Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

10.1 Il Periodo Borbonico (1734-1790)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Il nobile plebeo ed il re lazzarone

189. In effetti gli storici, sia liberali sia di parte borbonica, sono concordi nell’imputare al San Nicandro un ruolo piuttosto negativo nella formazione del giovane re, da lui avviato solo alla spensieratezza ed ai divertimenti (per di più, di gusto assai plebeo) ed a rifuggire dall’assumersi direttamente le responsabilità del regno.

190. Se ciò è vero, però, va allora attribuita a lui anche quella singolare “affinità di spirito” tra la monarchia napoletana e le masse plebee che guidò Ferdinando nelle sue scelte successive e che costituì un punto di forza dei Borbone nella loro lotta contro la ascendente classe borghese, come si vide nel 1799 ma anche dopo, fino al brigantaggio post-unitario.

191. Domenico Cattaneo sposò nel 1717 Giulia de Capua, dalla quale ebbe 14 figli, la maggior parte dei quali, però, morti prematuramente o comunque prima di lui. Morì nella sua villa alla Barra il 2 dicembre 1782 e fu sepolto nella chiesa di S.Maria della Stella, assai vicina al suo palazzo napoletano.

192. Nel 1866, dopo l’unità d’Italia, la villa fu restaurata ed ulteriormente abbellita da Giulia Cattaneo Della Volta (1828-1897), discendente del principe Domenico, che affidò i lavori di ampliamento all’architetto Nicola Breglia, come a suo luogo meglio si dirà.

Cenni descrittivi della villa … e cunicoli

193. “L’asse principale del giardino della villa Pignatelli fu adoperato come direttrice per il disegno del giardino della villa del prìncipe di San Nicandro, oggi villa Giulia. Difatti questo giardino … viene curiosamente disposto sul fronte laterale della villa, che guarda verso quella dei Pignatelli di Monteleone, prefigurando una sorta di collegamento ideale fra i due giardini” [45].

194. Questi “collegamenti” non erano solo “ideali”: “Da anziani di Barra, testimoni oculari poiché ne hanno percorso alcuni, ho saputo che dei cunicoli esistevano sotto diverse ville di Barra. Uno si trovava in villa Pignatelli e portava sulla spiaggia di San Giovanni a Teduccio, mentre un altro portava a villa Spinelli. Anche villa San Nicandro aveva la sua galleria sotterranea … che terminava anch’essa sulla spiaggia di San Giovanni a Teduccio” [46].

195. La struttura vanvitelliana originaria, sia della fabbrica sia del giardino, è visibile nella mappa del duca di Noja (1775). Il confronto con la situazione attuale mostra che la villa presenta oggi un impianto a due cortili (invece di uno); un ampio terrazzo a emiciclo (che non c’era) davanti alla facciata principale; una bella serra in vetro e ferro, introdotta da Breglia nel grande parco. Sostanzialmente inalterata è rimasta invece la facciata, a tre ordini, con un alto zoccolo di bugnato, lesene giganti e, al centro di tutto, il fastigio con lo stemma della famiglia.

Luigi Vanvitelli (1700-1773) alla Barra

196. E’ merito di Romano Marino [47] aver “ripescato”, dal lavoro di Franco Strazzullo su “Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca Palatina di Caserta”, i riferimenti dello stesso Luigi Vanvitelli alla costruzione della villa Barrese, nella sua corrispondenza con il fratello Urbano.

Lettera n°752 del 7 giugno 1760: Fui al Casino di S.Nicandro alla Barra, vicino Portici, che vuole adornare un poco. Domenica verrà Collecini (un suo collaboratore) per prendere la pianta e poi subito gli farò il disegno.

Lettera n° 753 dell’8 giugno 1760: Ieri, Collecini e i ragazzi (i suoi figli, Carlo e Pietro) andiédero a prendere le misure della piazza e facciata del Casino di S.Nicandro alla Barra. Collecini fece le misure della facciata e li ragazzi da sé presero la pianta, con la tavoletta pretoriana, della piazza con gli annessi, che è una cosa oltremodo irregolare. In somma, in un dopo pranzo, ànno fatto tutto.

Lettera n° 832 del 25 gennaio 1761: Venne ieri a trovarmi a letto (aveva avuto la febbre per tutto il periodo natalizio) il Duca di Tèrmoli, figlio del Principe di S.Nicandro. Vi era il suo interesse, per l’adornamento del Casino della Barra, ma non ostante ne puotea fare a meno, anche è significante rispetto al padre.

Lettera n°837 del 14 febbraio 1761: Ieri sera fui da S.Nicandro a Palazzo (Reale), il quale mi accolse bene assai. Mi vuole vedere questa sera ancora, per parlarmi di alcuni disegni che vuole fare per la camera del Re di Napoli, da servirsene allorché il Re si sposerà (già si pensa a questo) … (il Re nel 1761 aveva 10 anni di età).

Ieri, non puotendo io a cagione del freddo, mandai Pietro e Fonton (altro suo collaboratore), perché Carlo sta male di flussione pertinace alla gola, a visitare il Casino della Barra di detto Principe Sannicandro, ove trovarono che è piantato l’ornato malissimo. Quale ornato, per altro, dicono che fa una bella vista così tutto bugnato e di pietra, onde vi sarà questa sera lungo discorso sopra del modo agendum con il Duca di Termoli, quale ieri, perché era di Guardia stretta, non gli puotetti dire una sola parola. Guardia stretta significa che il Re sta giocando o altro, e chi è di Guardia stretta sta nella camera appresso a sedere o passeggiando, aspettando di essere chiamato et similia come ogni umilissimo cameriere.

Lettera n°850 del 28 marzo 1761: Fui a piantare con Pietro la facciata del Palazzino di S. Nicandro, ove già con tutta puntualità avevano sbagliato. Si è rimediato tutto.

Lettera n°866 del 2 giugno 1761: Oggi sono stato con mio figlio a vedere il Casino di S.Nicandro, quale ò trovato bastantemente avanzato, e fra poco sarà finito. Domani si farà congresso per la Statua Equestre e per proseguire l’ornato della Piazza, il quale viene magnifico molto e di un’architettura inusitata in questo paese.

Luigi Vanvitelli

Villa Puoti-Salvetti-Torricelli

197. Lo storico di Barra Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889, riferisce: “Quivi… si ammira… la Villa Salvetti-Torricelli (nel cui giardino di fronte alcuni escavi, da non molto praticati, accennavano ad una buona antichità), ove il celebre Basilio Puoti ritornava, come voleva Cicerone, a raccogliersi ed a far parlare sovente il patriottico linguaggio italico ai suoi giovani nell’annesso Teatrino”.

198. Il napoletano Basilio Puoti (1782-1847) fu esponente della corrente letteraria del cosiddetto “purismo”, maestro del grande storico della letteratura italiana Francesco De Sanctis (1817-1883) nonché amico e corrispondente dello stesso Giacomo Leopardi (1798-1837), durante il soggiorno di questi a Napoli.

199. Il “purismo”, iniziato dal Padre Antonio Cesari (1760-1828), veronese, propugnava il ritorno della lingua italiana alle sue “sorgenti” pure ed originali, vale a dire soprattutto ai grandi autori del Trecento (Dante, Petrarca, Boccaccio), sostenendo, contro quel processo di “in-francesimento” linguistico che si era verificato nella seconda metà del Settecento, che era possibile derivare dai grandi classici italiani trecenteschi tutto quanto necessario per creare un linguaggio perfettamente adeguato alle esigenze moderne.

In questo modo, i “puristi” chiamavano la cultura italiana a riprendere coscienza di sé, della propria originalità ed autonomia, svolgendo quindi anche, direttamente o indirettamente, un ruolo “patriottico” di preparazione del Risorgimento politico dell’Italia, della sua unità interna ed indipendenza dallo straniero.

La scuola “purista” visse fino alla fine dell’Ottocento, manifestandosi soprattutto in vivaci polemiche per l’italianità della lingua e con importanti edizioni e ristampe dei testi degli autori italiani antichi.

200. Nella villa Salvetti veniva dunque a villeggiare il Puoti, tenendovi anche lezioni ed incontri con i suoi allievi: tra questi, si veniva educando al culto delle lettere e s’infiammava di ardore patriottico il grande Francesco De Sanctis.

201. Altra persona che ebbe sicuramente corrispondenza con Basilio Puoti, in Barra, fu Giacomo Leopardi. Come è noto, il Leopardi si stabilì a Napoli nell’ottobre 1833, insieme all’amico Antonio Ranieri e alla sorella di lui, Paolina Ranieri.

L’ambiente culturale napoletano di quegli anni era, in generale, abbastanza ostile al poeta; gli fu perciò di conforto, in quell’ultimo periodo della sua vita (Leopardi, come si sa, morì proprio a Napoli, nel corso dell’epidemia di colera del 1837) l’amicizia e corrispondenza che intrattenne con pochi amici, fra i quali, oltre al Poerio e al Troya, vi era anche Basilio Puoti.

202. La villa è epigraficamente intitolata alla famiglia Salvetti, la quale però, essendo questo cognome di origine toscana, molto probabilmente giunse in Barra solo dopo l’unità d’Italia (1860), come a suo luogo si dirà.

Cenni descrittivi della villa

203. La villa Salvetti è ben evidente nella mappa del duca di Noja (1775) ed ha mantenuto sostanzialmente inalterate struttura e planimetria.

L’impianto è ad U; la facciata, a tre piani, costeggia la Via Luigi Martucci e sopra il portale si legge il nome SALVETTI scritto in caratteri bodoniani; i due corpi di fabbrica laterali si affacciano sul cortile interno.

Il giardino storico si trova non in asse con l’ingresso principale bensì sulla destra dell’edificio, dove tuttora si vedono tre antiche palme.

204. Nel periodo successivo al terremoto del 1980, il terreno agricolo retrostante la villa fu espropriato per motivo di pubblica utilità ed in seguito è diventato un parco pubblico adiacente alla villa stessa. I lavori di restauro dell’edificio sono andati assai a rilento. Anche attualmente, sono solo parzialmente completati e la struttura non è ancora agibile.

Villa De Cristofaro

205. Sorge ad angolo fra il Corso Sirena e la Via Gian Battista Vela, in posizione simmetrica rispetto a villa Spinelli.

Visibile già nella mappa del duca di Noja (1775), con ampio cortile ed abbastanza esteso terreno agricolo di pertinenza, versa oggi purtroppo in condizioni di grave decadenza: ridotta ad un malgestito condominio e pesantemente manipolata nella struttura, il suo antico giardino è stato completamente distrutto per far posto a successive abitazioni.

206. Lo storico di Barra Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889, riferisce: “Appena la vanga si abbassa un po’ di soverchio nel giardino annesso alla villa De Cristofaro, veggonsi apparire avvanzi umani …; se si escava negli atrii, tu addirittura vedi accenni di porticati e colonne marmoree …

Nel 1865, sotto l’egregio Sindacato Paracuollo, allorchè si fece il corso sotto stradale all’attuale Via Sirena… nei sterri Sotto le Torri, ossia fra l’edificio delle suore della Carità e quello De Cristofaro, si rinvenne una grande quantità di scheletri umani, ma con monete di lato e la così detta lampada eterna, il che accennerebbe ad epoca pagana, ed in cui usavasi seppellire lungo le vie fuori degli abitati.

In qualunque epoca, il fatto constatato ci assicura che, Sotto le Torri, si trovano depositate larghe vestigia di morte!”

Sembra quindi, come afferma lo stesso Cozzolino, che si possa parlare di un antico cimitero di epoca romana, posto nella zona sottostante il giardino di villa De Cristofaro e l’incrocio tra il Corso Sirena e la Via Gian Battista Vela.

207. Proprio sopra quel cimitero (ma molti secoli dopo, quando di esso si era ormai persa ogni memoria e traccia apparente) “si vide sorgere la villa, che fu poi acquistata in seguito dai baroni De Cristofaro, ove si osservano ancora degli affreschi attribuiti al pennello di Luca Giordano (il celebre artista che abitava nella vicina S. Giorgio a Cremano, nella contrada detta, da lui appunto, Sopra il Pittore)…”

I de Cristofaro, Baroni dell’Ingegno

208. In effetti, i de Cristofaro erano, fin dal periodo del vice-regno spagnolo, una famiglia di avvocati e, come allora si diceva, giure-consulti.

Una famiglia, dunque, di borghesia benestante e in ascesa sociale che, nel periodo del Decennio francese, ricevette il titolo di “baroni dell’ingegno” in persona di Giuseppe de Cristofaro, primo Barone dell’Ingegno con investitura dell’11 novembre 1808; e tale titolo venne poi confermato nella successiva Restaurazione borbonica.

209. Il Cozzolino (vedi sopra, n°207) dice che la villa non fu costruita da loro ma solo “acquistata in seguito dai baroni De Cristofaro”: sembra quindi che quella che vediamo nella mappa del duca di Noja sia una villa, non sappiamo da chi edificata ma comunque affrescata addirittura da Luca Giordano (1634-1705), che poi, dopo il 1808, venne acquistata dai de Cristofaro, Baroni dell’Ingegno.

Ciò è confermato dal fatto che la cappella funebre della famiglia de Cristofaro non si trova all’interno del Palazzo, come si usava nelle famiglie di più antica nobiltà, bensì nel cimitero di Barra, seguendo la legge che entrò in vigore proprio nel Decennio francese: anche attualmente, la si può osservare dall’esterno, imponente ma purtroppo abbandonata, alquanto malridotta e comunque non visitabile.

Giacinto de Cristofaro (1664 ? – 1725): l’avvocato matematico

210. “Il Sig.Giacinto de Cristofaro … esercitando con sommo decoro la professione di avvocato nei Regi Tribunali di questa città (Napoli) … ha voluto accoppiare con la dottrina legale non solo la varia erudizione e la più soda filosofia, ma anco la scienza della Geometria e dell’Analitica premendo i vestigi (= seguendo le orme) del Sig.Bernardo suo padre, eruditissimo giuris-consulto … come ne fa testimonianza, tra l’altre cose, l’opera dottissima ch’ei scrisse sull’origine e progresso dell’Accademia e delle Scienze, con le Vite degli uomini illustri, che fiorirono in tempo di Gioviano Pontano (1429-1503): la quale opera, nell’istesso giorno della sua morte, fu involata (= rubata) dal suo Museo, con perdita non poca delle buone lettere.

211. Egli (Giacinto) oltre le varie scritture di tempo in tempo pubblicate intorno alla professione legale … diede alla luce nell’anno 1700 un trattato della costruzione de’ problemi geometrici col titolo De constructione aequationum che non solo fu applaudito da Geometri dell’Italia, ma della Francia, dell’Inghilterra, dell’Alemagna e di altre parti d’Europa … e da’ Signori della Regale Accademia delle Scienze di Parigi fu, per esso, giudicato singolare nell’Italia e che fosse stato il primo tra noi a scrivere di tal materia [48].

Successivamente, diede alle stampe (Venezia, 1720) anche un trattato “Della dottrina de’triangoli (= la trigonometria)” nella quale “spiega la dottrina de’ triangoli, dai suoi princìpi, con brevità e chiarezza mirabile” [49].

212. Giacinto de Cristofaro (1664 ? - 1725), citato fra gli altri da Benedetto Croce nella sua “Storia del Regno di Napoli”, fu dunque un avvocato nonché importante matematico nella seconda metà del Seicento e nei primi due decenni del Settecento.

213. Negli anni 1688-1697 fu uno degli imputati nel cosiddetto “processo agli ateisti” condotto dall’Inquisizione diocesana di Napoli, al termine del quale fu condannato come “sospetto di eresia” perché avrebbe sostenuto l'esistenza di uomini formati da atomi prima di Adamo, avrebbe negato il potere spirituale della Chiesa e del Papa, negato l'eucarestia, i miracoli, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, la natura divina di Cristo e Dio stesso; avrebbe fatto proprie le tesi luterane del libero esame; e finanche avrebbe giustificato la fornicazione e l'incesto …

Durante il processo, rimase in prigione per circa 6 anni. Alla fine, fu condannato a non abbandonare più la propria casa senza autorizzazione del tribunale nonché ad una più scrupolosa osservanza delle ordinarie pratiche religiose (Messa, confessione, digiuni, preghiera, etc.)

214. Stroncato nella carriera forense e ridotto in difficili condizioni economiche, dedicò l’ultima parte della sua vita agli studi matematici e scientifici, ed infatti le sue importanti opere di geometria analitica (vedi sopra) recano le date del 1700 e del 1720.

215. Tuttavia, dopo la pubblicazione di tali opere, con l'aiuto del P.Celestino Galiani (1681-1753), ottenne nel 1720, nel periodo del vice-regno austriaco, la nomina a “matematico imperiale” e partecipò ai lavori della commissione per l'immissione delle acque del Reno nel Po. Interrotti però nel 1721 tali lavori, tornò a Napoli, dove morì alla fine del 1725.

216. A quanto sembra [50], il de Cristofaro fu semplicemente calunniato e rimase “schiacciato” in un ingranaggio più grande di lui.

In quel periodo, nel vice-regno napoletano, i veri contendenti erano essenzialmente: da una parte, i nobili e l’alto clero, che difendevano il loro potere tradizionale, e dall’altra il movimento di intellettuali borghesi che faceva capo all’avvocato Francesco d’Andrea (1625-1698) e alla Accademia degli Investiganti.

Questi ultimi, sul piano culturale, criticavano l’aristotelismo della tarda scolastica in nome del pensiero “moderno”, diffuso nell’Italia meridionale soprattutto da Tommaso Cornelio (1614-1684) e che aveva come sue bandiere il filosofo francese Renato Cartesio e la riproposizione, sulla base della nuova “scienza sperimentale”, delle antiche teorie atomistiche di Epicuro e Democrito; sul piano sociale e politico, si appoggiavano all’autorità statale (= ai viceré) per cercare di contenere gli abusi di potere della nobiltà e le ingerenze dell’alto clero nella giurisdizione civile.

217. Il de Cristofaro era certamente un simpatizzante di questo movimento di innovatori, ma altrettanto certamente era ben lontano dal sostenere quelle tesi religiose per le quali venne condannato.

Comunque sia, in sua difesa, contro il gesuita Aletino (pseudonimo del P. De Benedictis), scrissero, negli anni del processo, il citato Francesco D’Andrea ed un altro importante personaggio dell’epoca, al quale pure è dedicata oggi una strada di Barra, e cioè Giuseppe Valletta (1636-1714).

218. Successivamente, nell’Ottocento, altro esponente notevole della famiglia fu il domenicano P. Giuseppe de Cristofaro, che visse in un momento particolarmente delicato per la storia del suo Ordine religioso in Barra, come a suo luogo si dirà.

Villa Quaranta-Finizio

219. Nella mappa del duca di Noja (1775) è ben visibile la struttura di questa villa, praticamente addossata alla chiesa ed al convento dei Padri domenicani, all’incrocio del “quadrivium nobile” dove già vi sono la villa Roomer-Bisignano e la villa Filomena.

220. Non è noto chi l’abbia fatta edificare e comunque è importante soprattutto per aver ospitato “il chiarissimo archeologo e l’ispirato epigrafista” Bernardo Quaranta (1796-1867) che vi morì dopo di avervi lungamente dimorato e che fu, in vita, una delle “glorie” internazionali del Regno napoletano nell’Ottocento, come a suo luogo meglio si dirà.

La Barra a fine Settecento: il Paradiso in terra ?!

221. Questa breve panoramica sulle ville che furono edificate o restaurate in Barra nel corso del Settecento può forse bastare a rendere ragione dell’entusiasmo con cui i nostri luoghi erano descritti dagli autori dell’epoca, sia per la loro bellezza paesaggistica e monumentale sia per la fertilità della terra.

222. Basti qui riportare un autore del 1792, che possiamo leggere accostandolo al Giustiniani (1797) già in precedenza citato:

“Alle spalle de’ luoghi finora da noi descritti, vi sono altre deliziose Popolazioni, luoghi che hanno in sé raccolto il contenuto e ‘l piacere.

Bosco regale, Bosco tre Case, la Barra, S.Giorgio a Cremano, Massa di Somma, e tant’altri luoghi, ricchi di superbi Casini e di deliziose Ville, sono degni tutti da esser visti: tutto qui cospira a rendervi la vita tranquilla, ed a far sentire meno gl’incomodi dall’umanità inseparabili: chiunque voglia godere vita men penosa e quieta, qui deve portarsi, poicché tutto spira amenità e gusto: e oltre a ciò, la terra compensa con larga usura le incessanti fatiche del suo colono. Ben si appose chi disse, esser questi luoghi il Paradiso in Terra …

Se ardisce dir, la lingua mia non erra

che sei Tu della Terra il Paradiso

o non si trova Paradiso in Terra” [51].

La definizione di “Paradiso in terra” è certamente eccessiva, ma non si può negare che il Casale della Barra, come i Casali vicini, abbia conosciuto in quell’epoca un periodo di non più visto splendore.

Massòni e Gesuìti

223. Quel ruolo di indiscussa centralità, sul piano economico-sociale come su quello morale, che la Chiesa aveva ereditato dal medioevo e che abbiamo brevemente descritto a suo luogo [52], cominciava ad essere ritenuto non più accettabile dal nuovo ceto intellettuale emergente.

Il nuovo pensiero “illuminista” criticava la religione tradizionale in quanto veicolo di oscurantismo, di ignoranza superstiziosa, di oppressione delle coscienze e strumento di potere dell’aristocrazia e dell’alto clero feudale.

224. La classe borghese, man mano che andava acquistando maggiore consistenza numerica, peso sociale e consapevolezza ideologica, tendeva sempre più ad allontanarsi dall’istituzione ecclesiastica.

Anche la nobiltà, pur formalmente religiosa, tendeva in realtà a vivere in modo “libertino” la propria vita privata e, nella misura in cui si dedicava agli studi, apprendeva anch’essa le idee dei nuovi filosofi.

225. “La nuova istituzione della Massoneria, che stringeva col suo vincolo uomini di tutte le condizioni sociali, riunendoli nel comune sentimento dell’umanità, non poteva non essere ben accolta dai componenti di questa classe intellettuale; e, quantunque per breve tempo proibita da re Carlo di Borbone, ripigliò poi a tessere le sue fila e fondò in Napoli parecchie logge. Ogni istituzione ha il suo bel tempo, la sua gioventù; e la massoneria, adesso ambigua o intrigante ed insulsa, allora era schietta ed ingenua, e rispondeva alla nuova religione della Ragione, le dava una sorta di mitologia, di cerimoniale e di culto e si rendeva perfino accetta alla società elegante e mondana”[53].

Suo capo notorio ed indiscusso a Napoli fu, in quel periodo, il famoso Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero (1710-1771) e, per un certo tempo, persino la regina Maria Carolina ne fece parte e la protesse.

Nel 1738, il papa Clemente XII (1730-1740) condannò la massoneria con la Bolla “In eminenti” e la condanna fu poi rinnovata dal suo successore Benedetto XIV (1740-1758), con la Bolla “Providas”, nel 1751.

226. Grandi antagonisti della massoneria furono soprattutto i Gesuiti: essi, che avevano fino ad allora tradizionalmente svolto il ruolo di “consiglieri del Principe”, videro in quel secolo massòni e nuovi filosofi iniziare a competere con loro proprio nello svolgimento di quel ruolo (vedi sopra, n°71 e nn°173-176).

La lotta per l’egemonia culturale fu aspra e multiforme ma, a partire dalla metà del Settecento, i Gesuiti cominciarono ad incassare un colpo dietro l’altro: sotto il pontificato di Clemente XIII (1758-1769), essi furono espulsi prima dal Portogallo (1759); poi dalla Francia (1764); quindi dalla Spagna (1767), ad opera proprio di Carlo di Borbone; ed in ultimo anche da Parma e dal regno di Napoli (editto del 31 ottobre 1767).

Nel 1773, si giunse infine, a firma del papa Clemente XIV (1769-1774), alla soppressione stessa della Compagnia di Gesù. Si può notare qui che, paradossalmente, i gesuiti superstiti furono accolti proprio da alcuni dei loro tradizionali “nemici” religiosi e politici, e cioè la Russia (ortodossa) e la Prussia (protestante), fino a quando la Chiesa cattolica non ricostituì la Compagnia nel 1814, al tempo della restaurazione post-napoleonica.

Chiesa e Stato nella Napoli del Settecento

227. A Napoli, tutto il periodo del Tanucci fu contrassegnato “da una guerra incessante ed acre contro la potenza economica e politica del clero” (Croce).

Già nel 1723 Pietro Giannone (1676-1748), con la pubblicazione della sua “Istoria civile del regno di Napoli”, aveva mostrato l’origine “umana, fin troppo umana” (e non divina, come si pretendeva) di quel potere temporale, ma aveva pagato la divulgazione delle sue idee con una accanita persecuzione da parte dell’autorità ecclesiastica, che gli apparecchiò 10 anni di esilio, seguìti da 12 anni di prigionìa e dalla morte nelle carceri di Torino.

Appena una ventina di anni dopo, però, gli eredi del suo pensiero potevano trattare da pari a pari con la stessa Curia pontificia.

228. Nel 1741, fu stipulato infatti un nuovo Concordato fra la Santa Sede ed il Regno di Napoli, in virtù del quale:

- si separarono i beni ecclesiastici da quelli personali dei chierici, fino ad allora confusi;

- si cominciarono a tassare le proprietà ecclesiastiche, fino ad allora del tutto immuni (i vecchi possedimenti pagarono da allora la metà dei tributi ordinari; i nuovi, pagarono per intero);

- si pose un freno allo straripante numero di preti e di religiosi [54], limitandolo a 10 per ogni 1000 abitanti;

- si restrinse il cosiddetto “foro ecclesiastico”, cioè il privilegio che avevano i chierici di non essere giudicati dalla giustizia ordinaria, nemmeno per i reati comuni, e di poter anzi estendere questo privilegio anche ad altri, mediante apposite “patenti”, che davano diritto anche all’esenzione fiscale;

- si circoscrisse il “diritto di asilo”, di cui godevano i luoghi religiosi, solo a pochi e lievi reati.

229. In seguito, nel 1746, fu radicalmente abolito nel regno il tribunale del S. Uffizio; si procedette alla soppressione di parecchi conventi, specie nelle provincie; si limitarono e poi si abolirono del tutto le “decime” ecclesiastiche (cioè le tasse imposte dalla Chiesa); si rivendicarono allo Stato le cause matrimoniali... fino all’ultimo atto simbolico, che fu l’abolizione nel 1776 del cosiddetto “omaggio della chinea”, ossia dell’offerta di una cavalla bianca, recante in groppa una cospicua somma in danaro, che il 28 giugno (vigilia della festa dei SS.Pietro e Paolo) di ogni anno, fin dai tempi di Carlo I d’Angiò [55], il re di Napoli faceva al Pontefice, come segno del vassallaggio del regno verso la Santa Sede.

Chiesa e popolo nella Napoli del Settecento

230. In questo contesto, di allontanamento degli intellettuali e di restrizioni istituzionali, la Chiesa si impegnò soprattutto a rinsaldare sempre di più il suo legame con quei ceti popolari che costituivano la vasta maggioranza della popolazione del regno: l’immensa plebe della capitale, i contadini, i pastori, i piccoli commercianti ed artigiani, i servitori, etc.

Le grandi masse trovavano nella Chiesa quell’aiuto di opere benefiche che ne alleviavano la secolare miseria e, nello stesso tempo, una concezione del mondo che, offrendo la speranza di una salvezza dell’anima dopo la morte, consentiva comunque di affrontare con maggiore serenità e rassegnazione le sofferenze della vita.

Di fatto, le parrocchie esercitavano la cura d’anime dei ceti popolari, mentre sfuggivano ad esse in gran parte i ceti borghesi e quasi del tutto quello dei nobili, protetti com’erano dagli oratorii e dai cappellani domestici e quindi dall’indipendenza pressocché giuridica del loro comportamento religioso.

231. Maggiore agilità organizzativa avevano però gli Ordini religiosi, che furono quindi gli operatori più dinamici della pastorale popolare, attraverso le “missioni” itineranti che tenevano nei villaggi e nelle città.

Religiosi come il gesuita Francesco Pepe (1684-1759) o il domenicano Gregorio Maria Rocco (1700-1782) furono amatissimi dal popolo e tenuti in concetto di santità. Svolgevano il ruolo di trascinanti predicatori, di confessori e consiglieri dei sovrani, di animatori delle iniziative benefiche a vantaggio dei più poveri e... di forte opposizione alla diffusione delle nuove idee illuministiche.

Non mancarono, peraltro, anche preti e religiosi di formazione “illuministica”: basti ricordare il già citato Antonio Genovesi (1713-1769), ritenuto un maestro da tutti gli illuministi napoletani.

Il Padre Rocco al Ponte della Maddalena (la carestia del 1763-64)

232. Il domenicano Gregorio Maria Rocco (popolarmente, Padre Rocco) fu, in particolare, vicino alla popolazione del Casale della Barra in occasione della carestia negli anni 1763-1764, descritta, fra gli altri, dal Palomba [56]:

“La fame dunque crebbe in modo straordinario, ed in nessun anno fu tanto desolante, come nel 1764. Nelle vicinanze di Napoli, già molti di erbe si cibavano.

In Napoli, le stesse case de’ Signori penuriavano siffattamente di pane, che lo andavano chiedendo agli amici e Religiosi: e la cosa giunse a tale, che il principe di Francavilla, quantunque seguitasse in tal tempo a dare il suo lauto pranzo, pure gl’invitati erano pregati a portarsi il pane…

La carestia del 1591 non era stata sì spaventosa, malgrado più poveri tempi. Il popolo gridava, le pattuglie appena il contenevano; i domestici dei Signori, che si davano ad ogni birbantata onde provvedere congiunti ed amici, maggiormente lo irritavano…

E pure vi ebbe di più, perchè la carestia si trasse dietro il consueto suo effetto, quale è la epidemia… Cadéan infermi 800 al giorno, e vi fu un momento che giunsero a 3.000. La epidemia nè per venti nè per piogge cedeva. Ai 21 luglio eran già morti 5.000. Grazie però a Dio, in agosto, anche quest’altro flagello cominciò a scemare”.

233. In quella drammatica circostanza, dunque (prosegue il Palomba), il Padre Rocco…“radunò tutta la gente malata, e perchè gli ospedali eran pieni zeppi, ne aprì altri: ma specialmente al Ponte della Maddalena fece subito innalzare dei baracconi per uomini e donne e ragazzi, tutti divisi e ben assistiti.

In questi li teneva, e come venivano a molti insieme, così egli li faceva spogliare, radere ben bene da capo a piedi, e lavare con acqua di mare; dopo di che, li vestiva con camicia ed abito nuovo, facendo bruciare gli abiti vecchi, e poi dava loro a bere brodo di trippa, e li purgava bene, e subito dava loro a mangiar buona minestra e buon pane bruno; e così ne salvò molte migliaia”.

I Gesuiti a Barra nel Settecento

234. Si è detto a suo luogo [57] che all’origine della confraternita laicale “Ave Gratia Plena” e dello sviluppo della devozione verso S. Anna in Barra troviamo la figura del gesuita Tommaso Auriemma.

Le missioni popolari dei gesuiti continuarono, per tutto il Seicento ed il Settecento, a segnare profondamente la vita del Casale, anche grazie alla forte personalità dei religiosi che vi furono in particolare impegnati.

S. Francesco de Geronimo (1642-1716) ed il P. Francesco Pepe [58] furono, l’uno dopo l’altro, “prefetti” delle missioni proprie della Compagnia.

235. “Avevano perciò l’obbligo di mettersi ogni mese in giro per invitare il popolo, non solo quello della città ma anche l’altro dei Casali più vicini, alla Comunione generale che tutte le terze domeniche si faceva nella chiesa del Gesù Nuovo.

E le genti vi accorrevano in processione cantando laudi al Signore, in numero così grande che si contarono talora sino a 15-20 mila tra uomini e donne, di ogni età e condizione…

In questa ricorrenza dell’invito mensile, quei buoni Padri prendevano occasione di fare, come in tutti gli altri Casali più vicini a Napoli così anche nel nostro, delle prediche più o meno in numero secondo che fossero più o meno gli abitanti e maggiore o minore il loro bisogno” [59].

236. Si può qui ricordare che le Missioni popolari e i “Ritiri di perseveranza” predicati dai Padri gesuiti continuarono a tenersi in Barra fino ad oltre la metà del Novecento, in pratica fino al Concilio Vaticano II (1962-1965).

Il Santo del secolo: S. Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787)

237. La personalità missionaria più caratteristica del Settecento napoletano fu tuttavia quella di S. Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787).

Colui che è stato giustamente definito “il più napoletano dei Santi e il più Santo dei napoletani” influenzò, in maniera nuova e determinante, tutta la spiritualità cattolica dell’epoca e, nel corso della sua lunga vita di apostolo, non mancò di essere presente anche a Barra, come qui di seguito più in dettaglio si dirà.

238. Alfonso Maria de’ Liguori nacque a Marianella di Napoli, il 27 settembre 1696, in una famiglia napoletana di antica e non decaduta nobiltà, da Giuseppe e da Caterina Anna Cavalieri.

Già nel 1708 si iscrisse alla Università di Napoli e, a soli 16 anni, conseguì la laurea “in utroque”, ossia in diritto sia canonico che civile, divenendo presto uno dei giovani avvocati di maggiore prestigio nei Tribunali cittadini.

Un clamoroso processo in materia di diritto feudale, da lui perduto per interferenze politiche e corruzione dei giudici, fu l’occasione che lo spinse a cambiare definitivamente vita.

239. Nel 1723 abbandonò l’avvocatura ed entrò nel Seminario diocesano: fu ordinato prete nel 1726, a 30 anni di età. Rinunciava così ai diritti di primogenitura (era il primo di 8 figli), con annessi titolo, ricchezze e prestigio mondano, per dedicarsi interamente a Dio ed ai poveri.

240. Lavorò dapprima nel mondo della plebe napoletana (i famosi “lazzari”) istituendo le cosiddette “cappelle seròtine”.

241. In seguito, nel 1732, fondò a Scala (Salerno) l’Ordine dei “Missionari Redentoristi” che, oltre ai tre voti tradizionali di povertà, castità e obbedienza, ne assumevano anche altri due, e cioè:

1)    - dare la precedenza assoluta, nell’attività pastorale, ai più poveri ed abbandonati, in concreto soprattutto i contadini delle provincie più remote del Regno di Napoli;

2)    - non accettare alcuna promozione o titolo ufficiale all’interno della Chiesa, a meno che non richiesto dal Papa in virtù dell’obbedienza.

242. Si dedicò quindi a lungo alle missioni fra i contadini, finchè il Papa Clemente XIII non lo volle vescovo di S. Agata de’ Goti, ove rimase per tredici anni (1762-1775), esercitando un fervoroso ministero.

Riuscì infine ad ottenere l’esonero dal governo di quella diocesi e si ritirò a Nocera de’ Pagani, dove morì, a quasi 91 anni di età, il 1° agosto 1787.

243. Fu uomo straordinariamente colto e di multiforme intelligenza. La sua attività principale fu naturalmente quella di predicatore, formatore delle coscienze e confessore, ma fu anche discreto pittore e musicista. Da giovane aristocratico, aveva imparato a suonare il cembalo, e compose in seguito inni e canzoni tuttora notissime, come “Tu scendi dalle stelle” o “Quanno nascette ninno”.

Scrisse numerosissime opere di teologia e di pietà (si contano circa 111 suoi scritti, fra maggiori e minori): le più famose, oltre alla grande “Teologia morale”, sono “La pratica di amar Gesù Cristo”, “Le glorie di Maria”, “L’apparecchio alla morte”, gli opuscoli delle “Massime eterne” e delle “Visite al SS. Sacramento ed a Maria SS. ma” e la raccolta delle 50 “Canzoncine” da lui composte.

Fu proclamato Santo nel 1839; dottore della Chiesa universale (“doctor zelantissimus”) nel 1871; patrono di tutti i confessori e moralisti nel 1950.

244. I Padri “Redentoristi” (in sigla, C. Ss. R. = Congregazione del Santissimo Redentore), da lui fondati, sono attualmente circa 6.500, diffusi in ogni parte del mondo. Il nome della Congregazione si ispira, in particolare, al versetto di un salmo biblico (Sal 130, 7) che dice: “presso il Signore è la misericordia e grande, presso di Lui, è la redenzione” (nella versione latina: “copiòsa, àpud Eum, redèmptio”).

S. Alfonso Maria de’ Liguori in Largo S. Aniello (estate 1741)

245. Nel febbraio del 1741, l’arcivescovo di Napoli, card. Giuseppe Spinelli dei marchesi di Fuscaldo (1735-1754), nello spirito della prima lettera enciclica scritta dal nuovo papa Benedetto XIV (1740-1758) e del giubileo straordinario da questi indetto, stabilì la “Santa Visita” canonica di tutta la diocesi, decidendo di accompagnarla con una grande campagna missionaria.

246. Alla testa di questa missione straordinaria, che doveva coinvolgere tutte le parrocchie della città e dei casali, il cardinale volle mettere colui che già allora era unanimemente riconosciuto come “il primo missionario del regno” e cioè Don Alfonso Maria de’ Liguori.

Alfonso avrebbe avuto ampia facoltà di scegliersi i suoi principali collaboratori, oltre che fra i suoi “redentoristi”, in tutto il clero della diocesi e soprattutto avrebbe dovuto condurre la campagna missionaria secondo la “nuova” metodologia da lui stesso già ampiamente sperimentata.

247. In tutta umiltà, Alfonso cercò sulle prime di sottrarsi a questo incarico, adducendo che la diocesi di Napoli era già ben provvista di clero e di missionari qualificati, laddove vi erano tante altre diocesi nel regno estremamente carenti di “operatori” e tanti paesi e villaggi quasi del tutto abbandonati.

Il cardinale, però, non volle sentire ragioni (“Anche la mia diocesi è popolata da 120 mila e più anime, e queste anche disperse in tante terre e casali”) e, designando Alfonso come “prefetto” delle missioni, gli assegnò, come “quartier generale” dal quale dirigere tutte le operazioni, una casetta “nella Barra, nel luogo detto S. Agnello … affinché di volta in volta potessero i missionarj ritirarsi, se volevano, e ristorarsi dalle sofferte fatighe” [60].

248. Si tratta proprio di quella chiesetta dedicata a S. Aniello, con annesso edificio, che tuttora si può vedere, naturalmente da allora più volte restaurata, nella piccola piazza detta anch’essa “di S. Aniello”, situata sul confine fra Barra e S.Giorgio a Cremano.

249. Così, la domenica 14 maggio 1741 iniziò il lungo giro missionario, che sarebbe durato 5 anni. S. Alfonso ed il suo gruppo si recarono prima nelle tre parrocchie di Afragola (allora, circa 11 mila abitanti) e poi, il 28 maggio, nel vicino villaggio di Casalnuovo (1.500 abitanti), per altri 15 giorni.

250. Si arrivò così all’11 giugno 1741 ed alla usuale pausa estiva: Alfonso, dimessi per il momento gli altri missionari, si ritirò nella casetta di S. Aniello insieme agli altri due redentoristi, che erano Gennaro Sarnelli e Andrea Villani.

Il Palomba precisa: “Due stanze abitò il Santo durante il tempo che fu quivi: una per prendervi riposo, un’altra per trattarvi affari.

Quale delle due fosse più disagiata, non saprei deciderlo. Tanto la prima, quanto la seconda, possono vedersi anche ora; ma è una sventura ben dispiacevole che neppure adesso, che tutto quell’edifizio si è come rifatto da capo, vi abbian posto un qualche segno il quale ricordi l’ospite che le fece reverende con la sua presenza.

Si ha per tradizione che S. Alfonso, quando era colà, e vi passavano, cantando canzoni profane, specialmente i festaiuoli di Scafati, si affacciava e li esortava a cantarne piuttosto alcuna della Madonna” [61].

“Se, fuori di casa, voleva Alfonso i suoi missionari altrettanti apostoli, in casa li voleva tanti romìti” [62].

Quell’estate del 1741 in S. Aniello, per il fervoroso gruppetto di missionari, trascorse dunque nella preghiera comunitaria (che prevedeva la recita dell’ “Ufficio”, più tre meditazioni al giorno: mattino, pomeriggio e sera); nello studio dei “casi” di morale, di missione, di dogmatica e di S. Scrittura; nel lavoro e nella preghiera personale; ed infine, nel servizio delle Messe e della cappella, che era naturalmente aperta ai fedeli e non veniva mai lasciata vuota per le confessioni e le prediche. “E nei giorni di festa, o andava, o destinava i suoi, ne’ sobborghi vicini, per altre opere apostoliche e per altri esercizj in sollievo delle anime” [63].

Il P. Paolo Càfaro entra fra i Redentoristi a Barra

251. Il redentorista Antonio Maria Tannoia così racconta l’episodio, che si svolse a Barra proprio in quei giorni, relativo alla vita del P. Paolo Càfaro (1707-1753), una “pietra angolare” della Congregazione redentorista:

“Era da gran tempo, che stava in forse di ritirarsi in Congregazione il Sacerdote D. Paolo Cafaro, Parroco in quel tempo nella Chiesa di S. Pietro nella Cava. Questi, quanto era dotto in ogni facoltà, altrettanto era tutto zelo per la salvezza delle Anime. 252. Stando Alfonso nella Barra, ivi andò a ritrovarlo il Cafaro, e vedendo il gran bene, che vi operava, effettuò la sua risoluzione. Fu il Cafaro l'ultima pietra angolare della nostra Congregazione ... a’ 25 Ottobre di quest’ Anno 1741 fu ricevuto Novizio il Cafaro: ma benchè Novizio, lo trattenne Alfonso nella Barra, esercitandolo in questa Parrocchia in varie Opere Apostoliche, ed in seguito ancora nelle Missioni [64].

La missione di S. Alfonso a Barra (settembre 1741)

253. A settembre 1741, si riprese il grande giro missionario e Barra fu il primo Casale ad essere coinvolto (seguirono poi, nell’ordine, S. Sebastiano, Boscotrecase, S. Giorgio a Cremano, Resina, S. Caterina, S. Maria a Pugliano, S. Giovanni a Teduccio, Ponticelli e Pollena, fino alla nuova pausa del giugno 1742).

La missione di S. Alfonso e del suo gruppo a Barra iniziò la domenica 10 settembre 1741. Barra era allora un casale di circa 4.000 abitanti, dotato di una sola parrocchia (la “Ave Gratia Plena”, con di fronte la vecchia chiesetta di S. Atanasio) ma con numerose altre chiese e cappelle molto attivamente frequentate (le chiese dei due conventi, francescano e domenicano, l’Oliva, S. Maria di Costantinopoli, S. Rosa, S. Maria del Pozzo, etc.), che furono anch’esse certamente raggiunte dai missionari, perchè era principio inderogabile di S.Alfonso che si andasse ovunque, anche nei “luoghetti” più sperduti.

Come si svolse questa storica missione e quali frutti, in particolare, essa produsse nella vita del Casale? E’ possibile tentare una risposta, sia sulla base di ciò che si conosce in generale circa lo svolgimento delle missioni in quel periodo, sia sulla base della relazione conclusiva sulla missione napoletana, redatta da uno dei partecipanti, Don Matteo Testa.

Gli elementi comuni

254. Vi erano anzitutto le caratteristiche allora comuni a tutte le missioni: i missionari erano inviati direttamente dal vescovo; alloggiavano di solito tutti insieme in paese in una casa comune; non erano pagati e non accettavano ricompense di alcun tipo, per non gravare sugli abitanti.

La missione prevedeva, all’inizio, le “esortazioni notturne” [65] per spronare tutti gli abitanti del paese a partecipare alle funzioni e, nei giorni successivi, si articolava in: incontri comuni, con predica per tutto il popolo, ed incontri particolari per le varie categorie (uomini, donne, giovani, bambini; e poi per i nobili, per i notabili, per i vari “mestieri”, etc.); confessione individuale del maggior numero di persone (in pratica, tutto il paese: i missionari confessavano anche 7-8 ore al giorno); pratiche penitenziali di vario tipo; celebrazioni solenni delle Messe con comunione generale, etc.

255. Oltre a questi elementi, che erano appunto comuni alle missioni di tutti gli Ordini religiosi, S.Alfonso ne introdusse però degli altri, tipici della sua spiritualità.

Lo stile

256. Innanzitutto, egli sapeva bene che la vera missione consisteva, prima di ogni altra cosa, nell’esempio di vita, personale e comunitaria, dei missionari.

Non era certo un fautore della infelice massima: “Fate ciò che il prete dice, ma non fate ciò che il prete fa”; al contrario, “aveva per massima che i popoli si attengono più a quello che veggono che a quello che ascoltano” (Tannoia).

Prestava pertanto grande attenzione allo “stile di vita” dei missionari, in particolare alla cavalcatura che usavano ed al cibo che mangiavano: erano questi i segni che maggiormente colpivano il popolo, “i primi di cui esso si informava, i primi sui quali intesseva commenti che facevano subito il giro del paese, per il meglio o per il peggio”[66].

S.Alfonso ed i suoi andavano dunque a piedi e, per gli spostamenti più lunghi, con l’asinello (mai a cavallo o in carrozza!); per quelli che non sapevano cavalcare l’asinello, s’ adoperava un rustico calesse.

Per vitto, solo “minestra, e lesso, e di carne comunale”. “Non pesci di costo, non polli, non selvaggìne, nè lavori di pasta; non mancavano di questi regali, ma tutto si mandava indietro, ancorché talvolta si trovassero a pranzo illustri Canonici napoletani o altre persone di rango...” (Tannoia).

257. Per dormire, Alfonso usava personalmente il saccone di paglia, come i contadini, anche se mai lo impose per obbligo ai suoi compagni di missione.

Anche il vestito era sempre il più povero e dimesso possibile. Dopo aver ascoltato la predica di apertura di una missione, fatta da quello che appariva come il più “miserabile” del gruppo, i contadini si dissero l’un l’altro: “Se il cuoco predica così, che sarà degli altri!” E’ inutile aggiungere che quel “cuoco miserabile” era proprio don Alfonso Maria de’ Liguori, il “primo missionario del Regno” e “prefetto” della missione napoletana.

Inoltre, e soprattutto.... “preghiera e macerazioni, digiuni e veglie notturne, pazienza e bontà, lavoro e povertà”... insomma, “seguitare l’esempio di Gesù Cristo”.

I contenuti

258. “Iddio ci vuole tutti salvi e l’eternità dannata non è riserbata che ai soli ostinati”.

S. Alfonso si opponeva decisamente al diffondersi, all’interno della Chiesa cattolica, della tendenza “giansenistica”, secondo la quale la salvezza eterna nel paradiso sarebbe limitata a pochi eletti, pre-destinati da Dio fin da tutta l’eternità, mentre la grande massa dei fedeli sarebbe irrimediabilmente perduta.

Ripristinando correttamente l’impostazione teologica dell’altro grande Santo “mediterraneo” e “solare”, S. Tommaso d’Aquino, Alfonso privilegiava invece l’amore e la misericordia di Dio.

259. “Nelle prediche” scriveva S.Alfonso “ordinariamente non si parla d’altro che de’ 4 novissimi (e cioè: morte, giudizio di Dio, inferno e paradiso) e di altre materie di spavento... e da taluni poco si tratta, se non di passaggio, dell’amore che Iddio ci porta e dell’obbligo che abbiamo noi di amarlo... ma bisogna persuadersi che le conversioni fatte per lo solo timore de’ castighi divini son di poca durata: durano solamente quanto dura la forza di quel timore concepito...; se non entra nel cuore il santo amore di Dio, difficilmente si persevererà... Quindi, l’impegno principale del predicatore nella missione ha da esser questo: lasciare, in ogni predica che fa, i suoi uditori infiammati del santo amore”.

260. I temi principali da trattare nella predicazione erano quindi, per Alfonso: l’amore manifestato da Gesù Cristo morendo per noi sulla croce; la devozione alla Madre di Dio, affinchè ci ottenga la grazia di perseverare in una vita santa; la necessità della meditazione e della preghiera quotidiana e quella di ricorrere spesso (almeno ogni settimana, dice Alfonso) ai sacramenti della confessione e della comunione; la fuga dalle occasioni cattive; la rovina progressiva delle anime che non si confessano o si confessano male.

261. Inoltre “non voleva, Alfonso, che le sue missioni fossero state, come si suol dire, un fuoco di paglia” [67]: per lui, non contava tanto la conversione quanto la perseveranza in essa, perchè “incìpere multòrum est, perseveràre paucòrum” (= l’iniziare è di molti, il perseverare di pochi) ma, d’altra parte, solo “chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” [68].

La “vita devota” e le “rinnovazioni di spirito”

262. Proprio per favorire la perseveranza nell’amore di Dio, egli introduceva, in tutte le parrocchie nelle quali si svolgevano le sue missioni, quella che chiamava la “vita divòta” e che è uno dei tratti più caratteristici della spiritualità da lui suscitata.

La “vita divòta” non è altro che la vita comune di orazione quotidiana, in chiesa e nella propria casa, di un intero paese o villaggio: ogni mattina, prima dell’alba e prima di recarsi al lavoro nei campi, l’intero paese si riuniva in chiesa per ascoltare dal parroco la lettura di un “punto” di meditazione (tratto di solito proprio dalle opere di Alfonso o di Gennaro Sarnelli), soprattutto sulla Passione di Cristo, e poi la Messa; ogni sera, al ritorno dai campi, nuova riunione in chiesa, per la “visita al SS. Sacramento” e alla Madonna; infine, dopo la cena, ognuno nella propria casa, recita del rosario in famiglia ed esame di coscienza sulla giornata trascorsa.

Per più di due secoli, fino alla prima metà del Novecento, la vita cristiana nell’Italia meridionale, ma non solo, è stata mantenuta in ogni più piccolo paese o villaggio, grazie al sostegno di una pratica personale e comunitaria così coinvolgente e costante.

263. Sempre per favorire la perseveranza nell’amore di Dio, S. Alfonso inventò la cosiddetta “rinnovazione di spirito”: al massimo dopo 3-4 mesi dalla conclusione della missione, un gruppo più ristretto di missionari ritornava per alcuni giorni nel paese che ne era stato interessato e qui “infervorava i buoni ad odiar il peccato, rialzava qualche anima ricaduta, e raccoglieva alle volte qualche spica che, in tempo della messe, o era immatura o scappata si vide ai mietitori evangelici” [69].

Anche qui va detto che, per più di due secoli, le “rinnovazioni di spirito” sono state uno dei tratti più tipici ed apprezzati dell’apostolato dei Redentoristi.

I metodi

264. Se i contenuti erano alquanto diversi da quelli prevalenti soprattutto nel Seicento, altrettanto differente era anche il modo di porgere questi contenuti.

I predicatori tradizionali avevano elaborato uno stile fortemente “teatrale”. Si predicava dall’alto del pulpito, che sovrastava la folla raccolta nella navata della chiesa; non essendoci ovviamente i microfoni, essendo grande il concorso di popolo ed essendo gli uditori in gran parte contadini analfabeti e poco abituati ai ragionamenti troppo sofisticati, l’oratore tendeva ad esprimersi soprattutto urlando e gesticolando il più possibile, in modo da farsi comprendere dal maggior numero di persone e suscitare negli spettatori le più forti emozioni.

I predicatori migliori erano quindi autentici “attori” ed agitatori di folle. Le descrizioni dell’epoca sono tutte molto pittoresche.

Esposti alcuni argomenti, l’oratore si metteva ad esortare alla penitenza, gridando al sottostante popolo: “Cercate perdono a Dio! Gridate misericordia!” e fulminando maledizioni e castighi di Dio contro gli ostinati. Accompagnava l’esortazione con alcuni gesti tipici, come lo strapparsi di dosso la cotta e la stola, spargere la cenere sul suo capo e sulla folla, flagellarsi agli occhi di tutti con delle catene (che però facevano più rumore che danno) ed inoltre brandire un crocifisso, agitare una torcia accesa, etc.

 “E’ debolezza comune tra i predicatori...” scrive Alfonso “di non restar soddisfatti se, eccitandosi il popolo al pentimento, non lo si vede dare in ischiamazzi (anche il popolo, infatti, a quel punto cominciava a piangere, ad urlare, a battersi il petto, inginocchiarsi per terra, picchiare la testa sul pavimento, etc.). In quella confusione, nè il popolo capisce il predicatore, nè sa il predicatore perchè piange il popolo”.

265. S. Alfonso vietò ai suoi missionari queste metodologie. Il suo fine era “persuadere l’intelletto e guadagnare la volontà” degli ascoltatori; il mezzo era sì la predica, ma intesa soprattutto come “catechismo grande”, “istruzione al popolo”, e quindi argomentata, semplice e convincente, tenuta non dall’alto del pulpito ma alla stessa altezza della gente, con voce chiara e ferma ma senza grida e senza gesti plateali.

“Chiari erano gli argomenti e capìbili da tutti, anzi brevi e succinti, senza lungherìa di periodo; anche qualunque villano, rozzo che fosse, o semplice donnicciuola, non ne perdeva una parola … Vedendo il popolo commosso dare in grida e singhiozzi, si asteneva dal porgere altri motivi; ma, toccando il campanello, imponeva l’acchetarsi, né ripigliava i motivi se non vedendolo quietato. Voleva che si fosse capìto ciò che detestar si doveva e per qual motivo” [70].

I risultati

266. Ciò che si doveva “detestare”, ossia i peccati contro i quali maggiormente si battevano i predicatori, erano soprattutto gli “execranda monstra” (= orribili mostri) distintamente condannati anche nel Sinodo napoletano del 1726 voluto dall’allora cardinale arcivescovo Francesco Pignatelli (1703-1734) e cioè: l’usura [71], il concubinato [72] e la bestemmia.

Contro la bestemmia, in particolare, S.Alfonso mantenne in vigore un esercizio penitenziale già introdotto dai predicatori prima di lui e cioè il cosiddetto “strascìno”: in una delle sere della missione, gli uomini (solo gli uomini; evidentemente, le donne bestemmiavano di meno) dovevano andare, in ginocchio e “strascinando” la lingua sul pavimento, dalla porta della chiesa fino ai piedi dell’altare, in punizione e riparazione delle loro bestemmie contro Dio, la Madonna ed i Santi.

267. Non mancavano, comunque, i predicatori in grado altresì di stigmatizzare dal pulpito i soprusi o le disonestà di qualche notabile locale; e soprattutto di adoperarsi per ricomporre le liti e le inimicizie, assai frequenti tra le famiglie nei piccoli paesi: molte volte, i litiganti ponevano fine alle loro dispute, abbracciandosi in chiesa davanti a tutti.

268. Don Matteo Testa, nella sua relazione conclusiva sulle missioni tenute da S.Alfonso nella diocesi di Napoli, evidenzia poi altri aspetti:

“Innumerabili furono gli scandali e gli abusi che tolse il Padre Don Alfonso nella diocesi di Napoli ...

Più non si videro nelle chiese delle scostumatezze, e nelle donne quelle tali sfacciataggini che facevano la rovina ai deboli.

Le giovani zitelle che non sapevano cosa fosse erubescenza (= vergogna), si videro riformate e composte; mancò il concorso alle taverne; e da per tutto non ebbero più luogo certe danze e certi passatempi, in quelle terre e casali, tra uomini e donne, e molto più tra zitelle e giovinetti.

Commutate si videro in sacre e devote le canzoni scandalose che dalle zitelle si avevano in bocca operando nelle campagne, massime in tempo di vendemmia e di raccolta”.

269. Come si vede, il buon Testa (che diventerà in seguito arcivescovo di Reggio Calabria e poi “cappellano maggiore” del Regno) concentra l’attenzione soprattutto sulla lotta condotta contro la “sfacciataggine” delle fanciulle e contro la frequentazione delle taverne con conseguente ubriachezza, che era invece prevalentemente maschile; e, d’altra parte, su quelle canzoni e danze popolari che appartenevano in effetti alla radicata tradizione contadina e che contenevano, in alcuni casi, più o meno espliciti riferimenti sessuali, ultimo residuo degli antichi riti erotici agrari di epoca pagana.

270. E’ certamente impossibile valutare con precisione quanto, e per quanto tempo, le parole e l’esempio dei predicatori abbiano effettivamente contribuito a ridurre i fenomeni sociali che essi combattevano (l’usura, la bestemmia, l’ubriachezza, etc.) ma altrettanto certamente non mancarono di produrre effetti positivi sulla vita quotidiana di larghe masse popolari.

I frutti permanenti

271. E’ invece ben certo che, in tutti i paesi toccati dalle missioni alfonsiane (dunque, anche a Barra), furono istituiti, quali frutti permanenti della missione:

  • la “vita divòta” per tutto il popolo;

  • confraternite specifiche anche per i bambini ed i giovani, oltre che per gli adulti (e, ovviamente, rivitalizzazione di quelle già esistenti);

  • ritiri spirituali periodici per i preti, allo scopo di ben formarli per l’animazione quotidiana della “vita divòta” e per il catechismo permanente al popolo;

  • sempre per i preti, organizzazione di conferenze settimanali per lo studio dei “casi” di morale ovvero per formarli a ben esercitare il loro compito di confessori e di guide delle coscienze;

  • per tutti, invece, il cosiddetto “esercizio mensile dell’apparecchio alla morte”, nel corso del quale si richiamavano, affinchè fossero continuamente presenti alla mente di ognuno, le “massime eterne” [73].

Inoltre, in quasi tutti i paesi, quale memoria permanente della avvenuta missione, furono piantate le 5 croci che richiamavano i 5 “misteri dolorosi” della Passione di Gesù Cristo [74].

272. E’ indubbio che le istituzioni permanenti, sopra elencate, costituivano come una solida impalcatura che avvolgeva e sorreggeva la vita spirituale di laici e preti, consentendo una concreta, quotidiana e convinta pratica della vita cristiana da parte dei singoli e delle famiglie.

I loro effetti furono profondi e duraturi, e cominciarono a venir meno solo nella seconda metà dell’Ottocento e poi nel Novecento, man mano che le originarie intuizioni alfonsiane cominciarono ad essere svuotate, in un formalismo tanto letteralmente fedele quanto sostanzialmente inefficace, ma soprattutto non più corrispondente alle nuove esigenze spirituali che il cambiamento della società faceva sorgere nei fedeli.

273. Per lungo tempo, comunque, la spiritualità dei cattolici nell’Italia meridionale (e non solo) fu sostanzialmente alfonsiana e molte delle più tipiche usanze popolari recano la sua impronta.

Si pensi al classico presepe napoletano del Settecento, che ebbe la sua massima fioritura proprio in quel clima, e di cui le canzoncine di S. Alfonso costituiscono come la colonna sonora. Si ricordi ad esempio la celebre “Quanno nascette Ninno” (in lingua napoletana), oppure l’ancor più celebre:

Tu scendi dalle stelle, oh Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo.

Oh bambino mio divino, io ti vedo qui a tremar: oh Dio beato, ahi quanto ti costò l’avermi amato!

A Te, che sei del mondo il creatore, mancano panni e fuoco, o mio Signore.

Oh diletto pargoletto, quanto questa povertà più m’innamora, giacché ti fece amor povero ancora!

274. Si pensi all’usanza del Rosario nelle famiglie, a quella di tenere l’immagine della Madonna in capo al letto coniugale, e tante altre ...

275. Valga, a titolo di esempio, la seguente preghiera (raccolta dalle labbra di una anziana donna di Barra), da recitare la sera, prima di addormentarsi:

Io me cocco ‘int’ a stu lietto, ‘a Madonna sta ‘e rimpetto:

io dormo e Essa veglia, si è qualcosa mi risveglia.

Dint’ ‘o lietto me so’ cuccato, e l’ànema a Dio àggia dato;

tre cose me so’ raccumannato: Confessione, Comunione e Olio Santo.

Vicino ‘a porta, ‘a Croce forte; int’ ‘a casa, ‘a Nunziata [75]; fora ‘a via, l’angelo ‘e Ddio.

Gesù, Giuseppe, S.Anna [76] e Maria, vi dono il cuore e l’anima mia.

Gesù, Giuseppe, S.Anna e Maria, assistétemi nell’ultima agonìa.

Gesù, Giuseppe, S.Anna e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia.

276. “S. Alfonso … ci ha lasciato … alcuni tra i libri più cari dell’anima. Ha posto lui, senza parére, sulle labbra di tutti, anche degli analfabeti, le parole di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. Ha suggerito al popolo i termini più alti nelle fòrmole più umili, gli affetti più estàtici nei vocaboli più quotidiani. Ha creato nei semplici un cuore di santi, e grandi santi ” [77].

S. Gerardo Maiella (1726-1755)

277. La figura forse più emblematica della compiuta fusione tra la spiritualità dell’ intellettuale S. Alfonso e le grandi masse contadine meridionali è quella di S. Gerardo Maiella (nato a Muro Lucano nel 1726 e morto nel Collegio dei Redentorìsti di Materdomini in Capo-Sele nel 1755, all’età di soli 29 anni) nato e rimasto sempre, sino in fondo, uomo del popolo delle campagne e, con uguale profondità ed immedesimazione, discepolo di Alfonso e componente del suo Ordine religioso.

278. Basti qui ricordare che Gerardo Maiella andava in estasi, nella preghiera, cantando la canzoncina di Alfonso circa l’abbandono della propria vita nelle mani di Dio:

Il Tuo gusto e non il mio, amo solo in Te, mio Dio.

Voglio solo, o mio Signore, ciò che vuol la Tua Bontà.

Quanto degna sei d’amore, o divina Volontà.

Nell’amor Tu sei gelosa ma poi sei tutt’amorosa,

tutta dolce e tutt’ardore verso il cor che a Te si dà.

Quanto degna sei d’amore, o divina Volontà.

Voglio solo a Te piacere nel patire e nel godere.

Quel che piace a Te, mio amore, a me sempre piacerà.

Quanto degna sei d’amore, o divina Volontà.

La conclusione della missione a Barra (24 settembre 1741)

279. Le missioni guidate da S.Alfonso duravano, in ogni paese, 15 giorni: in pratica, due settimane, con domeniche incluse. Siccome la missione a Barra iniziò domenica 10 settembre 1741, si può osservare che essa ebbe termine la domenica 24 settembre 1741 che è precisamente, per quell’anno, l’ultima domenica di settembre.

Sappiamo che le missioni si concludevano, la domenica, con una grande celebrazione eucaristica, spesso all’aperto perchè vi partecipava in pratica l’intero paese e la chiesa non era sufficiente a contenere tutti, e alla fine si elevava il SS. Sacramento nella grande benedizione sopra gli uomini, le case e le campagne, mentre le campane squillavano all’unisono a festa ...

Un incontro a Barra (estate 1742): Maria Caracciolo, duchessa dell’Isola

280. A fine giugno 1742, portato a termine (con le visite a Ponticelli e a Pòllena) il giro missionario previsto per l’annata 1741-42, S. Alfonso rientrò nuovamente nella casetta in S. Aniello, per la consueta pausa estiva.

Anche a Barra, in seguito alla missione dell’anno precedente, era stata introdotta la “vita divòta”, per cui ogni sera quasi tutti gli abitanti del casale (circa 4.000 persone) si alternavano nella “Visita al SS. Sacramento ed a Maria SS.ma”.

281. In una di quelle sere [78], terminata la funzione, Alfonso fu mandato a chiamare da un personaggio importante: si trattava di Donna Maria Caracciolo, duchessa dell’Isola, che si trovava quell’estate in soggiorno a Barra.

Era costei una nobile e ricca ereditiera, che si apprestava però a lasciare “le vane pompe e i rei piaceri” del mondo, per diventare suora carmelitana in un convento della Spagna.

Prima di partire, trovandosi a Barra, colse l’opportunità di conversare con l’apprezzato predicatore, di cui aveva certamente sentito parlare e con il quale avvertiva di avere molte cose in comune: entrambi di origine aristocratica, ricchi, colti, inseriti dalla nascita nel “bel mondo” dei salotti; entrambi consapevoli della sostanziale vuotezza ed insignificanza di quel mondo, all’apparenza così attraente; entrambi decisi a rinunciare ad esso per seguire Gesù Cristo ed il suo messaggio alternativo, di vita vera ed eterna.

Tu puoi darmi quanto vuoi, non m’inganni, oh mondo, no.

Va’, dispensa i beni tuoi a chi stolto li cercò.

Pompe vane, oh rei piaceri, non sperate ch’io vi speri, ch’altro Ben m’innamorò.

282. La conversazione fra i due si tenne nello studio del palazzo in cui soggiornava la duchessa; non sappiamo però di quale palazzo di Barra si tratti. Alfonso si fece accompagnare dal giovane postulante redentorista Leonardo Cicchetti, che assistette da lontano all’incontro, rimanendo seduto vicino alla porta del salone.

283. Alla fine, la duchessa fece venire una carrozza con due paggi per riaccompagnare Alfonso. Ma questi rifiutò subito la carrozza (“Grazie, Eccellenza, il mio bastone va bene come carrozza”) e fece rientrare a palazzo anche i due paggi, dopo soli pochi passi (“Rientrate, figli miei, il Signore ci guiderà nelle tenebre”), avviandosi verso S. Aniello a piedi, insieme al confratello Leonardo.

In Barra, S. Alfonso scrive la sua prima opera spirituale

284. S. Alfonso dovette rimanere positivamente colpito dal fervore religioso della duchessa. Appunto in quell’estate del 1742, egli stava ultimando, nella quiete della casetta in S. Aniello, la sua prima opera spirituale, intitolata “Considerazioni sopra le virtù e pregi di S. Teresa”, cioè proprio la grande Santa nel cui Ordine la nobildonna si accingeva ad entrare [79]. Il libro verrà pubblicato l’anno successivo (1743) e, non a caso, recherà una dedica “A Donna Maria Caracciolo, duchessa dell’Isola”.

285. Si può aggiungere che quel libro, ultimato da S. Alfonso mentre dimorava presso di noi, è di grande importanza; non solamente perchè è il primo che egli scrisse, ma anche perchè contiene già la sintesi di tutta la sua spiritualità [80]:

“Tutta la perfezione consiste in mettere in pratica due cose: il distacco dalle creature e l’unione con Dio. Il che tutto si contiene in quel grande insegnamento lasciatoci da Gesù Cristo: Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16, 24)”.

Un convento a Barra? No, troppi nobili!

286. Il cardinale Giuseppe Spinelli, mettendo S.Alfonso a capo della missione napoletana ed assegnando a lui la casetta in S.Aniello, aveva in mente anche un altro obiettivo: avrebbe voluto che egli fondasse un convento dei suoi Redentoristi proprio a Barra, in modo da poterne disporre in maniera permanente per la sua diocesi.

“Fra questo tempo, vedendo l'Eminentissimo Spinelli il gran bene, che si operava da Alfonso nella sua Diocesi, e quello che si faceva nelle altre da’ suoi compagni, determinò anch'esso voler fondare una Casa de’ nostri nella medesima Barra, come nel centro della Diocesi” [81].

287. Ma Alfonso la pensava diversamente: “Quando i soggetti si sono radicati nella Barra ed hanno acquistato dame e cavalieri per penitenti, va’ e smuòvili, se puoi, e rimàndali ne’ luoghetti e sulle montagne; se non si vuol dire che, col favore di questi, se la passeggeranno in Napoli la maggior parte dell’anno” [82].

Come si vede, egli riteneva che “la vicinanza di Napoli e la frequenza di tanti nobili avrebbe distratto i suoi dalle missioni e dalle fatiche proprie del campo preso da essi a coltivare” [83].

Non si dimentichi che i Redentoristi erano stati da lui fondati proprio con il voto specifico di dedicarsi anzitutto alla evangelizzazione dei paesi contadini più piccoli ed abbandonati del Regno, e Barra non era certamente fra questi, essendo un Casale agricolo abbastanza agiato e con tanti nobili e cavalieri che vi venivano d’estate a villeggiare o vi abitavano stabilmente.

288. Egli dunque “ringraziò il Cardinale” e disse: “a Vostra Eminenza non mancano Operarj in Napoli per impiegarli in ajuto della sua Diocesi, come mancano agli altri Vescovi; nè questi possono aver le Missioni da Napoli, specialmente per li Villaggi, e per altri luoghetti, che vivono abbandonati. Restò persuaso il Cardinale, nè più si parlò di tal fondazione” [84].

S. Alfonso, però, per evitare del tutto “il pericolo di ulteriori richieste dello stesso Cardinale, sotto pretesto della fondazione in Nocera de’ Pagani, scappò da S. Aniello co’ suoi, restando solo il P. Gennaro Sarnelli come prefetto delle missioni napoletane [85], ed egli di tanto in tanto veniva da Nocera per far qualche cosa e subito ne partiva. Quella riunione in S. Aniello finì presto, con la morte del nostro P. Sarnelli (1744), e S. Alfonso spesso si compiaceva di essere sfuggito al pericolo di quella fondazione sì vicina a Napoli” [86].

Il dopo-missione a Barra

289. “Tra questi tempi estivi, prese di mira Alfonso dilatare la divozione verso Maria Santissima, intrecciando a tal’ effetto in varj luoghi delle Novene, ne' nove giorni che precedono le sue Feste.

Destinò il Testa per quella della Visitazione nella Parrocchia di S. Anna in Bosco; il medesimo per l'altra della Madonna della Neve in Ponticello; in Resina vi spedì il Rovigno per quella dell'Assunta; così altri in S. Giorgio, in Bosco Trecase, ed altrove; e per se riserbò, nella medesima Barra, quella dell'Assunta.

Queste Novene, oltre la gran divozione, che esercitavano verso Maria Santissima, riuscivano ancora, perchè fatte in istile apostolico, altrettante Missioni. Mi attestò Monsig. Testa, che in ogni luogo vi fu tal mossa di Popolo, che si dovettero fare, come in Missione, le Comunioni generali ai ceti distinti di uomini e donne. Siamo tenuti ad Alfonso se veggonsi di presente nella Diocesi di Napoli, e nella Terra di Lavoro, così frequenti queste Novene, con tanto profitto delle Anime” [87].

290. S. Alfonso lasciò quindi Barra dopo aver predicato l’ultima volta nella parrocchia “Ave Gratia Plena”, insieme al suo confratello Don Paolo Càfaro, la cosiddetta rinnovazione di spirito nella novena dell’Assunta (15 agosto 1742), ma il suo passaggio nel nostro Casale lasciò tracce profonde e durature, tanto da poter considerare quel biennio (1741-1742) di sua presenza a Barra come una sorta di sparti-acque nella vita religiosa e civile della popolazione.

291. Parroco di Barra al tempo della missione era Don Nicola Montella, nominato nel novembre 1731, che però venne a morte poco tempo dopo, nel settembre 1743. Fu perciò il suo successore, Don Salvatore Roselli (settembre 1743 - giugno 1761) colui che gestì concretamente il dopo-S. Alfonso.

Il Ritiro S. Nicola (1740)

292. Nella mappa del duca di Noja (1775) si vede chiaramente, lungo la via attualmente intitolata a Bernardo Quaranta, un insieme di fabbricati con chiesa e giardini che la mappa indica come “Ritiro detto di S.Nicola”. Che cos’era?

293. “Il Rev.Sacerdote secolare D.Giovanni Battista dei duchi Fusco, allorché per lo più dimorava nel Casale di Barra, suo malgrado osservava che specialmente le donzelle civili di quel luogo non erano istruite nella dottrina cristiana e tanto meno nei lavori donneschi. Mosso quindi da straordinario zelo ed impegno, meditò di istituire, sì come effettivamente dopo ponderationi replicate introdusse ed istituì, nell’anno 1740, nel Casale suddetto, un Ritiro ossia casa di educazione di donzelle civili perché si erudissero nella dottrina cristiana ed apprendessero i lavori ed arti che fussero convenienti alla loro condizione e successivamente eligessero quello stato che meglio fusse loro piaciuto… e per comodità tanto del ritiro quanto della popolazione, vi costruì una chiesa sotto il titolo di S.Nicola a Pazzigno [88].

294. In effetti, dagli Atti di Santa Visita anteriori al 1740, apprendiamo che una cappella intitolata a S. Nicola di Bari “eretta nella masseria” della famiglia de Fusco esisteva già dal Seicento:

Nell’anno 1666 il fu D. Francesco de Fusco, nel suo ultimo testamento per mano del fu notaio Francesco Mignone di Napoli in data 9 ottobre … costituito un capitale di ducati 500 e investiti in acquisti fruttiferi (= fu acquistata una partita dell’arrendamento della seconda imposizione per ogni moggio di farina) … pose ai suoi eredi l’ònere che i redditi relativi venissero erogati per celebrazioni di Messe nella Cappella di S. Nicola di Bari eretta nella masseria del fu D. Giovanni Battista senior e del genitore del medesimo dotante D. Francesco, esistente nel Casale del SS. Salvatore di Pazzigno, e che fossero celebrate tante Messe quante capienti in ragione di 2 carlini per ciascuna Messa, in suffragio della sua Anima, da parte del Cappellano, amovibile a segno, da eleggersi dai suoi eredi”.

Queste disposizioni testamentarie di Francesco de Fusco furono poi rinnovate, tenendo conto della svalutazione della rendita iniziale e dell’aumentato numero delle Anime da suffragare, nelle analoghe disposizioni testamentarie di Bartolomeo de Fusco, nel 1682, e di Ferdinando de Fusco, nel 1724.

295. Quindi, il nostro D. Giovanni Battista dei duchi Fusco, nel 1740, dopo le sue “ponderationi replicate”, istituì il “Ritiro per le donzelle civili” su terreni appartenenti alla sua famiglia e facendovi costruire una chiesa sotto il medesimo titolo di S. Nicola della pre-esistente cappella, della quale prese il posto.

Il Ritiro diventa Collegio di S. Maria Maddalena de’ Pazzi (1797)

296. “Morto il Rev. Don Giovanni Battista dei duchi Fusco, gli succedette Don Oronzio Vernazza, principe di Palmarigi, il quale finché visse provvide allo sviluppo di detto Ritiro”.

297. “Morto poi senza figli, istituì erede suo cugino Don Andrea Vernazza, duca di Castrì, il quale non solamente approvò l’erezione ma l’ampliò ancora, aggiungendo al Ritiro una casa contigua che comprò dal marchese di Monteresole.

Intanto, non essendo ancora stato ottenuto il Regio Assenso alla fondazione, il Signor Duca ne ottenne la sanatoria, accordata dalla Real Camera ed in seguito dal Real Dispaccio il 14 marzo 1791.

Più tardi, con istrumento stipulato il 3 aprile 1797 per Notar Giacomo Antonio Russo di Napoli, l’avvocato Don Gian Battista Gallotti, vicario generale di detto Signor Duca di Castrì, approvò e confermò la fondazione di detto Ritiro volendo però che da allora si fosse chiamato col nome di Collegio di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, di diritto patronato laicale di esso Signor Duca, e con detto istrumento, in nome di esso Signor Duca, a titolo di donazione irrevocabile, donò al medesimo Collegio tutto il locale e la chiesa con tutti i vasi sacri, suppellettili, cappellanìe e legàti appartenenti.

Tale istrumento fu verificato dal medesimo Signor Duca con un altro del 4 ottobre 1797 per mano del Notar Rosario Montinaro della terra di Calimera in Provincia di Otranto, con cui venivano apportate alcune (lievi) modifiche, fermo restando al Duca e ai suoi eredi i diritti di patronato sul detto Collegio.

298. Rassodata così la fondazione del Collegio, per quelle donzelle che vi volessero menare vita celibe vi assegnò l’abito religioso di S.Maria Maddalena de’ Pazzi che è il carmelitano, sotto la cui Regola vivono”.

La prima Priora del Collegio fu Suor Maria Anna Atripaldi (1727-1813) nativa di Nocera de’ Pagani e il primo Rettore fu Don Carmine Baccari di Pucara in Tramonti.

Chi erano le “donzelle civili”

299. Ma chi erano queste “donzelle civili” per le quali il Collegio era stato istituito?

Le ragazze di famiglia nobile ricevevano la loro educazione nel palazzo paterno ad opera di precettori, e ne uscivano poi o per sposarsi con altri nobili oppure per diventare suore in importanti monasteri, in entrambi i casi recando con sé una ricca dote.

Le ragazze di famiglia contadina, che erano poi la larghissima maggioranza, apprendevano anche loro nella masseria tutto ciò che si riteneva necessario: non certo a saper leggere e scrivere, ma a lavorare la terra come gli uomini, ed in più a fare tutti i servizi domestici per il marito e per i numerosi figli.

300. Le “donzelle civili” erano invece le figlie della incipiente borghesia (= figlie di proprietari terrieri non-nobili, di commercianti o artigiani relativamente agiati, di notai, medici, avvocati, farmacisti, funzionari pubblici, etc.).

Le famiglie di queste ragazze, infatti, da una parte non potevano permettersi di avere il precettore ed il confessore in casa come i nobili, e d’altra parte ritenevano “ovviamente” sconveniente e addirittura vergognoso che le loro figlie crescessero “in mezzo alla terra” come contadine.

Non essendovi d’altronde scuola pubblica, l’unica soluzione per queste “donzelle” erano proprio i Collegi istituiti per spirito caritatevole da nobili o comunque da ricchi personaggi, nei quali, con una spesa relativamente mòdica per le loro famiglie, potevano diventare “istruite nella dottrina cristiana ed apprendere “i lavori ed arti che fussero convenienti alla loro condizione”.

Successivamente, potevano poi o uscire dal Collegio per sposarsi con uomini della loro stessa “condizione” sociale, oppure decidere di rimanere all’interno del Collegio stesso come Suore, nel nostro caso Suore carmelitane; in entrambi i casi, recando con sé una dote certo più modesta di quella delle ragazze nobili.

Il Collegio fino all’unità d’Italia (1860)

301. In questo contesto, e con tale ben precisa finalità, il Collegio di S. Maria Maddalena de’ Pazzi visse dunque, onorevolmente e meritoriamente, per tutto il periodo Borbonico, facendo fronte alle costanti difficoltà economiche con richieste di “soccorsi” e di “provvidenze” sia a privati sia alle Casse dello Stato, che erano in tali casi solitamente puntuali e generose.

302. Dagli Atti di Santa Visita del Card. Giuseppe Caracciolo-Giudice del 1838, apprendiamo che, tra i “confessori abituali delle monache”, vi erano anche preti barresi come Don Giuseppe Sannino, che fu poi parroco di Barra dal 1848 al 1861, Don Michelangelo Langella, il Padre antoniano Gaetano Prota, nonché Don Paolo Riccardi, importante figura del clero barrese dell’Ottocento, di cui diremo meglio a suo luogo e che, per un certo periodo, fu anche amministratore del Collegio.

S. Francesco Saverio Maria Bianchi (1743–1815) a Barra

303. Soprattutto, però, è interessante notare la presenza come confessore nel Collegio di S.Maria Maddalena de’ Pazzi anche di un grande Santo napoletano del Settecento e cioè il barnabita S. Francesco Saverio Maria Bianchi [89].

“Il P. Bianchi … s'impose un severo tenore di vita, da cui mai si discostò se non per le confessioni, le visite ai malati nelle case e negli ospedali, i soccorsi ai poveri e alle fanciulle raccolte nei conservatori.

304. Una volta ebbe necessità di andare a confessare le religiose del conservatorio di Santa Maria Maddalena di Barra mentre pioveva a dirotto. Un suo benefattore avrebbe preferito condurvelo con un tempo migliore, ma il Santo, esortandolo ad avere fiducia, insistette. Durante il viaggio tanto il postiglione quanto i cavalli non furono bagnati da una sola goccia d'acqua” [90]

S. Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607) … e Barra

305. Caterina de’ Pazzi nacque a Firenze il 2 aprile 1566. A 16 anni, genitori contrari, entrò nel monastero di clausura di S. Maria degli Angeli, il più antico dell’Ordine carmelitano, fondato nel 1450, con il nome di Suor Maria Maddalena. Morì il 25 maggio 1607 e fu proclamata ufficialmente Santa dal Papa Clemente IX nel 1699. Il suo corpo incorrotto si trova sotto l’altare maggiore della chiesa del monastero di “S. Maria degli Angeli e S. Maria Maddalena de’ Pazzi” che ha sede adesso in Careggi (Firenze).

S. Maria Maddalena de Pazzi

306. Di lei restano 4 grossi volumi manoscritti, che costituiscono uno fra i più importanti documenti della letteratura mistica cattolica:

  1. I quaranta giorni

  2. I colloqui

  3. Gli otto giorni dello Spirito Santo

  4. La probatione – La renovatione della Chiesa

307. Questi volumi contengono tutto ciò che le sue consorelle, per esplicito mandato dei superiori, “scrivevano et notavano” non solo di quello che suor Maria Maddalena riferiva delle sue esperienze interiori, ma “particularmente stavano assistenti a' rapti et scrivevano quello che in essi detta suor Maria Maddalena diceva”.

La Santa, infatti, andava frequentemente “in astratione di mente” e “come fuori del corpo” ed in tale stato di “rapimento” parlava e agiva, “veleggiando” per il monastero mentre le consorelle la seguivano per annotare tutto quello che lei diceva ed i gesti che compiva.

I volumi manoscritti contengono perciò la descrizione in prima persona delle sue interiori desolazioni e consolazioni, nonché insegnamenti spirituali perennemente validi, ma anche esortazioni e lettere, non sempre poi inviate ma comunque da lei rivolte al papa, a cardinali, vescovi, superiori di ordini religiosi, etc. nelle quali li esortava a dare sempre più concreta attuazione a quell’opera di “renovatione” della Chiesa, nello spirito delle beatitudini evangeliche, delineata nel Concilio di Trento.

308. Non sappiamo per quale motivo il Duca di Castrì, nel 1797, volle che il Collegio di Barra fosse intitolato proprio a S.Maria Maddalena de’ Pazzi né se fu consigliato da qualcuno ed eventualmente perché.

Indubbiamente però questo nome appare singolarmente ben scelto, alla luce di quanto abbiamo detto sopra (vedi nn°299-300). Questa Santa, infatti, nata in una ricca famiglia di banchieri fiorentini [91] e dunque benestanti non-nobili, era quanto mai indicata come patrona di un Collegio di “donzelle civili” cioè di famiglia borghese.

309. D’altronde, il nome di S. Maria Maddalena de’ Pazzi era almeno non sconosciuto, dalle nostre parti, anche per un altro motivo.

Dalla biografia scritta da Giuseppe Ceci, apprendiamo infatti che lo stesso Gaspare Roomer [92] era specialissimamente devoto proprio a questa Santa:

Egli (Gaspare Roomer) … era un uomo fortunato ma senza, come di solito accade, insuperbire della sua fortuna: tutto – l’essere scampato alla rivoluzione del 1647; la guarigione senza aiuto di medici dalla peste che lo colpì nel 1656; la costante prosperità negli affari; la lunga vita – tutto attribuiva all’aiuto divino e all’intercessione della sua santa patrona Maddalena de’ Pazzi, della quale era devotissimo e per promuoverne il culto spese in 30 anni ben 75.000 ducati …

310. Dalla moglie, della quale non sappiamo niente, neanche il nome, aveva avuto un’unica figlia, che inutilmente molti signori napoletani avevano domandato in isposa; Don Gaspare soleva dire che essi volevano sposare i suoi quattrini e non sua figlia. Costei infine prese il velo col nome di suor Maria Maddalena, nel monastero carmelitano del Sacramento dove morì nel 1672 cioè 2 anni prima del padre.

311. Alla morte del quale, avvenuta il 3 aprile 1674, maggior beneficato nel suo testamento fu l’ospedale di S. Maria del Popolo degli Incurabili, nominato erede universale come ricorda l’epigrafe che si legge tuttora nella chiesa annessa … Cospicuo legato toccò anche al monastero carmelitano, che aveva mutato l’intestazione, ad istanza del Roomer, da S. Teresa in S. Maria Maddalena de’ Pazzi ma che fu sempre conosciuto coll’altro titolo del Sacramento. Già in vita gli aveva donato un capitale di 75.000 ducati, ed ora vi aggiunse i palazzi alla Stella, ai Vergini e allo Splendore, con tutti i mobili, gli argenti, e le opere d’arte e ogni altra suppellettile, superando nel complesso i 200.000 ducati …

312. Per sua sepoltura, Gaspare Roomer elesse poi la cappella di S. Maria Maddalena de’ Pazzi nella chiesa del convento carmelitano di S. Maria della Vita, al quale donò 9.000 ducati”.

313. Sembra quindi che Gaspare Roomer sia stato il principale divulgatore e promotore della devozione a S. Maria Maddalena de’ Pazzi in Napoli, visto che fu proprio lui a fondare il primo monastero napoletano a lei intitolato, volle che sua figlia si facesse suora proprio in quel monastero e proprio con il nome di suor Maria Maddalena, e sicuramente molto contribuì anche per la causa di beatificazione della Santa.

A S. Maria del Pozzo nel 1741

314. Abbiamo visto (nn°183-186 in “La Barra nel Seicento”) che, nell’antico Casale di Casavaleria, diroccata ormai la chiesetta di S.Martino, era rimasta la sola chiesa di S.Maria del Pozzo, dalla quale ormai anche la contrada cominciava a prendere il nome.

315. Al tempo della Santa Visita del Card. Gesualdo nel 1599, il quadro della Vergine col Bambino, posto nella chiesa, era oggetto di viva devozione: intorno all’immagine erano posti molti ex-voto e una tabella con i nomi di coloro che avevano ricevuto grazie; e la apposita festa della Madonna del Pozzo veniva celebrata il terzo giorno dopo Pentecoste.

316. Nel corso del Seicento, però, la chiesetta visse un periodo di progressiva decadenza: pur rimanendo formalmente una Rettoria, il suo Rettore si limitava solo a riscuotere la rendita dei terreni e nella chiesa in realtà non si celebrava più Messa né si svolgeva alcuna attività pastorale.

Tanto che, alla fine del secolo, nel 1699, alla Visita del Card.Cantelmo, essa risultava “abitata” solo da un “romìto” e l’unica funzione che svolgeva, di fatto, era quella di cimitero per i pochi abitanti della zona (vedi nn°190-194 in “La Barra nel Seicento”).

317. Infine, nel 1741, agli Atti di Santa Visita del Card. Spinelli, troviamo le affermazioni dell’allora Parroco di Barra Don Nicola Montella (1731-1743) che parla di “mediocre concorso” di popolo pure in occasione del giorno della festa della Madonna, tanto che si riteneva opportuno, data la scarsa cura con cui era tenuta, di trasferire altrove il “beneficio” che in essa aveva sede.

In pratica, il Parroco proponeva di eliminare la figura, ormai solo parassitaria, del Rettore, suggerendo indirettamente di affidare alla Parrocchia di Barra (cioè a se stesso) la chiesa … e la relativa rendita beneficiale. Non sembra però che la sua proposta abbia avuto seguito.

Villa Letizia

318. Alcuni decenni dopo, negli ultimi del Settecento, la “strada che porta a S. Maria del Pozzo” si arricchì di un’altra villa, sorta a poca distanza dalla pre-esistente villa Amalia (vedi nn°187-189 in “La Barra nel Seicento”): la villa Letizia.

Insieme alla villa S. Anna di Piazza Abbeveratoio, costituisce la coppia di ville nobili Barresi che non figurano nella mappa del duca di Noja e sono quindi sicuramente successive al 1775.

319. Appartenne prima alla famiglia Cantalupo (che fu probabilmente quella che ne iniziò la costruzione, negli ultimi anni del Settecento) e poi alla famiglia Nasti.

320. Costruita probabilmente a più riprese nel corso dell’Ottocento (fino all’ultima modifica intorno al 1880), fu restaurata negli anni ’20 del Novecento ma successivamente ridotta ad un condominio, fino a che ... sopraggiunse il terremoto del 1980 e tutto quello che a suo luogo si dirà.

Cenni descrittivi della villa

321. “L’edificio, con pianta tendente al quadrato, si sviluppa ai piani superiori con una morfologia a doppia L.

A parere di Cesare De Seta [93], sono databili al tardo Settecento il pian terreno ed il piano nobile, nonché quella sorta di arco trionfale a tre fornici che separa il cortile interno dal giardino posteriore. Una conferma, chiarisce l’autore, di un primo momento tardo-settecentesco è evidenziata dal bell’arco posto a fondo del cortile e sopra-elevato su una gradinata che dà maggiore spicco a quest’episodio di sapore tipicamente scenografico.

322. Tardo-ottocentesca è invece, inequivocabilmente, un’ulteriore sopra-elevazione verticale dell’edificio, con motivi eclettici neo-medioevali, quali i torrioni contenenti le scale a chiocciola o le merlature dei corpi laterali” [94].

323. Ad evidenziare le due diverse fasi di costruzione, nel restauro ultimato nel 1996, la villa è stata ridipinta solo nella parte più antica (pianterreno, piano nobile, androne e cortile) lasciando invece il colore naturale dei materiali di costruzione (il tufo) nella parte ottocentesca.

324. Il corpo centrale dell’edificio è a tre piani: il piano nobile è fiancheggiato da due terrazze; le ali laterali, invece, si elevano di un solo piano. Le terrazze laterali e posteriori, così come i numerosi balconi, consentono un’ampia panoramica sia del territorio Barrese che del Vesuvio.

Un imponente androne di ingresso introduce scenograficamente al cortile, aperto sul parco retrostante con l’arco a tre fornici che funge quasi da “quinta” teatrale. L’arcata a tre fornici termina, nella parte centrale, con una balaustra e, lateralmente, con due pinnacoli cuspidali; quattro semplici colonne decorano la struttura.

325. Attraverso quest’arcata si giunge al giardino posteriore, strutturato intorno ad un asse prospettico centrale che giunge fino al fondo del giardino, chiuso da una cancellata.

Anche lateralmente la villa è circondata da giardini, su due livelli, cui si rivolgono le facciate secondarie delle ali laterali dell’edificio.Nel perimetro dei giardini rientravano, in origine, anche le due belle casine, poste in posizione simmetrica rispetto all’edificio della villa e poi adibite a private abitazioni.

La contrada dell’Oliva nel Settecento

326. Nella contrada dell’Oliva, alla masseria donata ai francescani da Isabella De Gennaro e alla villa di Dionisio Lazzari (vedi nn°195-205 di “La Barra nel Seicento”), si aggiunse nel Settecento la attuale chiesetta dedicata alla Madonna.

327. Agli Atti di Santa Visita del Card. Giuseppe Spinelli, troviamo infatti allegato il seguente “Breve” papale, datato 3 dicembre 1718:

Universis christifidelibus, presentes litteras inspecturis, salutem et apostolicam benedictionem.

Ad augendam fidelium religionem et animarum salutem coelestibus ecclesiae thesaurus, charitate intenti,

omnibus utriusque sexus christifidelibus, vere penitentibus et confessis ac sacra comunione refectis,

qui ecclesiam seu cappellam vel oratorium pubblicum Sanctae Mariae gratiarum nuncupati Casalis de la Barra neapolitanae diocesis (non tamen regulariam),

cui ecclesiae eiusque cappellis et altaribus, sive omnibus sive singulis, eamque, seu eas, vel ea aut illarum seu illorum singulas, vel singulam etiam visitam,

nulla alia indulgentia reperitur concessa dominica immediate sequenti post festum Visitationis B. Mariae Virginis Immaculatae, a primis vesperis usque ad occasum solis, dominica huiusmodi

singulis annis devote visitaverint et ibi pro christianorum principum concordia, heresum extirpatione ac sanctae matris ecclesiae exaltatione, pias ad Deum preces effuderint

plenariam omnium peccatorum suorum indulgentiam et remissionem misericorditer in Domino concedimus.

Insuper, eisdem christifidelibus… vere penitentibus et confessis ac sacra comunione refectis, eandem ecclesiam in aliis seu festivitatibus eiusdem B.M.Virginis Immaculatae ut supra visitaverint et oraverint sic qua die predictorum id egerint, septem annos et totidem quadragenas de indictis eis seu alias quomodolibet debitis penitentiis, in forma ecclesiae consueta relaxamus.

Presentibus ad septennium tantum valituris.

Volumus autem ut si alias christifidelibus in quocumque alio anni die dictam ecclesiam seu cappellam aut altare in ea situm visitaverint aliqua alia indulgentia perpetuo vel ad tempus eundem elapsum duratura concessa fuerit vel si pro impetratione… admissione seu publicatione… aliquid, vel minimum detur, aut sponte oblatum recipiatur presentes nullae sint.

Datum Romae apud Sanctam Mariam Maiorem, sub annulo Piscatoris, die III Decembris MDCCXVIII.

Traduzione:

A tutti i fedeli cristiani, che leggono le presenti lettere, salute ed apostolica benedizione.

Per incrementare la religione dei fedeli e la salute delle anime, con i celesti tesori della Chiesa, spinti dalla carità,

concediamo misericordiosamente, nel Signore, indulgenza plenaria e remissione di tutti i loro peccati

a tutti i fedeli cristiani, di entrambi i sessi, veramente pentiti e confessati e corroborati dalla sacra comunione,

che, senza aver reperito nessun’altra indulgenza concessa, la domenica immediatamente seguente la festa della Visitazione della Beata Maria Vergine Immacolata, dai primi vespri fino al tramonto del sole,

nei singoli anni devotamente visiteranno, e ivi innalzeranno a Dio pie preghiere per la concordia dei Prìncipi cristiani, l’estirpazione delle eresie e l’esaltazione della Santa Madre Chiesa,

la chiesa ossia cappella ovvero oratorio pubblico denominato di S. Maria delle Grazie, del Casale della Barra, nella diocesi di Napoli (non però regolare),

alla quale chiesa, e alle sue cappelle ed altari, sia tutti sia singoli, (si siano recati) con distinte visite o anche con una sola singola visita.

Inoltre, agli stessi fedeli … veramente pentiti e confessati e corroborati dalla sacra comunione che, nelle altre festività della stessa B.M. Vergine Immacolata, abbiano visitato come sopra la stessa chiesa e come sopra abbiano pregato, condoniamo, nella forma consueta della chiesa, sette anni ed altrettante quarantene da tutte le debite penitenze ad essi imposte.

Le presenti sono valevoli solo per sette anni.

Vogliamo anche che se altri fedeli cristiani, in qualunque altro giorno dell’anno, visiteranno la detta chiesa ovvero cappella o altare in essa sito, sia concessa qualche altra indulgenza, duratura perpetuamente o ad un tempo fissato, o per impetrazione … ammissione ovvero pubblicazione …

Se qualcuno riceve (qualcosa per tali indulgenze) anche minima o spontaneamente donata, le presenti siano nulle.

Dato in Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del Pescatore, il giorno 3 dicembre 1718.

328. Questo documento, essendo datato 1718, fu emesso dal papa Clemente XI (1700-1721), nel periodo in cui sulla cattedra napoletana sedeva il card. Francesco Pignatelli (1703-1734), e parroco di Barra era don Donato Fragnolo (agosto 1710-marzo 1731).

Esso fa esplicito riferimento alla “chiesa ossia cappella ovvero oratorio pubblico di S. Maria delle Grazie nel Casale della Barra”, avendo cura di specificare (non tamen regulariam) che non si riferisce all’altra chiesa di S. Maria delle Grazie, quella cioè annessa al convento francescano del Corso Sirena: si riferisce quindi proprio alla nostra chiesetta dell’Oliva.

Viene concessa “indulgenza plenaria”, cioè remissione di tutte le pene da scontarsi per i peccati commessi, a coloro che, pentìti confessàti e comunicàti, visiteranno la chiesetta, ed ivi pregheranno per la pace nel mondo e per il bene della Chiesa, nella domenica “successiva alla festa della Visitazione della Beata Vergine Maria”.

Occorre qui notare che tale festa era allora celebrata il giorno 2 luglio, mentre attualmente il calendario liturgico fissa la memoria della visita di Maria alla sua parente Elisabetta (vedi Vangelo di Luca: Lc 1, 39-56) all’ultimo giorno del mese di maggio, a conclusione cioè del mese tradizionalmente dedicato alla Madonna.

Viene inoltre concessa “indulgenza parziale”, di sette anni e sette quarantène, a coloro che abbiano effettuata la suddetta visita in occasione di altri giorni di festività dedicati alla Madonna. Si lascia poi la possibilità che, in futuro, possano essere concesse anche altre indulgenze, purché sempre a titolo gratuito.

La conferma da parte del papa Benedetto XIV (1740-1758)

329. Il documento del 1718, infatti, come si vede, era valevole “solo per 7 anni” e quindi, di per sé, veniva a scadenza nel 1725; successivamente, però, esso venne confermato “in perpetuo” dal papa Benedetto XIV (1740-1758).

330. Della qual cosa, rimane memoria in una iscrizione su marmo, un tempo infissa su una parete della chiesa, che dice:

INDVLGENTIA PLENARIA

IN DIE B.V. GRATIARVM IN

RELIQVIS VERO EIVSDEM FESTI

VITATIBVS SEPTEM ANNI AC

TOTIDEM QVADRAGENAE

ET A SVMMO PONTIFICE BENEDICT(O)

 XIV SVO RESCRIPTO PERPETVO FVI(T)

CONFIRMATA

traduzione:

INDULGENZA PLENARIA

NEL GIORNO DELLA BEATA VERGINE DELLE GRAZIE

E, NELLE RESTANTI SUE FESTE,

SETTE ANNI CON ALTRETTANTE QUARANTENE.

E DAL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XIV,

CON SUO RESCRITTO, IN PERPETUO FU CONFERMATA.

La strana concessione a Giuseppe Maria Andreassi (1729)

331. Nel frattempo, però, in questo rapporto lineare fra una chiesetta costruita direttamente da una piccola comunità contadina sotto l’ègida francescana ed il riconoscimento pontificio, si inserisce all’improvviso un fatto che appare strano.

332. Come apprendiamo sempre dagli Atti di Santa Visita del Card. Giuseppe Spinelli: “Il consigliere Giuseppe Maria Andreassi, avendo fabbricato una Chiesa sotto il titolo di S. Maria delle Grazie, nel Casale della Barra, diocesi di Napoli, supplica umilmente la Santità Vostra degnarsi concedergli il privilegio perpetuo per tutti i lunedì dell’anno, senza espressione di numero di Messe ed in suffragio delle anime dei defunti della sua famiglia”.

Per cui: “Ex audientia SS.mi die 16 martii 1729 SS.mus Dominus Noster Benedictus PP. XIII concessit privilegium perpetuum altari B. Mariae Gratiarum in Ecclesia sub eodem titulo Casalis Barrae Neapolitanae diocesis pro qualibet feria secunda absque espressione numeri missarum et pro defunctis tantum familiae Consiliari Iosephi Mariae Andreassi eiusdem Ecclesiae Patroni”.

Traduzione: “Nell’udienza del giorno 16 marzo 1729, il Santissimo Signore Nostro, papa Benedetto XIII, concesse privilegio perpetuo all’altare della Beata Maria delle Grazie, nella Chiesa sotto lo stesso titolo, del Casale della Barra nella diocesi di Napoli, per tutti i lunedì, senza espressione di numero di Messe, e solo per i defunti della famiglia del consigliere Giuseppe Maria Andreassi, patrono della stessa Chiesa”.

Abbiamo quindi un’altra concessione, questa volta del papa Benedetto XIII (1724-1730), fatta nel 1729 alla famiglia Andreassi, un esponente della quale, il “consigliere” Giuseppe Maria Andreassi, si qualifica come colui che ha “fabbricato” la chiesa e ne vanta perciò il patronato, secondo l’antico diritto feudale.

333. Però, negli Atti di Santa Visita (1818) del Card. Luigi Ruffo-Scilla (1802-1832), il patronato della chiesetta “dell’Oliva” si dice “usurpato” dalla famiglia Andreassi: “Vi si celebra una Messa nei giorni festivi per la limosina di ducati 8 l’anno, che contribuisce il presunto patrono; il resto si fa colla limosina dei fedeli”.

334. Evidentemente, quale che sia stato il ruolo, forse modesto, del consigliere Giuseppe Maria Andreassi nella “fabbricazione” della chiesa, i suoi eredi, nel corso del Settecento, non mostrarono comunque alcun particolare interessamento per la chiesetta dell’Oliva, limitandosi a versare, piuttosto controvoglia, “la limosina di ducati 8” ogni anno, senza avere, per il resto, nessun rapporto diretto con il territorio e con la sua gente, la quale continuò a gestire da sé la chiesetta così come poveramente poteva.

335. La trascuratezza degli Andreassi continuò fino al punto che, negli Atti di Santa Visita (1838) del successivo Card. Giuseppe Caracciolo-Giudice (1833-1844), non si parla più di alcun “peso di Messe” inerente alla chiesa, ed anzi si fa menzione “di un tal eremita, a nome Giovanni Carbone, cui era affidata la cura di questa cappella, il quale fu detto essere dedito al vino, al giuoco e sospetto d’armi”.

Vedremo a suo luogo come, verso la metà dell’Ottocento, l’ambigua situazione del “presunto patronato” della famiglia Andreassi verrà definitivamente chiarita.

Il frammento di affresco

336. Intanto, del periodo Settecentesco della nostra chiesetta, rimane anche un’altra importante memoria, e cioè il frammento di affresco che attualmente si vede sulla parete a destra dell’altare. In questo frammento, si distinguono due figure di donna ed una figura maschile.

Non si riesce, dal frammento, a comprendere che cosa rappresentasse l’affresco nel suo complesso. E’ bello pensare che potrebbe trattarsi della parabola evangelica “delle 10 vergini” (vedi Mt 25, 1-13), con lo Sposo che accoglie le 5 vergini “prudenti” (= che hanno l’olio nella làmpada) e respinge, invece, le 5 vergini “stolte” (= che non hanno l’olio nella làmpada). In effetti, questa immagine sarebbe coerente con l’intitolazione della chiesa alla Madonna dell’Oliva; non è però possibile, al momento, avere certezza di questa ipotesi.

Villa S. Anna all’Abbeveratoio

337. Nella mappa del duca di Noja (1775), all’incrocio dell’Abbeveraturo, si distingue un caseggiato che potrebbe essere identificato con la villa di Dionisio Lazzari di cui parla il Cozzolino (vedi nn°201-204 di “La Barra nel Seicento”).

Lo stesso Cozzolino, scrivendo nel 1889, testimonia di quegli abitanti di Barra che “da bravi pionieri, con i villaggetti dello Scassone, di S. Spirito (oggi S. Antonio) all’Abbeveratoio, dell’Oliva, ed altri gruppi di case, avevano saputo avanzare i loro confini nel padulanum, da essi puossi dire aspremente conquistato fino al pascone di S. Martino compreso …”

338. Negli ultimi anni del Settecento, in un angolo di Piazza Abbeveratoio, che ancor oggi presidia maestosa, sorse la villa S. Anna, quasi contemporanea alla villa Letizia (vedi sopra, nn°318-325).

Cenni descrittivi della villa

339. La villa presenta alcuni segni ancora visibili della primitiva struttura tardo-settecentesca, quali ad esempio la gabbia-scale, ma nel complesso mostra attualmente l’aspetto conferitole dalla ampia ristrutturazione avvenuta nel corso dell’Ottocento.

340. La pianta è ad U. La facciata è a tre piani, scanditi nei canonici tre ordini; il centro presenta un lieve aggetto del corpo di fabbrica, con un alto portale ad arco ed una finta torretta con archetto aperto sul cielo. I bracci laterali racchiudono due cortili, che si aprivano un tempo sul giardino e sul fondo rustico di pertinenza, oggi completamente cancellati da edilizia più o meno abusiva.

341. Al centro del primo cortile, fino a non molti anni fa, si vedeva una spaziosa gabbia che custodiva canterini e variopinti uccelli di varie specie.

342. La villa è stata restaurata, dopo circa due secoli dalla sua fondazione, sul finire del Novecento.

Gli sviluppi delle 3 confraternite laicali nel Settecento

343. Tutte e tre le confraternite laicali già esistenti in Barra (quella semi-ufficiale “di S. Antonio” dei francescani; quella parrocchiale “della SS. Annunziata”; e quella “del SS. Rosario” dei domenicani) ricevettero nuovo impulso e fervore dalla missione redentorista del 1741 e dall’introduzione nel Casale della “vita devòta” e ciò si manifestò anche esteriormente, nella ripresa dell’edilizia religiosa e dell’arte (pittura, scultura, musica) a scopo “devozionale”.

344. Proprio intorno alla metà del Settecento, in seguito al Concordato del 1741, il primo ministro borbonico Bernardo Tanucci espropriò, tra gli altri (vedi sopra, n°229), il cinquecentesco convento dei francescani in Barra, lasciando ai frati solo la chiesetta e le stanze attigue.

Il convento espropriato venne utilizzato, allora, come carcere mandamentale, mentre i frati ed i laici della confraternita “di S. Antonio” fecero prontamente restaurare la facciata della chiesa, nell’elegante stile rococò che è giunto sostanzialmente fino a noi.

345. A sua volta, la confraternita parrocchiale “della SS. Annunziata”, che aveva allora circa 170 iscritti su una popolazione barrese di circa 4.000 persone, ed era posta sotto la cura del parroco Don Salvatore Roselli (lo stesso che diede gli ultimi sacramenti a Francesco Solimena nel 1747), realizzò un progetto ancora più articolato.

Nel 1743, si ebbe infatti il completo trasferimento della confraternita dai locali parrocchiali, dove in precedenza aveva sede, alla antica chiesetta di S. Atanasio, che fu per l’occasione restaurata con una nuova facciata, di gusto del tutto analogo a quello della chiesa “di S. Antonio” ed anch’essa giunta fino a noi nella forma settecentesca.

346. Nei primi decenni del Settecento venne anche ultimata la chiesa dei domenicani, con la elegante facciata attribuita dal Venditti proprio a Francesco Solimena, che era appunto un iscritto alla confraternita “del SS. Rosario” dei domenicani di Barra [95].

I tre allievi di Francesco Solimena in Barra

347. In tutte e tre queste chiese, ultimate o restaurate in questo periodo, operarono i tre allievi di Francesco Solimena che furono attivi in Barra intorno alla metà del Settecento: Orazio Solimena, Paolo de Majo e Gian Battista Vela.

Questa triade di artisti fu tanto debitrice a Francesco Solimena, sul piano della ispirazione artistica, quanto a S. Alfonso Maria de’ Liguori, sul piano dell’ ispirazione religiosa e della spiritualità.

Proprio nella sintesi dell’insegnamento di questi due maestri può forse essere indicata la caratteristica che collega tra di loro le opere di questi tre artisti, certo non eccelsi ma estremamente significativi del clima culturale non solo di Barra in quell’epoca.

Solimena e S. Alfonso

348. Del resto, anche il rapporto tra Francesco Solimena e S. Alfonso non è trascurabile.

E’ noto, dal De Dominici, che il padre di S. Alfonso, il nobile ufficiale Don Giuseppe de’ Liguori, si dilettava di pittura e miniatura, e volle per maestro proprio il Solimena:

“Don Giuseppe di Liguoro, cavaliere napolitano, si applicò ancor egli con gran genio al disegno, e volle per maestro Francesco Solimena, con la di cui direzione fece qualche cosa, copiando l’opere sue; ma, lasciando poi di colorire ad olio, si volse a dipingere in miniatura, ed in tal modo ha fatto moltissime cose con sua lode, da poiché virtuosamente applicando il tempo, è venuto a guadagnarsi nome di virtuoso, ed a far sì che il suo nome resti meritevolmente eternato ...

Egli, acciocché non venghi disturbato dalle cure domestiche, suole per lo più ritirarsi a Marianella, casale vicino Napoli, ove, benché fatto vecchio, tuttavia dipinge le sue miniature, delle quali suole far dono ai suoi più cari amici e ad altre persone di merito”[96].

349. Lo stesso Alfonso risentì certamente di questa influenza e fu a sua volta autore di alcuni dipinti che, se non nella storia della grande pittura, meritano certamente di entrare in quella della iconografia religiosa popolare.

Alfonso, nel 1719, a 23 anni, quando era ancora un giovane avvocato, dipinse infatti, su tela, una celebre immagine di Cristo crocifisso ed una, altrettanto celebre, della Madonna [97]: entrambe, riprodotte successivamente a stampa e su rame in innumerevoli copie, furono diffusissime in tutte le case del tempo, soprattutto in quelle del popolo, che ne aveva la più religiosa venerazione.

Alfonso stesso si serviva di queste immagini, sia per la sua preghiera personale, sia per la predicazione al popolo dal pùlpito, così che esse formano, in un certo senso, quasi parte integrante della sua spiritualità [98], e come tali furono sentite e recepìte dai suoi innumerevoli discepoli e seguaci.

350. Il crocifisso lìgneo, di ignoto autore, che si vede attualmente (a destra, entrando) nella parrocchia “Ave Gratia Plena” di Barra, appartiene chiaramente a questo filone, e somiglia molto a quello dipinto da S. Alfonso.

Orazio Solimena (primo)

351. Orazio Solimena era nipote di Francesco Solimena, essendo figlio del fratello di lui, di nome Tommaso.

Dal matrimonio di Tommaso Solimena con la “onestissima donzella” a nome Angela, nacquero infatti vari figli, il primo dei quali, di nome Orazio, venne purtroppo prematuramente a morte, con gran dolore dello zio Francesco, che gli era particolarmente affezionato (vedi nn°100-101 in “Il periodo Austriaco”)

352. A questo dolore, il Solimena cercò conforto nella amicizia che lo legava a Donna Aurora Sanseverino (1667-1726), sorella minore di Giuseppe Leopoldo, IX principe di Bisignano [99].

“Alla perfine, dàtosi pace, ebbe a consolarsi con la nascita di altro nepote, a cui lo stesso nome di Orazio ha voluto imporre ...” (vedi nn°90-95 in “Il periodo austriaco”).

Orazio Solimena (secondo)

353. Fu dunque questo secondo Orazio il nipote prediletto e, per così dire, l’erede artistico designato, come si può vedere dal sonetto “Addio ai pennelli”, quasi un testamento spirituale, che Francesco Solimena compose negli ultimi anni della sua lunga vita:

Cari pennelli, ohimé, vi lascio, addio,

dei miei sudàti onor compagni eletti;

per voi, co’ spirti miei congiunti e stretti,

timor non ebbi di nemico oblio.

Or che vecchiezza rea sul corpo mio

tutti ha distinti i suoi maligni effetti,

noia mi date e non qual pria diletti,

perché qual pria non son, né son quell’io.

Quell’io non son, che nell’età nascente

coraggioso mi spinsi ad alte imprese,

che alla fama dier l’ali ancor nascente.

Restàte, dunque, e sìavi onor cortese,

nelle mani a colui che senno e mente

ebbe dal cielo, e dal mio sangue scese.

In realtà, Orazio Solimena si rivelò artisticamente ben inferiore al suo grande zio, limitandosi ad imitarne lo stile e, molte volte, anche i soggetti.

Opere di Orazio Solimena in Barra

354. Ad Orazio Solimena si debbono, in Barra, sia la tela sopra l’altar maggiore della parrocchia “Ave Gratia Plena”, sia quella sopra l’altar maggiore della chiesa dei Domenicani.

355. La prima raffigura appunto l’Annunciazione di Maria e fu da lui dipinta nel 1749, ispirandosi alla tela di analogo soggetto dipinta da suo zio Francesco per la chiesa di S. Maria di Donnalbina in Napoli, negli ultimi anni del Seicento.

356. La seconda raffigura La battaglia di Muret (combattuta nel 1213), vale a dire un episodio della guerra nella quale gli eretici càtari, guidati dal conte Raimondo VI di Tolosa e dal re d’Aragona, furono sconfitti dai crociati cattolici, inviati da papa Innocenzo III e guidati dal conte Simone di Montfort e da Arnaldo Almarico, abate di Citeaux.

Quella battaglia fu anche un momento importante della vita di S. Domenico (raffigurato infatti nel dipinto) il quale, assistendo a tanto massacro, si confermò nella convinzione di dover contrastare il diffondersi dell’eresia non con le armi bensì con la predicazione e la testimonianza di vita esemplare da parte dei cattolici e, proprio a tal fine, fondò il suo nuovo Ordine religioso.

357. Ad Orazio Solimena si deve anche la tela raffigurante la Madonna del Rosario con S.Domenico, S.Rosa da Lima ed altri Santi domenicani, sempre nella chiesa dei Domenicani, sopra un altare laterale datato 1750.

Paolo de Majo (1703-1784)

358. Proprio di fronte alla tela di Orazio Solimena raffigurante la Madonna del Rosario si può vedere, nella chiesa dei Domenicani in Barra, un’altra grande tela, che rappresenta La circoncisione di Gesù: è datata 1772 ed è opera di Paolo de Majo, anch’egli della scuola di Francesco Solimena.

359. “Paolo de Majo (Marcianise, 15 gennaio 1703 - Napoli, 20 aprile 1784) detto nella scuola Paolo Marcianisi, perchè egli è nativo di quella Terra, è stato un de’ scolari che con assiduità hanno assistito alla scuola, e benché non sia giunto al valore de’ più eccellenti, ad ogni modo si porta bene, e non gli mancano continuamente delle faccende, vedendosi molte opere esposte al pubblico ...

Tralasciando altre sue pitture che sono andate in Francia ed in Ispagna (secondo si dice) ed in altri paesi forestieri, faremo menzione delle due gran sopra-porte che, per non aver stanza capace nella propria casa (perciocché erano circa 40 palmi ogni una), dipinse in S. Agostino Maggiore, ed ove vi fu concorso di varie persone per vederle, essendovi andato ancora il nostro cardinale arcivescovo Spinelli per osservare queste opere, e quasi tutta la nobiltà.

Uno di questi quadri rappresentava la Probatica piscina, l’altro la Disputa di Nostro Signore al Tempio fra li Dottori, e furono mandati in non so quale chiesa della sua patria, cioè nella Terra di Marcianise [100] ...

Vive Paolo operando in Napoli per varie commissioni, godendosi il comodo che l’ha procacciato la nobil arte della pittura” [101].

360. Paolo de Majo [102] fu amico personale, discepolo e corrispondente di S. Alfonso Maria de’ Liguori, del quale ripetette più volte, nelle sue tele, il protòtipo dell’immagine della Vergine con gli occhi rivolti verso il basso e le mani sul petto [103].

361. La sua tela raffigurante La circoncisione di Gesù si trova proprio nel punto in cui si trovava la cappella funebre di Francesco Solimena, menzionata nell’atto di morte di quest’ultimo (1747) ma, per qualche ragione che ignoriamo, non più esistente nel 1770, tanto che al suo posto poté essere messo un nuovo altare laterale (datato 1770) sormontato appunto dalla tela del de Majo (datata 1772).

La tela reca l’iscrizione:

PAULUS DE MAJO

P. EXPECIALI DEVOTIONE

FRATRIS PHILIPPI DE FELICE

FILIJ HUYUS CONVENTUS

A. D. 1772

Questa iscrizione testimonia come Paolo de Majo sia stato spinto a realizzare la sua opera in Barra dalla amicizia e legame spirituale con il frate domenicano Filippo De Felice, che risiedeva nel convento barrese.

Gian Battista Vela (1707-1800)

362. Paolo de Majo frequentò la scuola di Solimena in Barra e ci veniva poi occasionalmente per incontrare il suo amico domenicano fra’ Filippo De Felice; Orazio Solimena viveva, con ogni probabilità, nella grande villa di Barra, lungo la Via detta dei pini di Solimena, a lui lasciata in eredità dallo zio; ma il discepolo di Francesco Solimena più tipicamente barrese fu senz’altro Gian Battista Vela.

363. Nell’Archivio parrocchiale troviamo che, addì 5 novembre 1800, “Il Sigr.d.Giov.Battista Vela, marito di d.Chiara Santelia, avendo ricevuti i SS.Sacramenti per mano di d.Gennaro de Filippo, è passato all’altra vita d’anni 93, abitando alle Case del marchese Solimena e si è seppellito nella Chiesa dei Padri … (non si legge bene)

Nato nel 1707 e morto nel 1800, sempre in Barra, e da famiglia barrese, la sua vita copre dunque l’intero arco del secolo.

Fin da ragazzo dovette manifestare le sue innate attitudini al disegno e alla pittura, tanto che, pur non essendo né nobile né ricco e non potendo quindi permettersi di pagare, poté lo stesso frequentare la scuola del grande maestro, che aveva intuito le sue grandi capacità e lo aveva preso a benvolere.

Ben poco si sa della lunga vita del Vela, che dovette essere peraltro assai riservata e tutta dèdita al lavoro nella sua bottega di artista, con pochi spostamenti dalla natìa Barra.

364. Alla morte del suo maestro Francesco Solimena, nel 1747, egli molto probabilmente ereditò da lui una bella casa, fra le tante che il Solimena possedeva in Barra, nella quale poi visse sempre [104], sita altrettanto probabilmente proprio lungo quella strada che in seguito gli fu dedicata ed ancor oggi porta il suo nome: Via Gian Battista Vela.

365. Il Vela operò su commissione della arciconfraternita della SS. Annunziata, per la quale dipinse una bella tela, raffigurante la Madonna con angeli, datata 1774 o 1775 (l’ultima cifra non si legge bene) e forse (l’attribuzione non è sicura, ma probabile) anche la tela, più piccola, posta sull’altare maggiore della arciconfraternita e raffigurante l’Annunciazione.

366. Anche la confraternita francescana di S. Antonio si rivolse al Vela per completare la decorazione della propria chiesa, nella quale tuttora si conserva, anche se oggi non esposta al pubblico, una sua Madonna con Santi.

La statua di S. Anna in Barra: Giuseppe Picano (1716-1800)

367. Il visitatore che si rechi attualmente nella grande chiesa della “SS. Annunziata” in Napoli [105], “superato il vestibolo ... accede alla navata dove, in due scarabattoli, sono S. Anna con la Vergine e S. Giuseppe: due sculture lignee policrome, attribuite a Giuseppe Picano e datate al 1790”.

368. La statua in legno di S. Anna con la Vergine di Barra è la copia esatta di quella che lì si vede. Evidentemente, il Picano realizzò entrambe, più o meno nello stesso periodo: l’ una per la chiesa di Napoli e l’altra per quella di Barra la quale, non dimentichiamolo, porta anch’essa lo stesso titolo “Ave gratia plena” ed è legata a quella napoletana da un rapporto antichissimo risalente al medioevo [106].

369. Si ricorda qui che, nel 1757, la chiesa dell’Annunziata in Napoli fu quasi completamente distrutta da un grande incendio che risparmiò solo la sacrestia, la cappella della famiglia Carafa di Morcone ed il tesoro.

Questi tre ambienti furono poi inglobati nella nuova costruzione, realizzata nel periodo 1760-1782 da Luigi e Carlo Vanvitelli, che realizzarono altresì l’attuale succorpo.

370. Terminata la ricostruzione, si dovette evidentemente porre mano all’abbellimento della chiesa e Giuseppe Picano (1716-1800), nato a S. Elia Fiumerapido (piccolo paese non lontano da Montecassino e da Aquino, in provincia di Frosinone), scultore, stuccatore e “presepiaio” allora molto noto e stimato nella città e nella stessa corte, vi partecipò attivamente con varie opere [107].

371. La realizzazione della statua di S. Anna rientra in questo programma decorativo, che ne spiega anche la particolare “posa”.

Si ricordi che la chiesa era annessa alla cosiddetta “Santa casa” dell’ Annunziata, dove venivano ospitati ed educati gli “esposti”, ovvero i bambini abbandonati; una volta cresciuti, i bambini lasciavano ovviamente la “Santa casa” per avviarsi nel mondo; il Picano aveva perciò scolpito due statue, da collocare nella chiesa in modo che fossero ben visibili a chi usciva, raffiguranti l’una S. Anna in atto di proteggere e quasi di immettere nel mondo una ragazzetta (la Vergine) e l’altra S.Giuseppe [108] nello stesso atteggiamento nei confronti di un ragazzetto (Gesù).

Le due statue dovevano cioè rappresentare una sorta di viàtico, di benedicente augurio, nei confronti di quei ragazzi e ragazze che lasciavano la “Santa casa” nella quale avevano trascorso la loro infanzia e si inoltravano fra i pericoli del “mondo”.

372. Quale che fosse la sua origine, la statua di S. Anna con la Vergine a Barra piacque moltissimo, fu accolta con grande entusiasmo e prese il posto di quel quadro, raffigurante la Santa nell’intero suo contesto familiare, di cui si è detto a suo luogo [109] ed intorno al quale si era saldamente radicata, nel Seicento, la devozione alla “madre della gran Madre”.

373. Da quel momento, evidentemente, fu anche possibile portare la statua in “processione”, anche se, per poterlo fare con tutti i crismi della ufficialità, si dovette attendere ancora qualche decennio, fino cioè al 1822, quando S. Anna venne proclamata, con apposita Bolla pontificia, patrona di tutto il Comune della Barra.

La “barca” di S. Anna in Barra

374. L’uso di portare la statua di S.Anna in processione dentro una barca si deve anch’esso, molto probabilmente, all’influenza di S. Alfonso Maria de’ Liguori.

Basti guardare la stampa, da lui stesso disegnata per il suo libro “Il trionfo della Chiesa” (pubblicato nel 1772, mentre era vescovo di S. Agata de’ Goti), che raffigura appunto la Chiesa come una galèra in piena tempesta, scossa da onde tumultuose [110].

375. E’ ben noto, infatti, che uno dei simboli più classici per raffigurare la Chiesa è “la barca di S. Pietro”; questa simbologia si basa su alcuni passi dei Vangeli (Mc 4, 35-41; 6, 45-52; Mt 8, 23-27; 14, 22-33; Lc 8, 22-25; Gv 6, 16-21) e sulla interpretazione dàtane dai Padri della Chiesa.

Valga per tutti S. Agostino: “Durante questo tempo, la barca che trasporta i discepoli, cioè la Chiesa, naviga e le tempeste delle prove l’assalgono e la scuotono. Il vento contrario si scaglia contro la Chiesa, cerca di impedirle di giungere al riposo. Ma è più forte Colui che intercede per noi. Nella tumultuosa navigazione in cui peniamo, Egli ci dona fiducia, viene a noi, ci conforta, temendo che, scossi nella barca, ci lasciamo abbattere e ci buttiamo disperati in mare. Fate attenzione, infatti: anche se la barca è scossa, tuttavia è sempre una barca; essa sola trasporta i discepoli ed accoglie il Cristo. Essa è sempre in grave pericolo sul mare, ma al di fuori di essa si perisce subito. Rimani ben saldo nella barca e prega Dio ... Colui che ordina ai naviganti di venire in porto, abbandonerà forse la sua Chiesa, non la condurrà Egli stesso al porto del riposo?” (Sermone 75, 2-4; Enarratio in Ps. 107, 12).

376. Poichè, in tutta l’Italia meridionale, non vi era, si può dire, alcun parroco che non avesse, nella propria biblioteca, i libri di S. Alfonso, è del tutto verosimile che qualcuno dei parroci di Barra tra fine Settecento ed inizio Ottocento [111], guardando quella bella stampa, abbia pensato di far trasportare in processione la statua di S. Anna dentro la barca che simboleggia la Chiesa in cammino nella storia, la Chiesa “che prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che Egli venga”, per crucem ad lucem [112].

L’idea incontrò comunque il vivo favore del popolo, e da allora le famiglie di Barra fecero a gara per avere l’onore di portare ‘a varca ‘e S. Anna, anche come forma di voto per grazie chieste o già ricevute, e di penitenza per i peccati commessi.

La lapide per i presbìteri indigeni e alienigeni (1796)

377. Degli ultimi anni del Settecento è anche la lapide che si vede attualmente nell’angolo a destra dell’altare laterale oggi dedicato, nella chiesa parrocchiale, alla Beata Suor Maria della Passione. La lapide reca l’iscrizione:

QUISQUIS ES

INDICENA ALIENICENA

HYPOGEUM

HUMANDIS PRESBYTERIS

BENE DE HAC AEDICULA MERITISQ. VOTA

EMENDICATA STIPE

VENERATOR

ANNO D.NI 1796

378. Le parole non sono tutte chiaramente leggibili ma in ogni modo il senso è chiaro: si tratta della lastra sepolcrale al di sotto della quale dovevano essere deposti i preti sia di Barra sia forestieri (indigeni e alienigeni) che, con le elemosine da loro ricevute per le Messe, eventualmente celebrate proprio su quell’altare, avevano abbellito quella cappella laterale ed avevano predisposto in essa la loro sepoltura.

Il cardinale Capéce-Zurlo (1782-1800) alle paludi

379. E piace concludere questo capitolo con la serena immagine del cardinale arcivescovo di Napoli Giuseppe Maria Capéce-Zurlo, descritto dal Palomba [113] in un momento del ministero che egli svolgeva, con la parola e con gli aiuti materiali, nei Casali ad oriente del Sebéto, prima dei turbinosi eventi del 1799:

”Era un bel vedere, nelle prime ore pomeridiane, (il cardinale) uscire e portarsi nelle paludi e negli altri territori, sedere all’aria scoverta, chiamare i figliuoli e le figliuole insegnando loro la dottrina cristiana e spezzando il pane della divina Parola secondo la loro capacità; ed acciocché si portassero volentieri ad ascoltare il proprio Pastore, distribuiva ad essi del danaro. Si prestava per le case degli infermi ad amministrare il sacramento della Cresima, quantunque la sua età era avanzata, poiché egli venne a reggere questa chiesa avendo anni 72”.

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Note

[45] Filippo Barbera, op.cit.

[46] Romano Marino -“Cari paesani …”, Tipolitografia La Laurenziana, Barra, 2007.

[47] Vedi Romano Marino, op.cit.

[48] Prefazione di Costantino Grimaldi al trattato di trigonometria del de Cristofaro.

[49] idem

[50] Vedi Luciano Osbat - “L’inquisizione a Napoli: il processo agli ateisti”, Ed. Storia e letteratura, 1974.

[51] Salvatore Palermo – “Notizie del bello, dell’antico e del curioso che contengono le Regali Ville adiacenti alla città di Napoli, che servono di continuazione all’opera del Canonico Carlo Celano”, Napoli, 1792.

[52] Vedi nn°59-73 in “Il periodo del Ducato”.

[53] Benedetto Croce, op.cit.

[54] A solo titolo di esempio, nel 1738 la diocesi di Nocera (una piccola diocesi di appena 25 Km di perimetro) aveva, su 40.000 abitanti complessivi, ben 13 conventi maschili di 13 diversi Ordini religiosi, senza contare i conventi femminili ed il clero diocesano!

[55] Vedi la nota n°13 in “Il periodo Angioino”.

[56] D. Palomba, op. cit.

[57] Vedi nn°130-136 in “La Barra nel Seicento”.

[58] Il Padre Pepe fu, tra l’altro, promotore di una coinvolgente colletta popolare per la costruzione della grande Guglia dell’Immacolata in Piazza del Gesù Nuovo a Napoli.

[59] D. Palomba, op. cit.

[60] P. Antonio Maria Tannoia – “Della vita ed istituto del venerabile servo di Dio Alfonso Maria de’ Liguori”.

[61] D. Palomba, op. cit.

[62] Tannoia, op. cit.

[63] Tannoia, op. cit.

[64] Tannoia, op. cit.

[65] L’“esortazione notturna” poteva anche assumere aspetti molto pittoreschi: i missionari, seguiti dal clero locale e dalle varie categorie di popolo, portavano in processione, dopo il tramonto, una grossa croce illuminata da due ceri. Ad ogni angolo di strada, uno dei missionari gridava il più fortemente possibile: “Peccatore che sei nel peccato, ricordati che questa notte stessa puoi morire e sprofondare nell’inferno” e tutto il popolo presente aggiungeva in coro: “Signore Iddio, misericordia!”

[66] Théodule Rey-Mermet – “Il Santo del secolo dei lumi”, Ed. Città Nuova, Roma, 1983.

[67] Rey-Mermet, op. cit.

[68] Si veda nel Vangelo: Mc 13, 13; Mt 24, 13; Mt 10, 22; Lc 21, 19.

[69] Tannoia, op. cit.

[70] Tannoia, op. cit.

[71] La S. Scrittura condanna come usura qualsiasi forma di prestito ad interesse: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse” (Es 22, 24; ma vedi anche Lv 25, 35-38 e Dt 23, 20-21). Era consentito quindi solo il prestito senza interesse, a puro titolo di aiuto fraterno. Successivamente, nell’epoca moderna, si è considerato moralmente lecito prestare soldi con un mòdico tasso di interesse, tale che sia data al debitore la possibilità di restituire il debito in tempi e modi ragionevoli, senza cioè restare perennemente in balìa del creditore fino alla completa spoliazione.

[72] Per “concubinato” si intende una relazione sessuale al di fuori del matrimonio-sacramento.

[73] Le “massime eterne” sono contenute, in sintesi, nella seguente filastrocca, che serviva per memorizzarle: “Vita breve, morte certa. Del morire, l’ora incerta. Finisce tutto, finisce presto, l’eternità non finisce mai. Un’anima sola si ha: se si perde, che sarà?” Vedi, per confronto, il passo evangelico: “Quale vantaggio, infatti, avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima (vita)? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima (vita)?” (Mt 16, 26).

[74] I cinque “misteri dolorosi” della Passione di Gesù Cristo sono i seguenti episodi avvenuti nell’ultima parte della sua vita: la preghiera di Gesù nell’orto “degli ulivi”; la flagellazione di Gesù alla colonna; la coronazione di spine; il cammino di Gesù fino al Calvario, carico della croce; la crocifissione e morte di Gesù. Questi “misteri” vengono richiamati nella recita del Rosario nei giorni di martedì e venerdì.

[75] Si ricordi che la parroccchia di Barra porta il titolo “Ave Gratia Plena”: è, cioè, dedicata proprio alla “Nunziata” (“Annunziata” = la Vergine Maria che riceve dall’arcangelo Gabriele l’annunzio della nascita di Gesù).

[76] S. Anna, patrona di Barra, viene aggiunta alla menzione classica della “Sacra famiglia”, costituita da Gesù, Giuseppe e Maria.

[77] Giuseppe De Luca – “S. Alfonso, maestro di vita spirituale”.

[78] Vedi: Rey-Mermet, op. cit.

[79] S.Teresa d’Avila, ovvero Teresa Sànchez de Cepeda y de Ahumada, nacque ad Avila (Spagna) il 28 marzo 1515. Entrata nel convento carmelitano della sua città nel 1533 e presi i voti religiosi nel 1534, si dedicò con grande fervore alla riforma dell’Ordine al quale apparteneva, per riportarlo a maggiore autenticità evangelica e fedeltà allo spirito originario, dando così inizio al ramo delle Carmelitane dette “scalze” (1562). Fu aspramente osteggiata da varie autorità civili e religiose e fu persino sottoposta a processo da parte dell’Inquisizione. Riuscì tuttavia a superare tutte le difficoltà, calunnie ed incomprensioni, portando avanti la sua opera riformatrice e vivendo un’intensa esperienza mistica (= di unione con Dio). Morì ad Alba de Tormes (Salamanca), nel 1582. Era il 4 ottobre, ma proprio quel giorno si cambiava il calendario secondo le prescrizioni del papa Gregorio XIII, per cui quel 4 ottobre diventava il 15 ottobre. Proclamata ufficialmente Santa nel 1622, la sua festa ricorre infatti il 15 ottobre. Oltre che donna di preghiera ed infaticabile organizzatrice, fu anche scrittrice di grande efficacia. Le sue opere più famose sono il “Libro della mia vita”, il “Cammino di perfezione” e il “Castello interiore o le sette stazioni”, nel quale, servendosi dell’immagine di un castello con le sue varie dimore, descrive la sua esperienza di preghiera e di contemplazione. E’ stata la prima donna ad essere proclamata ufficialmente “dottore della Chiesa”. Attenzione: S. Teresa d’Avila, di cui sopra, non va confusa con S. Teresa di Lisieux (detta anche “di Gesù bambino”) che è invece una Santa francese dell’Ottocento (nacque nel 1873 e morì a soli 24 anni, nel 1897), anche lei carmelitana, e la cui festa ricorre il 1° ottobre.

[80] “Considerazioni sopra le virtù e pregi di S.Teresa” - La frase citata è l’inizio della Appendice intitolata “Breve pratica per la perfezione, raccolta dalle dottrine di S.Teresa”.

[81] Tannoia, op. cit.

[82] Tannoia, op. cit.

[83] D. Palomba, op. cit.

[84] Tannoia, op. cit.

[85] Il Sarnelli rimase a capo della missione napoletana fino al maggio del 1744, un mese prima di morire, il 30 giugno 1744; il suo posto fu poi preso dal prete napoletano Don Matteo Testa, che guidò (ma non da S.Aniello) circa 150 missionari, per un altro anno e mezzo, nelle parrocchie della città.

[86] Pecorelli, riportato da D. Palomba, op. cit.

[87] Tannoia, op. cit.

[88] Atti Santa Visita Card. Luigi Ruffo-Scilla, 1817 – Copia dell’Atto di fondazione nell’Archivio notarile regionale di Napoli.

[89] Nell’esortare lo studioso lettore ad approfondire altrove la figura di questo Santo, tanto importante nel Settecento napoletano quanto purtroppo poco conosciuto, qui diremo soltanto che egli fu un religioso barnabita, cioè appartenente all’Ordine religioso fondato da S. Antonio Maria Zaccaria (Cremona, 1502-1539), morto a soli 37 anni dopo una densissima vita, profeticamente spesa per quella Riforma della Chiesa che da lì a poco sarebbe stata propugnata dal Concilio di Trento (1545-1563) per la cristianità intera. Il suo Ordine religioso venne riconosciuto ufficialmente dal Papa Clemente VII nel 1533 come Ordine dei Chierici Regolari di S. Paolo, detti Barnabìti dal nome della chiesa di S. Bàrnaba a Milano, dove l’Ordine ebbe inizio, e giunse a Napoli nel 1605. Francesco Saverio Maria Bianchi, dal canto suo, nato ad Arpino di Frosinone nel 1743, entrò fra i Barnabiti nel 1762 e venne ordinato prete a soli 23 anni, nel 1766. Dal 1773 al 1785 carismatico Superiore dei Barnabiti napoletani, fu professore straordinario di teologia all'Università di Napoli, membro dell'Accademia ecclesiastica fondata dal Cardinale Spinelli, socio dell'Accademia di scienze e di lettere. Amico e confessore della stigmatizzata terziaria francescana S. Maria Francesca delle Cinque Piaghe, che assistette in punto di morte, il Bianchi possedeva in grado eminente il dono del consiglio e della scrutazione dei cuori, motivo per cui tante persone di tutti i ceti sociali accorrevano al suo confessionale per avere pace di coscienza e forza per superare le tentazioni. Al suo consiglio fecero ricorso persino S. Alfonso de Liguori, il B. Vincenzo Romano, parroco di Torre del Greco, Carlo Emanuele IV e la sua consorte, la Ven. Maria Clotilde di Borbone, esuli in varie città d'Italia dopo l'annessione del Piemonte alla Francia nel 1798. Durante il Decennio francese (1805-1815), i Barnabiti, come gli altri Ordini religiosi, vennero soppressi e perdettero tutti i loro conventi e le loro istituzioni, ma il P. Bianchi continuò a perseverare nell’osservanza delle Regole dell’Ordine, esortando con la parola e con l’esempio i suoi confratelli a rimanere saldi, nell’attesa del certo ristabilimento dell’Ordine, come di fatto avvenne. Dal canto suo, gravemente ammalato ed impossibilitato a muoversi, fu ospitato in casa propria dal Parroco di S. Maria in Cosmedin, assistito da un confratello. Persone devote gli fornirono cibo e vestiti a titolo di carità finché visse e poté cosi destinare ai poveri la tenue pensione che il governo francese gli erogava mensilmente. Morì in Napoli nel gennaio del 1815, dopo però aver visto la disfatta dell’armata francese in Russia nel 1812 ed il ritorno a Roma del papa Pio VII nel 1814.

[90] Sac. Guido Pettinati SSP - I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine, Ed. Segno, 1991, pp. 1400-1404.

[91] I Pazzi erano infatti una famiglia di ricchi commercianti, speculatori finanziari e banchieri, che contendevano ai Medici il predominio sulla città di Firenze. E’ del 1478 la famosa “congiura dei Pazzi” contro i Medici, nella quale rimase ucciso Giuliano de Medici, fratello sedicenne del più celebre Lorenzo il quale, proprio scampando alla congiura ed attuando in seguito una feroce rappresaglia nei confronti della famiglia avversa, consolidò il suo potere sulla città di Firenze.

[92] Vedi nn°7-9 e nn°16-20 in “La Barra nel Seicento”.

[93] Cesare De Seta in “Le Ville Vesuviane”, Ed. Rusconi, Milano, 1980.

[94] Anna Giannetti e Benedetto Gravagnuolo in “I Casali di Napoli”, Ed. Laterza, Bari, 1984, 1989.

[95] Vedi nn°173-176 in “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[96] B. De Dominici, op. cit.

[97] La tela del Crocifisso si trova a Ciorani; quella della Madonna a Pagani.

[98] “Anima mia, alza gli occhi e guarda quell’uomo crocifisso … Pensa che egli è il Figlio diletto dell’eterno Padre, e pensa ch’è morto per l’amore che ti ha portato. Vedi come tiene le braccia stese per abbracciarti, il capo chino per darti il bacio di pace, il costato aperto per riceverti nel suo Cuore. Che dici? Merita d’essere amato un Dio così amoroso? Senti quello ch’egli ti dice da quella croce: Vedi, figlio, se vi è nel mondo chi t’abbia amato più di me” (S. Alfonso - “Opere ascetiche”, X, pp. 214-215).

[99] Aurora Sanseverino nacque a Saponara, oggi Grumento Nova (Potenza) il 28 aprile 1667 e morì a Piedimonte, oggi Piedimonte Matese, il 2 luglio 1726. Sposò, il giorno di Natale del 1680, il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, il quale però venne a morte nel settembre dell’anno dopo, lasciandola senza figli. Sposò poi, il 28 aprile del 1686, Niccolò Gaetani dell’Aquila d’Aragona: fu una coppia di nobili colti e mecenàti, al centro di un cenàcolo di artisti, filosofi e letterati, tra i quali oltre al Solimena vi fu anche Gian Battista Vico, che Ella riceveva regolarmente nel suo salotto di Palazzo Gaetani, a Port’Alba in Napoli. Si iscrisse alla celebre Accademia dell’Arcadia (vedi nn°32-33 de “Il periodo austriaco”) nel 1695, con il nome di Lucinda Coritesia, e compose numerose poesie di discreto valore. Amò molto anche il teatro, il canto, la musica e … la caccia al cinghiale sui monti del Matese. Dal secondo marito, ebbe due figli, Cecilia e Pasquale, che però morirono entrambi prima dei genitori. La figlia Cecilia Gaetani d’Aragona andò sposa ad Antonio di Sangro e fu la madre del celebre Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero. Cecilia morì nel 1711, quando Raimondo aveva appena un anno.

[100] La Probatica piscina si trova nel Duomo di Marcianise; la Disputa di Nostro Signore al Tempio fra li Dottori nella chiesa dell’Annunziata, della stessa Marcianise.

[101] B. De Dominici, op. cit.

[102] Si veda il dettagliato studio di Mario Alberto Pavone - “Paolo de Majo: pittura e devozione a Napoli nel secolo dei lumi”- Società Editrice Napoletana, 1977.

[103] Si veda la Madonna delle tre corone (1776), da lui realizzata per l’omonimo santuario di Sarno.

[104] Si tratta forse, come vuole la voce popolare, di quella casa i cui resti tuttora si vedono, proprio di fronte alla Villa Amalia? Probabilmente no, ma chissà …

[105] Vedi: Ida Maietta e Angelo Vanacore – “L’Annunziata: Chiesa e Santa Casa”, Napoli, 1997.

[106] Vedi n°145 e seguenti, in “Il periodo Angioino”.

[107] Giuseppe Picano era figlio di un altro valente artista di S. Elia Fiumerapido: Francesco Picano (1689-1743), discepolo di Lorenzo Vaccaro, ed anche lui attivo a Napoli agli inizi del Settecento come scultore e intagliatore in legno.

[108] La scultura in legno raffigurante Gesù ragazzo accanto a S. Giuseppe è purtroppo andata perduta, ma la sua presenza rimane ben visibile nella “posa” di S. Giuseppe.

[109] Vedi nn°124-129 in “La Barra nel Seicento”.

[110] S. Alfonso era particolarmente sensibile a questa immagine della Chiesa: si ricordi che suo padre, il cavalier Giuseppe de’ Liguori, fu per tutta la vita un ufficiale comandante di galère.

[111] Non sappiamo se Don Michele Raiola (1761-1799) o Don Cosimo Barbato (1801-1803) oppure, più probabilmente, lo stesso Don Gaetano Ascione (1806-1825), il parroco che nel 1822 ricevette ufficialmente la suddetta Bolla pontificia.

[112] Le citazioni sono dal Concilio Vaticano II (1962-1965): “Lumen gentium”, n°8d e n°9d.

[113] D. Palomba, op. cit.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, ottobre 2016

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