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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

10.2 Il Periodo Borbonico (1790-1860)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

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151. Il porporato spedì, a favore de’ suoi, compagnie scelte, battaglioni regolari ed alcune centinaia di Russi con parecchie bocche da fuoco. Fatta allora un larga breccia, e ributtata dai repubblicani ogni parola di resa, i sanfedisti vennero all’assalto e, respinti due volte, alla terza entrarono.

152. Ma i difensori, benché ridotti a 60, continuarono a combattere gagliardamente, asserragliati in un angolo del forte. Ivi, il loro numero scemando ad ogni istante, il Toscano, giovane prete di Cosenza, capo del presidio, già gravemente ferito in testa, perch’egli e i suoi compagni non rimanessero inutili, strascinandosi fino alle polveri, vi appicca impavido il fuoco. All’orrendo scoppio saltano in aria i cadaveri de’ vinti confusi con quelli de’ vincitori, in numero di parecchia centinaia.

153. Uno del presidio, per nome Fabiani, accòrtosi del disegno del Toscano, mentre questi approssimavasi stentatamente alle polveri, buttòssi in mare, e nuotando andò a ricoverarsi entro Castel Nuovo, ove raccontò i particolari di quel fiero ed ammirabil fatto”.

Lungo il fiume Sebéto

154. Caduto così eroicamente il Vigliena, i repubblicani continuarono a resistere lungo il fiume Sebéto al ponte della Maddalena, sotto la guida del generale Wirtz [1].

155. “Al dechinare del giorno, ancora incerta era la fortuna su le sponde del piccolo fiume, quando il generale Wirtz, colpito e stramazzato da mitraglia, lasciò senza capo le schiere, senza animo i combattenti; ed al partir di lui su la bara moribondo, vacillò il campo, trepidò, fuggì confusamente in città.

156. Ed allora i borboniani ed i làzzari, dispregiando il divieto di autorità cadente, uscirono dalle case per andar armati contro la schiera del Bassetti; la quale, saputo la morte del Wirtz, la perdita del ponte ed il campo fugato, si ritirò, aprendosi il varco fra le torme plebee, nel Castelnuovo” [2].

157. Nella battaglia al ponte della Maddalena, morì eroicamente, fra gli altri, anche il dotto ed ormai anziano poeta Luigi Serio (1744-1799).

“Morì sulle sponde del Sebéto: nome onorato da lui, quando visse, con le muse gentili dell’ingegno, ed in morte col sangue. Il cadavere, non trovato né cercato abbastanza, restò senza tomba; ma spero che, su questa pagina, le anime pietose manderanno per lui alcun sospiro di pietà e di maraviglia” [3].

158. Questi furono, dunque, i più notevoli fatti d’arme, narrati dagli storici, avvenuti in Barra e nelle sue vicinanze in occasione della fine della Repubblica napoletana del 1799.

Dai registri parrocchiali della Barra

159. Una attenta ricognizione dei nostri registri parrocchiali è stata fatta dal compianto prof. Giorgio Mancini di Ponticelli, nell’àmbito di una indagine su tutti i registri parrocchiali della diocesi di Napoli nell’anno 1799, condotta con una èquipe di suoi studenti [4].

160. E’ necessario qui premettere che, subito dopo la fine della Repubblica, il cardinale arcivescovo di Napoli, Giuseppe Maria Capece Zurlo (1711-1801), per ordine del re, venne spogliato di tutti i suoi poteri ed obbligato a delegarli.

Il 5 agosto 1799 il cardinale partì per Montevergine, recluso “e come reo e come scimunito” fino alla morte avvenuta il 31 dicembre del 1801, e non poté nemmeno partecipare al Conclave, che si tenne a Venezia tra la fine del ‘99 e l’inizio del 1800, dal quale uscì eletto il Papa Pio VII. 

161. Delegò i suoi poteri a Mons. Vincenzo Torrusio, di Cannalonga, allora Vescovo di Capaccio ed in seguito Vescovo di Nola dal 1804 fino alla morte nel 1823.

162. Mons. Torrusio era un sanfedista militante, giunto in città al seguito del card. Fabrizio Ruffo nel cui esercito aveva combattuto, e si pose subito all’opera: eseguendo la volontà del re, ordinò una “Correzione generale” dei registri parrocchiali, allo scopo di eliminare dai registri stessi “tutte le espressioni analoghe alla passata detestabile rivoluzione contro il nostro amabilissimo Sovrano”.

Si trattava, in pratica, di far scomparire dai libri parrocchiali il titolo di “cittadino” che era stato talvolta premesso al nome, la dicitura “anno primo della repubblica napoletana” che accompagnava la menzione dell’anno 1799, ed altre espressioni simili.

163. La “Correzione generale” venne affidata all’Ufficio di Santa Visita, all’epoca composto da: Gaetano Buonanno (segretario); Ferdinando Panico (avvocato fiscale); A. Celentano (promotore fiscale); Salvatore Criscuoli (cancelliere) e Gennaro Ciarlone (pro-cancelliere).

A volte ci si limitava a cancellare il più possibile, con la penna d’oca, le espressioni “incriminate”; il più delle volte, però, si provvedeva a sottrarre le pagine ed a sostituirle con un identico numero di pagine ri-scritte in modo “politicamente corretto”.

164. A Barra, le correzioni risultano firmate direttamente dal Segretario di Santa Visita Gaetano Buonanno.

Il Libro dei battezzati

165. Il Libro XII (1769-1801) dei battezzati, fu da lui “Visto dal foglio 231 al foglio 246” ma non riscontrò alcunché da correggere; anzi, l’unica correzione che avrebbe potuto fare gli sfuggì. Al foglio 239, troviamo infatti tuttora scritto:

“A 5 gennaio 1799, primo Anno della Repubblica Napoletana,

Teresa Catarina, figlia di Domenico Langella e di Maria Pagano, coniugi di questa parrocchia, abitanti alle case del Marchese De Luca, è stata battezzata da Don Gaetano Ascione; è tenuta al S. Fonte da Maria Giuseppina Verde, mammana”.  

166. Al 28 febbraio 1799, troviamo registrato il battesimo di Maria Carmela Ascione, la futura Suor Maria Luisa di Gesù, fondatrice delle Suore “della Stella mattutina” (vedi Appendice a lei dedicata).

Il Libro dei matrimoni

167. Il Libro VI (1775-1801) dei matrimoni, risulta “Visto dal foglio 59 al foglio 68” e vi è un solo intervento: l’espressione “primo Anno della Repubblica Napoletana” cancellata in un matrimonio “a diece gennaro mille settecento novanta nove”.

168. La cosa più interessante però è che il Libro registra appena 9 matrimoni tra il 21 gennaio ed il 24 marzo e presenta addirittura un vuoto totale tra il 25 marzo ed il 1°agosto: forse, davvero nessuno pensò di organizzare le proprie nozze in quel clima di disordine e di scontri armati; o forse, aveva più effetto il matrimonio celebrato civilmente ai piedi dell’albero della libertà!

Il Libro dei defunti

169. Il Libro VI (1766-1801) dei defunti è quello più problematico. Anche qui, al Correttore è sfuggito un “primo Anno della Repubblica Napoletana”, rimasto tuttora nell’indicazione di un defunto il 16 gennaio 1799.

170. Più significativo è però il fatto che, nei giorni 22-23-24 gennaio sono registrati ben 20 decessi in appena 72 ore, con una media di gran lunga superiore a quella della mortalità normale, e tutti con la dicitura “morto disgraziatamente e senza Sagramenti”.

Il giorno 22 gennaio (11 persone):  Francesco VENERUSO di anni 60; Angelo NAPPO di anni 28; Gaetano LANGELLA di anni 20; Antonio NAPPO di anni 13; Pasquale Aniello ZINNO di anni 40; Angelo e Vincenzo NAPPO (padre e figlio) rispettivamente di anni 50 e di anni 21; Giuseppe MAGNANO di anni 31; Salvatore CIERRO di anni 22; Domenico CACCIOLA di anni 34; Luigi BORRELLI di anni 12.

Il giorno 23 gennaio (5 persone): Angelo VEROLINO di anni 9; Gennaro PERNA di anni 34; Salvatore GARGIULO di anni 30; Evangelista VELOTTA di anni 26; Giuseppe PUNZO di anni 46.

Il giorno 24 gennaio (4 persone): Saverio CURCIONE di anni 50 “trovatosi in mezzo alle paludi”; Onofrio LIPPOLIS di anni 60; Domenico PUNZO di anni 18, figlio di Giuseppe di anni 46 (morto il giorno prima); Giosuè D’ELIA di anni 30. 

Vi è inoltre, come 21°, Rocco SORIA di anni 17, anch’egli “morto disgraziat.te e senza Sagram.ti” il 28 gennaio.

171. Queste persone sono tutte di sesso maschile; quasi tutte relativamente giovani, con solo due sessantenni e due cinquantenni, ed il resto di età inferiore, addirittura di 18, 17, 13, 12 e finanche 9 anni. Risultano morte in luoghi diversi, e sepolti alcuni sotto la chiesa parrocchiale ed altri sotto la chiesa di fronte alla parrocchia (congregazione Ave Gratia Plena); altri ancora in quella dei Francescani conventuali; ed altri infine in quella “della Sanità” dei Domenicani.

172. I giorni tra il 22 ed il 24 sono proprio quelli nei quali l’esercito francese, occupando la zona ad oriente di Napoli, strinse d’assedio la città, difesa strenuamente dai làzzari (vedi sopra, nn°37-43).

E’ perciò molto probabile, anche se impossibile da documentare con certezza, che almeno una parte di queste persone furono uccise per aver cercato di difendere le loro povere casùpole di campagna dalle “razzìe” di generi alimentari che servivano a nutrire i soldati francesi occupanti.

Una strana carta post-datata

173. Vi è poi una strana carta, datata 14 ottobre 1802 ed aggiunta nel registro al mese di gennaio 1799, a cura di mons. Gaetano Miceli, in quel tempo vescovo ausiliare del nuovo cardinale arcivescovo Luigi Ruffo Scilla [5].

174. La carta dice: “A quanti leggeranno, rendiamo noto e testimoniamo che Gaetano Giodice e Maddalena Ascione, del Casale della Barra, contrassero matrimonio, alla presenza del Coadiutore della Parrocchia di detto Casale e come da licenza dello stesso Reverendo Parroco, il giorno 9 gennaio 1790 … ”

175. Dopo di che: 

… eundemque Cajetanum Giodice, sub die vigesima mensis Ianuarii anni 1799 nonagesimi noni una, cum pluribus eius concivibus, dum in una domu eiusdem Casalis Barrae doliolum nitrati pulveris inter se dividebant, accenso inopinato igne, eaque collapsa, mortem miserrima subjisse, eorumque cadavera post aliquot dies effossa in praedicta ven. Par.li Ecclesia sepulta fuisse …

Vale a dire:

… e lo stesso Gaetano Giodice, il giorno 21 gennaio 1799, con alcuni suoi concittadini, mentre in una casa del detto Casale della Barra dividevano fra di loro un barilotto di polvere da sparo, acceso fuoco inopinàto, e crollata la casa, subirono miserrima morte, ed i loro cadaveri dopo qualche giorno furono sepolti nella predetta venerabile Chiesa parrocchiale (della Barra) …

176. Per incuria e dimenticanza dell’allora Reverendo Parroco (don Michele Ràiola, morto nel settembre 1799), le circostanze della morte ed alcuni dei nomi non furono annotati nel Libro dei defunti; ma con prove documentali e giovandosi della testimonianza di due persone degne di fede, abbiamo ora riportato negli atti la deposizione dei testi.

177. Vogliamo pertanto che la testimonianza della morte del suddetto Gaetano Giodice sia comunicata al Reverendo Parroco (dal marzo 1801 al dicembre 1803: don Cosimo Barbato) e da questi annotata e conservata”.

178. Come si può interpretare questa strana carta? La data del 21 gennaio deve far pensare ad un gruppo di paesani, sicuramente filo-borbonici ma evidentemente inesperti di polvere da sparo, che tentavano di preparare qualche sorpresa contro l’esercito francese occupante? Oppure, come ipotizza il prof. Centanni, stavano spartendo fra di loro il bottino di un furto ai danni dei Francesi? O il barilotto era semplicemente scivolato via da un carro di munizioni dell’esercito francese e fu trovato per caso?

179. Comunque, appare poco probabile che i 21 uomini segnati nel registro, più Gaetano Giodice, siano morti tutti a causa di quella esplosione, tanto più che essi risultano morti non “in una casa” ma in case diverse, ed inoltre di essi solo alcuni furono “sepolti nella chiesa parrocchiale” mentre altri furono sepolti in altre chiese. 

180. Si potrebbe pensare che solo quelli registrati come “seppelliti nella chiesa parrocchiale” siano stati vittime dell’esplosione e quindi, in tal caso, 8 persone: Domenico Càcciola di anni 34; Angelo Verolino di anni 9; Gennaro Perna di anni 34; Salvatore Gargiulo di anni 30; Giuseppe Punzo di anni 46 e suo figlio Domenico, di anni 18; Onofrio Lippolis di anni 60; e Giosuè d’Elia di anni 30.

In questa ipotesi, il luogo più probabile dell’esplosione sarebbero “le case di Antonio Gianniello” in cui risultavano abitare Giuseppe e Domenico Punzo, padre e figlio.

181. Si tratta, in ogni caso, di semplici congetture e probabilmente nessuno saprà mai come sono andate realmente le cose. 

182. Ma perché questa carta fu aggiunta solo più di 3 anni dopo i fatti? Fu veramente solo “per incuria e dimenticanza” del peraltro anziano don Michele Ràiola? O fu invece la scelta consapevole di un saggio “pastore” che, in quei momenti di mutevoli ed incerte circostanze, volle evitare di “compromettere”, politicamente e/o penalmente, le famiglie di quei poveri morti?

I morti di giugno

183. Nel mese di giugno, quando erano le masse sanfediste ad assediare la città, difesa adesso dai repubblicani, troviamo registrati, come “morti disgraziatamente e senza Sagramenti”, soltanto: Filippo ESPOSITO, marito di Marianna LAVOLLA, di anni 35 (morto il 6 giugno); Domenico ROMANO di anni 28 (morto l’11 giugno); Raffaele Domenico SCOGNAMIGLIO di anni 23 (morto il giorno 16). Più una giovinetta: Gesualda TESTA di anni 18, morta il 21 giugno, dopo aver “ricevuto il solo Sagramento dell’Estrema unzione”.

La repressione repubblicana

184. Nel “Monitore napoletano” N°19 di Sabato 13 aprile 1799, Eleonora Pimentel Fonseca scriveva:

“Una nostra egregia Cittadina, Luisa Molina Sanfelice, svelò venerdì sera (5 aprile 1799) al Governo la cospirazione di pochi non più scellerati che mentecatti, i quali fidando alla presenza della squadra Inglese, o di concerto con essa … (il 2 aprile era apparsa nel golfo la squadra composta di navi inglesi, portoghesi e napoletane, comandata dal Troubridge, luogotenente di Nelson) … intendevano nel sabato massacrare il Governo, i buoni patrioti, e tentare indi un controrivoluzione.

Capo del folle iniquo progetto era un tal Baccher tedesco di origine, addetto al commercio presso il Mercante Abbenanti, e che fu quella stessa notte arrestato, e condotto la mattina seguente, strascinando sotto il braccio le bandiere règie, che furon trovate presso di lui.

Vi si trovaron similmente varie carte di sicurezza, le quali dovevan dispensarsi, o simili alle quali erano state dispensate, a chi si voleva salvare, destinando i rivoltosi tutto il resto (in fantasia) all'eccidio. Sono, a quel che dicesi, tali carte segnate dell'arme di Ferdinando, e del leone inglese.

Varie carcerazioni son poscia seguite, ed il monastero di S. Francesco delle Monache, attesa l'opportunità del suo locale che forma come un’isola, è destinato per custodirvi i detenuti, avendolo a tal oggetto evacuato quelle religiose, col passar all'altro di Donna Alvina.

Fra gli arrestati si contano finora oltre il nominato Baccher e suoi figli, il sotto-parroco del Carmine, l'ex‑Principe di Canosa, i due fratelli Magistrato e Vescovo Jorio, e l'altro Magistrato Gio. Battista Vecchione.

Un deposito di circa 150 fucili si trovò subito, un altro di varie sorti di armi e munizioni si è trovato nascosto nella dogana …

… la nostra Repubblica altresì non deve trascurar di eternare il fatto e il nome di questa illustre Cittadina. Essa, superiore alla sua gloria, ne invita premurosamente di far pubblico che ugualmente con lei è benemerito della Patria in questa scoperta il Cittadino Vincenzo Cuoco”.

185. Che cosa stava dunque accadendo? Semplicemente che, nei 6 mesi della Repubblica, alle cospirazioni dei giacobini contro i Borbone (vedi sopra, nn°49-51) subentrarono le cospirazioni dei borbonici contro i giacobini.

I fucilati durante la Repubblica

186. “Nel tempo stesso cominciarono i castighi esemplari delle fucilazioni, come quella eseguita il 10 aprile al Mercato, di undici cittadini della Torre, che avevano promosso un'insurrezione.

187. La partenza dei francesi accrebbe le agitazioni e portò nuovi arresti e nuove esecuzioni capitali. Il 6 maggio vennero fucilati gli assassini dei due Filomarino: un contemporaneo racconta lo spettacolo pauroso di quell'esecuzione, per la quale si videro schierate qualche centinaio di guardie nazionali in doppia fila, circondate e quasi premute da un'immensa folla ruggente, che pareva volesse a ogni istante soverchiarle.

188. Una decina di giorni dopo, l'alta Commissione militare faceva fucilare un prete, Giovanni de Napoli di Cassano, che aveva gridato:- Viva il Re!, e tre paesani di Mugnano, anche rèi di provocata insurrezione” [6].

189. Di altre fucilazioni veniamo a sapere da un documento riportato da Benedetto Croce solo a piè di pagina:

“Nell'agosto del 1799 il Re, avendo determinato di usare generose sovrane beneficenze verso le benemerite famiglie delle persone che per la loro fedeltà furono fucilate in tempo dell'infame sedicente governo repubblicano, ordinava al direttore di Polizia di formare l'elenco delle dette famiglie.

Nel febbraio 1800, ottenuto l'elenco, provvedeva col seguente dispaccio: Avendo il Re letta la nota … delle diverse persone, che nella passata anarchia furono fucilate, nel Real Sito di Capodimonte ed in questa capitale, per la di loro fedeltà ed attaccamento massime alla Real Corona, si è benignata in séguito Sua Maestà di assegnare sopra li beni dei ribelli li seguenti mensuali sussidi alle rispettive famiglie di dette persone fucilate:

Biase Liguoro, Aniello Seca, Natale Avolio, Raffaello Romano, Gennaro di Petrillo, Nunzio Raia, Santolo Schettino, Niccola Napoletano, Angelo Natale, Saverio Grieco, Luigi Santagata, Antonio di Lieto, Francesco Vigliotta, Carlantonio Genovese, Giovanni di Jase, Carmine Ruggiero, Crescenzio Lucarelli, Aniello Vecchione, Filippo Esposito, Raffaello Scognamiglio, Salvatore Acampa, coniugi Gennaro di Mauro e Maddalena Seca, Michele Errico, Gaetano Musella, Nunzio Ippolito, Carmine Graziano, Gennaro di Napoli, Ignazio Fasulo, e Giuseppe Martucci detto “Sei Carlini”: in tutto, 30 persone”. 

190. E’ giusto richiamare dall’oblio e rendere il dovuto onore a queste e a tutte le altre vittime delle repressione repubblicana, che sono state sempre pudicamente trascurate dagli storici di parte liberale, non volendo essi che troppa ombra oscurasse il volto della gloriosa Repubblica.

La cospirazione dei Baccher

191. Fra le varie cospirazioni organizzate dai borbonici contro i repubblicani durante quei sei mesi del 1799, “la cospirazione formata dalla famiglia Baccher fu non solo la prima per tempo ma una delle più importanti, sia per la qualità dei componenti e l’estensione che assunse e gli appoggi che si procurò, sia perché stava per passare ai fatti in un momento assai pericoloso” [7].

192. “Vincenzo de Gasaro, ricco negoziante, capo della famiglia, era figliuolo di un'Orsola Romano, che aveva sposato in prime nozze un Girolamo Baccher (oriundo tedesco o inglese, come appare dal cognome), e in seconde, un Gerardo de Gasaro; e il figlio Vincenzo, per gratitudine verso i suoi fratelli uterini dai quali era stato allevato, aveva aggiunto al suo cognome quello di Baccher, che poi prevalse.

Vincenzo, nato nel 1733 e maritato nel 1762 con Cherubina Cinque, aveva parecchi figliuoli: cinque maschi, che si chiamavano Gennaro, Gerardo, Giovanni, Camillo e Placido, e due femmine, Orsola e Rosa” [8].

I maschi erano tutti avviati nella carriera militare, tranne l’ultimo, Placido di nome e di fatto, allora impiegato nel commercio, e che divenne in seguito popolarissimo sacerdote nonché Rettore della chiesa del Gesù Vecchio in Napoli.

Invece, “le due figliuole erano maritate con due fratelli Ghio, famiglia anche questa di negozianti napoletani” [9].

Gerardo Baccher, Luisa Sanfelice e … gli altri

193. “La sollevazione della plebe contro i francesi e i patrioti portava con sé stragi, rapine e incendi. Per riconoscersi scambievolmente e per salvare dai danni le persone che si sapevano fedeli ai Borboni, i congiurati avevano preparato biglietti di assicurazione (“carte di sicurezza”), e li distribuivano segretamente.

194. Ora, uno di questi biglietti, il giovane Gerardo Baccher, corteggiatore di Luisa Sanfelice, non seppe trattenersi dal dare alla donna da lui amata, dicendole che, in caso di tumulto e pericoli, l'avesse mostrato e sarebbe stata salva.

195. Quali relazioni si fossero stabilite tra Luisa e il giovane Baccher, non si può dire con sicurezza … Quel che solo risulta chiaro, da molteplici testimonianze e dai fatti che seguirono, è che uno dei figliuoli di Vincenzo de Gasaro Baccher, Gerardo, aveva concepito per Luisa Sanfelice un affetto cosi tenero, che poteva, forse, essere anche amore.

196. Meno chiare sono le circostanze per le quali il biglietto, che doveva restare nelle mani di Luisa, servi a scoprire l'opera dei congiurati. Ma sembra certo, per concordi attestazioni, che Luisa avesse un altro amico, ch'era repubblicano, e che il biglietto passasse nelle mani di costui.

197. In qual modo? Qualcuno vuole che l'amante lo scoprisse casualmente: ma parecchi altri, ed i più credibili, narrano la cosa con un particolare assai pietoso. Luisa, timorosa più per la sorte del suo amico repubblicano che per sé stessa, spinta dalla sua passione, gli affidò il biglietto avuto dal Baccher, tacendone la provenienza e solo accennando il pericolo.

198. Il giovane repubblicano si affrettò a comunicare tutto al governo. Luisa, interrogata, non volle dire donde avesse avuto il biglietto; ma quella carta bastò da sola a mettere sulla traccia dei congiurati, e a farli arrestare.

199. Il nome dell'amante repubblicano ci è stato conservato dal Colletta. Era un giovane, Ferri: Ferdinando Ferri, nato da una famiglia di magistrati, aveva allora 32 anni, ed era entrato anch'egli in magistratura come addetto all'udienza di Aquila. Venuto a Napoli sulla fine del 1798, si converti di poi alla repubblica, seguendo forse l'esempio e la persuasione del suo maestro, già poeta di corte e allora fervido repubblicano, Luigi Serio.

I suoi primi passi di repubblicano non furono privi di difficoltà, perché dovette giustificarsi delle accuse mossegli di essere stato tra gl'informatori del passato governo. Forse la sua prontezza a scoprire la congiura provenne anche dal desiderio di purificarsi da ogni sospetto e completamente rifarsi innanzi alla pubblica opinione.

200. Ma un altro nome appare in quel tempo accanto a quello della Sanfelice: il nome di Vincenzo Cuoco; e alcuni dicono che proprio il Cuoco, e non già il Ferri nominato dal Colletta, fosse l'amante repubblicano.

201. La cosa più probabile è che al Ferri realmente si dovesse la rivelazione, ma ch'egli restasse in disparte; e il Cuoco, o chiamato da lui o in qualche modo conoscente della Sanfelice, servisse di consigliere e di guida nelle relazioni che la povera donna dovette avere, in quell'occasione, con la polizia e col governo repubblicano” [10].

Come andò a finire: i Baccher

202. Ecco la nota del Registro parrocchiale di Santa Barbara, edita da Ludovico de la Ville sur-Yllon nel suo articolo “La chiesa di santa Barbara in Castelnuovo”, in Napoli nobilissima, rivista di topogr. ed arte napol., vol. II, 1893, p. 173:

“A 13 Giugno 1799.

Natale d'Angelo, di anni 46 circa, tintore del Serraglio, marito di Maria Reviello, munito del Sacramento della Penitenza e SS. Viatico, morto fucilato e sepolto in questa Real Chiesa alle ore 23 circa.

D. Gennaro de Gaserò Baccher, Uffìziale della Real Gontatoria di Marina, figlio di D. Vincenzo, d'anni 32 circa, munito dei SS. Sacramenti, morto fucilato e sepolto in questa  Real Chiesa alle ore 23 circa.

D. Gerardo de Gaserò Baccher, Tenente del Reggimento Cavalleria Moliterni, e Quartier mastro, figlio di D. Vincenzo, d'anni 30 circa, munito dei SS. Sacramenti, morto fucilato e sepolto in questa Chiesa.

D. Ferdinando La Rossa, figlio del fu D. Giuseppe, d'anni 30 circa, Uffiziale del Banco di S. Eligio, munito dei SS. Sacramenti, morto fucilato e sepolto in questa Chiesa.

D. Giovanni La Rossa, figlio del fu D. Giuseppe, d'anni 26 circa, soprannumero del Banco di S. Eligio, munito dei SS. Sacramenti, morto fucilato e seppellito in questa Real Chiesa”.

203. “Il 13 giugno, supremo giorno della repubblica, segnò anche la morte dei Baccher. Il loro processo era stato istruito, ma la condanna non ancora pronunciata. Ora si volle finirla.

204. Si fecero insistenze perché il processo si affrettasse, e tra i patrioti che firmarono un memoriale a questo fine fu Ferdinando Ferri, per la qual cosa fu condannato poi all'esportazione.

La vendetta e la crudeltà presero la maschera di una necessaria misura di rigore, che avrebbe allontanato il pericolo di una sollevazione della plebe alle spalle delle milizie repubblicane, uscenti dalla città per tenere testa alle orde del Ruffo.

205. Ci fu un simulacro di giudizio, e la regolare esecuzione di una condanna ... L’alta Commissione militare pronunciò la sentenza di morte … In Castenuovo, erano raccolti molti prigionieri politici, personaggi d'importanza, che potevano anche essere utili come ostaggi … ma, invece, solamente i due Baccher, i La Rossa e il D'Angelo furono chiamati e condotti nel confortatorio.

Dopo qualche ora, quei cinque sventurati furono menati nella piazzetta di Castelnuovo, dove si doveva eseguire la sentenza. Ma giunsero contrordini; forse prevalsero per un momento consigli più miti e più savi. I condannati furono fatti rientrare. Sennonché, sopravvenne dopo un po' la conferma dell'ordine ed essi vennero ricondotti sulla piazza.

Si ebbe ancora qualche altra incertezza; e finalmente si procedette all'esecuzione. Ed essendo i soldati di linea tutti sui luoghi di combattimento, si adibirono per la fucilazione i militi della guardia nazionale.

I cinque affrontarono intrepidi la morte, tutti contenti e lieti di riceverla per una cosi degna e santa causa.

206. Questa strage, che fu un colpo di testa della Commissione esecutiva, macchiò gli ultimi momenti della Repubblica. Gli stessi scrittori repubblicani la riprovarono. Vincenzo Cuoco dice che il tribunale rivoluzionario si tinse inutilmente del sangue degli scellerati Baccher. E certo dovette servire in qualche modo a giustificare, negli animi di Ferdinando e di Carolina, le stragi che avrebbero fatto poi, essi, dei repubblicani” [11].

Come andò a finire: la Sanfelice, Ferri e Cuoco

207. La Sanfelice venne in quel momento esaltata come eroina e salvatrice della patria repubblicana; in seguito, col ritorno dei Borbone, condannata a morte. La sua vicenda è ben nota, per essere stata molte (troppe?) volte raccontata in seguito, trasfigurandola ingiustificatamente in una sorta di “icona” o romantica o proto-femminista.

208. “La sorte fu più benigna a Vincenzo Cuoco e a Ferdinando Ferri. La loro causa fu in certo modo separata da quella della Sanfelice. E che codesto riuscisse pel Ferri, ch'era rimasto nell'ombra, s'intende; ma pel Cuoco, nominato anch'esso dal Monitore … intenderlo è più difficile … Quel ch'è certo, egli se la cavò con la semplice deportazione in Francia, come pure Ferdinando Ferri, che fu imbarcato per Marsiglia il 28 aprile 1800.

Gettati su terra straniera, lasciavano a Napoli, in un carcere, colla condanna di morte sospesa sul capo, quella donna che l'opera e il consiglio loro avevano condotta fatalmente ai piedi del patibolo” [12].

209. Ferdinando Ferri, il personaggio forse più meschino ed ambiguo di questa storia, ritornò poi a Napoli all’inizio del Decennio francese, senza far troppo parlare di sé; dopo la seconda restaurazione (1815), si condusse sempre da fedele suddito borbonico, facendo carriera nell’alta amministrazione, e morì novantenne nel 1857.

210. “Vincenzo Cuoco … dopo aver passato qualche tempo in Francia, in conseguenza della vittoria di Marengo tornò in Italia, fermandosi in Lombardia. Nel 1801 pubblicava la prima edizione del famoso “Saggio storico” e nel 1805 il “Platone in Italia”.

Nel 1806 tornò in patria, ricondottovi dalla conquista francese, e fu del Sacro Règio Consiglio, poi passò nella Suprema Corte di Cassazione e divenne Consigliere di Stato.

Nel 1815, al ritorno dei Borboni, cominciò a dare segni di follia; e il male crebbe sempre più, finché la sua ragione s'estinse del tutto … la pazzia fu effetto, come so per tradizione, di eccessive fatiche intellettuali. Pazzo, in un cattivo momento, bruciò molti suoi manoscritti, dov'era inedita, tra l'altro, la seconda parte del “Platone”. Una mia vecchia prozia, un po' sua parente, mi raccontava di ricordarselo in quel misero stato, che montava in furia, quando alcuno inconsideratamente chiamava ad alta voce, lui presente, il suo servitore, di nome Ferdinando.

Morì il 13 dicembre 1823, di 53 anni, nella casa dei marchesi De Attellis alla salita Tarsia” [13].

Gioacchino Toma, Luigia Sanfelice trasportata da Palermo a Napoli il 2 settembre per essere decapitata, 1884. Olio su tela, cm 114 x 177. Napoli, Museo Pignatelli

La repressione borbonica

211. Il card. Fabrizio Ruffo aveva concluso con i repubblicani un onorevole accordo di resa, in base al quale questi si impegnavano a sgombrare senza combattere i Castelli della città, ottenendo in cambio di potersi imbarcare su navi francesi per andare in esilio in quella Nazione, ma ... vedi sopra, nn°106-108.

212. Una Giunta di Stato (per i civili) e una Giunta di generali (per i militari), appositamente costituite, pronunciarono sentenze su circa 8.000 detenuti (solo in città) per “i gravi disordini accaduti in codesta Città e nelle provincie del Regno”.

213. Di questi 8.000 detenuti:

Condannati a morte: 105, di cui 99 eseguiti e 6 graziati dal Re.

Condannati al carcere vita durante: 222.

Condannati a diverse pene temporanee: 322.

Condannati all’esilio: 355.

Tutti gli altri (= poco meno di 7.000 persone su 8.000) furono rimessi in libertà in pochi mesi.

214. Fu davvero così barbara e spietata questa repressione? E la pena di morte non era allora prevista nella legislazione di tutti i paesi europei?  Comunque, i 99 giustiziati erano tutti quelli che avevano avuto compiti di responsabilità nella Repubblica e/o avevano combattuto in armi per essa: ed era, in pratica, quasi tutta quella che si riteneva “l’avanguardia intellettuale” del Regno, proveniente dalla borghesia in ascesa ma anche, in cospicua parte, dall’aristocrazia e dal clero più “illuminati”.

215. Vincenzo Cuoco, in appendice al suo celebre “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799” pubblicò un “Elenco in ordine alfabetico dei patrioti giustiziati, a Napoli e nelle isole, a seguito della repressione borbonica dopo la caduta della Repubblica napoletana del 1799”, che ammontano in tutto a 120.

Il rientro a Napoli di Ferdinando

Per quanto riguarda la Barra

216. In particolare, nell’elenco, troviamo fra gli altri:

“Magliano Nicola, nato a Napoli il 1739, avvocato. Giustiziato a Napoli il 19 novembre 1799”.

La famiglia Magliano possedeva in Barra un palazzo (palazzo Magliano, appunto), con corte interna e terre agricole di pertinenza, ben visibile nella mappa del duca di Noja, proprio di fronte alla parrocchia “di S. Anna”. Il palazzo fu abbattuto nel 1975 ma il nome rimane a tutt’oggi, nella tradizione orale, per indicare il rione di Barra che è sorto sopra quelle che erano le terre dei Magliano. Si dice ancora: ‘ncoppa ‘a terra ‘e Magliano ed anche: dint’ ‘o palazzo ‘e Magliano.

217. “Roselli Clino, nato ad Esperia (allora, in provincia di Caserta) il 14 marzo 1754; professore di ingegneria nell’Accademia militare. Giustiziato a Napoli il 28 novembre 1799”.

Lo storico Gabriele Monaco [14], oltre ad aggiungere il particolare che il Roselli venne afforcato quel giorno in Piazza Mercato insieme ad altre 7 persone, tutti poi sepolti nella chiesa di S. Eligio, riporta anche l’opinione di altri studiosi secondo i quali Clino Roselli sarebbe in realtà nato proprio a Barra o quantomeno da famiglia barrese.

Ciò è confermato dal fatto che il cognome Roselli è ben attestato nella Barra del Settecento: basti dire che un don Salvatore Roselli fu parroco di Barra dal 1743 al 1761.

Fu questo parroco a dare gli ultimi conforti religiosi a Francesco Solimena, nella sua villa, il 5 aprile del 1747, e a firmarne l’atto di morte, custodito nell’archivio della parrocchia “Ave gratia plena” (AGP, detta popolarmente “di S. Anna”) di Barra.

Fu lui, anche, che nel 1743 operò, in qualità di cappellano della confraternita parrocchiale della SS. Annunziata (= “Ave gratia plena”, AGP) il trasferimento della stessa nella vecchia chiesa di S. Atanasio, che fu per l’occasione restaurata con una nuova facciata (che è sostanzialmente quella che ancora oggi vi si vede) e, in seguito, abbellita con tele del maggior allievo barrese del Solimena, Gian Battista Vela [15].

E’ molto probabile che Clino Roselli fosse un nipote del parroco Salvatore Roselli.

Don Gaetano Morgèra alla Barra

218. Va poi senz’altro menzionato Don Gaetano Morgèra (nato a Forio d’Ischia il 4 gennaio 1770 – morto il 22 ottobre 1799).

“Napoli, 23 ottobre 1799. La Giunta di Stato da’ conto delle sentenze profferite contro i seguenti individui …

Gaetano Morgera, indegno Ministro dell’Altare: per essere stato il più accanito Repubblicano; per essersi ascritto alla Sala Patriottica; per aver vestiti abiti tricolori, e cinta sciabola; per aver usate positive insolenze nel Monastero de’ Frati della Stella di S. Giovanni a Teduccio, con introdursi in esso donne; per aver sparlato ed insinuato agli altri a maledire il Governo delle Sacre Persone; per aver fatta seguire la carcerazione di Donna Rosa Escobar nella Chiesa di S. Giovanni a Teduccio mentre vi era esposto il Venerabile; e per essersi finalmente armato con altri per resistere all’ingresso delle armi di Sua Maestà verso la Barra;

è stato condannato a pieni voti a morir sulle forche, precedente dissacrazione, colla confisca de’ beni, e si è disposta l’esecuzione della sentenza”.  

Questa sentenza venne pronunciata il 20 ottobre 1799 dalla Giunta di Stato di Napoli, su relazione del giudice Angelo di Fiore ed eseguita in Piazza Mercato a Napoli il 22 ottobre. I resti mortali furono inumati nella vicina Congrega del Carmine a Napoli. L’originale della sentenza è custodito presso l’Archivio di Stato di Palermo.

Minichino e Sannino

219. Domenico Ambrasi, trattando de “Il clero di Napoli nel 1799 fra rivoluzione e reazione” nella rivista “Campania Sacra” (vol. 22, anno 1991, pag. 72), scrive:

“Ai liberali francesi inneggiò pure il domenicano Domenico Minichino (“figlio di Gennaro, di anni 38”), che nella nativa Barra celebrò l’innalzamento dell’albero della libertà distribuendo coccarde tricolori e il 22 gennaio 1800 fu condannato, assieme ai complici Nicola Minichino, Arcangelo Sannino (“figlio del fu Sabato, di anni 31”) e Santo Sannino (“sacerdote secolare, figlio del fu Sabato, di anni 32”), all’asportazione fuori da’ Reali domìni…” (Filiazioni de’ rei di Stato condannati dalla Suprema Giunta di Stato … in vita e a tempo, ad essere asportati da’ Reali domìni, Napoli, 1800, ad nomen).

220. Potrebbe allora essere Domenico Minichino il “democratizzatore” (vedi sopra, n°76) della Barra? Ciò non può dirsi con certezza.

Di sicuro, era un frate domenicano, aveva 38 anni, e doveva essere un fraticello abbastanza còlto ed entusiasta, perché si infiammò rapidamente alle nuove idee liberali provenienti dalla Francia rivoluzionaria, anche se (o forse proprio perché…) queste prevedevano, fra l’altro, che i conventi dovessero essere chiusi e i preti potessero sposarsi.

Altrettanto di sicuro, “nella nativa Barra celebrò l’innalzamento dell’albero della libertà distribuendo coccarde tricolori” e gli altri tre (suo fratello Nicola, e poi Arcangelo e Santo Sannino) sono menzionati dopo di lui e qualificati come “suoi complici”.

Questo non è però sufficiente per concludere che fosse proprio lui il “democratizzatore”, anche se al momento non si vede chi altri potesse esserlo. Forse, lo stesso avvocato Nicola Magliano, che partecipò attivamente alle vicende della Repubblica in Napoli, e che aveva proprio alla Barra il suo palazzo?

221. E così pure, di queste due coppie di fratelli Minichino e Sannino, null’altro si riesce a sapere, successivamente alla condanna all’esilio: può darsi che siano morti senza aver potuto rivedere il proprio paese di origine o invece che siano rientrati, con discrezione, durante il decennio francese. 

Emmanuele Mastelloni (1750-1835)

222. Emmanuele Mastelloni nacque a Napoli il 1°gennaio 1750, figlio di Michelangelo e di Anna Brancaccio, come risulta dall’atto di battesimo nella chiesa di S. Liborio alla Carità.

223. Nel 1785 entrò nella Magistratura, ricoprendo vari incarichi, che lo portarono a Salerno, a Chieti, a Lucera, fino a che, nel novembre 1797, venne nominato “avvocato dei poveri” nella Gran Corte criminale di Napoli.

Nel frattempo, già dal 1786 aveva aderito alla Massoneria: nel marzo di quell’anno, il vescovo luterano Friedrich Münter, storico delle religioni e orientalista, giunse dalla Danimarca a Napoli in visita a Gaetano Filangieri; ufficialmente, lo scopo del suo viaggio era solo quello di approfondire lo studio delle antichità italiane, ma in realtà era soprattutto quello di fondare nuove logge massoniche, quelle chiamate di tipo “latomistico”, i cui componenti sceglievano nomi con particolari risonanze politiche e filosofiche; il Mastellone aderì ad una di queste logge, con il nome di Giovanni da Procida: era la stessa loggia di cui faceva parte anche Mario Pagano.

224. Durante la Repubblica napoletana del 1799, come risulta dalle pagine del “Monitore napolitano” di Eleonora Pimentel Fonseca, fu nominato Ministro della Giustizia il 16 febbraio (“Monitore” n°5); Ministro di Giustizia e Polizia il 20 aprile (“Monitore” n°21); ed infine giudice di Cassazione il 25 maggio (“Monitore” n°33).

Si può osservare altresì che nel “Monitore” il suo cognome è riportato una volta come Mastelloni e due volte come Mastellone.

225. Alla caduta della Repubblica, la sua casa venne saccheggiata dalle masse sanfediste, i suoi beni furono confiscati e lui condannato all’esilio da parte della Giunta di Stato.

Fra l’altro, nel palazzo Mastelloni a piazza Carità aveva abitato, insieme con il marito Andrea Sanfelice, la famosa Luisa de Molina Sanfelice, che i borbonici arrestarono trovandola nascosta in una soffitta del palazzo.

226. L’anno successivo (1800), da Marsiglia si rivolse al Ministro della Giustizia francese Abrial, da lui conosciuto durante l’esperienza della Repubblica (vedi sopra, n°66), chiedendo la concessione di una pensione di 100 franchi.

Grazie all’interessamento di Abrial, riprese la sua carriera nella Magistratura: fu nominato, il 9 ottobre 1801, Commissario del governo francese presso la Corte criminale di Torino, di cui divenne in seguito procuratore generale, e poi il 13 settembre 1804 procuratore generale presso la Corte criminale di Parma con il delicato incarico di organizzare i tribunali in quella città. Nel 1807 fu insignito della Legion d’onore. Nel 1808 è a Genova e nel 1811 ad Alessandria.

227. Rientrò a Napoli nel 1814 come Consigliere di Cassazione (con i Francesi) e nel 1817 (con i Borboni) fu confermato come Consigliere della Suprema Corte di giustizia, finché andò in pensione nel 1825. Morì a Napoli il 10 giugno del 1835.

228. A proposito del rapporto esistente fra questo Emmanuele Mastellone e quei Mastellone che possedevano fin dal 1678 una villa-masseria in Barra, vedi il n°169 de “Il periodo del vice-regno spagnolo nel 1600”.

Diego Pignatelli di Monteleone (1774-1818)

229. All’alta nobiltà apparteneva, infine, Diego Pignatelli, figlio del duca Ettore V Pignatelli di Monteleone [16].

I Monteleone, come detto [17], possedevano fra l’altro una grandiosa villa con magnifico giardino in Barra, progressivamente edificata ed ampliata nel corso del Settecento e indicata nella mappa del duca di Noja come “Villa e delizie dei Pignatelli di Monteleone”.

Una ventina d’anni dopo il completamento della villa, si svolsero i drammatici avvenimenti della Repubblica napoletana del 1799, nei quali anche i Pignatelli di Monteleone furono attivamente coinvolti.

230. Il figlio ed erede designato del duca Ettore V, che si chiamava Diego come il suo grande bis-nonno, e portava nel frattempo il titolo di marchese del Vaglio, fu tra coloro che si schierarono per la Repubblica e fece parte del governo provvisorio repubblicano, dall’inizio fino a quando non presentò le sue dimissioni il 24 marzo (furono accolte il 4 aprile).

Diego II Pignatelli di Monteleone

231. Nel 1799, Diego Pignatelli del Vaglio, essendo nato il 12 gennaio 1774, aveva 25 anni. Era sposato dal 9 settembre 1793 con Maria Carmela Caracciolo e ne aveva avuto già 3 figli: Fabrizio, nel 1794; Giuseppe, nel 1795; Francesco, nel 1797. 

Un’altra figlia, di nome Maria Anna, fu concepita evidentemente proprio durante la “primavera rivoluzionaria” del periodo repubblicano, perché nacque il 31 gennaio 1800.     

232. Dopo la caduta della Repubblica, nella repressione che ne seguì, anche il giovane Diego Pignatelli venne condannato a morte, con sentenza del 28 marzo 1800.

233. Le vicende del processo, ed un improvviso incendio divampato nella Villa di famiglia a Barra con la conseguente perdita di molti dipinti della preziosa quadreria, infersero un colpo mortale a suo padre, il duca Ettore, che fu stroncato da un infarto nella notte fra il 26 ed il 27 febbraio 1800, all’età di 59 anni: proprio nella sua Villa di Barra, e proprio mentre era in corso il processo nel quale suo figlio era il principale imputato.

234. In favore di Diego intervenne, però, nientemeno che il neo-eletto papa Pio VII (Bàrnaba Chiaramonti, di Cesena, papa dal 21 marzo 1800 al 20 agosto 1823), il quale scrisse di suo pugno una lettera al re Ferdinando di Borbone, chiedendo per lui la grazia.

Ferdinando IV

Il papa, a sua volta, era stato sollecitato ad intervenire dal cardinale [18] Francesco Maria Pignatelli (Rosarno, 1744 - Roma, 1815), che era fratello minore del duca Ettore V e quindi zio del condannato.

235. Grazie a “raccomandazioni” così influenti, la pena di morte per Diego Pignatelli venne commutata, il 21 aprile 1800, in quella di  prigionìa a vita  nell’isola di Favignana.

Alla Favignana, comunque, il nostro Diego non ci andò mai: fu tradotto, prima, nella fortezza di Messina e in seguito a Porto Ercole ma fu liberato in seguito alla pace di Firenze del marzo 1801 e già il 26 settembre di quell’anno rientrò in possesso di tutti i suoi titoli e beni ereditari.

Maria Carolina, dipinto del Landini, 1787, Museo di Capodimonte

Subito dopo, nell’autunno del 1801, si trasferì a Milano, dove strinse amicizia con il marchese del Gallo, ambasciatore napoletano in Francia, che lo presentò allo stesso Napoleone Bonaparte.

236. Quando i Borboni furono nuovamente cacciati dai Francesi, nel 1806, rientrò a Napoli e divenne Ciambellano alla corte di Giuseppe Bonaparte.

Questi, il 14 novembre 1806, lo inviò con una delegazione di dignitari a Varsavia per porgere al fratello imperatore le sue felicitazioni per le vittoriose battaglie in Prussia.

Napoleone stesso ne propose la candidatura ad ambasciatore del Regno delle due Sicilie a Parigi, incarico che svolse dal 1806 al 1810, venendo alla fine lautamente compensato con una somma complessiva di 180 mila franchi a titolo di … (?!) “ristoro delle finanze familiari” che aveva dovuto trascurare per svolgere il suo incarico di ambasciatore.

Mentre era a Parigi, volle che il suo figlio ed erede Giuseppe frequentasse il Politecnico, istituito da Bonaparte nella capitale francese.

237. Nel 1814 si ritirò a Palermo e, al secondo ritorno dei Borbone, Ferdinando lo nominò “gentiluomo di camera con esercizio”; preferì comunque allontanarsi dalla corte, e morì a Palermo il 14 gennaio 1818, venendo poi sepolto nella chiesa di S. Francesco di Paola a Napoli. 

238. Indubbiamente, quindi, Diego II Pignatelli non può essere considerato un esempio di coerenza rivoluzionaria e repubblicana, diversamente da altri del suo stesso nome, come i Pignatelli (di Stròngoli) Ferdinando e Mario, che finirono invece giustiziati insieme il 30 settembre 1799.

Lui, dal canto suo, al pari di altri suoi illustri avi [19], pensò a conservare e ad accrescere titoli e privilegi aristocratici della sua famiglia, destreggiandosi abilmente nel passaggio da una dinastia regnante all’altra, dopo il “giovanile errore” repubblicano.

Luoghi di Barra dedicati alla memoria del 1799

239. Via Francesco Saverio Granata: porta questo nome la breve strada che, da Via Raffaele Testa (di fronte al Rione Baronessa) sale verso la Via Ferrante Imperato.

Francesco Saverio Granata, per nobiltà d’animo, coerenza in vita ed eroismo in morte, meriterebbe certo ben maggiore memoria.

240. Nato a Rionero in Vùlture (Potenza) il 25 novembre 1748, quinto dei sette figli di Ciriaco Granata e Margherita Laurìa, ebbe nel battesimo il nome di Michele, che cambiò in quello di Francesco Saverio quando vestì l’abito monastico nell’Ordine del Carmelo.

Fu maestro e dottore in teologia, nonché apprezzato poeta, ma predilesse le scienze matematiche e la filosofia, e queste discipline insegnò nei vari “Studi” dell’Ordine carmelitano e, prima nel periodo 1778-86 e poi di nuovo a partire dal 1789, nella Reale Accademia Militare di Napoli, dove fu quindi collega, nell’insegnamento, di Clino Roselli.

241. Lasciata l’Accademia, divenne Superiore Provinciale dei Carmelitani della Provincia di Terra di Lavoro e Basilicata.

242. Nel periodo della Repubblica, la città di Napoli venne suddivisa in 6 “cantòni” (cioè circoscrizioni amministrative) che furono chiamate coi nomi di Sannazaro, Monte Libero, Colle Giannone, Umanità, Sebéto e Masaniello, ed il “padre maestro” Francesco Saverio Granata venne nominato “commissario” responsabile del cantone Sannazaro.

243. Per aver svolto questo ruolo durante la Repubblica, al ritorno dei Borboni fu arrestato nel suo convento di Montesanto, rinchiuso in Castel nuovo e poi impiccato in Piazza Mercato il 12 dicembre 1799, dopo aver subìto la umiliante cerimonia della “spoliazione” dalle vesti sacerdotali, per mano del vescovo di Ugento.

244. Rione Mario Pagano: il rione di Barra al quale si accede dalla Via Giuseppe Mercalli è intitolato al celebre Mario Pagano.

Alcuni Barresi continuano ad indicare quel luogo come “palazzine di Mussolini”, ma si tratta di una denominazione quanto meno impropria. In effetti, al tempo del fascismo e precisamente durante la seconda guerra mondiale, furono costruiti alcuni edifici a due piani, destinati soprattutto ad ospitare famiglie provenienti dal Borgo Loreto, che avevano perduto la casa in seguito ai bombardamenti. Successivamente, negli anni 60 del Novecento, quegli edifici furono però abbattuti e fu costruito l’attuale rione, al quale venne dato appunto il nome di Mario Pagano. 

245. Ma chi fu Mario Pagano? Nel libro di Vincenzo Cuoco, troviamo: “Pagano Francesco Mario, nato a Brienza (Basilicata) l’8 dicembre 1748; avvocato, professore dell’università. Giustiziato a Napoli il 29 ottobre 1799. Il suo nome vale un elogio. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano, voi non rinvenite che l’orme di Pagano, che vi possano servir di guida per raggiungere i voli di Vico”.

246. Filosofo, letterato, avvocato, già nel periodo 1783-85 egli aveva pubblicato i “Saggi politici dei princìpi, progressi e decadenze della società”, nei quali si ispirava tanto all’illuminismo francese quanto alla tradizione filosofica e storica della scuola napoletana (soprattutto a Gian Vincenzo Gravina e Gian Battista Vico), ma divenne famoso in tutta Europa soprattutto per le sue “Considerazioni sul processo criminale” (1787) nelle quali indicava la via di un profondo rinnovamento nella legislazione e nelle procedure in materia di diritto penale.

247. Politicamente molto attivo, fu costretto dal regime borbonico a lasciare sia l’insegnamento universitario sia l’attività di avvocato e successivamente imprigionato.

Dopo un periodo trascorso nel 1798 a Roma e a Milano, tornò a Napoli proprio con l’avvento della Repubblica, nella quale svolse un ruolo di primo piano.

248. Fu, in particolare, il principale estensore del “Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana”, redatto da un comitato del quale facevano parte anche Giuseppe Albanese (1759-1799), il vescovo di Canosa Domenico Forges Davanzati (1742-1810) e Giuseppe Logoteta (1758-1799).

Il “Progetto” era già pronto alla fine del marzo 1799, ma le tempestose ed incalzanti vicende della Repubblica non permisero che si svolgesse la discussione su di esso. Il documento rimase, pertanto, essenzialmente come testimonianza del genio di Pagano e come fonte di ispirazione per le lotte successive.

249. In seguito alla caduta della Repubblica, Mario Pagano venne imprigionato “nella fossa profonda di Castel nuovo” e da lì tratto alla forca in Piazza Mercato il 29 ottobre 1799. Insieme a lui, nello stesso giorno, furono giustiziati il medico Domenico Cirillo ed il poeta Ignazio Ciaia.

Ferdinando di Borbone rientra in Napoli passando per Barra

250. Una volta ultimata l’opera di repressione, Ferdinando IV rientrò personalmente in Napoli dalla Sicilia: fu accolto trionfalmente dai “fedelissimi sudditi” ed entrò in città passando per il ponte della Maddalena, teatro della battaglia finale, ed attraversando fra l’altro anche Barra, come descritto dal gesuita Davide Palomba:

251. “Finalmente, il 26 giugno 1802, riavemmo in mezzo a noi lo stesso Re.

Invece di sbarcare nel porto di Napoli, si diresse alla rada di Portici, e pigliò terra presso la Favorita, ove fu ricevuto dal Principe ereditario, da tutti i Corpi dello Stato, dal Senato e da un popolo immenso accòrsovi da Napoli e da paesi convicini ...

S. Giorgio e la Barra si conservarono alla fede antica. Ora Ferdinando, volendo mostrare loro la sua riconoscenza, quando poi entrò in Napoli, volle andarvi per S. Giorgio e per la Barra ...

Il luogo scelto per la riunione di tutta la comitiva fu S. Giorgio: e così il corteggio reale, in cui facevano principalissima mostra di sé le figure di Ferdinando Borbone e di Fabrizio Ruffo, mosse da quella parrocchia ...

Il Re, quando entrò a cavallo nella capitale, fu sinceramente acclamato, e si fecero archi di trionfo, illuminazioni e gale per tre giorni” [20].

252. Ma questa (prima) restaurazione borbonica non durò davvero a lungo, e solo 4 anni dopo Ferdinando di Borbone dovette nuovamente lasciare il trono: questa volta, non ad una repubblica, ma ad un altro re, francese: Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone.

Qualche considerazione sulla Repubblica del 1799

253. Quando i Francesi, Napoleone imperante, invasero la Spagna (1808) e la Russia (1812), il popolo russo e quello spagnolo, sotto le bandiere del loro re e della loro religione, si mobilitarono in massa contro gli invasori, fino a scacciarli dal loro paese: quella mobilitazione venne e viene storicamente definita “patriottica” e quei pochi Russi e Spagnoli, che allora si schierarono a fianco dei Francesi, definiti per quello che erano cioè “traditori”.

254. Nel nostro caso, invece, vennero e vengono storicamente definiti “patrioti” quelli che combattevano, a fianco dell’esercito straniero invasore, contro le masse del proprio stesso popolo … il quale, per contro, siccome combatteva sotto le bandiere del suo re, della sua religione e della sua patria, viene etichettato come ignorante, “superstizioso” e “arretrato”.

255. In effetti, la causa fondamentale della sconfitta della Repubblica napoletana, ben più che la forza dei suoi avversari, fu indubbiamente la condizione di immaturità storica nella quale si trovava la classe borghese meridionale, ancora in quel periodo.

256. E’ lo stesso Benedetto Croce, che di quella classe si può ritenere espressione e massimo interprete culturale, a riconoscerlo con lucida ed insuperata analisi:

257. “La classe sociale che meglio avrebbe dovuto rispondere al pensiero e all’azione della classe intelligente (cioè, di quella avanguardia culturale e politica che fu artefice della rivoluzione) era, com’è naturale, il medio ceto di professionisti nella capitale e di nuovi proprietari nelle provincie, dal quale in massima parte la classe intellettuale proveniva e di cui continuamente si alimentava e accresceva.

258. E i professionisti furono, infatti, quelli che più alacremente ne accompagnarono gli sforzi; ma la nuova borghesia delle provincie attendeva, come ogni borghesia incipiente, a far denari, ad assorgere economicamente, e perciò le mancava la necessaria elevazione d’animo per appropriarsi un concetto politico, sentirne la bellezza, assumerne i doveri, lavorare, soffrire e sacrificarsi per esso.

259. Troppo era, d’altra parte, impegnata, con tutta la passione ed energia che possedeva, in una duplice lotta: l’una, municipale e intestina e spesso feroce, tra famiglia e famiglia cospicua e ambiziosa dello stesso Comune, del Comune che per secoli era stato l’unica forma di vita pubblica di quelle popolazioni di provincia; l’altra, di sospetto e di difesa contro il contadinàme, che, avverso ai baroni, era anche più avverso ai nuovi proprietari locali, usciti dal suo seno, impinguati delle sue fatiche, più duri verso di esso, come accade ai nuovi arrivati.

260. Sicché questa borghesia... forniva un aiuto assai scarso alla classe intellettuale, disposta com’era più a ricevere che a dare, a prestar sussidio di parole più che di fatti; e, dall’altro canto, coi suoi comportamenti verso il contadinàme, lo rendeva diffidente e ostile ai novatori...

261. Era comune la ritrosìa, anche della gente perbene, ad assumere pubblici uffizi, per paura di compromettersi, per pigrizia, per indifferenza; lodevole e onorevole sembrava infatti la massima, che abbiamo udito ripetere fino ai nostri giorni, che il galantuomo deve farsi i fatti propri, ossia non impacciarsi della cosa pubblica” [21].

262. Fu dunque anzitutto la classe borghese a far mancare l’appoggio alla sua stessa avanguardia politica e culturale; cioè, a Barra, ai vari Minichino, Sannino, Roselli, Magliano, etc. che rimasero ben presto del tutto isolati nel loro stesso ambiente di provenienza.

263. Ma l’Ottocento fu il secolo della borghesia in ascesa, e l’obiettivo del potere, che essa aveva mancato nel 1799, riuscì comunque a raggiungerlo in seguito, anche se mai per forza propria: prima con l’aiuto dell’esercito napoleonico (nel decennio francese, 1805-1815) e poi, attraverso le tappe del 1820-21 e del 1848, con l’annessione del Regno meridionale al Regno sabàudo d’Italia nel 1860.

264. Diversa fu la vicenda storica di quello che Croce chiama con sprezzo “il contadinàme”, che era poi la stragrande maggioranza della popolazione del Regno (e, nella fattispecie, di Barra).

265. I contadini, nelle vicende del 1799, si orientarono, in modo irriflesso ma in definitiva del tutto giusto, in senso anti-borghese: essi, in realtà, avevano tutto da perdere e ben poco da guadagnare nel passare dal dominio degli antichi “signori” aristocratici a quello dei nuovi “padroni” borghesi, che li avrebbero sfruttati in modo molto più intenso e, in più, privati dei tradizionali “usi civici” sulle terre demaniali dei quali essi godevano.

266. Ma la mobilitazione in massa dei contadini, sotto le bandiere del re Borbone e della religione cattolica, riuscì in realtà solo a ritardare di qualche anno l’instaurazione dei nuovi rapporti di proprietà nelle campagne: a partire dal decennio francese, le terre degli antichi feudi, laici ed ecclesiastici, passarono lentamente ma inesorabilmente nelle mani dei nuovi padroni borghesi e le terre demaniali cessarono in gran parte di essere “zona franca” per essere a loro volta divise e privatizzate.

267. Il fenomeno del “brigantaggio” post-unitario (1860-70) fu l’ultimo disperato grido di rivolta dell’antico contadino meridionale. Soffocato quel grido nel sangue dalle baionette dell’esercito piemontese, ai contadini non rimase che prendere silenziosamente, ed in massa, la via dell’emigrazione oltre Oceano.

268. Quelli che rimasero, però, iniziarono a maturare una nuova coscienza dei propri diritti e della propria autonomia come classe. Le loro lotte cominciarono ad essere combattute “in proprio” e non più sotto le bandiere del feudalesimo.

269. Dalle loro file, cominciarono ad uscire gli operai della nascente industria, che furono l’asse portante di una nuova stagione di lotte per il miglioramento complessivo degli strati più poveri della popolazione.

270. Nel 1892 nacque il Partito Socialista dei Lavoratori italiani. Il nostro territorio, come tutta l’area orientale della città, fu interessato alla “Legge speciale per Napoli” n°351 del 1904, che istituì la “zona industriale”… ma già nel 1899, proprio a 100 anni dalla vicenda della repubblica napoletana, era sorta, anche nel Comune di Barra, la “Società operaia di mutuo soccorso”, tuttora esistente.

271. Mentre la classe borghese si avviava ad abbracciare il fascismo, e comunque a venir meno progressivamente a quegli ideali di “liberté, egalité, fraternité” in nome dei quali avevano combattuto i suoi uomini migliori, il movimento autonomo dei lavoratori diventava erede, allo stesso tempo, degli ideali dei rivoluzionari del 1799 e del desiderio di riscatto economico e sociale delle masse contadine che allora li avversarono.

Il decennio francese (1806-1815)

272. Nel contesto della egemonia che esercitava in quel periodo in tutta Europa, Napoleone Bonaparte designò, a governare il regno di Napoli, prima suo fratello Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e poi il celebre Gioacchino Murat (1808-1815), marito di sua sorella Carolina.

273. “Allora... finì veramente il medioevo; allora la classe borghese salì veramente al governo degli stati” (Croce). Venne introdotto anche a Napoli il nuovo Codice di diritto civile (il cosiddetto “Codice napoleonico”) che sanciva, dal punto di vista giuridico, le principali conquiste della Rivoluzione francese, abolendo del tutto le vecchie, intricate e molteplici normative feudali. Infatti, ed in sostanza, il Codice napoleonico faceva della proprietà privata “il cardine della nuova organizzazione economica e sociale” (Lepre).

274. Si compì, cioè, la codifica del potere economico e sociale raggiunto dalla borghesia, anche se mancava ancora ad essa la piena partecipazione politica, impedita dall’assolutismo monarchico: di qui il fatto che le successive rivolte (quella del 1820-21 e quella del 1848) ebbero come principale richiesta la concessione, da parte del re, di una “Costituzione” che, in pratica, doveva appunto garantire tale partecipazione.

275. Le trasformazioni che avvennero in questo cruciale decennio furono, pertanto, numerose e di grande portata, modificando le condizioni di fondo e la vita quotidiana di tutte le classi sociali.

Medaglia in argento del 1806 per la conquista di Napoli da parte di Napoleone (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire

La trasformazione dei rapporti sociali

276. Venne anzitutto formalmente e completamente abolita, dopo più di mille anni di esistenza, la feudalità e la terra divenne una semplice “merce”, soggetta alla libera compra-vendita.

In pratica, ciò significava che gli antichi signori feudali diventavano adesso “liberi proprietari”, in senso borghese, di gran parte dei terreni che già prima amministravano, mentre un’altra parte dovevano cederla definitivamente alla nuova classe dei “galantuomini possidenti”, cioè ai proprietari terrieri di origine non nobile.

277. Le terre che appartenevano al demànio (quindi, ad esempio, anche gran parte di quelle di Barra) e sulle quali i contadini esercitavano in comune, da tempi antichissimi, i cosiddetti “usi civici”, vennero frazionate e vendute a privati.

In teoria, ciò avrebbe dovuto consentire la trasformazione di molti contadini in piccoli e medi proprietari; in pratica, però, la maggior parte di essi non aveva la possibilità economica di comprare le terre, né aveva poi i mezzi per coltivarle e conservarle, per cui, di fatto, le terre demaniali vennero, in gran parte, acquistate anch’esse dai “galantuomini”.

278. Vennero soppressi numerosi conventi e messe in vendita le terre ecclesiastiche. Lo Stato realizzò, in tal modo, entrate cospicue ma le terre ecclesiastiche vennero anch’esse comprate dal solito ceto dei “possidenti”.

279. Come si vede, la trasformazione dei rapporti sociali consistette, in sostanza, nel fatto che una nuova classe sociale, la borghesia, si appropriò della maggior parte delle terre, a danno dell’antica aristocrazia e della Chiesa, ma anche a danno dei contadini poveri.

280. Le splendide promesse degli illuministi, di una società guidata dalla “ragione”, in marcia verso un illimitato “progresso” ed ispirata alla ricerca della “felicità” per l’intero genere umano, cominciavano bensì a concretizzarsi ma, nel far ciò, rivelavano anche la loro precisa e limitata natura di classe.

281. Gli ispirati e magnanimi profeti pre-rivoluzionari, dei quali abbiamo sentito il Croce tessere il commosso elogio [22], erano certamente convinti “in buona fede” di rappresentare gli interessi “dell’umanità” ma, in effetti, le loro idee nascevano dalle aspirazioni di una classe determinata (la borghesia) e, una volta realizzate, andavano a vantaggio di questa sola classe.

Piazza Murat, progetto di sistemazione, Museo San Martino

Trasformazioni conseguenti

282. Ulteriori modifiche, organicamente connesse a questa trasformazione dei rapporti sociali, furono le seguenti:

283. Vennero aboliti i tribunali attraverso i quali i “signori” esercitavano la giurisdizione civile e penale nei rispettivi feudi e furono, per la prima volta, istituiti tribunali statali in tutte le province del regno, per una amministrazione uniforme della giustizia, ma … sulla base, naturalmente, del nuovo Codice borghese. Da adesso in poi, “la giustizia è uguale per tutti” ma … rimane “più uguale”, naturalmente, per quelli che possono permettersi di pagare di più gli avvocati.

284. Vennero abolite le antiche milizie feudali, cioè gli uomini armati al servizio del “signore”, ed istituito un vero e proprio esercito nazionale; ciò richiese, però, l’introduzione della leva obbligatoria per tutti i giovani, fino a quel momento inesistente.

285. Nel 1809, venne introdotta l’anagrafe civile; vale a dire, e si trattava di una novità assoluta che modificava notevolmente il costume, che le nascite, i matrimoni e le morti furono registrati non più solo dalla Chiesa, nei registri parrocchiali, ma anche dallo Stato; ancor più, il matrimonio civile venne separato da quello religioso e fu consentito, dalla legge civile, il divorzio.

286. Venne rifatto completamente e, in alcuni casi, creato ex-novo il catasto, allo scopo evidente di sancire in modo definitivo i nuovi rapporti di proprietà; corrispondentemente, cessò il vecchio sistema delle imposte date in appalto ai privati, sostituito da un sistema di tassazione unico, gestito dallo Stato e basato principalmente sulla cosiddetta “fondiaria”, ossia l’imposta sulla proprietà della terra.

287. Si introdussero, però, anche nuove forme di tassazione, come la cosiddetta “personale”, che gravava su tutti i capi-famiglia, e la cosiddetta “patente”, che tutti gli artigiani dovevano pagare per poter esercitare la loro attività.

288. Tutto questo provocò, evidentemente, anche l’esplodere del problema della “burocrazia” statale (fu, tra l’altro, proprio in quegli anni che venne introdotta la quind’innanzi famosa “carta bollata”).

Medaglia 1806 in ferro fuso per il III corpo d’armata francese in Calabria. Clicca sull'immagine per ingrandire. (cfr. "Il medagliere storico dei Borbone", Collezione Francesco di Rauso, Caserta)

L’abolizione della “democrazia di base”

289. Tuttavia, la novità forse più immediatamente risentita dal popolo fu l’abolizione di quella che si potrebbe chiamare la “democrazia di base”.

290. L’ amministrazione locale, infatti, “per le costituzioni di Federico II di Svevia, perciò sin da tempi antichissimi, affidàvasi ad un Sindaco e due Eletti, scelti dal popolo in così largo parlamento che non altri erano esclusi dal votare fuorché le donne, i fanciulli, i debitori della comunità e gli infami per condanna o per mestiero. Si adunava in certo giorno di estate nella piazza e si facevano le scelte per gride, avvenendo di raro che bisognasse imborsar più nomi per conoscere il preferito” [23].

291. Al posto di questo sistema, forse primitivo ma autenticamente popolare, i francesi introdussero il cosiddetto “decurionato”, ossia una amministrazione locale formata da 10 persone (ma si poteva arrivare anche a 30, secondo il numero degli abitanti).

292. I “decurioni”, però, non erano eletti dal popolo bensì estratti a sorte fra i soli possidenti (di età superiore ai 21 anni), rinnovandone ogni anno la quarta parte.

Il decurionato fissava i bisogni, le entrate e le spese; sceglieva gli impiegati comunali, durabili un anno, e li giudicava al termine del mandato.

293. Il Sindaco, a sua volta, non era né eletto né scelto a sorte, bensì direttamente di nomina governativa, attraverso i Prefetti.

294. In tal modo, la classe borghese si appropriava in esclusiva delle amministrazioni locali ed inoltre, con la nomina governativa dei sindaci, si introduceva una centralizzazione prima inesistente.

Gioacchino Murat, statua di Palazzo Reale Napoli

continua


Note

[1] Filippo Wirtz, di origini svizzere, aveva fatto carriera nell’esercito borbonico, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Dopo la fuga del re in Sicilia, si arruolò “per amore di libertà” nell’esercito repubblicano e morì combattendo strenuamente.

[2] Colletta, op. cit.

[3] Colletta, op. cit.

[4] Giorgio Mancini e gli alunni della III A del Liceo Vittorio Emanuele II – “Alla ricerca della memoria negata”, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1999.

[5] Nato nel 1750; nominato da Pio VII cardinale arcivescovo di Napoli dal 9 agosto 1802; imprigionato durante il Decennio francese, prima a Gaeta e poi nella stessa Francia; morto a Napoli nel 1832.

[6] Citiamo qui il “classico”: Benedetto Croce – “La rivoluzione napoletana del 1799”, più volte ristampato ed attualmente disponibile anche in rete.

[7] Croce, op.cit.

[8] Croce, op.cit.

[9] Croce, op.cit.

[10] Croce, op.cit.

[11] Croce, op.cit.

[12] Croce, op.cit.

[13] Croce, op.cit.

[14] Gabriele Monaco - “Piazza Mercato: sette secoli di storia” - Ed. Athena Mediterranea, Napoli, 1970.

[15] Di Gian Battista Vela (1707-1800) si conserva in particolare la tela raffigurante “La Vergine fra gli angeli” datata 1774 (5).

[16] Vedi n°120 de “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”. 

[17] Vedi nn°100-140 de “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[18] Da non confondere con il quasi omonimo cardinale Francesco Pignatelli (Senise, 1652 – Napoli, 1734), arcivescovo di Napoli dal 1703 al 1734. 

[19] Vedi i nn°105-109 de “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[20] D. Palomba, op. cit.

[21] Croce, op. cit.

[22] Vedi nn°7-11 de “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[23] P. Colletta, op. cit.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, gennaio 2017

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