui da una grande amicizia, svolgeva il ruolo di reclutatore di
nuovi adepti e di esaminatore della sincerità della loro dedizione
alla causa rivoluzionaria, e fu lui a convincere Carlo Cafiero ad
abbandonare Marx ed Engels per convergere sulle posizioni anarchiche
e sostenerle con tutto il peso della sua intelligenza e del suo
patrimonio.
In questo spirito, si colloca anche la missione che il Fanelli
effettuò in Spagna tra la fine del 1868 e la primavera del 1869, al
termine della quale furono costituite le prime sezioni
dell'Internazionale a Barcellona e a Madrid.
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Giuseppe Fanelli (1827-1877) |
145. Dal 1865,
fu deputato alla Camera in rappresentanza del collegio di Monopoli,
e fu ri-eletto nel marzo del 1867 e nel gennaio del 1871, questa
volta coi voti del collegio di Torchiara (Salerno).
Questo ruolo
non gli serviva però tanto per svolgere il lavoro parlamentare,
nella cui efficacia non riponeva molte speranze, ma perché gli
consentiva di spostarsi con facilità e senza spese e di tenere i
collegamenti tra i vari centri del nascente anarchismo in Italia e
all’estero.
Fu anche
consigliere comunale di Napoli, nei primi consigli eletti dopo
l’unità d’Italia.
146. Nei suoi ultimi anni, già mèmore dell’amaro disinganno seguito
alla temeraria impresa del Pisacane, e soprattutto dopo il fallito
tentativo insurrezionale del 1874, si trovò in dissenso su
“l’ostinato persistere della gioventù libertaria nel fatto
insurrezionale quale efficace mezzo di propaganda”.
Ad amareggiare ulteriormente il suo animo, si aggiunsero la mancata
presentazione alle elezioni politiche del 1874 e la morte di Michail
Bakunin, che si spense a Berna il 1 luglio 1876.
“A dar l’estremo crollo alla sua fibra, già vacillante ed esausta,
si aggiunsero le volgari invettive che Giovanni Nicotera, assurto al
Ministero dell’Interno col trionfo della Sinistra liberale nel marzo
1876, rinnegando l’antica fede, lanciò ripetutamente contro i
socialisti, additandoli come gente oziosa, perduta, criminale.
147. Disanimato allora del presente e dell’avvenire, triste, malato
e stanco di vivere, come andava ripetendo fra gli amici, fu colto da
melanconia, onde venne ricoverato nella casa di cura del signor
Fleurent di Capodichino, quartiere di Napoli, ove si spense all’una
pomeridiana del 5 gennaio 1877”
.
Il Lucarelli riporta anche il verbale della seduta del Consiglio
Comunale di Napoli di quel 5 gennaio 1877, che fu interrotto alla
notizia della morte con visibile commozione e impegno di
partecipazione di tutti i consiglieri ai funerali.
Tentativi di insurrezione ispirati dagli anarchici: il 1874
148. Al momento della rottura fra marxisti ed anarchici, nel 1872,
la quasi totalità dei gruppi italiani si schierò con questi ultimi.
A partire da quella data, l’Internazionale in Italia fu dunque
largamente egemonizzata dal partito anarchico che, conformemente
alla propria impostazione ideologica ed alla propria linea
strategica (organizzazione segreta, bande armate, sommosse,
insurrezione generale...), tentò a due riprese, nel 1874 e nel 1877,
di suscitare una insurrezione popolare generale, all’insegna del
motto: Anarchia e Collettivismo.
149. Nel 1874, considerando il generale malcontento degli strati più
poveri della popolazione ed i compatti scioperi cui, sfidando la
polizia
, avevano dato vita le sigaràie, i
muratori, i legnaioli, i fabbri ferrai ... si ritenne la situazione
ormai matura per la rivoluzione.
Bakunin
fu il direttore dell’insurrezione; Andrea Costa la organizzò
con attività e audacia indicibili, dal luglio all’agosto percorrendo
quasi tutta l’Italia ed infiammandola; Carlo Cafiero vi
profuse generosamente il proprio patrimonio familiare oltre che il
proprio ingegno fervido ed esuberante; nelle Puglie, l’incarico di
dirigere il movimento fu affidato ad Errico Malatesta.
150. Il movimento doveva scoppiare nello stesso giorno in vari punti
d’Italia, appositamente designati per la Toscana, la Romagna, il
Napoletano e la Sicilia; ad un segnale convenuto, gruppi di insorti
armati dovevano occupare le sedi municipali; in ogni Comune venuto
in mano agli Internazionalisti, si doveva nominare un Comitato
Direttivo provvisorio, che emanasse regolamenti simili a quelli
della Comune di Parigi.
Bakunin si recò a Bologna, dove stette rinchiuso segretamente per
7-8 giorni in una casa di Via Reno, attendendo di partecipare al
combattimento che egli stesso avrebbe diretto.
151. La polizia, però, aveva propri infiltrati all’interno
dell’organizzazione cospirativa e propri informatori ben efficienti
sul territorio: prima che venisse l’ora X, buona parte dei
congiurati vennero tratti in arresto, mentre gli altri si sbandarono
e si dispersero.
Bakunin, dopo aver atteso invano il segnale nel suo nascondiglio,
partì assai deluso, dalla stazione centrale di Bologna, per
ritornare in Svizzera.
“Per andare alla stazione, si servì di una vettura pubblica. Orbene,
com’è noto, egli era di corporatura ercùlea e, quando fu per entrare
nella carrozza, rimase chiuso col corpo a traverso lo sportello.
Questo incidente poteva esser causa del suo arresto, e per la
perdita di tempo, e per la folla che aveva attorniato la vettura. Ma
fortunatamente la polizia, che pur sapeva Bakunin a Bologna, non
conobbe questo incidente che quando egli era già partito”
.
152. Nel contesto di questo tentativo di insurrezione, è ambientato
il romanzo storico di Riccardo Bacchelli (1891-1985) dal titolo “Il
diavolo al Pontelungo” (1927).
Al fallimento del tentativo insurrezionale fecero seguito clamorosi
processi, che sortirono però l’effetto di contribuire a diffondere
ulteriormente le idee internazionaliste anarchiche.
Tentativi di insurrezione ispirati dagli anarchici: il 1877
153. Solo tre anni dopo, un nuovo tentativo poté essere messo in
atto: sotto la guida, in pratica, delle stesse persone (tranne
Bakunin, che era morto nel 1876).
La sommossa, stavolta, doveva scoppiare nelle province di Benevento,
Caserta e Campobasso, ritenendo gli Internazionalisti di collegarsi
in tal modo alla tradizione di rivolta popolare del grande
brigantaggio post-unitario (1860-70).
154. San Lupo del Sannio, piccolo paesino del beneventano, fu
scelto come luogo di riunione, ed in una casetta di esso si recarono
nascostamente, il 3 aprile del 1877, i capi della cospirazione:
Carlo Cafiero ed Errico Malatesta.
Non erano ancora giunti tutti i congiurati, che i carabinieri fecero
irruzione nella casa: dopo uno scontro a fuoco, 27 Internazionalisti
presero la via delle montagne del Matese ed il giorno 8 aprile
occuparono, senza colpo ferire, il Municipio del piccolo Comune di
Letìno, non senza aver rilasciato al segretario comunale
questa dichiarazione scritta: “Noi sottoscritti dichiariamo di aver
occupato il Municipio di Letino armata mano, in nome della
rivoluzione sociale. Firmato: Cafiero-Malatesta-Ceccarelli”.
Innalzata al centro della piazza di Letino la bandiera rossa
dell’Internazionale, furono distribuite al popolo le poche armi
della Guardia Nazionale, come pure le poche lire che furono trovate
nella cassa comunale; furono bruciate tutte le carte dell’archivio
comunale, in quanto attestanti i rapporti di proprietà e le tasse da
pagare (furono bruciate anche le carte dello stato civile, ma
risparmiate quelle della Congregazione di Carità).
155. Don Raffaele Fortini, sessantenne prete e consigliere
comunale di Letino, si rivolse al popolo definendo gli
Internazionalisti “veri apostoli mandati dal Signore per predicare
le Sue Leggi divine” e guidò il gruppo fino al vicino paese di
Gallo, dove furono accolti dal parroco Don Vincenzo Tamburi
alla testa del popolo festante.
Ripetuta anche nel Comune di Gallo l’operazione di occupazione del
Municipio, furono rotti altresì i contatori ai mulini (quelli che
servivano per misurare la “tassa sul macinato”) proclamando alla
popolazione: “Macinate come prima, cessano tutte le tasse!”
156. Fatto questo, la banda armata si inoltrò nei boschi, dove venne
però sorpresa da forti acquazzoni, neve e grandine impetuosa.
Dovettero perciò cercare riparo nella masserìa Caccetta, a circa 5
Km da Letino, ma la loro presenza venne segnalata ai carabinieri,
che fecero irruzione arrestandoli in massa.
157. Si concluse così, con nuovi processi e più gravi condanne, il
tentativo delle cosiddette “bande del Matese” o “bande di Benevento”
e, con esso, iniziò anche il lento declino della egemonia anarchica
sul movimento operaio italiano.
Nuove forme di organizzazione e di lotta andavano sempre più
maturando e, con esse, una forte ripresa, anche in Italia, del
pensiero marxista: non molti anni dopo, nel 1892, sarebbe sorto il
Partito dei Lavoratori Italiani (che, nel 1895, prese il nome di
Partito Socialista), aderente alla II Internazionale (1889-1914).
Le Società Operaie di Mutuo Soccorso
158. Una delle prime forme di organizzazione dei lavoratori furono
le “Società operaie di mutuo soccorso”.
Nel 1862, ne esistevano 408 in tutta Italia e 10 anni dopo, nel
1872, erano già 1200; ottennero riconoscimento giuridico nel 1886,
negli anni della Sinistra liberale.
Nello stesso anno 1886, venne anche approvata la prima legge sul
lavoro minorile, che stabiliva il divieto di lavoro notturno per i
minori di anni 12 e il divieto di lavoro in miniera per i minori di
anni 10 (!!!).
159. Al loro sorgere, le Società si occuparono soprattutto (un po' a
somiglianza delle antiche confraternite) di garantire ai ceti più
poveri, per quanto possibile, alcuni servizi essenziali che lo Stato
liberale ancora non assicurava, come le cure mediche in caso di
malattia, l’aiuto agli operai che si infortunavano e l’assistenza
alle famiglie di coloro che morivano sul lavoro, una certa forma di
“pensione” per gli anziani, etc.
Queste attività erano finanziate prevalentemente dagli stessi
operai, con piccole quote mensili, ma in esse avevano larga parte
anche appartenenti ai ceti più benestanti, mossi da sentimenti
filantropici o di ispirazione cattolica o, più spesso, di
ispirazione mazziniana.
160. Ben presto, con il diffondersi delle nuove idee
internazionaliste, le Società cominciarono a diventare anche i
luoghi dove gli operai maturavano i primi elementi di una coscienza
di classe e si organizzavano per rivendicare i propri diritti
rispetto ad un padronato spesso privo di ogni senso di
responsabilità umana e sociale.
Nei loro congressi nazionali, si incontravano, e discutevano
accesamente fra di loro, le varie componenti ideologiche che
animavano il movimento dei lavoratori nel nostro paese: all’inizio,
prevalentemente mazziniani ed anarchici; poi, soprattutto marxisti e
cattolici.
161. Le Società operaie furono quindi, insieme alle Leghe contadine,
la matrice dalla quale nacquero sia l’organizzazione
sindacale sia quella politica dei lavoratori.
A Barra, come meglio diremo a suo luogo, la “Società operaia di
mutuo soccorso”, tuttora esistente, fu fondata nel 1899.
La legge “italiana” per Comuni e Province (1865)
162. Al momento dell’unità d’Italia, dal punto di vista
amministrativo, non si fece altro che estendere anche alle province
meridionali, a partire dal 2 gennaio 1861, la cosiddetta “legge
Rattazzi” ovvero la “Legge sulle amministrazioni comunali del Regno
di Sardegna” (Règio Decreto n°3702 del 23 ottobre 1859).
Questa legge rimase in vigore fino a che, nel 1865, il nuovo
parlamento italiano non emanò la prima e fondamentale legge organica
riguardante le amministrazioni locali: la “Legge
sull’amministrazione comunale e provinciale” (Allegato A della Legge
n°2248 del 20 marzo 1865) con il relativo “Regolamento per
l’esecuzione” (Règio Decreto n°2321 dell’8 giugno 1865).
163. La “nuova” legge del 1865, peraltro, ricalcava nella sostanza
quella precedente ed aveva, naturalmente, la stessa logica di
pesante discriminazione, di classe e di sesso, già segnalata a
proposito del Parlamento nazionale (vedi sopra, n°3).
Erano infatti esclusi dal diritto di voto: le donne, in
quanto tali; tutti coloro che non sapevano né leggere né scrivere; e
tutti quelli che non superavano un certo reddito. In somma, erano
esclusi dal voto quasi tutti: il 96% circa della popolazione!
Aveva quindi diritto al voto, per le amministrazioni comunali
e provinciali, solo il 4% (all’incirca) dei cittadini: in pratica,
oltre ai vecchi nobili ri-ciclatisi come “liberali”, erano i
“gentiluomini” borghesi, maschi, delle varie località (proprietari
terrieri, professionisti, grossi commercianti, proprietari di
industrie ove presenti, etc.).
Il Comune di Barra dopo l’unità
164. Per i Comuni come Barra, era previsto che potessero votare solo
coloro che pagavano almeno 10 lire di imposte, il che fa scendere la
percentuale anche al di sotto del 4%: si può stimare che, su una
popolazione Barrese di circa 8.000 abitanti (7.866 secondo il
censimento del 1861; 9.215 secondo la Santa Visita del 1877),
avevano diritto al voto (ma non è detto che tutti
esercitassero sempre questo diritto) … all’incirca 300 persone.
Questi 300 “gentiluomini”, con le loro famiglie, costituivano dunque
i barresi “notabili”: la “nuova” (?) classe dirigente borghese
paesana.
Il “loro” ambiente è descritto dal celebre e fecondissimo scrittore
napoletano Francesco Mastriani (1819-1891) in un episodio di
uno dei suoi famosi romanzi-inchiesta, nel quale la Barra viene
presentata come un luogo di leggiadre e riposanti “casine” immerse
nel verde: si tratta de “La biondina della Barra”, episodio del
romanzo “I vermi”, scritto da Francesco Mastriani nel 1863.
Il Consiglio, la Giunta, il Sindaco
165. Secondo la Legge citata, Barra, in virtù del numero dei suoi
abitanti, aveva un Consiglio comunale formato da 20 consiglieri che
eleggeva, nel suo seno, una Giunta municipale formata da 4
assessori.
Il Consiglio comunale restava in carica per 5 anni, ma ogni anno si
doveva rinnovare per un quinto: si estraevano a sorte i 4
consiglieri che ogni anno si dovevano dimettere.
La Giunta municipale, a sua volta, ogni anno doveva rinnovarsi della
metà: quindi, ogni anno cambiavano due assessori; però la Legge
consentiva anche che fossero immediatamente riconfermati.
Di fatto, il ruolo preminente era svolto dalla Giunta, perché buona
parte delle sedute del Consiglio era dedicata alla “ratifica degli
atti d’urgenza prodotti dalla Giunta con i poteri del Consiglio”.
In particolare, essendo Barra capoluogo del Mandamento, che
comprendeva anche Ponticelli e S. Giovanni a Teduccio, la sua Giunta
municipale aveva anche il compito di proporre al Prefetto i
nominativi degli agenti di custodia del carcere mandamentale
nonché di amministrare, insieme a Sindaco e Consiglio, tutte le
spese relative al carcere.
166. Vi era, infine, il Sindaco, che non veniva né votato dai
cittadini né designato dai Consiglieri comunali, ma era di nomina
governativa come i Prefetti.
In pratica, il Sindaco veniva scelto dal Prefetto tra i Consiglieri
comunali in carica e nominato con appòsito Règio Decreto; il suo
mandato durava per 3 anni.
Debiti e tasse …
167. Dal punto di vista economico
[52], come lo Stato nazionale e come tanti altri Comuni,
anche il Comune di Barra, nonostante i vari trucchi contabili, era
costantemente in passivo.
Nel bilancio di previsione per l’anno 1874, redatto dal Delegato
Straordinario Vincenzo Lugaresi, vengono prospettate circa 99.400
lire di entrate e circa 124.400 lire di uscite e
naturalmente il passivo (in questo caso, circa 25.000 lire) doveva
essere coperto con sovra-imposte comunali.
168. In effetti, i governi della Destra liberale furono i primi ad
adottare il sistema, quind’innanzi classico, di sottrarre ai
Comuni quanto più possibile delle loro entrate e di mettere
invece, per legge, a carico dei Comuni quante più spese
possibili.
Ne conseguiva una variopinta e minuziosa serie di “gabelle”, in
tutto degne del viceregno spagnolo, anche se non si chiamavano più
così.
Vi era quindi la tassa di famiglia (l’antico focàtico) che si
pagava per il fatto stesso di abitare in un determinato Comune; vi
era l’imposta sulla casa che pagava chi era proprietario
della casa in cui viveva ma anche chi era in affitto (ed aveva
diritto al voto solo chi pagava più di 100 lire di affitto al mese);
la tassa sui domestici (= su “chiunque tenga a sua
disposizione domestici per servizio suo e della sua famiglia”) e la
ben più insidiosa tassa sui cani (erano però esenti i cani
“destinati esclusivamente alla custodia di edifizi rurali e delle
greggie”); la tassa sul bestiame (= sulle “bestie da tiro, da
sella o da soma”); la tassa sulle vetture (= “veicoli di
qualsiasi tipo, tanto per uso proprio che per servizio altrui”); la
tassa sulle fotografie messe in vendita; la tassa per
l’occupazione di spazi ed aree pubbliche; ed ovviamente la tassa
che colpiva “i redditi prodotti attraverso l’esercizio di arti e
professioni, e quelli derivanti dalla rivendita di qualunque
merce”, cui si aggiungeva la tassa sulle insegne.
Il Re dei tributi: il dazio sul
consumo
169. Queste però erano le minutaglie, perché “il tributo da cui sia
lo Stato che i Comuni italiani hanno tratto le maggiori
risorse per poter far fronte alle loro esigenze di cassa è stato il
dazio sul consumo” che “veniva riscosso sui generi
alimentari di prima necessità e su quelli di grande smercio, che
si prestavano quindi ad essere colpiti più facilmente”
.
In pratica, il dazio sul consumo, che colpiva in proporzione
soprattutto i più poveri, rappresentava da solo circa il 40% delle
entrate, di gran lunga superiore a qualsiasi altra, ed era
mediamente il doppio di quanto si ricavava dall’imposta sulla
proprietà della terra, che pagavano i possidenti.
Ai fini della sua riscossione, in base alla legge n°1827 del 3
luglio 1864, i Comuni vennero suddivisi in Comuni “aperti” e Comuni
“chiusi”.
Nei Comuni “chiusi”, il dazio veniva riscosso al passaggio della
merce attraverso i confini comunali. Nei Comuni “aperti”, invece,
veniva riscosso al momento dell’acquisto: la maggiorazione sul costo
dei generi alimentari veniva applicata nei magazzini e negli spacci
di rivendita.
Barra fu Comune “chiuso” fino al 1 gennaio 1903, quando passò fra
gli “aperti”.
170. Il dazio, beninteso, era “a pro dello Stato”. I Comuni, però,
potevano sia creare nuovi dazi su generi non coperti da dazi
governativi sia aggiungere una sovra-tassa sugli stessi
generi già gravati dal dazio governativo.
Dal prospetto riportato da Lomonaco nella sua opera citata, si
evince che il Comune di Barra, per le sue necessità di bilancio
(vedi sopra, n°167), aveva sovra-tasse comunali su buona
parte dei generi già gravati dal dazio governativo; in particolare:
sul vino, sfuso e in bottiglie; sull’alcool, con dazi differenziati
al di sopra e al di sotto dei 59 gradi “misurati con l’alcoometro di
Gay-Lussac”; su “bovi e manze”; “vacche e tori” e vitelli “al di
sopra e al di sotto di un anno”; sulla “carne salata e strutto
bianco per quintale”; sulla farina di frumento, pane e pasta “di
grani duri e teneri”, nonché sulla crusca; sul riso; sull’olio sia
ad uso alimentare sia per illuminazione; sullo zucchero; ed anche su
“birra e gazzose in bottiglie”.
A questo si aggiungevano poi i dazi esclusivamente comunali, quelli
cioè su generi non già coperti da dazi governativi, e che
riguardavano analiticamente: “la calce ed il colore”; il formaggio e
i latticini; le carrube; il sapone; i carboni di legno e il carbone
fossile a ciocco; i salami e qualunque tipo di insaccato (le
“salacche”) …
Nell’epoca dell’economia “fino all’osso” (vedi sopra, nn°12-16),
davvero niente sfuggiva ai tassatori!
La tassa “sull’interro dei cadaveri
non poveri” (1870)
171. E a proposito di ossa, ai disgraziati 8.000 abitanti della
Barra post-unitaria, si pensò addirittura, con Delibera consiliare
del 4 giugno 1870, di imporre una “tassa sull’interro dei cadaveri
non poveri”.
La “laicissima” motivazione era che “le confraternite
ricevono delle vistose somme per il seppellimento di taluni
cadaveri, pel vantaggio che si ricava dai cosiddetti fratelli e
sorelle che danno un puntuale mensile per ricevere le spese
dell’interro gratuitamente … senza che il Municipio ne godesse alcun
vantaggio, mentre (esso Municipio) sostiene vistose somme pel
Camposanto, come per il soldo al Cappellano, custode, giardiniere,
becchini, fossaioli, importo per l’acquisto croci, ed altre …”
Pertanto “hanno, tutti i consiglieri, fissato stabilirsi una
tassa per lo interro dei cadaveri non poveri, da mettersi in
vigore dal 1 luglio del corrente anno 1870, e cioè lire 2 fino
all’età di anni sette, e lire 5 da otto anni in sopra”.
La “laica battaglia di civiltà” della borghesia paesana, appena
convertita al liberalismo, finì comunque con una clamorosa sconfitta
solo pochi mesi dopo, il 5 novembre 1870, allor che “il Consiglio,
visto che tale tassa porta nessun utile all’erario municipale
perché la popolazione è composta da quasi tutti poveri …
comecché tale tassa porta nessun utile al paese … delibera
all’unanimità di annullare tale deliberazione”.
La seconda soppressione
172. Nel bilancio, occorre infine considerare che anche a Barra,
nonostante fossero ormai “proprietari” di ben poco, furono di nuovo
soppressi, come già nel Decennio francese, i due conventi storici
(francescano e domenicano) ed i loro locali furono espropriati per
essere poi venduti a privati o adibiti ad altri usi, in modo
peraltro non sempre onesto da parte degli amministratori locali,
come vedremo meglio in seguito.
I primi Sìndaci della Barra “italiana”
173. L’elenco dei Sindaci del Comune di Barra fino al 1876, e quindi
nominati dai governi della Destra liberale, è il seguente:
1)
Giuseppe Paracuollo
(1863-1869)
2)
Tommaso Fasano (1869 – ottobre 1872)
3)
Règio Delegato Straordinario Avv. Vincenzo Lugaresi (26 agosto–16
dicembre 1873)
4)
Alfonso Picenna (giugno 1874 – settembre 1876)
174. Si deve qui osservare che, attualmente, presso l’Archivio
Storico Municipale del Comune di Napoli (Fondo Deliberazioni Comuni
aggregati), troviamo:
N° 20 Registri delle Deliberazioni del Consiglio comunale (26 aprile
1870 – 22 maggio 1926).
N° 19 Registri delle Deliberazioni della Giunta municipale (13
dicembre 1871 – 1 ottobre 1926).
Gli Atti, che coprono circa 55 anni di vita del Comune autonomo di
Barra, iniziano dunque con il Sindaco Tommaso Fasano, il cui mandato
triennale venne a scadenza nell’ottobre 1872.
175. Il periodo indicato per il Sindacato Paracuollo (1863-1869),
articolabile in due distinti e successivi trienni (1863-66 e
1866-69), è perciò una ragionevole congettura, avvalorata peraltro
dal fatto che il Paracuollo risulta certamente essere il Sindaco nel
1865 (vedi oltre, n°196) cioè nell’anno dell’entrata in vigore della
Legge “italiana” sull’amministrazione comunale e provinciale (vedi
sopra, n°162).
176. Lo stesso Paracuollo svolse poi, in varie circostanze, in
qualità di consigliere anziano, anche il ruolo di “Sindaco
funzionante” ovvero “facente funzioni” di Sindaco: ad esempio, in
maniera documentata, prima (gennaio - agosto 1873) e dopo (gennaio –
aprile 1874) l’arrivo del Règio Delegato Straordinario Vincenzo
Lugaresi. E nello stesso ruolo troviamo il consigliere Antonio Di
Micco, per tutto il maggio 1874.
L’amputazione della memoria storica
177. Ma che fine hanno fatto i documenti precedenti il 26
aprile del 1870?
Il Règio Delegato Straordinario Avv. Vincenzo Lugaresi, nella sua
Relazione sullo stato del Comune, letta il 16 dicembre 1873,
parlando degli uffici comunali, deplora fra l’altro … “la piena
anarchia in cui si trovavano.
Di parecchie camere che s’avevano disponibili, non un assegnamento
speciale a seconda dei servizi, ma un ufficio solo, una specie di
emporio-bazar, nel quale si vedevano mescolati nel modo più strano
oggetti, carte e registri d’ogni epoca e d’ogni ramo, ora sparsi
confusamente su per le sedie, pei tavoli, e al suolo, or
rincantucciati sotto e sopra le cornici di polverosi scaffali.
Che più? Un grandissimo numero di inserti, e fra i più importanti,
riferentisi agli ultimi anni, fu da me rinvenuto nella stanza delle
ciarpe vecchie, in mezzo ad un ammasso immenso di cartaccie di
rifiuto, là precisamente come si getta la spazzatura
all’immondezzaio”.
Nel far ripulire e riordinare gli uffici comunali, il povero
Lugaresi, evidentemente, non tutto poté recuperare, così che una
parte di quelle “carte e registri d’ogni epoca e d’ogni ramo”
che si trovavano “confusamente sparsi” nella
stanza-ufficio-emporio-bazar ed una parte ancor più grande di
quel “grandissimo numero di inserti, e fra i più importanti,
riferentisi agli ultimi anni” che si trovava invece “nella stanza
delle ciarpe vecchie, in mezzo ad un ammasso immenso di cartaccie di
rifiuto”, andarono definitivamente perdute.
Dagli Atti, risulta che lo stesso Lugaresi dispose la vendita come
carta straccia di quanto non riuscì a recuperare. Peraltro, il
Sindaco Tommaso Fasano, già prima di lui, nel 1871, aveva fatto la
stessa cosa.
178. Ma questa amputazione della memoria storica del Comune fu
causata solo da ignoranza e superficialità, “inesperienza ed
incuria”? Certamente, anche da queste, ma…
Abbiamo visto che il Comune della Barra era compattamente
filo-borbonico fino a tutto il 1860, tanto che i pochissimi liberali
presenti non riuscirono nemmeno a far svolgere il Referendum per
l’annessione al Regno d’Italia
.
Dopo il 1870, però, come spesso avviene dopo i “cambi di regime”, i
notabili barresi diventarono quasi tutti, più o meno sinceramente,
liberali, unitari e filo-sabaudi.
Ergo,
a una buona parte della borghesia paesana, ovvero di quei 300 uomini
che erano diventati elettori ed eleggibili nel nuovo Comune liberale
e sabàudo, non dispiaceva affatto che andassero perduti i documenti
che attestavano il loro passato di fedeli sudditi borbonici …
Perciò, anche se non possiamo sapere chi sia stato materialmente a
farlo (forse il Segretario comunale Antonio Capitàneo? Vedi oltre,
n°187), non suscita tuttavia meraviglia che “un grandissimo numero
di inserti, e fra i più importanti, riferentisi agli ultimi anni”
sia finito “nella stanza delle ciarpe vecchie, in mezzo ad un
ammasso immenso di cartaccie di rifiuto”.
179. Inoltre, nel 1946, un incendio molto probabilmente di origine
dolosa attaccò l’Archivio Storico Municipale di Napoli, allora
custodito presso il Maschio Angioino, e distrusse gran parte dei
documenti della Sezione Antica o Prima Serie (1387-1805) ed una
parte minore ma pur sempre significativa della Seconda Serie
(1806-1860), infliggendo gravi perdite anche al “Fondo delle
Deliberazioni dei Comuni Aggregati”.
In questo Fondo, sono custoditi i documenti degli 8 Comuni (Barra,
S. Giovanni a Teduccio, Ponticelli, Chiaiano, Pianura, S. Pietro a
Paterno, Secondigliano e Soccavo) che furono “aggregati” al Comune
di Napoli con i due Regi Decreti n°2183 del 15 novembre 1925 e
n°1002 del 3 giugno 1926.
Per quanto riguarda Barra, che fu aggregata a Napoli nel 1925, i
superstiti documenti relativi al periodo francese (1806-1815), a
quello borbonico (1815-1860), e ai primi anni sabàudi (1860-1870),
risultano purtroppo frammentari e scarsamente leggibili.
Barra nel 1873
180. L’avv. Vincenzo Lugaresi (1842-1922) era un onesto e competente
funzionario dello Stato, ancora agli inizi della sua carriera (aveva
solo 31 anni), quando nell’agosto del 1873 venne inviato come Règio
Delegato Straordinario presso il Comune di Barra.
Il Comune era stato sciolto l’anno prima dal Prefetto per
irregolarità amministrative, e sopra di esso s’addensava la nube
oscura dell’epidemia colerica che aveva già fatto un migliaio di
morti in Napoli.
181. Dopo alcuni mesi, terminato il suo incarico, l’avv. Lugaresi
lesse, nella seduta del 16 dicembre 1873, di fronte al Consiglio
comunale scaturito dalle nuove elezioni svoltesi nel frattempo, la
sua Relazione sullo stato del Comune.
Si tratta, come scrive lo stesso Lugaresi, di “una breve e fedele
esposizione dello stato in cui questa municipale Azienda venne da me
trovata, della condizione in cui ve la rendo, de’ suoi bisogni
specialmente dalla legge indicati o dalla generalità del popolo più
sentiti, dei pericoli da evitare, delle speranze da seguire, degli
scopi da raggiungere”.
182. La “Relazione del R. Delegato Straordinario pel Municipio di
Barra, avvocato Vincenzo Lugaresi, alunno della carriera superiore
amministrativa, letta al nuovo Consiglio Comunale nella seduta del
16 dicembre 1873” fu pubblicata integralmente, l’anno successivo,
dalla “Tipografia della Gazzetta di Napoli - Vico Freddo alla
Pignasecca 1 e 2”.
Questa “Relazione” meriterebbe certamente di essere oggi altrettanto
integralmente ri-pubblicata, sia a testimonianza della
probità di questo valoroso funzionario (ricoprì in seguito molte
volte l’incarico di commissario straordinario presso vari Comuni
dell’Italia meridionale, fu Prefetto di Sassari dal 1901 al 1903 …)
sia per avere un quadro di primo mano della situazione di
Barra negli anni della Destra liberale.
183. Qui ci limitiamo a dire che i 20 consiglieri comunali che si
“insediarono” quel 16 dicembre 1873 erano:
1)
Ascione Giosuè
2)
Ascione Giuseppe
3)
Borrelli Ciro
4)
Caccavale Giovanni
5)
Calabrese Antonio
6)
Cocozza Giuseppe
7)
De Micco Antonio
8)
De Micco Raffaele
9)
Izzo Alfonso
10)
Martucci Luigi
11)
Mastellone Giovanni
12)
Noviello Raffaele
13)
Paracuollo Giuseppe
14)
Picenna Alfonso
15)
Profenna Antonio
16)
Riccardi Domenico
17)
Romano Giovanni
18)
Sito Luigi
19)
Stingo Gabriele
20)
Viscardi Salvatore
184. Il Registro degli Atti riferisce che: “La lettura di questo
elaborato rapporto, che è durata una buona ora, è stata ascoltata
col più vivo interesse, non solo dai Consiglieri, ma anche dal
rimanente dell’uditorio, il quale spesse volte si è mostrato colpito
da penosa impressione nel sentire l’esposizione dei molti disordini
dell’amministrazione”.
Non a caso, il Lugaresi aveva esordito dicendo: “… cose non liete vi
sarà dato, o Signori, di udire quest’oggi dal labbro mio, temprato
ad una severità forse meno usata ma che il mio mandato altamente
richiede.
Gravi, duolmi il dirlo, molteplici, e radicate da una triste quanto
antica consuetudine, sono pur troppo le irregolarità da me trovate.
Di scandali e di abusi sono pure sovente sparsi gli atti
dell’amministrazione”.
“Rimediare tantosto a questo sconcio
…”: il Tesoriere
185. “Avendo creduto prudente d’informarmi se il Sig. De Micco
(tesoriere del Comune) avesse data la dovuta cauzione, venni a
scoprire, con mia sorpresa, che l’ipoteca fatta inscrivere sui suoi
beni stabili èrasi limitata a lire 1.700 invece di lire 17.000 come
prescriveva la deliberazione consiliare delli 22 giugno 1867. E’
inutile vi dica che fu mia cura di rimediare tantosto a questo
sconcio facendo inscrivere all’ufficio d’ipoteche analoga nota
suppletiva sino alla concorrenza della mentovata somma …”
“Rimediare tantosto a questo sconcio
…”: l’Appaltatore
186. “(Lo stesso Tesoriere) … per favorire, come pare,
l’appaltatore del Dazio consumo Sig. Aurino, si era permesso
l’ardire di restituirgli sotto mano la cauzione di lire 7.500 da
questo depositata … Anche questo inconveniente fu da me emendato …
sottoponendo a convenzionale ipoteca un fabbricato di proprietà del
nominato Sig. Aurino, sito nel Comune di S. Giovanni a Teduccio in
Corso Règio (attuale Corso S. Giovanni)”.
“Rimediare tantosto a questo sconcio
…”: il Segretario
187. Il giorno 16 luglio 1873, un mese prima dell’arrivo di Lugaresi,
il Segretario comunale Antonio Capitàneo aveva ricevuto dalla Giunta
una indennità di lire 5, per lavori di “pulizia” eseguiti in quella
famosa stanza delle ciarpe vecchie in cui si ammassavano le cartacce
da buttare (vedi sopra, n°178). Se non che …
“Dopo che la Giunta ebbe terminata l’operazione, perloché andavano
via gli Assessori Martucci e De Micco, questo Segretario,
dolendosi che la Giunta gli avesse accordato una indennità di poco
rilievo, trascendendo in escandescenza, proruppe in gravissimi
insulti contro il Sindaco e gli Assessori Martucci e De Micco,
eruttando queste parole:- Debbo fare come un dispotico che ha
bastonato suo padre, è meglio che badasse a suo fratello (alludendo
all’Assessore Martucci) e un cornuto che ha la fede di perquisizione
sporchissima (alludendo all’Assessore De Micco).
Di poi, ritornando esso Segretario verso la stanza dell’archivio,
prese in mano una scopa e, facendola adiratamente in pezzi,
bestemmiando da eretico, disse:- Mi ha compensato da facchino,
quella mandra di fetenti (alludendo alla Giunta)!
188. La Giunta, visto e constatato le parole ingiuriose proferite
dal Segretario Capitaneo, visto che detto Segretario non solo è
irascibile di temperamento e facilmente trascende in insulti
maltrattando continuamente i cittadini, oltreché è ignorantissimo
uomo, non capace di recare innanzi l’amministrazione municipale, la
quale perciò tròvasi continuamente incagliata nel suo regolare
andamento per sua ignoranza e negligenza … sospende
provvisoriamente dall’ufficio di Segretario di questo Comune il Sig.
Antonio Capitaneo e fa istanza all’Illustrissimo Prefetto della
Provincia perché autorizzi la convocazione di un Consiglio comunale
straordinario, per provvedere intorno al licenziamento del
Segretario Antonio Capitaneo dal servizio di questo Comune e
nominare un novello Segretario”.
In effetti, il Consiglio comunale che provvide al licenziamento del
Capitaneo si tenne poi il 7 gennaio 1874, dopo la fine del mandato
di Lugaresi e sotto il Sindaco provvisoriamente “facente funzioni”
Giuseppe Paracuollo (vedi sopra, n°176).
La sede municipale di Barra
nell’ex-convento francescano
189. Abbiamo già detto che, fino agli inizi dell’Ottocento, erano le
parrocchie (ed a Barra, quindi, la sola parrocchia esistente, quella
di S. Anna) che, per obbligo sancito dal Concilio di Trento
(1545-1563), tenevano i registri delle nascite, delle morti e
dei matrimoni, relativi all’intera popolazione. Fu nel periodo
napoleonico, il cosiddetto “decennio francese” (1806-1815), che
venne istituita, per la prima volta nel Regno di Napoli,
l’anagrafe comunale
.
A partire appunto dal decennio francese, e fino all’unità d’Italia
(1860), la “Casa comunale” di Barra fu il palazzetto, poco distante
dalla parrocchia e designato attualmente Corso Sirena n°290, sul cui
portone si vede ancor oggi lo stemma municipale della Sirena
bi-cauda con il motto UNIVERSITAS
.
Il Cozzolino ci informa che tale “casamento” apparteneva alla
famiglia Sannino e, ai tempi suoi (1889), agli eredi Addonizio.
|
Lo Stemma sull'antica Casa comunale di Barra
(1806-1860) |
190. I primi sindaci della Barra “italiana” si preoccuparono di
trovare una Sede municipale che fosse più consona alle accresciute
incombenze burocratiche del Comune e più confacente alle esigenze di
“decoro” della nuova Italia.
191. A tal proposito, si è già detto che, negli anni immediatamente
successivi al Concordato del 1741 fra Santa Sede e Regno di Napoli
(anni che furono, a detta di Benedetto Croce, “di guerra incessante
ed acre contro la potenza economica e politica del clero”), il primo
ministro borbonico Bernardo Tanucci (1698-1783) aveva
provveduto ad espropriare, tra gli altri, il cinquecentesco convento
dei Francescani in Barra, lasciando ai frati solo la chiesetta e le
stanze attigue.
Per tutto il periodo borbonico, il compito principale svolto dal
vecchio convento fu quello di carcere: Barra era la sede del
carcere mandamentale (cioè per il territorio di Barra, S.
Giovanni, Ponticelli e S. Giorgio), come attestato anche dal Palomba
narrando gli eventi del 1848.
Dopo l’unità d’Italia,
i nuovi Sindaci ottennero come propria sede il piano superiore
dell’antico convento francescano, lasciando quello inferiore all’uso
di carcere.
192. Di lì a poco (nel 1890) venne aperta, davanti a tale sede, la
nuova Piazza centrale del paese, che doveva essere l’alternativa
liberale, “laica” e “moderna”, all’antico Largo Parrocchia.
Il carcere mandamentale
193. Quanto al carcere, esso rimase “croce e delizia” (vedi sopra,
n°165) prima del Comune di Barra e poi di quello di Napoli, fino al
termine della Seconda Guerra Mondiale.
194. Nel periodo barrese (1870-1925), stante il fatto che i
“notabili” rubavano spesso ma in galera non ci finivano mai, esso
ospitò soltanto pochi e piccoli delinquenti comuni dei vari paesi
interessati: qualche omicida per motivi “di onore” e ladri di polli
o poco più: “poveri Cristi”, insomma, sotto la sorveglianza di altri
“poveri Cristi” (gli agenti di custodia indicati dal Comune) con i
quali si era evidentemente stabilito un regime, per così dire, di
pacifica e tollerante convivenza.
Nel 1873, la relazione del Delegato Straordinario Lugaresi parla di
un capo-guardia che aveva più di 70 anni, di detenuti che a volte
facevano essi stessi da guardiani e andavano a fare la spesa e a
sbrigare faccende fuori dal carcere … e dice che nel carcere si
mangiava tutti insieme, si giocava a carte, e si ospitavano, senza
troppe formalità, mogli e familiari.
Il Lugaresi se ne scandalizzò e considerò questo uno degli “sconci”
a cui “rimediare tantosto”, ma … siamo proprio sicuri che avesse
ragione lui? In definitiva, quel regime carcerario di solidarietà
comunitaria popolare, a modo suo, non faceva che anticipare di
qualche tempo l’attuale criterio costituzionale della funzione
“rieducativa” e non semplicemente “repressiva” del carcere …
Il Corso Sirena (1865-1875)
195. Un’altra delle prime preoccupazioni dei Sindaci della Destra
liberale fu quella di dare maggior “decoro” alle strade comunali e
così il Sindaco Giuseppe Paracuollo mise mano ad una moderna
sistemazione, con il tipico “basolato”, della antica e
caratteristica conformazione “a nastro” dell’abitato di Barra,
iniziando i lavori del totale rifacimento del fondo stradale da
Monteleone a Piazza Serino e “profondandosi per la costruzione del
blocco di fogna stradale”; nel contesto, venne anche realizzato il
“collettore delle fogne pluviali di tutto l’abitato barrese”, nelle
Vie sotto le Finestre e Figurelle
.
196. Le opere furono condotte con particolare accuratezza, tanto da
dar luogo perfino a ritrovamenti archeologici: “Nel 1865, sotto
l’egregio Sindacato Paracuollo, allorché si fece il corso
sotto-stradale all’attuale Via Sirena … nei sterri sotto le Torri,
ossia fra l’edificio delle Suore della Carità e quello De Cristofaro,
si rinvenne una grande quantità di scheletri umani, ma con monete di
lato e la così detta lampada eterna, il che accennerebbe ad epoca
pagana, ed in cui usàvasi seppellire lungo le vie fuori degli
abitati”
[59].
Nessuno comunque pensò, o ebbe modo, di valorizzare ulteriormente
questa preziosa scoperta, e così ci si limitò semplicemente ad
ultimare i lavori della strada, che furono poi completati negli anni
successivi, con una alquanto approssimativa “sistemazione” dei
palazzi e delle cortine che si trovavano “lungo il paese di Barra”.
“Il paese, le cui strade fangose e i luridi fabbricati lo rendevano
ognora tristo e malsano, in poche settimane ha cambiato interamente
d’aspetto, con soddisfazione e meraviglia di tutti e degli stessi
forestieri” dice il Lugaresi nel 1873, parlando dell’opera sua, qui
forse con qualche esagerazione.
197. Infine, il sindaco Alfonso Picenna (1874-1876) provvide alla
nuova toponomastica, attribuendo per la prima volta, nel 1875, il
nome unico di “Corso Sirena” alla restaurata strada, che prima di
allora si era chiamata in modo diverso nei suoi diversi tratti.
Il Cozzolino (nel 1889) riferisce: “I moderni, sotto il Sindacato
Picenna, vollero rendere ancora un omaggio all’antica dama (la
Sirena), col dare il di Lei nome a tutto l’attuale Corso,
principale ed unico, dell’abitato, il quale portava ancora le
varie denominazioni della sua lenta formazione: (Via Sciùlia),
Vie di Sopra e di Sotto le Torri, Parrocchia, S. Antonio, Crocella,
Serino, S. Anna”
.
Bernardo Quaranta (1796-1867)
198. Lo stesso sindaco Alfonso Picenna (con Delibera n°5 del 28
giugno 1874) completò la toponomastica, intitolando il tratto
barrese
[61] di una delle antiche tre “cupe”
[62] che andavano dal Corso Sirena alla strada costiera
“delle Calabrie” (in Comune di S. Giovanni a Teduccio) al celebre
Bernardo Quaranta (1796-1867) che appunto pochi anni prima, il 21
settembre 1867, era morto a Barra, nella sua dimora di Villa Finizio.
Come scrive Pasquale Cozzolino nel 1889: “Ultimamente, il
chiarissimo archeologo e l’ispirato epigrafista, Bernardo Quaranta,
vi esalava (in Barra) l’estremo anèlito, dopo di avervi,
nella Villa Finizio, lungamente dimorato”
.
Sul muro esterno di Villa Finizio fu anche apposta la lapide che
tuttora vi si legge.
|
La lapide sulla casa di Bernardo Quaranta a Barra |
199. Fu questa la prima lapide “italiana”: nel senso che fu la prima
ad essere apposta dopo l’unità d’Italia, ma anche nel senso che fu
la prima ad essere scritta in lingua italiana e non più in latino,
come in precedenza si usava (di latino, ormai, rimanevano solo i
numeri per indicare le date).
L’ironia della storia volle che questa prima lapide “italiana” fosse
dedicata proprio ad una persona che fu, per tutta la vita, un fedele
suddito borbonico e quindi ostile all’unità d’Italia.
200. Bernardo Quaranta, III barone di S. Severino Cilento,
nacque infatti a Napoli, il 14 febbraio 1796, figlio di Giuseppe e
della marchesa Maria Veronica Mirabelli-Centurione di Amantea, da
nobile famiglia di fede borbonica.
A 14 anni era già “Alunno diplomatico”, a 18 “Verificatore
demaniale”.
201. Pur essendo stato avviato alla carriera giuridica, si immerse
fin da giovanissimo negli studi classici prediletti e non aveva
ancora compiuto 20 anni quando fu chiamato, nel 1816, a ricoprire le
cattedre di Archeologia e di Letteratura greca nell’Università di
Napoli.
Grazie alla passione ed al genio con cui si dedicava alla sua
attività di studioso, divenne ben presto una celebrità nel suo
campo, che era principalmente, come si è detto, lo studio
dell’antichità classica, l’archeologia e l’epigrafia
.
202. Oltre naturalmente al greco e al latino, conosceva l’ebraico e
il sanscrito, e tra le lingue moderne il francese, il tedesco,
l’inglese e il russo.
Scrisse numerose “memorie” di ricerca, stabilì corrispondenze con
studiosi di ogni parte del mondo e viaggiò a lungo, sia in Italia
che in Francia, Belgio, Inghilterra, e finanche in America,
riscuotendo ovunque apprezzamenti e riconoscimenti e diventando anzi
“socio delle più insigni Accademie d’Europa e d’America”. Fu anche
buon poeta e musicista.
203. Si sposò il 3 marzo 1842, quando aveva già 46 anni, con la
baronessa Maria Pannola, dalla quale ebbe l’unico figlio, di nome
Francesco Saverio.
Pur immerso nello studio erudìto delle antichità, non trascurò per
questo il concreto impegno civile rivolto al presente, e di lui ci
rimane, ad esempio, anche un lucido e costruttivo saggio intitolato
“Del colera di Napoli nel 1854” con il quale, pur nei limiti delle
cognizioni scientifiche dell’epoca (si ricordi che, in quel tempo,
non si conosceva ancora il “vibrione” causa del colera), si sforzò
di dare il suo contributo di studioso per cercare di prevenire nuove
insorgenze del male
.
204. La sua attività era sostenuta ed incoraggiata dalla dinastia
borbonica, che lo ricoprì (peraltro, meritatamente) di cariche e di
onori: venne infatti nominato responsabile degli “Annali civili del
Regno delle due Sicilie” e del Museo Reale di Napoli, della
collezione dei “Papìri ercolanensi” nonché Segretario perpetuo della
“Accademia ercolanense”; e sul petto del suo busto marmoreo,
collocato in cima al suo monumento sepolcrale, spiccano le numerose
onorificenze delle quali fu insignito.
Fu, insomma, una delle principali “glorie” del Regno borbonico
napoletano nell’Ottocento.
205. Quando quel Regno finì, nel 1860, non volle, anziano, tradire
il giuramento di fedeltà che aveva prestato, giovane, al suo Re né
comportarsi da ingrato per i tanti benefìci ricevuti, e si rifiutò
quindi di riconoscere la legittimità del nuovo Regno d’Italia,
rinunciando alla cattedra universitaria e a tutte le cariche
ricoperte.
Si ritirò a vivere i suoi ultimi anni nella verde tranquillità
barrese di Villa Finizio, ove già era uso trascorrere periodicamente
la sua “villeggiatura”, ed ivi morì 7 anni dopo (1867), all’età di
“anni 71, mesi 6 e giorni 27”.
|
Bernardo Quaranta (1796-1867) |
206. Fu sepolto non nel cimitero di Barra bensì nel “recinto degli
uomini illustri” del cimitero di Poggioreale, dove tuttora si può
ammirare il nobile monumento sepolcrale sormontato dal suo busto
marmoreo e recante lo stemma della famiglia Quaranta (con le quattro
X) ed un’iscrizione in latino che riassume la sua vita e le sue
opere:
A CR W
HEIC IN PACE QUIESCIT
BERNARDUS QUARANTA IOSEPHI F.
PATRICIUS AB AVIS
TERRAE FUSARIAE ET SANCTI SEVERINI LIBER BARO
QUAMPLURIUM PONTIFICIORUM IMPERIALIUM ET REGALIUM ORDINUM
TORQUATUS EQUES
TUM ARCHAEOLOGIAE ET LITERATURAE GRAECAE
IN NEAPOLITANO ARCHIGYMNASIO PROFESSOR
ANNALIBUS REGNI ET PAPYRIS HERCULANENSIBUS PRAEFECTUS
HERCULANENSIS ACADEMIAE A SECRETIS PERPETUO
INSIGNIORUMQUE ACADEMIARUM
TUM EUROPAE TUM AMERICAE SOCIUS
OMNIGENA ERUDITIONE VULGATORUM OPERUM VARIETATE
MULTARUMQUE LINGUARUM PERITIA CLARUS
MORUM INTEGRITATE ET RELIGIONE SPECTATUS
VIXIT AN. LXXI MENS. VI D. XXVII
DECESSIT XI KAL. OCT. AN R.S. MDCCCLXVII
MARIA PANNOLA UXOR ET FRANCISCUS XAVERIUS FILIUS
MOERENTISSIMI P.C.
207. Il Comune liberale di Barra, ed in particolare il sindaco
Alfonso Picenna (1874-1876), volle onorare i meriti di studioso e la
rara coerenza morale di quel leale “avversario”, dedicandogli la
lapide sul muro di Villa Finizio e la strada “che corre a pie’ della
casa ove egli abitò”, che fino ad allora era detta “Via del Casale”.
208. In seguito, non altrettanto benevolo fu un altro liberale,
Benedetto Croce, che definì ironicamente “onnisciente” il Quaranta,
imputandogli una erudizione vasta ma sostanzialmente superficiale.
Invece, ben disse il Doria che “se, come dicea taluno, Quaranta avea
40 impieghi, ben li meritava, perché Quaranta lavorava per 40 ed
avea l’impegno per 40”.
Nello stesso anno della sua morte (1867), l’illustre studioso
Benedetto Minichini pubblicò, presso la Tipografia Giannini in
Napoli, un “Elogio storico del Commendatore Bernardo Quaranta”. Ed
elogiativamente ne scrissero pure il Verneuil e lo Scherillo.
“L’apostolo del paese di Barra”:
Raffaele Verolino (1822-1890)
209. Entrando nella chiesetta delle suore “Verolino” che si trova in
Via Pasquale Cicarelli, si può vedere una piccola lapide, posta
sulla parete di destra, che reca la scritta seguente:
ECCLESIA HAEC CORDI
IMMACULATAE VIRGINIS
MARIAE DICATA CONDITA EST
A RAFAELE VEROLINO
SACERDOTE HUIUS PAGI
BARRAE PRO PUELLIS
PARENTIBUS ORBATIS
ANNO M DCCC LXX V |
QUESTA CHIESA, DEDICATA
AL CUORE DELL’IMMACOLATA
VERGINE MARIA, E’ FONDATA
DA RAFFAELE VEROLINO,
SACERDOTE DI QUESTO PAESE
DI BARRA, PER I FANCIULLI
RIMASTI PRIVI DEI GENITORI
ANNO 1875 |
210. Poco più avanti, lungo la stessa parete, si vede la tomba del
fondatore, la quale, fino al 2007, recava la dicitura:
QUI RIPOSANO GLI AVANZI MORTALI
DEL SACERDOTE RAFFAELE VEROLINO,
ZELANTISSIMO NEL SUO MINISTERO,
FONDATORE DELL’ORFANOTROFIO VEROLINO IN BARRA,
CHE VOLO’ AGLI ETERNI CELESTI
GAUDII, NELL’ETA’ DI ANNI 68,
IL 22 - 1 - 1890.
26 - 6 - 1957
211. La dedicazione della chiesa al “Cuore dell’Immacolata Vergine
Maria” è espressa anche dalla bella statua che si vede al di sopra
dell’altare centrale e che cattura subito lo sguardo.
La statua ricalca l’immagine della Madonna che si trova sul portale
della “Santa casa per l’infanzia abbandonata” annessa alla chiesa della
“SS. Annunziata” in Napoli, e raffigura la Vergine che accoglie sotto il
suo mantello i fanciulli (nell’immagine di Barra, le fanciulle) “orbati
dei genitori”: rimasti senza casa e senza famiglia in questo mondo, essi
trovano casa e famiglia nella comunità cristiana, nella quale Maria è la
Madre premurosa.
212. Le due scritte sopra riportate esprimono, in estrema sintesi, il
senso della vita e dell’opera di D. Raffaele Verolino, una delle
personalità più significative del clero barrese nell’Ottocento, che
dedicò tutto se stesso, nel periodo a cavallo fra l’antico Regno
borbonico ed il nuovo Regno d’Italia, alla elevazione materiale e
spirituale della parte più povera della popolazione di Barra
.
213. In effetti, come si è già detto, anche la parrocchia di Barra è
dedicata alla “SS. Annunziata” (“Ave gratia plena”, AGP) ma non vi era,
allora, alcuna istituzione che si proponesse di accogliere ed educare
gli orfani, a somiglianza della “Santa casa” napoletana.
Il Verolino pensò di colmare questa lacuna, fondando così il primo
istituto religioso interamente barrese, nonché primo istituto femminile
in Barra, dopo le “monache francesi” di S. Giovanna Antida Thouret,
giunte nel periodo murattiano.
Il Verolino giovane laico
214. Nato “abbasso Serino, dentro Case Langella” l’8 ottobre 1822 (lo
stesso anno nel quale, il 9 luglio, S. Anna venne proclamata
ufficialmente patrona di tutto il Comune della Barra), egli era il terzo
dei quattro figli di Mauro e di Maria Maddalena Farinella.
Fino ai 35 anni, fu un giovane apostolo laico, perseguendo
evangelicamente il Regno di Dio “nel mondo e per la vita del mondo”,
nelle “ordinarie condizioni della vita familiare e sociale” di cui la
sua esistenza era “intessuta”.
215. Lavorò prima come “ragazzo apprendista” nella farmacia di D.
Gaetano Viviani, con il quale anche si diede da fare, come poteva, per
alleviare le sofferenze della popolazione Barrese durante l’epidemia
colerica del 1836-37.
Apprese poi il mestiere di “tessitore della seta”, ed impiantò un
negozio per conto suo. La competenza e l’onestà nel negozio, illuminate
dalla Messa e dalla preghiera quotidiane e dalla caratteristica
devozione a S. Anna, lo resero testimone di Cristo fra gli altri
lavoranti, insieme ai quali fondò una “associazione di mestiere”, per il
reciproco sostegno materiale e spirituale, ma anche per raccogliere
elemosine da dispensare in cure, vestiti, cibo e coperte per i poveri
del paese.
216. Contemporaneamente, continuava a studiare “mettendo i libri legati
al telaio” ed era “suonatore di clarino” nella Banda Municipale di
Barra, sorta nel 1842.
217. Fin dal 1839, si associò alla Congregazione laicale della SS.
Annunziata (annessa alla parrocchia di Barra), di cui divenne anche
“maestro dei novizi”, e fu lui, da laico, ad introdurre in Barra la
pratica delle “40 ore” di adorazione eucaristica.
Quando nel 1844 venne istituita in Barra la Cappella seròtina, ne
fu fatto “primo catechista”: per il popolo semplice e prevalentemente
analfabeta dei “lazzari, saponari, muratori, carbonari, barbieri,
falegnami et altri operari”, spiegava il Vangelo durante le riunioni
serali, animava la preghiera vocale e l’adorazione eucaristica
silenziosa, i canti in comune, la visita agli ammalati, la passeggiata
serale per il paese …
Il Verolino prete dei poveri
218. Venne ordinato prete dal Card. Sisto Riario Sforza (1846-1877) il
19 dicembre 1857.
Poco dopo l’ordinazione, andò come Rettore nella chiesetta dell’Oliva e
vi operò assiduamente dal 1858 al 1868 (vedi nn°456-462 in “Il periodo
borbonico dal 1790 al 1860”), curando soprattutto la formazione e
l’associazionismo dei laici ed istituendo, in quella contrada, il
Terz’Ordine francescano.
219. Il 9 maggio 1868, in “un quartino preso in fitto nel cortile
Fioriniello al Cajariello”, istituì il “Ritiro dell’Immacolato Cuore di
Maria”, nel quale “fossero riunite alcune giovanette, per attendere in
modo particolare alla perfezione, stare più unite collo Sposo loro
Divino, lontane da’ tumulti del mondo, ed esercitare anche la carità
verso de’ poveri” … ovvero … “accogliere tutte le fanciulle povere del
paese e dar vitto, vestito, istruzione ed educazione religiosa;
accogliere inoltre le povere inferme, esercitando verso di loro la
pazienza e la carità, senza omettere il lavoro delle mani”.
Quattro giovani terziarie francescane (Chiara De Luca, Agnese Busiello,
Michelina Cannavacciuolo, Margherita Velotto) furono le prime che vi
entrarono; vennero poi altre fanciulle e ragazze orfane, che in un anno
giunsero a 15, “vivendo con la sola questua e fatica giornaliera”.
Nel 1871, comprato un giardinetto dal notaio Domenico Borrelli,
s’inaugurò l’attuale casa-madre e nel 1875 la chiesetta annessa,
costruita sotto la direzione di Raffaele Noviello.
220. Durante la nuova epidemia colerica del 1884, il Verolino si trovò
accanto al sindaco Luigi Martucci ed al padre domenicano Giuseppe de
Cristofaro nel compiere i prodigi dell’umana fraternità; testimoni
dell’epoca riferirono anche di due miracoli da lui operati in quella
occasione.
221. Morì il 22 gennaio 1890, lasciando come successore alla guida del
Ritiro D. Raffaele Guida (1844-1900), suo discepolo, suo primo biografo
e poi anche parroco di Barra dal 1896 al 1900, nonché una fervorosa
comunità di Suore che continuano la sua opera.
Le sue spoglie mortali, il 6 ottobre 1898, furono disseppellite, a cura
di D. Raffaele Guida, “per riporsi nella nuova cappella di Michele
Colombrino” nel cimitero di Barra e pochi giorni dopo, il 19 ottobre,
“la cassa contenente il corpo del defunto superiore si pose nella
nicchia della cappella, cantandosi poi l’Ufficio dei Morti e la Messa …
con tutta la Comunità”.
Nel 1940, in vista delle celebrazioni per il 50°anniversario della morte
del Verolino, le Suore avrebbero desiderato che avvenisse anche la
traslazione dei suoi resti mortali dalla cappella Colombrino alla chiesa
dell’Istituto in Via Cicarelli ma il precipitare degli eventi verso la
seconda guerra mondiale purtroppo non lo consentì e così la traslazione
poté avvenire solo vari anni dopo, il 26 giugno 1957 (vedi sopra,
n°210).
Infine, in occasione del 50°anniversario della traslazione (1957-2007),
venne posta sulla medesima nicchia una nuova lapide ed organizzato un
incontro pubblico sulla figura del Verolino, il 22 gennaio 2008, a cura
di Angelo Renzi, D. Gaetano Castello e D. Ciro Miniero, presentandosi
nell’occasione anche l’immaginetta memoriale.
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D. Raffaele Verolino (1822-1890) |
La scelta del Verolino (1868)
222. Nei confronti della miseria, dell’ignoranza e dell’ingiustizia
presenti nel mondo non solo di allora, il Verolino scartò sia la
rassegnazione passiva, di cui aveva di fronte a sé molti esempi, sia
la rivolta violenta, dissennata e sterile, di cui pure, in quei
tempi briganteschi, aveva vari esempi.
223. In quel tempo, tutti gli Ordini religiosi venivano soppressi dallo
Stato italiano: ricordiamo che la Legge nazionale di soppressione è del
1866, due anni prima che il Verolino fondasse il suo Istituto.
Non mancarono i religiosi che, impauriti o sfiduciati, abbandonarono la
loro scelta di vita, magari anche allettati dalla “pensione maggiorata”
che il governo liberale e massonico assegnava ai religiosi che
abbandonavano.
Il Verolino, che “vorrebbe ridestare nel cuore di molti lo zelo della
gloria di Dio, lo spirito veramente religioso e il bene delle anime”,
non si attarda certamente in scelte di comodo nei confronti del potere
politico dominante.
Consapevole che “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At
5, 29), egli si accinge, proprio allora, a costituire un nuovo
Istituto Religioso, e che faccia proprio quelle cose che lo Stato
liberale non sa e non vuole fare: prendersi attivamente cura delle fasce
più deboli della società e metterle al centro della propria attenzione.
224. In tempi nei quali, anche a Barra, la nuova classe egemone borghese
mirava soprattutto a riempire il porta-fogli, sfruttando a questo fine
il potere politico finalmente conquistato, il Verolino prospetta quello
che si potrebbe considerare un vero e proprio piano organico di
rinascita “spirituale e temporale della società”, che pone invece al suo
centro i più poveri e le loro necessità primarie: cibo, vestito,
istruzione, cure mediche … senza trascurare l’educazione religiosa.
In un contesto di oppressione classista e di violenza, nello spaventoso
aggravarsi delle condizioni di miseria e di abbandono in cui versavano
le classi più povere, il Verolino si pose, evangelicamente, a fianco dei
più deboli fra i deboli: le ragazze povere, rimaste per di più prive dei
genitori.
225. Da “buon pastore”, egli pensò di dover essere come un “padre di
famiglia” per chi non aveva più nemmeno la famiglia: come dice lui
stesso, in una sua lettera autografa del novembre 1867, si trattava,
“ora specialmente che si vuole distrutto ogni Ordine religioso”, di
accogliere, se fosse stato possibile, “tutte le fanciulle povere del
paese, e dar vitto, vestito, istruzione, ed educazione religiosa”,
curando altresì “le povere inferme”.
Come buon padre, egli si preoccupava delle loro esigenze materiali e di
quelle spirituali: procurare il necessario per la semplice sussistenza;
ma anche un minimo di formazione intellettuale, e soprattutto morale e
spirituale, che consentisse loro di vivere come vere figlie di Dio.
Pur non avendo né mezzi economici, né appoggi politici, diede loro tutto
quello che aveva: se stesso, il suo amore, la sua vita, perché potessero
rialzarsi e camminare insieme. Egli annunciava così, a modo suo, non
solo con la voce ma con tutta la vita, quella parola della Scrittura:
Non possiedo né argento né oro,
ma quello che ho, te lo do:
nel nome di Gesù Cristo, àlzati e cammina! (At 3, 6)
226. Emblematicamente, lo stesso anno 1868, in cui il Verolino, addì 9
maggio, nelle stanze (prese in fitto!) del “cortile Fioriniello al
Cajariello”, apriva la sua casa-rifugio per le povere orfane, il governo
dei “galantuomini” imponeva sulle spalle dei miseri la “tassa sul
macinato”!
E solo con l’aiuto di elemosine e con il lavoro gratuito di volontari,
il Verolino riuscì poi, dopo tre anni (nel 1871), a comprare un piccolo
giardino per costruirvi una casa ex-novo (l’attuale sede
dell’Istituto in Barra), che cominciò ad essere abitata a partire dal 10
agosto 1872, e successivamente, nel 1875, l’annessa chiesetta.
227. L’ideologia del capitalismo liberale prevedeva (ed ancora prevede
…) che i “liberi” proprietari imprenditori, competendo fra di loro nel
“libero” mercato e guidati esclusivamente dal proprio interesse
individuale, sarebbero stati “fonte di benessere” per tutti.
Il Verolino certo non conosceva questa ideologia, ma ne vedeva i tristi
effetti sulla popolazione barrese. Non aveva letto Adam Smith, ma aveva
letto il Vangelo:
“Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e
dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo,
dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non
rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,
19-21).
“Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o
preferirà l'uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio ed a
Mammona (l’idolo della ricchezza)” (Mt 6, 24).
“Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte le altre cose
vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33).
228. In tal modo, si può dire che egli anticipava la posizione della
Chiesa rispetto alla “questione sociale”, che verrà poi precisata, solo
un anno dopo la sua morte, dal Papa Leone XIII (1878-1903) con la
storica enciclica “Rerum novarum” del 1891.
Ancor più, si può dire che egli viveva quella “opzione preferenziale per
i poveri” come “forma speciale di primato nell’esercizio della carità
cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa”
e posta da Papa Francesco come “chiave di volta” della sua enciclica
Evangelii gaudium del 2013.
Le Suore “Stimmatìne” a S. Maria del
Pozzo (1873)
229. All’inizio dell’Ottocento, l’antichissima chiesetta di S. Maria del
Pozzo
[69] continuava ad essere una Rettorìa
[70], anche se la proprietà dell’edificio era passata al
Comune di Barra, che aveva acquisito il diritto di patronato forse per
dei lavori di riparazione effettuati a vantaggio della chiesa. Una vera
e propria svolta nella vita della zona si ebbe solo quando giunsero in
Barra le Suore dette “Stimmatìne”
[71].
230. Questo Istituto di Suore (“Povere figlie delle Sacre Stìgmate di S.
Francesco d’Assisi”, popolarmente “Stimmatìne”) era stato fondato nel
1850 dalla fiorentina Anna Maria Fiorelli Lapini (27 maggio 1809 - 15
aprile 1860).
Al momento della fondazione, avvenuta il 18 maggio 1850 con
l’approvazione dell’Arcivescovo di Firenze, le Suore erano solo in 7,
compresa la fondatrice. Da Firenze, però, l’Istituto si irradiò molto
rapidamente: ancora vivente la Fiorelli Lapini, vi erano già Case in
varie parti della Toscana, dell’Umbria, del Lazio, dell’Abruzzo…
231. A Napoli, Anna Maria Fiorelli Lapini conobbe Arcangelo Palmentieri,
ovvero il francescano P. Ludovico da Casoria (1814-1885), con il quale
ebbe grande consonanza spirituale ed operativa.
Il P. Ludovico da Casoria, già da alcuni anni, si era impegnato
nell’opera di riscatto dei bambini negri venduti come schiavi: una volta
riscattati, essi venivano educati e formati, con l’intento di farli
rientrare, se volevano, nei rispettivi paesi, per contribuire alla
crescita spirituale e sociale dell’Africa.
Con la sua collaborazione e dietro suo suggerimento, la Fiorelli Lapini
fondò, il 10 maggio 1859, la Casa delle Stimmatine a Capodimonte insieme
ad un collegio detto “delle morette” perché, oltre a ragazze napoletane
povere, vi erano educate anche 12 bimbe africane.
232. Nel 1873, grazie a una donazione da parte di Baldassarre Barra, un
ricco commerciante di cuoio, le Suore poterono insediarsi anche nel
palazzo accanto alla chiesa di S. Maria del Pozzo in Barra.
233. Non molti anni dopo, il Comune di Barra cedette a loro anche la
chiesa. Il 5 marzo 1897, le Suore inoltrarono richiesta scritta, ed
il 28 maggio 1898 la Giunta Municipale del Comune di Barra, come si
legge nel Registro degli Atti:
“... visto che in questa chiesa si celebra Messa solo nei giorni
festivi, con l’obolo dei fedeli, non potendo il Comune sostenere le
spese;
visto anche che le Suore hanno, nella loro località, una scuola gratuita
dove accorrono 200 fanciulle figlie del popolo;
confidando che le Suore terranno la chiesa medesima aperta al culto, per
comodità degli abitanti di questa contrada;
DELIBERA di concedere in perpetuo l’uso della chiesa alle Suore”.
Il Comune liberale di Barra (anche perché a corto di soldi …) riconobbe
quindi la “funzione sociale” svolta dalle Suore con la loro “scuola
gratuita dove accorrono 200 fanciulle figlie del popolo” e cedette ad
esse, gratuitamente e per sempre, “l’uso della chiesa”.
234. Le Suore la trasformarono, adattandola alle nuove esigenze del
convento, della scuola e del circostante popolo, ed il 13 novembre 1900
Mons. Giuseppe Cigliano riconsacrò la restaurata chiesetta, come è
testimoniato dalla lapide che si vede sotto il pulpito:
TEMPLUM HOC
SS. VIRG. A PUTEO NUNCUPATAE
A REV. D.
IOSEPHO CIGLIANO
EPISCOPO TITULARI CYMAE
D. O. M.
PRAESENTISSIMAE OPE
OMNIUMQUE CIVIUM
LAETANTIBUS ANIMIS
IDIBUS NOVEMBRIS ANNO MCM
DICATUM CONSACRATUMQUE
Traduzione:
QUESTO TEMPIO
INTITOLATO ALLA SS.
VERGINE DEL POZZO
DAL REV. D. GIUSEPPE CIGLIANO
VESCOVO TITOLARE DI CUMA
A DIO OTTIMO MASSIMO QUALE COMPIUTISSIMA OPERA
E CON GLI ANIMI LIETI DI TUTTI I CITTADINI
NELLE IDI DI
NOVEMBRE (13 novembre) DELL’ ANNO 1900
E’ DEDICATO E CONSACRATO
235. Si può qui ricordare che, fra le “200 fanciulle figlie del popolo”,
vi era anche Maria Grazia Tarallo, la futura Suor Maria
Passione: nata nel 1866, la figlia del giardiniere Leopoldo e di
Concetta Borriello fu tra le prime fanciulle barresi, insieme alla
sorella Drusiana, a ricevere l’istruzione elementare presso l’Istituto
delle Suore Stimmatìne a S. Maria del Pozzo.
Maria Grazia stava con le Suore l’intera giornata, e la sera andava a
dormire presso la zia Nunziata Borriello, la cui casa si trovava poco
distante; il Sabato e la Domenica rientrava alla casa paterna, che si
trovava sul Corso detto “Corso Sirena” a partire dal 1875, e
precisamente tra Piazza Crocella e Piazza Serìno.
Note
Si
ricordi che lo sciopero era, a quel tempo, illegale; nonostante
ciò, nel 1873 si ebbero più di 100 scioperi in tutta Italia.