Il nobile plebeo ed il re
lazzarone
189. In effetti gli storici,
sia liberali sia di parte borbonica, sono
concordi nell’imputare al San Nicandro un
ruolo piuttosto negativo nella formazione
del giovane re, da lui avviato solo alla
spensieratezza ed ai divertimenti (per di
più, di gusto assai plebeo) ed a rifuggire
dall’assumersi direttamente le
responsabilità del regno.
190. Se ciò è vero, però, va
allora attribuita a lui anche quella
singolare “affinità di spirito” tra la
monarchia napoletana e le masse plebee che
guidò Ferdinando nelle sue scelte successive
e che costituì un punto di forza dei Borbone
nella loro lotta contro la ascendente classe
borghese, come si vide nel 1799 ma anche
dopo, fino al brigantaggio post-unitario.
191. Domenico Cattaneo sposò
nel 1717 Giulia de Capua, dalla quale ebbe
14 figli, la maggior parte dei quali, però,
morti prematuramente o comunque prima di
lui. Morì nella sua villa alla Barra il 2
dicembre 1782 e fu sepolto nella chiesa di
S.Maria della Stella, assai vicina al suo
palazzo napoletano.
192. Nel 1866, dopo l’unità
d’Italia, la villa fu restaurata ed
ulteriormente abbellita da Giulia
Cattaneo Della Volta (1828-1897),
discendente del principe Domenico, che
affidò i lavori di ampliamento
all’architetto Nicola Breglia, come a
suo luogo meglio si dirà.
Cenni descrittivi della villa
… e cunicoli
193. “L’asse principale del
giardino della villa Pignatelli fu adoperato
come direttrice per il disegno del giardino
della villa del prìncipe di San Nicandro,
oggi villa Giulia. Difatti questo giardino …
viene curiosamente disposto sul fronte
laterale della villa, che guarda verso
quella dei Pignatelli di Monteleone,
prefigurando una sorta di collegamento
ideale fra i due giardini”
.
194. Questi “collegamenti” non
erano solo “ideali”: “Da anziani di Barra,
testimoni oculari poiché ne hanno percorso
alcuni, ho saputo che dei cunicoli
esistevano sotto diverse ville di Barra. Uno
si trovava in villa Pignatelli e portava
sulla spiaggia di San Giovanni a Teduccio,
mentre un altro portava a villa Spinelli.
Anche villa San Nicandro aveva la sua
galleria sotterranea … che terminava
anch’essa sulla spiaggia di San Giovanni a
Teduccio”
.
195. La struttura vanvitelliana
originaria, sia della fabbrica sia del
giardino, è visibile nella mappa del duca di
Noja (1775). Il confronto con la situazione
attuale mostra che la villa presenta oggi un
impianto a due cortili (invece di uno); un
ampio terrazzo a emiciclo (che non c’era)
davanti alla facciata principale; una bella
serra in vetro e ferro, introdotta da
Breglia nel grande parco. Sostanzialmente
inalterata è rimasta invece la facciata, a
tre ordini, con un alto zoccolo di bugnato,
lesene giganti e, al centro di tutto, il
fastigio con lo stemma della famiglia.
Luigi Vanvitelli (1700-1773)
alla Barra
196. E’ merito di Romano Marino
aver “ripescato”, dal lavoro di Franco
Strazzullo su “Le lettere di Luigi
Vanvitelli della Biblioteca Palatina di
Caserta”, i riferimenti dello stesso Luigi
Vanvitelli alla costruzione della villa
Barrese, nella sua corrispondenza con il
fratello Urbano.
Lettera n°752 del 7 giugno
1760: Fui al Casino di S.Nicandro alla
Barra, vicino Portici, che vuole adornare un
poco. Domenica verrà Collecini (un suo
collaboratore) per prendere la pianta e
poi subito gli farò il disegno.
Lettera n° 753 dell’8 giugno
1760: Ieri, Collecini e i ragazzi (i suoi
figli, Carlo e Pietro) andiédero a
prendere le misure della piazza e facciata
del Casino di S.Nicandro alla Barra.
Collecini fece le misure della facciata e li
ragazzi da sé presero la pianta, con la
tavoletta pretoriana, della piazza con gli
annessi, che è una cosa oltremodo
irregolare. In somma, in un dopo pranzo,
ànno fatto tutto.
Lettera n° 832 del 25 gennaio
1761: Venne ieri a trovarmi a letto
(aveva avuto la febbre per tutto il periodo
natalizio) il Duca di Tèrmoli, figlio
del Principe di S.Nicandro. Vi era il suo
interesse, per l’adornamento del Casino
della Barra, ma non ostante ne puotea fare a
meno, anche è significante rispetto al
padre.
Lettera n°837 del 14 febbraio
1761: Ieri sera fui da S.Nicandro a Palazzo
(Reale), il quale mi accolse bene
assai. Mi vuole vedere questa sera ancora,
per parlarmi di alcuni disegni che vuole
fare per la camera del Re di Napoli, da
servirsene allorché il Re si sposerà (già si
pensa a questo) … (il Re nel 1761 aveva
10 anni di età).
Ieri, non puotendo io a cagione
del freddo, mandai Pietro e Fonton (altro
suo collaboratore), perché Carlo sta
male di flussione pertinace alla gola, a
visitare il Casino della Barra di detto
Principe Sannicandro, ove trovarono che è
piantato l’ornato malissimo. Quale ornato,
per altro, dicono che fa una bella vista
così tutto bugnato e di pietra, onde vi sarà
questa sera lungo discorso sopra del modo
agendum con il Duca di Termoli, quale
ieri, perché era di Guardia stretta, non gli
puotetti dire una sola parola. Guardia
stretta significa che il Re sta giocando o
altro, e chi è di Guardia stretta sta nella
camera appresso a sedere o passeggiando,
aspettando di essere chiamato et similia
come ogni umilissimo cameriere.
Lettera n°850 del 28 marzo
1761: Fui a piantare con Pietro la facciata
del Palazzino di S. Nicandro, ove già con
tutta puntualità avevano sbagliato. Si è
rimediato tutto.
Lettera n°866 del 2 giugno
1761: Oggi sono stato con mio figlio a
vedere il Casino di S.Nicandro, quale ò
trovato bastantemente avanzato, e fra poco
sarà finito. Domani si farà congresso per la
Statua Equestre e per proseguire l’ornato
della Piazza, il quale viene magnifico molto
e di un’architettura inusitata in questo
paese.
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Luigi Vanvitelli |
Villa
Puoti-Salvetti-Torricelli
197. Lo storico di Barra
Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889,
riferisce: “Quivi… si ammira… la Villa
Salvetti-Torricelli (nel cui giardino di
fronte alcuni escavi, da non molto
praticati, accennavano ad una buona
antichità), ove il celebre Basilio Puoti
ritornava, come voleva Cicerone, a
raccogliersi ed a far parlare sovente il
patriottico linguaggio italico ai suoi
giovani nell’annesso Teatrino”.
198. Il napoletano Basilio
Puoti (1782-1847) fu esponente della
corrente letteraria del cosiddetto
“purismo”, maestro del grande storico della
letteratura italiana Francesco De Sanctis
(1817-1883) nonché amico e
corrispondente dello stesso Giacomo
Leopardi (1798-1837), durante il
soggiorno di questi a Napoli.
199. Il “purismo”, iniziato dal
Padre Antonio Cesari (1760-1828),
veronese, propugnava il ritorno della lingua
italiana alle sue “sorgenti” pure ed
originali, vale a dire soprattutto ai grandi
autori del Trecento (Dante, Petrarca,
Boccaccio), sostenendo, contro quel processo
di “in-francesimento” linguistico che si era
verificato nella seconda metà del
Settecento, che era possibile derivare dai
grandi classici italiani trecenteschi tutto
quanto necessario per creare un linguaggio
perfettamente adeguato alle esigenze
moderne.
In questo modo, i “puristi”
chiamavano la cultura italiana a riprendere
coscienza di sé, della propria originalità
ed autonomia, svolgendo quindi anche,
direttamente o indirettamente, un ruolo
“patriottico” di preparazione del
Risorgimento politico dell’Italia, della sua
unità interna ed indipendenza dallo
straniero.
La scuola “purista” visse fino
alla fine dell’Ottocento, manifestandosi
soprattutto in vivaci polemiche per
l’italianità della lingua e con importanti
edizioni e ristampe dei testi degli autori
italiani antichi.
200. Nella villa Salvetti
veniva dunque a villeggiare il Puoti,
tenendovi anche lezioni ed incontri con i
suoi allievi: tra questi, si veniva educando
al culto delle lettere e s’infiammava di
ardore patriottico il grande Francesco De
Sanctis.
201. Altra persona che ebbe
sicuramente corrispondenza con Basilio
Puoti, in Barra, fu Giacomo Leopardi. Come è
noto, il Leopardi si stabilì a Napoli
nell’ottobre 1833, insieme all’amico Antonio
Ranieri e alla sorella di lui, Paolina
Ranieri.
L’ambiente culturale napoletano
di quegli anni era, in generale, abbastanza
ostile al poeta; gli fu perciò di conforto,
in quell’ultimo periodo della sua vita
(Leopardi, come si sa, morì proprio a
Napoli, nel corso dell’epidemia di colera
del 1837) l’amicizia e corrispondenza che
intrattenne con pochi amici, fra i quali,
oltre al Poerio e al Troya, vi era anche
Basilio Puoti.
202. La villa è epigraficamente
intitolata alla famiglia Salvetti, la quale
però, essendo questo cognome di origine
toscana, molto probabilmente giunse in Barra
solo dopo l’unità d’Italia (1860), come a
suo luogo si dirà.
Cenni descrittivi della villa
203. La villa Salvetti è ben
evidente nella mappa del duca di Noja (1775)
ed ha mantenuto sostanzialmente inalterate
struttura e planimetria.
L’impianto è ad U; la facciata,
a tre piani, costeggia la Via Luigi Martucci
e sopra il portale si legge il nome SALVETTI
scritto in caratteri bodoniani; i due corpi
di fabbrica laterali si affacciano sul
cortile interno.
Il giardino storico si trova
non in asse con l’ingresso principale bensì
sulla destra dell’edificio, dove tuttora si
vedono tre antiche palme.
204. Nel periodo successivo al
terremoto del 1980, il terreno agricolo
retrostante la villa fu espropriato per
motivo di pubblica utilità ed in seguito è
diventato un parco pubblico adiacente alla
villa stessa. I lavori di restauro
dell’edificio sono andati assai a rilento.
Anche attualmente, sono solo parzialmente
completati e la struttura non è ancora
agibile.
Villa De Cristofaro
205. Sorge ad angolo fra il
Corso Sirena e la Via Gian Battista Vela, in
posizione simmetrica rispetto a villa
Spinelli.
Visibile già nella mappa del
duca di Noja (1775), con ampio cortile ed
abbastanza esteso terreno agricolo di
pertinenza, versa oggi purtroppo in
condizioni di grave decadenza: ridotta ad un
malgestito condominio e pesantemente
manipolata nella struttura, il suo antico
giardino è stato completamente distrutto per
far posto a successive abitazioni.
206. Lo storico di Barra
Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889,
riferisce: “Appena la vanga si abbassa un
po’ di soverchio nel giardino annesso alla
villa De Cristofaro, veggonsi apparire
avvanzi umani …; se si escava negli atrii,
tu addirittura vedi accenni di porticati e
colonne marmoree …
Nel 1865, sotto l’egregio
Sindacato Paracuollo, allorchè si fece il
corso sotto stradale all’attuale Via Sirena…
nei sterri Sotto le Torri, ossia fra
l’edificio delle suore della Carità e quello
De Cristofaro, si rinvenne una grande
quantità di scheletri umani, ma con monete
di lato e la così detta lampada eterna,
il che accennerebbe ad epoca pagana, ed in
cui usavasi seppellire lungo le vie fuori
degli abitati.
In qualunque epoca, il fatto
constatato ci assicura che, Sotto le
Torri, si trovano depositate larghe
vestigia di morte!”
Sembra quindi, come afferma lo
stesso Cozzolino, che si possa parlare di un
antico cimitero di epoca romana, posto nella
zona sottostante il giardino di villa De
Cristofaro e l’incrocio tra il Corso Sirena
e la Via Gian Battista Vela.
207. Proprio sopra quel
cimitero (ma molti secoli dopo, quando di
esso si era ormai persa ogni memoria e
traccia apparente) “si vide sorgere la
villa, che fu poi acquistata in seguito dai
baroni De Cristofaro, ove si
osservano ancora degli affreschi attribuiti
al pennello di Luca Giordano (il
celebre artista che abitava nella vicina S.
Giorgio a Cremano, nella contrada detta, da
lui appunto, Sopra il Pittore)…”
I de Cristofaro, Baroni
dell’Ingegno
208. In effetti, i de
Cristofaro erano, fin dal periodo del
vice-regno spagnolo, una famiglia di
avvocati e, come allora si diceva,
giure-consulti.
Una famiglia, dunque, di
borghesia benestante e in ascesa sociale
che, nel periodo del Decennio francese,
ricevette il titolo di “baroni dell’ingegno”
in persona di Giuseppe de Cristofaro, primo
Barone dell’Ingegno con investitura dell’11
novembre 1808; e tale titolo venne poi
confermato nella successiva Restaurazione
borbonica.
209. Il Cozzolino (vedi sopra,
n°207) dice che la villa non fu costruita da
loro ma solo “acquistata in seguito
dai baroni De Cristofaro”: sembra
quindi che quella che vediamo nella mappa
del duca di Noja sia una villa, non sappiamo
da chi edificata ma comunque affrescata
addirittura da Luca Giordano (1634-1705),
che poi, dopo il 1808, venne
acquistata dai de Cristofaro, Baroni
dell’Ingegno.
Ciò è confermato dal fatto che
la cappella funebre della famiglia de
Cristofaro non si trova all’interno del
Palazzo, come si usava nelle famiglie di più
antica nobiltà, bensì nel cimitero di
Barra, seguendo la legge che entrò in
vigore proprio nel Decennio francese: anche
attualmente, la si può osservare
dall’esterno, imponente ma purtroppo
abbandonata, alquanto malridotta e comunque
non visitabile.
Giacinto de Cristofaro (1664
? – 1725): l’avvocato matematico
210. “Il Sig.Giacinto de
Cristofaro … esercitando con sommo decoro la
professione di avvocato nei Regi
Tribunali di questa città (Napoli) …
ha voluto accoppiare con la dottrina legale
non solo la varia erudizione e la più soda
filosofia, ma anco la scienza della
Geometria e dell’Analitica premendo i
vestigi (= seguendo le orme) del
Sig.Bernardo suo padre, eruditissimo
giuris-consulto … come ne fa
testimonianza, tra l’altre cose, l’opera
dottissima ch’ei scrisse sull’origine e
progresso dell’Accademia e delle Scienze,
con le Vite degli uomini illustri, che
fiorirono in tempo di Gioviano Pontano
(1429-1503): la quale opera, nell’istesso
giorno della sua morte, fu involata (=
rubata) dal suo Museo, con perdita non
poca delle buone lettere.
211. Egli (Giacinto)
oltre le varie scritture di tempo in tempo
pubblicate intorno alla professione legale …
diede alla luce nell’anno 1700 un trattato
della costruzione de’ problemi geometrici
col titolo De constructione aequationum
che non solo fu applaudito da Geometri
dell’Italia, ma della Francia,
dell’Inghilterra, dell’Alemagna e di altre
parti d’Europa … e da’ Signori della Regale
Accademia delle Scienze di Parigi fu, per
esso, giudicato singolare nell’Italia e che
fosse stato il primo tra noi a scrivere
di tal materia”
.
Successivamente, diede alle
stampe (Venezia, 1720) anche un trattato
“Della dottrina de’triangoli (= la
trigonometria)” nella quale “spiega la
dottrina de’ triangoli, dai suoi princìpi,
con brevità e chiarezza mirabile”
.
212. Giacinto de Cristofaro
(1664 ? - 1725), citato fra gli altri da
Benedetto Croce nella sua “Storia del Regno
di Napoli”, fu dunque un avvocato nonché
importante matematico nella seconda metà del
Seicento e nei primi due decenni del
Settecento.
213. Negli anni 1688-1697 fu
uno degli imputati nel cosiddetto “processo
agli ateisti” condotto dall’Inquisizione
diocesana di Napoli, al termine del quale fu
condannato come “sospetto di eresia” perché
avrebbe sostenuto l'esistenza di uomini
formati da atomi prima di Adamo, avrebbe
negato il potere spirituale della Chiesa e
del Papa, negato l'eucarestia, i miracoli,
l'inferno, il purgatorio, il paradiso, la
natura divina di Cristo e Dio stesso;
avrebbe fatto proprie le tesi luterane del
libero esame; e finanche avrebbe
giustificato la fornicazione e l'incesto …
Durante il processo, rimase in
prigione per circa 6 anni. Alla fine, fu
condannato a non abbandonare più la propria
casa senza autorizzazione del tribunale
nonché ad una più scrupolosa osservanza
delle ordinarie pratiche religiose (Messa,
confessione, digiuni, preghiera, etc.)
214. Stroncato nella carriera
forense e ridotto in difficili condizioni
economiche, dedicò l’ultima parte della sua
vita agli studi matematici e scientifici, ed
infatti le sue importanti opere di geometria
analitica (vedi sopra) recano le date del
1700 e del 1720.
215. Tuttavia, dopo la pubblicazione di tali
opere, con l'aiuto del P.Celestino
Galiani (1681-1753), ottenne nel 1720,
nel periodo del vice-regno austriaco, la
nomina a “matematico imperiale” e partecipò
ai lavori della commissione per l'immissione
delle acque del Reno nel Po. Interrotti però
nel 1721 tali lavori, tornò a Napoli, dove
morì alla fine del 1725.
216. A quanto sembra
,
il de Cristofaro fu semplicemente calunniato
e rimase “schiacciato” in un ingranaggio più
grande di lui.
In quel periodo, nel vice-regno
napoletano, i veri contendenti erano
essenzialmente: da una parte, i
nobili e l’alto clero, che difendevano il
loro potere tradizionale, e dall’altra
il movimento di intellettuali borghesi che
faceva capo all’avvocato Francesco
d’Andrea (1625-1698) e alla Accademia
degli Investiganti.
Questi ultimi, sul piano
culturale, criticavano l’aristotelismo
della tarda scolastica in nome del pensiero
“moderno”, diffuso nell’Italia meridionale
soprattutto da Tommaso Cornelio
(1614-1684) e che aveva come sue
bandiere il filosofo francese Renato
Cartesio e la riproposizione, sulla base
della nuova “scienza sperimentale”, delle
antiche teorie atomistiche di Epicuro e
Democrito; sul piano sociale e politico,
si appoggiavano all’autorità statale (= ai
viceré) per cercare di contenere gli abusi
di potere della nobiltà e le ingerenze
dell’alto clero nella giurisdizione civile.
217. Il de Cristofaro era
certamente un simpatizzante di questo
movimento di innovatori, ma altrettanto
certamente era ben lontano dal sostenere
quelle tesi religiose per le quali venne
condannato.
Comunque sia, in sua difesa,
contro il gesuita Aletino (pseudonimo del P.
De Benedictis), scrissero, negli anni del
processo, il citato Francesco D’Andrea ed un
altro importante personaggio dell’epoca, al
quale pure è dedicata oggi una strada di
Barra, e cioè Giuseppe Valletta
(1636-1714).
218. Successivamente,
nell’Ottocento, altro esponente notevole
della famiglia fu il domenicano P.
Giuseppe de Cristofaro, che visse in un
momento particolarmente delicato per la
storia del suo Ordine religioso in Barra,
come a suo luogo si dirà.
Villa Quaranta-Finizio
219. Nella mappa del duca di
Noja (1775) è ben visibile la struttura di
questa villa, praticamente addossata alla
chiesa ed al convento dei Padri domenicani,
all’incrocio del “quadrivium nobile” dove
già vi sono la villa Roomer-Bisignano e la
villa Filomena.
220. Non è noto chi l’abbia
fatta edificare e comunque è importante
soprattutto per aver ospitato “il
chiarissimo archeologo e l’ispirato
epigrafista” Bernardo Quaranta (1796-1867)
che vi morì dopo di avervi lungamente
dimorato e che fu, in vita, una delle
“glorie” internazionali del Regno napoletano
nell’Ottocento, come a suo luogo meglio si
dirà.
La Barra a fine Settecento:
il Paradiso in terra ?!
221. Questa breve panoramica sulle ville che furono
edificate o restaurate in Barra nel corso
del Settecento può forse bastare a rendere
ragione dell’entusiasmo con cui i nostri
luoghi erano descritti dagli autori
dell’epoca, sia per la loro bellezza
paesaggistica e monumentale sia per la
fertilità della terra.
222. Basti qui riportare un autore del 1792, che possiamo
leggere accostandolo al Giustiniani (1797)
già in precedenza citato:
“Alle spalle de’ luoghi finora da noi descritti, vi sono
altre deliziose Popolazioni, luoghi che
hanno in sé raccolto il contenuto e ‘l
piacere.
Bosco regale, Bosco tre Case,
la Barra, S.Giorgio a Cremano, Massa
di Somma, e tant’altri luoghi, ricchi di
superbi Casini e di deliziose Ville,
sono degni tutti da esser visti: tutto qui
cospira a rendervi la vita tranquilla, ed a
far sentire meno gl’incomodi dall’umanità
inseparabili: chiunque voglia godere vita
men penosa e quieta, qui deve portarsi,
poicché tutto spira amenità e gusto: e oltre
a ciò, la terra compensa con larga usura
le incessanti fatiche del suo colono.
Ben si appose chi disse, esser questi luoghi
il Paradiso in Terra …
Se ardisce dir, la lingua mia non erra
che sei Tu della Terra il
Paradiso
o non si trova Paradiso in
Terra”
.
La definizione di “Paradiso in
terra” è certamente eccessiva, ma non si può
negare che il Casale della Barra, come i
Casali vicini, abbia conosciuto in
quell’epoca un periodo di non più visto
splendore.
Massòni e Gesuìti
223. Quel ruolo di indiscussa centralità, sul piano
economico-sociale come su quello morale, che
la Chiesa aveva ereditato dal medioevo e che
abbiamo brevemente descritto a suo luogo
,
cominciava ad essere ritenuto non più
accettabile dal nuovo ceto intellettuale
emergente.
Il nuovo pensiero “illuminista”
criticava la religione tradizionale in
quanto veicolo di oscurantismo, di ignoranza
superstiziosa, di oppressione delle
coscienze e strumento di potere
dell’aristocrazia e dell’alto clero feudale.
224. La classe borghese,
man mano che andava acquistando maggiore
consistenza numerica, peso sociale e
consapevolezza ideologica, tendeva sempre
più ad allontanarsi dall’istituzione
ecclesiastica.
Anche la nobiltà, pur
formalmente religiosa, tendeva in realtà a
vivere in modo “libertino” la propria vita
privata e, nella misura in cui si dedicava
agli studi, apprendeva anch’essa le idee dei
nuovi filosofi.
225. “La nuova istituzione
della Massoneria, che stringeva col
suo vincolo uomini di tutte le condizioni
sociali, riunendoli nel comune sentimento
dell’umanità, non poteva non essere ben
accolta dai componenti di questa classe
intellettuale; e, quantunque per breve tempo
proibita da re Carlo di Borbone, ripigliò
poi a tessere le sue fila e fondò in Napoli
parecchie logge. Ogni istituzione ha
il suo bel tempo, la sua gioventù; e la
massoneria, adesso ambigua o intrigante ed
insulsa, allora era schietta ed ingenua, e
rispondeva alla nuova religione della
Ragione, le dava una sorta di mitologia,
di cerimoniale e di culto e si rendeva
perfino accetta alla società elegante e
mondana”.
Suo capo notorio ed indiscusso
a Napoli fu, in quel periodo, il famoso
Raimondo di Sangro, VII principe di
Sansevero (1710-1771) e, per un certo
tempo, persino la regina Maria Carolina ne
fece parte e la protesse.
Nel 1738, il papa Clemente XII
(1730-1740) condannò la massoneria con la
Bolla “In eminenti” e la condanna fu poi
rinnovata dal suo successore Benedetto XIV
(1740-1758), con la Bolla “Providas”, nel
1751.
226. Grandi antagonisti della
massoneria furono soprattutto i Gesuiti:
essi, che avevano fino ad allora
tradizionalmente svolto il ruolo di
“consiglieri del Principe”, videro in quel
secolo massòni e nuovi filosofi iniziare a
competere con loro proprio nello svolgimento
di quel ruolo (vedi sopra, n°71 e
nn°173-176).
La lotta per l’egemonia
culturale fu aspra e multiforme ma, a
partire dalla metà del Settecento, i Gesuiti
cominciarono ad incassare un colpo dietro
l’altro: sotto il pontificato di Clemente
XIII (1758-1769), essi furono espulsi
prima dal Portogallo (1759); poi dalla
Francia (1764); quindi dalla Spagna (1767),
ad opera proprio di Carlo di Borbone; ed in
ultimo anche da Parma e dal regno di Napoli
(editto del 31 ottobre 1767).
Nel 1773, si giunse infine, a firma del papa Clemente XIV
(1769-1774), alla soppressione stessa
della Compagnia di Gesù. Si può notare qui
che, paradossalmente, i gesuiti superstiti
furono accolti proprio da alcuni dei loro
tradizionali “nemici” religiosi e politici,
e cioè la Russia (ortodossa) e la Prussia
(protestante), fino a quando la Chiesa
cattolica non ricostituì la Compagnia nel
1814, al tempo della restaurazione
post-napoleonica.
Chiesa e Stato nella Napoli
del Settecento
227. A Napoli, tutto il periodo
del Tanucci fu contrassegnato “da una guerra
incessante ed acre contro la potenza
economica e politica del clero” (Croce).
Già nel 1723
Pietro Giannone (1676-1748), con la
pubblicazione della sua “Istoria civile del
regno di Napoli”, aveva mostrato l’origine
“umana, fin troppo umana” (e non divina,
come si pretendeva) di quel potere
temporale, ma aveva pagato la
divulgazione delle sue idee con una accanita
persecuzione da parte dell’autorità
ecclesiastica, che gli apparecchiò 10 anni
di esilio, seguìti da 12 anni di prigionìa e
dalla morte nelle carceri di Torino.
Appena una ventina di anni
dopo, però, gli eredi del suo pensiero
potevano trattare da pari a pari con la
stessa Curia pontificia.
228. Nel 1741, fu stipulato
infatti un nuovo Concordato fra la Santa
Sede ed il Regno di Napoli, in virtù del
quale:
- si separarono i beni
ecclesiastici da quelli personali dei
chierici, fino ad allora confusi;
- si cominciarono a tassare le
proprietà ecclesiastiche, fino ad allora del
tutto immuni (i vecchi possedimenti pagarono
da allora la metà dei tributi ordinari; i
nuovi, pagarono per intero);
- si pose un freno allo
straripante numero di preti e di religiosi
,
limitandolo a 10 per ogni 1000 abitanti;
- si restrinse il cosiddetto
“foro ecclesiastico”, cioè il privilegio che
avevano i chierici di non essere giudicati
dalla giustizia ordinaria, nemmeno per i
reati comuni, e di poter anzi estendere
questo privilegio anche ad altri, mediante
apposite “patenti”, che davano diritto anche
all’esenzione fiscale;
- si circoscrisse il “diritto
di asilo”, di cui godevano i luoghi
religiosi, solo a pochi e lievi reati.
229. In seguito, nel 1746, fu
radicalmente abolito nel regno il tribunale
del S. Uffizio; si procedette alla
soppressione di parecchi conventi, specie
nelle provincie; si limitarono e poi si
abolirono del tutto le “decime”
ecclesiastiche (cioè le tasse imposte dalla
Chiesa); si rivendicarono allo Stato le
cause matrimoniali... fino all’ultimo atto
simbolico, che fu l’abolizione nel 1776 del
cosiddetto “omaggio della chinea”, ossia
dell’offerta di una cavalla bianca,
recante in groppa una cospicua somma in
danaro, che il 28 giugno (vigilia della
festa dei SS.Pietro e Paolo) di ogni anno,
fin dai tempi di Carlo I d’Angiò
,
il re di Napoli faceva al Pontefice, come
segno del vassallaggio del regno verso la
Santa Sede.
Chiesa e popolo nella Napoli
del Settecento
230. In questo contesto, di
allontanamento degli intellettuali e di
restrizioni istituzionali, la Chiesa si
impegnò soprattutto a rinsaldare sempre di
più il suo legame con quei ceti popolari che
costituivano la vasta maggioranza della
popolazione del regno: l’immensa plebe della
capitale, i contadini, i pastori, i piccoli
commercianti ed artigiani, i servitori, etc.
Le grandi masse trovavano nella
Chiesa quell’aiuto di opere benefiche che ne
alleviavano la secolare miseria e, nello
stesso tempo, una concezione del mondo che,
offrendo la speranza di una salvezza
dell’anima dopo la morte, consentiva
comunque di affrontare con maggiore serenità
e rassegnazione le sofferenze della vita.
Di fatto, le parrocchie
esercitavano la cura d’anime dei ceti
popolari, mentre sfuggivano ad esse in gran
parte i ceti borghesi e quasi del tutto
quello dei nobili, protetti com’erano dagli
oratorii e dai cappellani domestici e quindi
dall’indipendenza pressocché giuridica del
loro comportamento religioso.
231. Maggiore agilità
organizzativa avevano però gli Ordini
religiosi, che furono quindi gli operatori
più dinamici della pastorale popolare,
attraverso le “missioni” itineranti che
tenevano nei villaggi e nelle città.
Religiosi come il gesuita
Francesco Pepe (1684-1759) o il
domenicano Gregorio Maria Rocco
(1700-1782) furono amatissimi dal popolo
e tenuti in concetto di santità. Svolgevano
il ruolo di trascinanti predicatori, di
confessori e consiglieri dei sovrani, di
animatori delle iniziative benefiche a
vantaggio dei più poveri e... di forte
opposizione alla diffusione delle nuove idee
illuministiche.
Non mancarono, peraltro, anche
preti e religiosi di formazione
“illuministica”: basti ricordare il già
citato Antonio Genovesi (1713-1769),
ritenuto un maestro da tutti gli illuministi
napoletani.
Il Padre Rocco al Ponte della
Maddalena (la carestia del 1763-64)
232. Il domenicano Gregorio
Maria Rocco (popolarmente, Padre Rocco) fu,
in particolare, vicino alla popolazione del
Casale della Barra in occasione della
carestia negli anni 1763-1764, descritta,
fra gli altri, dal Palomba
:
“La fame dunque crebbe in modo
straordinario, ed in nessun anno fu tanto
desolante, come nel 1764. Nelle
vicinanze di Napoli, già molti di erbe si
cibavano.
In Napoli, le stesse case de’
Signori penuriavano siffattamente di pane,
che lo andavano chiedendo agli amici e
Religiosi: e la cosa giunse a tale, che il
principe di Francavilla, quantunque
seguitasse in tal tempo a dare il suo lauto
pranzo, pure gl’invitati erano pregati a
portarsi il pane…
La carestia del 1591 non era
stata sì spaventosa, malgrado più poveri
tempi. Il popolo gridava, le pattuglie
appena il contenevano; i domestici dei
Signori, che si davano ad ogni birbantata
onde provvedere congiunti ed amici,
maggiormente lo irritavano…
E pure vi ebbe di più, perchè
la carestia si trasse dietro il consueto suo
effetto, quale è la epidemia… Cadéan infermi
800 al giorno, e vi fu un momento che
giunsero a 3.000. La epidemia nè per venti
nè per piogge cedeva. Ai 21 luglio eran già
morti 5.000. Grazie però a Dio, in agosto,
anche quest’altro flagello cominciò a
scemare”.
233. In quella drammatica
circostanza, dunque (prosegue il Palomba),
il Padre Rocco…“radunò tutta la gente
malata, e perchè gli ospedali eran pieni
zeppi, ne aprì altri: ma specialmente al
Ponte della Maddalena fece subito innalzare
dei baracconi per uomini e donne e ragazzi,
tutti divisi e ben assistiti.
In questi li teneva, e come
venivano a molti insieme, così egli li
faceva spogliare, radere ben bene da capo a
piedi, e lavare con acqua di mare; dopo di
che, li vestiva con camicia ed abito nuovo,
facendo bruciare gli abiti vecchi, e poi
dava loro a bere brodo di trippa, e li
purgava bene, e subito dava loro a mangiar
buona minestra e buon pane bruno; e così ne
salvò molte migliaia”.
I Gesuiti a Barra nel
Settecento
234. Si è detto a suo luogo
che all’origine della confraternita laicale
“Ave Gratia Plena” e dello sviluppo della
devozione verso S. Anna in Barra troviamo la
figura del gesuita Tommaso Auriemma.
Le missioni popolari dei
gesuiti continuarono, per tutto il Seicento
ed il Settecento, a segnare profondamente la
vita del Casale, anche grazie alla forte
personalità dei religiosi che vi furono in
particolare impegnati.
S. Francesco de Geronimo (1642-1716) ed il P. Francesco Pepe
furono, l’uno dopo l’altro, “prefetti” delle
missioni proprie della Compagnia.
235. “Avevano perciò l’obbligo
di mettersi ogni mese in giro per invitare
il popolo, non solo quello della città ma
anche l’altro dei Casali più vicini,
alla Comunione generale che tutte le terze
domeniche si faceva nella chiesa del Gesù
Nuovo.
E le genti vi accorrevano in
processione cantando laudi al Signore, in
numero così grande che si contarono talora
sino a 15-20 mila tra uomini e donne, di
ogni età e condizione…
In questa ricorrenza
dell’invito mensile, quei buoni Padri
prendevano occasione di fare, come in
tutti gli altri Casali più vicini a
Napoli così anche nel nostro, delle
prediche più o meno in numero secondo che
fossero più o meno gli abitanti e maggiore o
minore il loro bisogno”
.
236. Si può qui ricordare che
le Missioni popolari e i “Ritiri di
perseveranza” predicati dai Padri gesuiti
continuarono a tenersi in Barra fino ad
oltre la metà del Novecento, in pratica fino
al Concilio Vaticano II (1962-1965).
Il Santo del
secolo: S. Alfonso Maria de’ Liguori
(1696-1787)
237. La personalità missionaria
più caratteristica del Settecento napoletano
fu tuttavia quella di S. Alfonso Maria de’
Liguori (1696-1787).
Colui che è stato giustamente
definito “il più napoletano dei Santi e il
più Santo dei napoletani” influenzò, in
maniera nuova e determinante, tutta la
spiritualità cattolica dell’epoca e, nel
corso della sua lunga vita di apostolo, non
mancò di essere presente anche a Barra, come
qui di seguito più in dettaglio si dirà.
238. Alfonso Maria de’
Liguori nacque a Marianella di Napoli,
il 27 settembre 1696, in una famiglia
napoletana di antica e non decaduta nobiltà,
da Giuseppe e da Caterina Anna Cavalieri.
Già nel 1708 si iscrisse alla
Università di Napoli e, a soli 16 anni,
conseguì la laurea “in utroque”, ossia in
diritto sia canonico che civile, divenendo
presto uno dei giovani avvocati di maggiore
prestigio nei Tribunali cittadini.
Un clamoroso processo in
materia di diritto feudale, da lui perduto
per interferenze politiche e corruzione dei
giudici, fu l’occasione che lo spinse a
cambiare definitivamente vita.
239. Nel 1723 abbandonò
l’avvocatura ed entrò nel Seminario
diocesano: fu ordinato prete nel 1726, a 30
anni di età. Rinunciava così ai diritti di
primogenitura (era il primo di 8 figli), con
annessi titolo, ricchezze e prestigio
mondano, per dedicarsi interamente a Dio ed
ai poveri.
240. Lavorò dapprima nel mondo
della plebe napoletana (i famosi “lazzari”)
istituendo le cosiddette “cappelle seròtine”.
241. In seguito, nel 1732,
fondò a Scala (Salerno) l’Ordine dei
“Missionari Redentoristi” che, oltre ai tre
voti tradizionali di povertà, castità e
obbedienza, ne assumevano anche altri due, e
cioè:
1)
-
dare la precedenza assoluta, nell’attività
pastorale, ai più poveri ed abbandonati, in
concreto soprattutto i contadini delle
provincie più remote del Regno di Napoli;
2)
-
non accettare alcuna promozione o titolo
ufficiale all’interno della Chiesa, a meno
che non richiesto dal Papa in virtù
dell’obbedienza.
242. Si dedicò quindi a lungo
alle missioni fra i contadini, finchè il
Papa Clemente XIII non lo volle vescovo di
S. Agata de’ Goti, ove rimase per tredici
anni (1762-1775), esercitando un fervoroso
ministero.
Riuscì infine ad ottenere
l’esonero dal governo di quella diocesi e si
ritirò a Nocera de’ Pagani, dove morì, a
quasi 91 anni di età, il 1° agosto 1787.
243. Fu uomo straordinariamente
colto e di multiforme intelligenza. La sua
attività principale fu naturalmente quella
di predicatore, formatore delle coscienze e
confessore, ma fu anche discreto pittore e
musicista. Da giovane aristocratico, aveva
imparato a suonare il cembalo, e compose in
seguito inni e canzoni tuttora notissime,
come “Tu scendi dalle stelle” o “Quanno
nascette ninno”.
Scrisse numerosissime opere di
teologia e di pietà (si contano circa 111
suoi scritti, fra maggiori e minori): le più
famose, oltre alla grande “Teologia morale”,
sono “La pratica di amar Gesù Cristo”, “Le
glorie di Maria”, “L’apparecchio alla
morte”, gli opuscoli delle “Massime eterne”
e delle “Visite al SS. Sacramento ed a Maria
SS. ma” e la raccolta delle 50 “Canzoncine”
da lui composte.
Fu proclamato Santo nel 1839;
dottore della Chiesa universale (“doctor
zelantissimus”) nel 1871; patrono di tutti i
confessori e moralisti nel 1950.
244. I Padri “Redentoristi” (in
sigla, C. Ss. R. = Congregazione del
Santissimo Redentore), da lui fondati, sono
attualmente circa 6.500, diffusi in ogni
parte del mondo. Il nome della Congregazione
si ispira, in particolare, al versetto di un
salmo biblico (Sal 130, 7) che dice: “presso
il Signore è la misericordia e grande,
presso di Lui, è la redenzione”
(nella versione latina: “copiòsa, àpud Eum,
redèmptio”).
S. Alfonso Maria de’ Liguori in Largo S.
Aniello (estate 1741)
245. Nel febbraio del 1741,
l’arcivescovo di Napoli, card. Giuseppe
Spinelli dei marchesi di Fuscaldo
(1735-1754), nello spirito della prima
lettera enciclica scritta dal nuovo papa
Benedetto XIV (1740-1758) e del giubileo
straordinario da questi indetto, stabilì la
“Santa Visita” canonica di tutta la diocesi,
decidendo di accompagnarla con una grande
campagna missionaria.
246. Alla testa di questa
missione straordinaria, che doveva
coinvolgere tutte le parrocchie della città
e dei casali, il cardinale volle mettere
colui che già allora era unanimemente
riconosciuto come “il primo missionario del
regno” e cioè Don Alfonso Maria de’ Liguori.
Alfonso avrebbe avuto ampia
facoltà di scegliersi i suoi principali
collaboratori, oltre che fra i suoi “redentoristi”,
in tutto il clero della diocesi e
soprattutto avrebbe dovuto condurre la
campagna missionaria secondo la “nuova”
metodologia da lui stesso già ampiamente
sperimentata.
247. In tutta umiltà, Alfonso
cercò sulle prime di sottrarsi a questo
incarico, adducendo che la diocesi di Napoli
era già ben provvista di clero e di
missionari qualificati, laddove vi erano
tante altre diocesi nel regno estremamente
carenti di “operatori” e tanti paesi e
villaggi quasi del tutto abbandonati.
Il cardinale, però, non volle
sentire ragioni (“Anche la mia diocesi è
popolata da 120 mila e più anime, e queste
anche disperse in tante terre e casali”) e,
designando Alfonso come “prefetto” delle
missioni, gli assegnò, come “quartier
generale” dal quale dirigere tutte le
operazioni, una casetta “nella Barra, nel
luogo detto S. Agnello … affinché di volta
in volta potessero i missionarj ritirarsi,
se volevano, e ristorarsi dalle sofferte
fatighe”
.
248. Si tratta proprio di
quella chiesetta dedicata a S. Aniello, con
annesso edificio, che tuttora si può vedere,
naturalmente da allora più volte restaurata,
nella piccola piazza detta anch’essa “di S.
Aniello”, situata sul confine fra Barra e
S.Giorgio a Cremano.
249. Così, la domenica 14
maggio 1741 iniziò il lungo giro
missionario, che sarebbe durato 5 anni. S.
Alfonso ed il suo gruppo si recarono prima
nelle tre parrocchie di Afragola (allora,
circa 11 mila abitanti) e poi, il 28 maggio,
nel vicino villaggio di Casalnuovo (1.500
abitanti), per altri 15 giorni.
250. Si arrivò così all’11
giugno 1741 ed alla usuale pausa estiva:
Alfonso, dimessi per il momento gli altri
missionari, si ritirò nella casetta di S.
Aniello insieme agli altri due redentoristi,
che erano Gennaro Sarnelli e Andrea Villani.
Il Palomba precisa: “Due stanze
abitò il Santo durante il tempo che fu
quivi: una per prendervi riposo, un’altra
per trattarvi affari.
Quale delle due fosse più
disagiata, non saprei deciderlo. Tanto la
prima, quanto la seconda, possono vedersi
anche ora; ma è una sventura ben
dispiacevole che neppure adesso, che tutto
quell’edifizio si è come rifatto da capo, vi
abbian posto un qualche segno il quale
ricordi l’ospite che le fece reverende con
la sua presenza.
Si ha per tradizione che S.
Alfonso, quando era colà, e vi passavano,
cantando canzoni profane, specialmente i
festaiuoli di Scafati, si affacciava e li
esortava a cantarne piuttosto alcuna della
Madonna”
.
“Se, fuori di casa, voleva
Alfonso i suoi missionari altrettanti
apostoli, in casa li voleva tanti romìti”
.
Quell’estate del 1741 in S.
Aniello, per il fervoroso gruppetto di
missionari, trascorse dunque nella preghiera
comunitaria (che prevedeva la recita dell’
“Ufficio”, più tre meditazioni al giorno:
mattino, pomeriggio e sera); nello studio
dei “casi” di morale, di missione, di
dogmatica e di S. Scrittura; nel lavoro e
nella preghiera personale; ed infine, nel
servizio delle Messe e della cappella, che
era naturalmente aperta ai fedeli e non
veniva mai lasciata vuota per le confessioni
e le prediche. “E nei giorni di festa, o
andava, o destinava i suoi, ne’ sobborghi
vicini, per altre opere apostoliche e per
altri esercizj in sollievo delle anime”
.
Il P. Paolo Càfaro entra fra i Redentoristi
a Barra
251. Il redentorista Antonio Maria Tannoia
così racconta l’episodio, che si svolse a
Barra proprio in quei giorni, relativo alla
vita del P. Paolo Càfaro (1707-1753),
una “pietra angolare” della Congregazione
redentorista:
“Era da gran tempo, che stava in forse di
ritirarsi in Congregazione il Sacerdote D.
Paolo Cafaro, Parroco in quel tempo nella
Chiesa di S. Pietro nella Cava. Questi,
quanto era dotto in ogni facoltà,
altrettanto era tutto zelo per la salvezza
delle Anime. 252. Stando Alfonso nella
Barra, ivi andò a ritrovarlo il Cafaro, e
vedendo il gran bene, che vi operava,
effettuò la sua risoluzione. Fu il Cafaro
l'ultima pietra angolare della nostra
Congregazione ... a’ 25 Ottobre di quest’
Anno 1741 fu ricevuto Novizio il Cafaro: ma
benchè Novizio, lo trattenne Alfonso nella
Barra, esercitandolo in questa Parrocchia in
varie Opere Apostoliche, ed in seguito
ancora nelle Missioni
”
.
La missione di S. Alfonso a Barra (settembre
1741)
253. A settembre 1741, si
riprese il grande giro missionario e
Barra fu il primo Casale ad essere coinvolto
(seguirono poi, nell’ordine, S. Sebastiano,
Boscotrecase, S. Giorgio a Cremano, Resina,
S. Caterina, S. Maria a Pugliano, S.
Giovanni a Teduccio, Ponticelli e Pollena,
fino alla nuova pausa del giugno 1742).
La missione di S. Alfonso e del suo gruppo a
Barra iniziò la domenica 10 settembre 1741.
Barra era allora un casale di circa 4.000
abitanti, dotato di una sola parrocchia (la
“Ave Gratia Plena”, con di fronte la vecchia
chiesetta di S. Atanasio) ma con numerose
altre chiese e cappelle molto attivamente
frequentate (le chiese dei due conventi,
francescano e domenicano, l’Oliva, S. Maria
di Costantinopoli, S. Rosa, S. Maria del
Pozzo, etc.), che furono anch’esse
certamente raggiunte dai missionari, perchè
era principio inderogabile di S.Alfonso che
si andasse ovunque, anche nei “luoghetti”
più sperduti.
Come si svolse questa storica
missione e quali frutti, in particolare,
essa produsse nella vita del Casale? E’
possibile tentare una risposta, sia sulla
base di ciò che si conosce in generale circa
lo svolgimento delle missioni in quel
periodo, sia sulla base della relazione
conclusiva sulla missione napoletana,
redatta da uno dei partecipanti, Don Matteo
Testa.
Gli elementi comuni
254. Vi erano anzitutto le
caratteristiche allora comuni a tutte le
missioni: i missionari erano inviati
direttamente dal vescovo; alloggiavano di
solito tutti insieme in paese in una casa
comune; non erano pagati e non accettavano
ricompense di alcun tipo, per non gravare
sugli abitanti.
La missione prevedeva,
all’inizio, le “esortazioni notturne”
per spronare tutti gli abitanti del paese a
partecipare alle funzioni e, nei giorni
successivi, si articolava in: incontri
comuni, con predica per tutto il popolo, ed
incontri particolari per le varie categorie
(uomini, donne, giovani, bambini; e poi per
i nobili, per i notabili, per i vari
“mestieri”, etc.); confessione individuale
del maggior numero di persone (in pratica,
tutto il paese: i missionari confessavano
anche 7-8 ore al giorno); pratiche
penitenziali di vario tipo; celebrazioni
solenni delle Messe con comunione generale,
etc.
255. Oltre a questi elementi,
che erano appunto comuni alle missioni di
tutti gli Ordini religiosi, S.Alfonso ne
introdusse però degli altri, tipici della
sua spiritualità.
Lo stile
256. Innanzitutto, egli sapeva
bene che la vera missione consisteva, prima
di ogni altra cosa, nell’esempio di vita,
personale e comunitaria, dei missionari.
Non era certo un fautore della
infelice massima: “Fate ciò che il prete
dice, ma non fate ciò che il prete fa”; al
contrario, “aveva per massima che i popoli
si attengono più a quello che veggono che a
quello che ascoltano” (Tannoia).
Prestava pertanto grande
attenzione allo “stile di vita” dei
missionari, in particolare alla cavalcatura
che usavano ed al cibo che mangiavano: erano
questi i segni che maggiormente colpivano il
popolo, “i primi di cui esso si informava, i
primi sui quali intesseva commenti che
facevano subito il giro del paese, per il
meglio o per il peggio”.
S.Alfonso ed i suoi andavano
dunque a piedi e, per gli spostamenti più
lunghi, con l’asinello (mai a cavallo o in
carrozza!); per quelli che non sapevano
cavalcare l’asinello, s’ adoperava un
rustico calesse.
Per vitto, solo “minestra, e
lesso, e di carne comunale”. “Non pesci di
costo, non polli, non selvaggìne, nè lavori
di pasta; non mancavano di questi regali, ma
tutto si mandava indietro, ancorché talvolta
si trovassero a pranzo illustri Canonici
napoletani o altre persone di rango...” (Tannoia).
257. Per dormire, Alfonso usava
personalmente il saccone di paglia, come i
contadini, anche se mai lo impose per
obbligo ai suoi compagni di missione.
Anche il vestito era sempre il
più povero e dimesso possibile. Dopo aver
ascoltato la predica di apertura di una
missione, fatta da quello che appariva come
il più “miserabile” del gruppo, i contadini
si dissero l’un l’altro: “Se il cuoco
predica così, che sarà degli altri!” E’
inutile aggiungere che quel “cuoco
miserabile” era proprio don Alfonso Maria
de’ Liguori, il “primo missionario del
Regno” e “prefetto” della missione
napoletana.
Inoltre, e soprattutto....
“preghiera e macerazioni, digiuni e veglie
notturne, pazienza e bontà, lavoro e
povertà”... insomma, “seguitare l’esempio di
Gesù Cristo”.
I contenuti
258. “Iddio ci vuole tutti
salvi e l’eternità dannata non è riserbata
che ai soli ostinati”.
S. Alfonso si opponeva
decisamente al diffondersi, all’interno
della Chiesa cattolica, della tendenza
“giansenistica”, secondo la quale la
salvezza eterna nel paradiso sarebbe
limitata a pochi eletti, pre-destinati da
Dio fin da tutta l’eternità, mentre la
grande massa dei fedeli sarebbe
irrimediabilmente perduta.
Ripristinando correttamente
l’impostazione teologica dell’altro grande
Santo “mediterraneo” e “solare”, S. Tommaso
d’Aquino, Alfonso privilegiava invece
l’amore e la misericordia di Dio.
259. “Nelle prediche” scriveva
S.Alfonso “ordinariamente non si parla
d’altro che de’ 4 novissimi (e cioè:
morte, giudizio di Dio, inferno e
paradiso) e di altre materie di
spavento... e da taluni poco si tratta, se
non di passaggio, dell’amore che Iddio ci
porta e dell’obbligo che abbiamo noi di
amarlo... ma bisogna persuadersi che le
conversioni fatte per lo solo timore de’
castighi divini son di poca durata: durano
solamente quanto dura la forza di quel
timore concepito...; se non entra nel cuore
il santo amore di Dio, difficilmente si
persevererà... Quindi, l’impegno principale
del predicatore nella missione ha da esser
questo: lasciare, in ogni predica che fa, i
suoi uditori infiammati del santo amore”.
260. I temi principali da
trattare nella predicazione erano quindi,
per Alfonso: l’amore manifestato da Gesù
Cristo morendo per noi sulla croce; la
devozione alla Madre di Dio, affinchè ci
ottenga la grazia di perseverare in una vita
santa; la necessità della meditazione e
della preghiera quotidiana e quella di
ricorrere spesso (almeno ogni settimana,
dice Alfonso) ai sacramenti della
confessione e della comunione; la fuga dalle
occasioni cattive; la rovina progressiva
delle anime che non si confessano o si
confessano male.
261. Inoltre “non voleva,
Alfonso, che le sue missioni fossero state,
come si suol dire, un fuoco di paglia”
:
per lui, non contava tanto la conversione
quanto la perseveranza in essa,
perchè “incìpere multòrum est, perseveràre
paucòrum” (= l’iniziare è di molti, il
perseverare di pochi) ma, d’altra parte,
solo “chi avrà perseverato sino alla fine
sarà salvato”
.
La “vita devota” e le “rinnovazioni di
spirito”
262. Proprio per favorire la
perseveranza nell’amore di Dio, egli
introduceva, in tutte le parrocchie nelle
quali si svolgevano le sue missioni, quella
che chiamava la “vita divòta” e che è
uno dei tratti più caratteristici della
spiritualità da lui suscitata.
La “vita divòta” non è altro
che la vita comune di orazione
quotidiana, in chiesa e nella propria casa,
di un intero paese o villaggio:
ogni mattina, prima dell’alba e prima di
recarsi al lavoro nei campi, l’intero paese
si riuniva in chiesa per ascoltare dal
parroco la lettura di un “punto” di
meditazione (tratto di solito proprio dalle
opere di Alfonso o di Gennaro Sarnelli),
soprattutto sulla Passione di Cristo, e poi
la Messa; ogni sera, al ritorno dai campi,
nuova riunione in chiesa, per la “visita al
SS. Sacramento” e alla Madonna; infine, dopo
la cena, ognuno nella propria casa, recita
del rosario in famiglia ed esame di
coscienza sulla giornata trascorsa.
Per più di due secoli, fino
alla prima metà del Novecento, la vita
cristiana nell’Italia meridionale, ma non
solo, è stata mantenuta in ogni più piccolo
paese o villaggio, grazie al sostegno di una
pratica personale e comunitaria così
coinvolgente e costante.
263. Sempre per favorire la
perseveranza nell’amore di Dio, S.
Alfonso inventò la cosiddetta “rinnovazione
di spirito”: al massimo dopo 3-4 mesi dalla
conclusione della missione, un gruppo più
ristretto di missionari ritornava per alcuni
giorni nel paese che ne era stato
interessato e qui “infervorava i buoni ad
odiar il peccato, rialzava qualche anima
ricaduta, e raccoglieva alle volte qualche
spica che, in tempo della messe, o era
immatura o scappata si vide ai mietitori
evangelici”
.
Anche qui va detto che, per più
di due secoli, le “rinnovazioni di spirito”
sono state uno dei tratti più tipici ed
apprezzati dell’apostolato dei Redentoristi.
I metodi
264. Se i contenuti erano
alquanto diversi da quelli prevalenti
soprattutto nel Seicento, altrettanto
differente era anche il modo di
porgere questi contenuti.
I predicatori tradizionali
avevano elaborato uno stile fortemente
“teatrale”. Si predicava dall’alto del
pulpito, che sovrastava la folla raccolta
nella navata della chiesa; non essendoci
ovviamente i microfoni, essendo grande il
concorso di popolo ed essendo gli uditori in
gran parte contadini analfabeti e poco
abituati ai ragionamenti troppo sofisticati,
l’oratore tendeva ad esprimersi soprattutto
urlando e gesticolando il più possibile, in
modo da farsi comprendere dal maggior numero
di persone e suscitare negli spettatori le
più forti emozioni.
I predicatori migliori erano
quindi autentici “attori” ed agitatori di
folle. Le descrizioni dell’epoca sono tutte
molto pittoresche.
Esposti alcuni argomenti,
l’oratore si metteva ad esortare alla
penitenza, gridando al sottostante popolo:
“Cercate perdono a Dio! Gridate
misericordia!” e fulminando maledizioni e
castighi di Dio contro gli ostinati.
Accompagnava l’esortazione con alcuni gesti
tipici, come lo strapparsi di dosso la cotta
e la stola, spargere la cenere sul suo capo
e sulla folla, flagellarsi agli occhi di
tutti con delle catene (che però facevano
più rumore che danno) ed inoltre brandire un
crocifisso, agitare una torcia accesa, etc.
“E’ debolezza comune tra i
predicatori...” scrive Alfonso “di non
restar soddisfatti se, eccitandosi il popolo
al pentimento, non lo si vede dare in
ischiamazzi (anche il popolo, infatti, a
quel punto cominciava a piangere, ad urlare,
a battersi il petto, inginocchiarsi per
terra, picchiare la testa sul pavimento,
etc.). In quella confusione, nè il
popolo capisce il predicatore, nè sa il
predicatore perchè piange il popolo”.
265. S. Alfonso vietò ai suoi
missionari queste metodologie. Il suo fine
era “persuadere l’intelletto e guadagnare la
volontà” degli ascoltatori; il mezzo era sì
la predica, ma intesa soprattutto come
“catechismo grande”, “istruzione al popolo”,
e quindi argomentata, semplice e
convincente, tenuta non dall’alto del
pulpito ma alla stessa altezza della gente,
con voce chiara e ferma ma senza grida e
senza gesti plateali.
“Chiari erano gli argomenti e
capìbili da tutti, anzi brevi e succinti,
senza lungherìa di periodo; anche qualunque
villano, rozzo che fosse, o semplice
donnicciuola, non ne perdeva una parola …
Vedendo il popolo commosso dare in grida e
singhiozzi, si asteneva dal porgere altri
motivi; ma, toccando il campanello, imponeva
l’acchetarsi, né ripigliava i motivi se non
vedendolo quietato. Voleva che si fosse
capìto ciò che detestar si doveva e per
qual motivo”
.
I risultati
266. Ciò che si doveva
“detestare”, ossia i peccati contro i quali
maggiormente si battevano i predicatori,
erano soprattutto gli “execranda monstra” (=
orribili mostri) distintamente condannati
anche nel Sinodo napoletano del 1726 voluto
dall’allora cardinale arcivescovo Francesco
Pignatelli (1703-1734) e cioè: l’usura
,
il concubinato
e la bestemmia.
Contro la bestemmia, in
particolare, S.Alfonso mantenne in vigore un
esercizio penitenziale già introdotto dai
predicatori prima di lui e cioè il
cosiddetto “strascìno”: in una delle sere
della missione, gli uomini (solo gli uomini;
evidentemente, le donne bestemmiavano di
meno) dovevano andare, in ginocchio e
“strascinando” la lingua sul pavimento,
dalla porta della chiesa fino ai piedi
dell’altare, in punizione e riparazione
delle loro bestemmie contro Dio, la Madonna
ed i Santi.
267. Non mancavano, comunque, i
predicatori in grado altresì di
stigmatizzare dal pulpito i soprusi o le
disonestà di qualche notabile locale; e
soprattutto di adoperarsi per ricomporre le
liti e le inimicizie, assai frequenti tra le
famiglie nei piccoli paesi: molte volte, i
litiganti ponevano fine alle loro dispute,
abbracciandosi in chiesa davanti a tutti.
268. Don Matteo Testa, nella
sua relazione conclusiva sulle missioni
tenute da S.Alfonso nella diocesi di Napoli,
evidenzia poi altri aspetti:
“Innumerabili furono gli
scandali e gli abusi che tolse il Padre Don
Alfonso nella diocesi di Napoli ...
Più non si videro nelle chiese delle scostumatezze, e nelle
donne quelle tali sfacciataggini che
facevano la rovina ai deboli.
Le giovani zitelle che non
sapevano cosa fosse erubescenza (=
vergogna), si videro riformate e
composte; mancò il concorso alle taverne; e
da per tutto non ebbero più luogo certe
danze e certi passatempi, in quelle terre e
casali, tra uomini e donne, e molto più tra
zitelle e giovinetti.
Commutate si videro in sacre e
devote le canzoni scandalose che dalle
zitelle si avevano in bocca operando nelle
campagne, massime in tempo di vendemmia e di
raccolta”.
269. Come si vede, il buon
Testa (che diventerà in seguito arcivescovo
di Reggio Calabria e poi “cappellano
maggiore” del Regno) concentra l’attenzione
soprattutto sulla lotta condotta contro la
“sfacciataggine” delle fanciulle e contro la
frequentazione delle taverne con conseguente
ubriachezza, che era invece prevalentemente
maschile; e, d’altra parte, su quelle
canzoni e danze popolari che appartenevano
in effetti alla radicata tradizione
contadina e che contenevano, in alcuni casi,
più o meno espliciti riferimenti sessuali,
ultimo residuo degli antichi riti erotici
agrari di epoca pagana.
270. E’ certamente impossibile
valutare con precisione quanto, e per quanto
tempo, le parole e l’esempio dei predicatori
abbiano effettivamente contribuito a ridurre
i fenomeni sociali che essi combattevano
(l’usura, la bestemmia, l’ubriachezza, etc.)
ma altrettanto certamente non mancarono di
produrre effetti positivi sulla vita
quotidiana di larghe masse popolari.
I frutti permanenti
271. E’ invece ben certo che,
in tutti i paesi toccati dalle missioni
alfonsiane (dunque, anche a Barra), furono
istituiti, quali frutti permanenti della
missione:
-
la “vita divòta” per tutto il popolo;
-
confraternite specifiche anche per i
bambini ed i giovani, oltre che per gli
adulti (e, ovviamente, rivitalizzazione
di quelle già esistenti);
-
ritiri spirituali periodici per i preti,
allo scopo di ben formarli per
l’animazione quotidiana della “vita
divòta” e per il catechismo permanente
al popolo;
-
sempre per i preti, organizzazione di
conferenze settimanali per lo studio dei
“casi” di morale ovvero per formarli a
ben esercitare il loro compito di
confessori e di guide delle coscienze;
-
per tutti, invece, il cosiddetto
“esercizio mensile dell’apparecchio alla
morte”, nel corso del quale si
richiamavano, affinchè fossero
continuamente presenti alla mente di
ognuno, le “massime eterne”
.
Inoltre, in quasi tutti i
paesi, quale memoria permanente della
avvenuta missione, furono piantate le 5
croci che richiamavano i 5 “misteri
dolorosi” della Passione di Gesù Cristo
.
272. E’ indubbio che le
istituzioni permanenti, sopra elencate,
costituivano come una solida impalcatura
che avvolgeva e sorreggeva la vita
spirituale di laici e preti, consentendo una
concreta, quotidiana e convinta pratica
della vita cristiana da parte dei singoli e
delle famiglie.
I loro effetti furono profondi
e duraturi, e cominciarono a venir meno solo
nella seconda metà dell’Ottocento e poi nel
Novecento, man mano che le originarie
intuizioni alfonsiane cominciarono ad essere
svuotate, in un formalismo tanto
letteralmente fedele quanto sostanzialmente
inefficace, ma soprattutto non più
corrispondente alle nuove esigenze
spirituali che il cambiamento della società
faceva sorgere nei fedeli.
273. Per lungo tempo, comunque,
la spiritualità dei cattolici nell’Italia
meridionale (e non solo) fu sostanzialmente
alfonsiana e molte delle più tipiche
usanze popolari recano la sua impronta.
Si pensi al classico presepe
napoletano del Settecento, che ebbe la
sua massima fioritura proprio in quel clima,
e di cui le canzoncine di S. Alfonso
costituiscono come la colonna sonora. Si
ricordi ad esempio la celebre “Quanno
nascette Ninno” (in lingua napoletana),
oppure l’ancor più celebre:
Tu scendi dalle stelle, oh Re del cielo, e
vieni in una grotta al freddo e al gelo.
Oh bambino mio divino, io ti vedo qui a
tremar: oh Dio beato, ahi quanto ti costò
l’avermi amato!
A Te, che sei del mondo il creatore, mancano
panni e fuoco, o mio Signore.
Oh diletto pargoletto, quanto questa povertà
più m’innamora, giacché ti fece amor povero
ancora!
274. Si pensi all’usanza del
Rosario nelle famiglie, a quella di tenere
l’immagine della Madonna in capo al letto
coniugale, e tante altre ...
275. Valga, a titolo di
esempio, la seguente preghiera (raccolta
dalle labbra di una anziana donna di Barra),
da recitare la sera, prima di addormentarsi:
Io me cocco ‘int’ a stu lietto, ‘a Madonna
sta ‘e rimpetto:
io dormo e Essa veglia, si è qualcosa mi
risveglia.
Dint’ ‘o lietto me so’ cuccato, e l’ànema a
Dio àggia dato;
tre cose me so’ raccumannato: Confessione,
Comunione e Olio Santo.
Vicino ‘a porta, ‘a Croce forte; int’ ‘a casa,
‘a Nunziata
;
fora ‘a via, l’angelo ‘e Ddio.
Gesù, Giuseppe, S.Anna
e Maria, vi dono il cuore e l’anima mia.
Gesù, Giuseppe, S.Anna e Maria, assistétemi
nell’ultima agonìa.
Gesù, Giuseppe, S.Anna e Maria, spiri in pace
con voi l’anima mia.
276. “S. Alfonso … ci ha
lasciato … alcuni tra i libri più cari
dell’anima. Ha posto lui, senza parére, sulle
labbra di tutti, anche degli analfabeti, le
parole di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce.
Ha suggerito al popolo i termini più alti nelle
fòrmole più umili, gli affetti più estàtici nei
vocaboli più quotidiani. Ha creato nei semplici
un cuore di santi, e grandi santi ”
[77].
S. Gerardo Maiella (1726-1755)
277. La figura forse più
emblematica della compiuta fusione tra la
spiritualità dell’ intellettuale S.
Alfonso e le grandi masse contadine meridionali
è quella di S. Gerardo Maiella (nato a
Muro Lucano nel 1726 e morto nel Collegio dei
Redentorìsti di Materdomini in Capo-Sele nel
1755, all’età di soli 29 anni) nato e rimasto
sempre, sino in fondo, uomo del popolo delle
campagne e, con uguale profondità ed
immedesimazione, discepolo di Alfonso e
componente del suo Ordine religioso.
278. Basti qui ricordare che
Gerardo Maiella andava in estasi, nella
preghiera, cantando la canzoncina di
Alfonso circa l’abbandono della propria vita
nelle mani di Dio:
Il Tuo gusto e non il mio, amo
solo in Te, mio Dio.
Voglio solo, o mio Signore, ciò
che vuol la Tua Bontà.
Quanto degna sei d’amore, o divina Volontà.
Nell’amor Tu sei gelosa ma poi
sei tutt’amorosa,
tutta dolce e tutt’ardore verso
il cor che a Te si dà.
Quanto degna sei d’amore, o divina Volontà.
Voglio solo a Te piacere nel
patire e nel godere.
Quel che piace a Te, mio amore,
a me sempre piacerà.
Quanto degna sei d’amore, o divina Volontà.
La conclusione
della missione a Barra (24 settembre 1741)
279. Le missioni guidate da
S.Alfonso duravano, in ogni paese, 15 giorni: in
pratica, due settimane, con domeniche incluse.
Siccome la missione a Barra iniziò domenica 10
settembre 1741, si può osservare che essa ebbe
termine la domenica 24 settembre 1741 che è
precisamente, per quell’anno, l’ultima domenica
di settembre.
Sappiamo che le missioni si
concludevano, la domenica, con una grande
celebrazione eucaristica, spesso all’aperto
perchè vi partecipava in pratica l’intero paese
e la chiesa non era sufficiente a contenere
tutti, e alla fine si elevava il SS. Sacramento
nella grande benedizione sopra gli uomini, le
case e le campagne, mentre le campane
squillavano all’unisono a festa ...
Un incontro a Barra (estate 1742): Maria Caracciolo,
duchessa dell’Isola
280. A fine giugno 1742,
portato a termine (con le visite a Ponticelli e
a Pòllena) il giro missionario previsto per
l’annata 1741-42, S. Alfonso rientrò nuovamente
nella casetta in S. Aniello, per la consueta
pausa estiva.
Anche a Barra, in seguito alla
missione dell’anno precedente, era stata
introdotta la “vita divòta”, per cui ogni sera
quasi tutti gli abitanti del casale (circa 4.000
persone) si alternavano nella “Visita al SS.
Sacramento ed a Maria SS.ma”.
281. In una di quelle sere
[78], terminata la funzione, Alfonso
fu mandato a chiamare da un personaggio
importante: si trattava di Donna Maria
Caracciolo, duchessa dell’Isola, che si trovava
quell’estate in soggiorno a Barra.
Era costei una nobile e ricca
ereditiera, che si apprestava però a lasciare
“le vane pompe e i rei piaceri” del mondo, per
diventare suora carmelitana in un convento della
Spagna.
Prima di partire, trovandosi a
Barra, colse l’opportunità di conversare con
l’apprezzato predicatore, di cui aveva
certamente sentito parlare e con il quale
avvertiva di avere molte cose in comune:
entrambi di origine aristocratica, ricchi,
colti, inseriti dalla nascita nel “bel mondo”
dei salotti; entrambi consapevoli della
sostanziale vuotezza ed insignificanza di quel
mondo, all’apparenza così attraente; entrambi
decisi a rinunciare ad esso per seguire Gesù
Cristo ed il suo messaggio alternativo, di vita
vera ed eterna.
Tu puoi darmi quanto vuoi, non m’inganni, oh
mondo, no.
Va’, dispensa i beni tuoi a chi stolto li cercò.
Pompe vane, oh rei piaceri, non sperate ch’io vi
speri, ch’altro Ben m’innamorò.
282. La conversazione fra i due
si tenne nello studio del palazzo in cui
soggiornava la duchessa; non sappiamo però di
quale palazzo di Barra si tratti. Alfonso si
fece accompagnare dal giovane postulante
redentorista Leonardo Cicchetti, che assistette
da lontano all’incontro, rimanendo seduto vicino
alla porta del salone.
283. Alla fine, la duchessa
fece venire una carrozza con due paggi per
riaccompagnare Alfonso. Ma questi rifiutò subito
la carrozza (“Grazie, Eccellenza, il mio bastone
va bene come carrozza”) e fece rientrare a
palazzo anche i due paggi, dopo soli pochi passi
(“Rientrate, figli miei, il Signore ci guiderà
nelle tenebre”), avviandosi verso S. Aniello a
piedi, insieme al confratello Leonardo.
In Barra, S.
Alfonso scrive la sua prima opera spirituale
284. S. Alfonso dovette
rimanere positivamente colpito dal fervore
religioso della duchessa. Appunto in
quell’estate del 1742, egli stava ultimando,
nella quiete della casetta in S. Aniello, la sua
prima opera spirituale, intitolata
“Considerazioni sopra le virtù e pregi di S.
Teresa”, cioè proprio la grande Santa nel cui
Ordine la nobildonna si accingeva ad entrare
.
Il libro verrà pubblicato l’anno successivo
(1743) e, non a caso, recherà una dedica “A
Donna Maria Caracciolo, duchessa dell’Isola”.
285. Si può aggiungere che quel
libro, ultimato da S. Alfonso mentre dimorava
presso di noi, è di grande importanza; non
solamente perchè è il primo che egli scrisse, ma
anche perchè contiene già la sintesi di tutta la
sua spiritualità
:
“Tutta la perfezione consiste
in mettere in pratica due cose: il distacco
dalle creature e l’unione con Dio. Il
che tutto si contiene in quel grande
insegnamento lasciatoci da Gesù Cristo: Chi
vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso,
prenda la sua croce e mi segua (Mt 16, 24)”.
Un convento a Barra? No, troppi nobili!
286. Il cardinale Giuseppe
Spinelli, mettendo S.Alfonso a capo della
missione napoletana ed assegnando a lui la
casetta in S.Aniello, aveva in mente anche un
altro obiettivo: avrebbe voluto che egli
fondasse un convento dei suoi Redentoristi
proprio a Barra, in modo da poterne disporre in
maniera permanente per la sua diocesi.
“Fra questo
tempo, vedendo l'Eminentissimo Spinelli il gran
bene, che si operava da Alfonso nella sua
Diocesi, e quello che si faceva nelle altre da’
suoi compagni, determinò anch'esso voler fondare
una Casa de’ nostri nella medesima Barra, come
nel centro della Diocesi”
.
287. Ma Alfonso la pensava
diversamente: “Quando i soggetti si sono
radicati nella Barra ed hanno acquistato dame e
cavalieri per penitenti, va’ e smuòvili, se
puoi, e rimàndali ne’ luoghetti e sulle
montagne; se non si vuol dire che, col favore di
questi, se la passeggeranno in Napoli la maggior
parte dell’anno”
.
Come si vede, egli riteneva che
“la vicinanza di Napoli e la frequenza di tanti
nobili avrebbe distratto i suoi dalle missioni e
dalle fatiche proprie del campo preso da essi a
coltivare”
.
Non si dimentichi che i
Redentoristi erano stati da lui fondati proprio
con il voto specifico di dedicarsi anzitutto
alla evangelizzazione dei paesi contadini più
piccoli ed abbandonati del Regno, e Barra non
era certamente fra questi, essendo un Casale
agricolo abbastanza agiato e con tanti nobili e
cavalieri che vi venivano d’estate a villeggiare
o vi abitavano stabilmente.
288. Egli
dunque “ringraziò il Cardinale” e disse: “a
Vostra Eminenza non mancano Operarj in Napoli
per impiegarli in ajuto della sua Diocesi, come
mancano agli altri Vescovi; nè questi possono
aver le Missioni da Napoli, specialmente per li
Villaggi, e per altri luoghetti, che vivono
abbandonati. Restò persuaso il Cardinale, nè più
si parlò di tal fondazione”
[84].
S. Alfonso, però, per evitare
del tutto “il pericolo di ulteriori richieste
dello stesso Cardinale, sotto pretesto della
fondazione in Nocera de’ Pagani, scappò da S.
Aniello co’ suoi, restando solo il P. Gennaro
Sarnelli come prefetto delle missioni napoletane
,
ed egli di tanto in tanto veniva da Nocera per
far qualche cosa e subito ne partiva. Quella
riunione in S. Aniello finì presto, con la morte
del nostro P. Sarnelli (1744), e S.
Alfonso spesso si compiaceva di essere sfuggito
al pericolo di quella fondazione sì vicina a
Napoli”
.
Il
dopo-missione a Barra
289. “Tra
questi tempi estivi, prese di mira Alfonso
dilatare la divozione verso Maria Santissima,
intrecciando a tal’ effetto in varj luoghi delle
Novene, ne' nove giorni che precedono le sue
Feste.
Destinò il
Testa per quella della Visitazione nella
Parrocchia di S. Anna in Bosco; il medesimo per
l'altra della Madonna della Neve in Ponticello;
in Resina vi spedì il Rovigno per quella
dell'Assunta; così altri in S. Giorgio, in Bosco
Trecase, ed altrove; e per se riserbò, nella
medesima Barra, quella dell'Assunta.
Queste
Novene, oltre la gran divozione, che
esercitavano verso Maria Santissima, riuscivano
ancora, perchè fatte in istile apostolico,
altrettante Missioni. Mi attestò Monsig. Testa,
che in ogni luogo vi fu tal mossa di Popolo, che
si dovettero fare, come in Missione, le
Comunioni generali ai ceti distinti di uomini e
donne. Siamo tenuti ad Alfonso se veggonsi di
presente nella Diocesi di Napoli, e nella Terra
di Lavoro, così frequenti queste Novene, con
tanto profitto delle Anime”
.
290. S. Alfonso lasciò quindi
Barra dopo aver predicato l’ultima volta nella
parrocchia “Ave Gratia Plena”, insieme al suo
confratello Don Paolo Càfaro, la cosiddetta
rinnovazione di spirito nella novena
dell’Assunta (15 agosto 1742), ma il suo
passaggio nel nostro Casale lasciò tracce
profonde e durature, tanto da poter
considerare quel biennio (1741-1742) di sua
presenza a Barra come una sorta di sparti-acque
nella vita religiosa e civile della popolazione.
291. Parroco di Barra al tempo
della missione era Don Nicola Montella, nominato
nel novembre 1731, che però venne a morte poco
tempo dopo, nel settembre 1743. Fu perciò il suo
successore, Don Salvatore Roselli (settembre
1743 - giugno 1761) colui che gestì
concretamente il dopo-S. Alfonso.
Il Ritiro S. Nicola (1740)
292. Nella mappa del duca di
Noja (1775) si vede chiaramente, lungo la via
attualmente intitolata a Bernardo Quaranta, un
insieme di fabbricati con chiesa e giardini che
la mappa indica come “Ritiro detto di S.Nicola”.
Che cos’era?
293. “Il Rev.Sacerdote secolare
D.Giovanni Battista dei duchi Fusco,
allorché per lo più dimorava nel Casale di
Barra, suo malgrado osservava che
specialmente le donzelle civili di quel luogo
non erano istruite nella dottrina cristiana e
tanto meno nei lavori donneschi. Mosso quindi da
straordinario zelo ed impegno, meditò di
istituire, sì come effettivamente dopo
ponderationi replicate introdusse ed istituì,
nell’anno 1740, nel Casale suddetto, un
Ritiro ossia casa di educazione di
donzelle civili perché si erudissero nella
dottrina cristiana ed apprendessero i
lavori ed arti che fussero convenienti alla
loro condizione e successivamente eligessero
quello stato che meglio fusse loro piaciuto… e
per comodità tanto del ritiro quanto della
popolazione, vi costruì una chiesa sotto il
titolo di S.Nicola a Pazzigno”
.
294. In effetti, dagli Atti di
Santa Visita anteriori al 1740, apprendiamo che
una cappella intitolata a S. Nicola di Bari
“eretta nella masseria” della famiglia de Fusco
esisteva già dal Seicento:
“Nell’anno 1666 il fu D.
Francesco de Fusco, nel suo ultimo testamento
per mano del fu notaio Francesco Mignone di
Napoli in data 9 ottobre … costituito un
capitale di ducati 500 e investiti in acquisti
fruttiferi (= fu acquistata una partita dell’arrendamento
della seconda imposizione per ogni moggio di
farina) … pose ai suoi eredi l’ònere che i
redditi relativi venissero erogati per
celebrazioni di Messe nella Cappella di S.
Nicola di Bari eretta nella masseria del fu
D. Giovanni Battista senior e del genitore del
medesimo dotante D. Francesco, esistente nel
Casale del SS. Salvatore di Pazzigno, e
che fossero celebrate tante Messe quante
capienti in ragione di 2 carlini per ciascuna
Messa, in suffragio della sua Anima, da parte
del Cappellano, amovibile a segno, da eleggersi
dai suoi eredi”.
Queste disposizioni
testamentarie di Francesco de Fusco furono poi
rinnovate, tenendo conto della svalutazione
della rendita iniziale e dell’aumentato numero
delle Anime da suffragare, nelle analoghe
disposizioni testamentarie di Bartolomeo de
Fusco, nel 1682, e di Ferdinando de Fusco, nel
1724.
295. Quindi, il nostro D.
Giovanni Battista dei duchi Fusco, nel 1740,
dopo le sue “ponderationi replicate”, istituì il
“Ritiro per le donzelle civili” su terreni
appartenenti alla sua famiglia e facendovi
costruire una chiesa sotto il medesimo titolo di
S. Nicola della pre-esistente cappella, della
quale prese il posto.
Il Ritiro
diventa Collegio di S. Maria Maddalena de’ Pazzi
(1797)
296. “Morto il Rev. Don
Giovanni Battista dei duchi Fusco, gli
succedette Don Oronzio Vernazza, principe di
Palmarigi, il quale finché visse provvide
allo sviluppo di detto Ritiro”.
297. “Morto poi senza figli,
istituì erede suo cugino Don Andrea Vernazza,
duca di Castrì, il quale non solamente
approvò l’erezione ma l’ampliò ancora,
aggiungendo al Ritiro una casa contigua che
comprò dal marchese di Monteresole.
Intanto, non essendo ancora
stato ottenuto il Regio Assenso alla fondazione,
il Signor Duca ne ottenne la sanatoria,
accordata dalla Real Camera ed in seguito dal
Real Dispaccio il 14 marzo 1791.
Più tardi, con istrumento
stipulato il 3 aprile 1797 per Notar
Giacomo Antonio Russo di Napoli, l’avvocato Don
Gian Battista Gallotti, vicario generale di
detto Signor Duca di Castrì, approvò e confermò
la fondazione di detto Ritiro volendo però che
da allora si fosse chiamato col nome di
Collegio di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, di
diritto patronato laicale di esso Signor Duca, e
con detto istrumento, in nome di esso Signor
Duca, a titolo di donazione irrevocabile, donò
al medesimo Collegio tutto il locale e la chiesa
con tutti i vasi sacri, suppellettili,
cappellanìe e legàti appartenenti.
Tale istrumento fu verificato
dal medesimo Signor Duca con un altro del 4
ottobre 1797 per mano del Notar Rosario
Montinaro della terra di Calimera in Provincia
di Otranto, con cui venivano apportate alcune
(lievi) modifiche, fermo restando al Duca e
ai suoi eredi i diritti di patronato sul detto
Collegio.
298. Rassodata così la
fondazione del Collegio, per quelle donzelle che
vi volessero menare vita celibe vi assegnò
l’abito religioso di S.Maria Maddalena de’
Pazzi che è il carmelitano, sotto la cui
Regola vivono”.
La prima Priora del
Collegio fu Suor Maria Anna Atripaldi
(1727-1813) nativa di Nocera de’ Pagani e il
primo Rettore fu Don Carmine Baccari
di Pucara in Tramonti.
Chi erano le “donzelle civili”
299. Ma chi erano queste
“donzelle civili” per le quali il Collegio era
stato istituito?
Le ragazze di famiglia nobile
ricevevano la loro educazione nel palazzo
paterno ad opera di precettori, e ne uscivano
poi o per sposarsi con altri nobili oppure per
diventare suore in importanti monasteri, in
entrambi i casi recando con sé una ricca dote.
Le ragazze di famiglia contadina,
che erano poi la larghissima maggioranza,
apprendevano anche loro nella masseria tutto ciò
che si riteneva necessario: non certo a saper
leggere e scrivere, ma a lavorare la terra come
gli uomini, ed in più a fare tutti i servizi
domestici per il marito e per i numerosi figli.
300. Le “donzelle civili” erano
invece le figlie della incipiente borghesia
(= figlie di proprietari terrieri non-nobili, di
commercianti o artigiani relativamente agiati,
di notai, medici, avvocati, farmacisti,
funzionari pubblici, etc.).
Le famiglie di queste ragazze,
infatti, da una parte non potevano
permettersi di avere il precettore ed il
confessore in casa come i nobili, e d’altra
parte ritenevano “ovviamente” sconveniente e
addirittura vergognoso che le loro figlie
crescessero “in mezzo alla terra” come
contadine.
Non essendovi d’altronde scuola
pubblica, l’unica soluzione per queste
“donzelle” erano proprio i Collegi istituiti per
spirito caritatevole da nobili o comunque da
ricchi personaggi, nei quali, con una spesa
relativamente mòdica per le loro famiglie,
potevano diventare “istruite nella dottrina
cristiana” ed apprendere “i lavori ed
arti che fussero convenienti alla loro
condizione”.
Successivamente, potevano poi o
uscire dal Collegio per sposarsi con uomini
della loro stessa “condizione” sociale, oppure
decidere di rimanere all’interno del Collegio
stesso come Suore, nel nostro caso Suore
carmelitane; in entrambi i casi, recando con
sé una dote certo più modesta di quella delle
ragazze nobili.
Il Collegio fino
all’unità d’Italia (1860)
301. In questo contesto, e con
tale ben precisa finalità, il Collegio di S.
Maria Maddalena de’ Pazzi visse dunque,
onorevolmente e meritoriamente, per tutto il
periodo Borbonico, facendo fronte alle costanti
difficoltà economiche con richieste di
“soccorsi” e di “provvidenze” sia a privati sia
alle Casse dello Stato, che erano in tali casi
solitamente puntuali e generose.
302. Dagli Atti di Santa Visita
del Card. Giuseppe Caracciolo-Giudice del 1838,
apprendiamo che, tra i “confessori abituali
delle monache”, vi erano anche preti barresi
come Don Giuseppe Sannino, che fu poi
parroco di Barra dal 1848 al 1861, Don
Michelangelo Langella, il Padre antoniano
Gaetano Prota, nonché Don Paolo Riccardi,
importante figura del clero barrese
dell’Ottocento, di cui diremo meglio a suo luogo
e che, per un certo periodo, fu anche
amministratore del Collegio.
S. Francesco Saverio Maria Bianchi (1743–1815) a
Barra
303. Soprattutto, però, è
interessante notare la presenza come confessore
nel Collegio di S.Maria Maddalena de’ Pazzi
anche di un grande Santo napoletano del
Settecento e cioè il barnabita S. Francesco
Saverio Maria Bianchi
.
“Il P. Bianchi … s'impose un
severo tenore di vita, da cui mai si discostò se
non per le confessioni, le visite ai malati
nelle case e negli ospedali, i soccorsi ai
poveri e alle fanciulle raccolte nei
conservatori.
304. Una volta ebbe necessità
di andare a confessare le religiose del
conservatorio di Santa Maria Maddalena di Barra
mentre pioveva a dirotto. Un suo benefattore
avrebbe preferito condurvelo con un tempo
migliore, ma il Santo, esortandolo ad avere
fiducia, insistette. Durante il viaggio tanto il
postiglione quanto i cavalli non furono bagnati
da una sola goccia d'acqua”
S. Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607) … e
Barra
305. Caterina de’ Pazzi nacque
a Firenze il 2 aprile 1566. A 16 anni, genitori
contrari, entrò nel monastero di clausura di S.
Maria degli Angeli, il più antico dell’Ordine
carmelitano, fondato nel 1450, con il nome di
Suor Maria Maddalena. Morì il 25 maggio 1607 e
fu proclamata ufficialmente Santa dal Papa
Clemente IX nel 1699. Il suo corpo incorrotto si
trova sotto l’altare maggiore della chiesa del
monastero di “S. Maria degli Angeli e S. Maria
Maddalena de’ Pazzi” che ha sede adesso in
Careggi (Firenze).
|
S. Maria Maddalena de Pazzi |
306. Di lei restano 4 grossi
volumi manoscritti, che costituiscono uno fra i
più importanti documenti della letteratura
mistica cattolica:
-
I quaranta
giorni
-
I colloqui
-
Gli otto
giorni dello Spirito Santo
-
La probatione
– La renovatione della Chiesa
307. Questi volumi contengono
tutto ciò che le sue consorelle, per esplicito
mandato dei superiori, “scrivevano et notavano”
non solo di quello che suor Maria Maddalena
riferiva delle sue esperienze interiori, ma
“particularmente stavano assistenti a' rapti
et scrivevano quello che in essi detta suor
Maria Maddalena diceva”.
La Santa, infatti, andava
frequentemente “in astratione di mente” e “come
fuori del corpo” ed in tale stato di “rapimento”
parlava e agiva, “veleggiando” per il monastero
mentre le consorelle la seguivano per annotare
tutto quello che lei diceva ed i gesti che
compiva.
I volumi manoscritti contengono
perciò la descrizione in prima persona delle sue
interiori desolazioni e consolazioni, nonché
insegnamenti spirituali perennemente validi, ma
anche esortazioni e lettere, non sempre poi
inviate ma comunque da lei rivolte al papa, a
cardinali, vescovi, superiori di ordini
religiosi, etc. nelle quali li esortava a dare
sempre più concreta attuazione a quell’opera di
“renovatione” della Chiesa, nello spirito delle
beatitudini evangeliche, delineata nel Concilio
di Trento.
308. Non sappiamo per quale
motivo il Duca di Castrì, nel 1797, volle che il
Collegio di Barra fosse intitolato proprio a
S.Maria Maddalena de’ Pazzi né se fu consigliato
da qualcuno ed eventualmente perché.
Indubbiamente però questo nome
appare singolarmente ben scelto, alla luce di
quanto abbiamo detto sopra (vedi nn°299-300).
Questa Santa, infatti, nata in una ricca
famiglia di banchieri fiorentini
[91] e dunque benestanti non-nobili,
era quanto mai indicata come patrona di un
Collegio di “donzelle civili” cioè di famiglia
borghese.
309. D’altronde, il nome di S.
Maria Maddalena de’ Pazzi era almeno non
sconosciuto, dalle nostre parti, anche per un
altro motivo.
Dalla biografia scritta da
Giuseppe Ceci, apprendiamo infatti che lo stesso
Gaspare Roomer
[92] era specialissimamente devoto
proprio a questa Santa:
“Egli (Gaspare Roomer) …
era un uomo fortunato ma senza, come di solito
accade, insuperbire della sua fortuna: tutto –
l’essere scampato alla rivoluzione del 1647; la
guarigione senza aiuto di medici dalla peste che
lo colpì nel 1656; la costante prosperità negli
affari; la lunga vita – tutto attribuiva
all’aiuto divino e all’intercessione della
sua santa patrona Maddalena de’ Pazzi,
della quale era devotissimo e per promuoverne il
culto spese in 30 anni ben 75.000 ducati …
310. Dalla moglie, della quale
non sappiamo niente, neanche il nome, aveva
avuto un’unica figlia, che inutilmente molti
signori napoletani avevano domandato in isposa;
Don Gaspare soleva dire che essi volevano
sposare i suoi quattrini e non sua figlia.
Costei infine prese il velo col nome di suor
Maria Maddalena, nel monastero carmelitano
del Sacramento dove morì nel 1672 cioè 2 anni
prima del padre.
311. Alla morte del quale,
avvenuta il 3 aprile 1674, maggior beneficato
nel suo testamento fu l’ospedale di S. Maria del
Popolo degli Incurabili, nominato erede
universale come ricorda l’epigrafe che si legge
tuttora nella chiesa annessa … Cospicuo legato
toccò anche al monastero carmelitano, che
aveva mutato l’intestazione, ad istanza del
Roomer, da S. Teresa in S. Maria Maddalena de’
Pazzi ma che fu sempre conosciuto coll’altro
titolo del Sacramento. Già in vita gli aveva
donato un capitale di 75.000 ducati, ed ora vi
aggiunse i palazzi alla Stella, ai Vergini e
allo Splendore, con tutti i mobili, gli argenti,
e le opere d’arte e ogni altra suppellettile,
superando nel complesso i 200.000 ducati …
312. Per sua sepoltura, Gaspare
Roomer elesse poi la cappella di S. Maria
Maddalena de’ Pazzi nella chiesa del
convento carmelitano di S. Maria della Vita, al
quale donò 9.000 ducati”.
313. Sembra quindi che Gaspare
Roomer sia stato il principale divulgatore e
promotore della devozione a S. Maria Maddalena
de’ Pazzi in Napoli, visto che fu proprio lui a
fondare il primo monastero napoletano a lei
intitolato, volle che sua figlia si facesse
suora proprio in quel monastero e proprio con il
nome di suor Maria Maddalena, e sicuramente
molto contribuì anche per la causa di
beatificazione della Santa.
A S. Maria del Pozzo nel 1741
314. Abbiamo visto (nn°183-186
in “La Barra nel Seicento”) che, nell’antico
Casale di Casavaleria, diroccata ormai la
chiesetta di S.Martino, era rimasta la sola
chiesa di S.Maria del Pozzo, dalla quale ormai
anche la contrada cominciava a prendere il nome.
315. Al tempo della Santa
Visita del Card. Gesualdo nel 1599, il quadro
della Vergine col Bambino, posto nella chiesa,
era oggetto di viva devozione: intorno
all’immagine erano posti molti ex-voto e una
tabella con i nomi di coloro che avevano
ricevuto grazie; e la apposita festa della
Madonna del Pozzo veniva celebrata il terzo
giorno dopo Pentecoste.
316. Nel corso del Seicento,
però, la chiesetta visse un periodo di
progressiva decadenza: pur rimanendo formalmente
una Rettoria, il suo Rettore si limitava solo a
riscuotere la rendita dei terreni e nella chiesa
in realtà non si celebrava più Messa né si
svolgeva alcuna attività pastorale.
Tanto che, alla fine del
secolo, nel 1699, alla Visita del Card.Cantelmo,
essa risultava “abitata” solo da un “romìto” e
l’unica funzione che svolgeva, di fatto, era
quella di cimitero per i pochi abitanti della
zona (vedi nn°190-194 in “La Barra nel
Seicento”).
317. Infine, nel 1741, agli
Atti di Santa Visita del Card. Spinelli,
troviamo le affermazioni dell’allora Parroco di
Barra Don Nicola Montella (1731-1743) che parla
di “mediocre concorso” di popolo pure in
occasione del giorno della festa della Madonna,
tanto che si riteneva opportuno, data la scarsa
cura con cui era tenuta, di trasferire altrove
il “beneficio” che in essa aveva sede.
In pratica, il Parroco
proponeva di eliminare la figura, ormai solo
parassitaria, del Rettore, suggerendo
indirettamente di affidare alla Parrocchia di
Barra (cioè a se stesso) la chiesa … e la
relativa rendita beneficiale. Non sembra però
che la sua proposta abbia avuto seguito.
Villa Letizia
318. Alcuni decenni dopo, negli ultimi del
Settecento, la “strada che porta a S. Maria del
Pozzo” si arricchì di un’altra villa, sorta a
poca distanza dalla pre-esistente villa Amalia
(vedi nn°187-189 in “La Barra nel Seicento”): la
villa Letizia.
Insieme alla villa S. Anna di Piazza
Abbeveratoio, costituisce la coppia di ville
nobili Barresi che non figurano nella mappa del
duca di Noja e sono quindi sicuramente
successive al 1775.
319. Appartenne prima alla
famiglia Cantalupo (che fu probabilmente
quella che ne iniziò la costruzione, negli
ultimi anni del Settecento) e poi alla famiglia
Nasti.
320. Costruita probabilmente a
più riprese nel corso dell’Ottocento (fino
all’ultima modifica intorno al 1880), fu
restaurata negli anni ’20 del Novecento ma
successivamente ridotta ad un condominio, fino a
che ... sopraggiunse il terremoto del 1980 e
tutto quello che a suo luogo si dirà.
Cenni descrittivi della villa
321. “L’edificio, con pianta
tendente al quadrato, si sviluppa ai piani
superiori con una morfologia a doppia L.
A parere di Cesare De Seta
[93], sono databili al tardo
Settecento il pian terreno ed il piano nobile,
nonché quella sorta di arco trionfale a tre
fornici che separa il cortile interno dal
giardino posteriore. Una conferma, chiarisce
l’autore, di un primo momento
tardo-settecentesco è evidenziata dal bell’arco
posto a fondo del cortile e sopra-elevato su una
gradinata che dà maggiore spicco a
quest’episodio di sapore tipicamente
scenografico.
322. Tardo-ottocentesca
è invece, inequivocabilmente, un’ulteriore
sopra-elevazione verticale dell’edificio, con
motivi eclettici neo-medioevali, quali i
torrioni contenenti le scale a chiocciola o le
merlature dei corpi laterali”
[94].
323. Ad evidenziare le due
diverse fasi di costruzione, nel restauro
ultimato nel 1996, la villa è stata ridipinta
solo nella parte più antica (pianterreno, piano
nobile, androne e cortile) lasciando invece il
colore naturale dei materiali di costruzione (il
tufo) nella parte ottocentesca.
324. Il corpo centrale
dell’edificio è a tre piani: il piano nobile è
fiancheggiato da due terrazze; le ali laterali,
invece, si elevano di un solo piano. Le terrazze
laterali e posteriori, così come i numerosi
balconi, consentono un’ampia panoramica sia del
territorio Barrese che del Vesuvio.
Un imponente androne di
ingresso introduce scenograficamente al
cortile, aperto sul parco retrostante con
l’arco a tre fornici che funge quasi da
“quinta” teatrale. L’arcata a tre fornici
termina, nella parte centrale, con una balaustra
e, lateralmente, con due pinnacoli cuspidali;
quattro semplici colonne decorano la struttura.
325. Attraverso quest’arcata si
giunge al giardino posteriore,
strutturato intorno ad un asse prospettico
centrale che giunge fino al fondo del giardino,
chiuso da una cancellata.
Anche lateralmente la
villa è circondata da giardini, su due livelli,
cui si rivolgono le facciate secondarie delle
ali laterali dell’edificio.Nel perimetro dei
giardini rientravano, in origine, anche le
due belle casine, poste in posizione
simmetrica rispetto all’edificio della villa e
poi adibite a private abitazioni.
La contrada dell’Oliva nel Settecento
326. Nella contrada
dell’Oliva, alla masseria donata ai
francescani da Isabella De Gennaro e alla villa
di Dionisio Lazzari (vedi nn°195-205 di “La
Barra nel Seicento”), si aggiunse nel Settecento
la attuale chiesetta dedicata alla Madonna.
327. Agli Atti di
Santa Visita del Card. Giuseppe Spinelli,
troviamo infatti allegato il seguente “Breve”
papale, datato 3 dicembre 1718:
Universis christifidelibus, presentes litteras
inspecturis, salutem et apostolicam
benedictionem.
Ad augendam fidelium religionem et animarum
salutem coelestibus ecclesiae thesaurus,
charitate intenti,
omnibus utriusque sexus christifidelibus, vere
penitentibus et confessis ac sacra comunione
refectis,
qui ecclesiam seu cappellam vel oratorium
pubblicum Sanctae Mariae gratiarum
nuncupati Casalis de la Barra
neapolitanae diocesis (non tamen regulariam),
cui ecclesiae eiusque cappellis et altaribus,
sive omnibus sive singulis, eamque, seu eas, vel
ea aut illarum seu illorum singulas, vel
singulam etiam visitam,
nulla alia
indulgentia reperitur concessa dominica
immediate sequenti post festum Visitationis
B. Mariae Virginis Immaculatae, a primis
vesperis usque ad occasum solis, dominica
huiusmodi
singulis annis
devote visitaverint et ibi pro christianorum
principum concordia, heresum extirpatione ac
sanctae matris ecclesiae exaltatione, pias ad
Deum preces effuderint
plenariam omnium
peccatorum suorum indulgentiam et remissionem
misericorditer in Domino concedimus.
Insuper, eisdem
christifidelibus… vere penitentibus et confessis
ac sacra comunione refectis, eandem ecclesiam in
aliis seu festivitatibus eiusdem B.M.Virginis
Immaculatae ut supra visitaverint et oraverint
sic qua die predictorum id egerint, septem annos
et totidem quadragenas de indictis eis seu alias
quomodolibet debitis penitentiis, in forma
ecclesiae consueta relaxamus.
Presentibus ad septennium tantum valituris.
Volumus autem ut si alias christifidelibus in
quocumque alio anni die dictam ecclesiam seu
cappellam aut altare in ea situm visitaverint
aliqua alia indulgentia perpetuo vel ad tempus
eundem elapsum duratura concessa fuerit vel si
pro impetratione… admissione seu publicatione…
aliquid, vel minimum detur, aut sponte oblatum
recipiatur presentes nullae sint.
Datum Romae apud Sanctam Mariam Maiorem, sub
annulo Piscatoris, die III Decembris MDCCXVIII.
Traduzione:
A tutti i fedeli
cristiani, che leggono le presenti lettere,
salute ed apostolica benedizione.
Per incrementare la
religione dei fedeli e la salute delle anime,
con i celesti tesori della Chiesa, spinti dalla
carità,
concediamo
misericordiosamente, nel Signore, indulgenza
plenaria e remissione di tutti i loro peccati
a tutti i fedeli
cristiani, di entrambi i sessi, veramente
pentiti e confessati e corroborati dalla sacra
comunione,
che, senza aver
reperito nessun’altra indulgenza concessa, la
domenica immediatamente seguente la festa
della Visitazione della Beata Maria Vergine
Immacolata, dai primi vespri fino al
tramonto del sole,
nei singoli anni
devotamente visiteranno, e ivi innalzeranno a
Dio pie preghiere per la concordia dei Prìncipi
cristiani, l’estirpazione delle eresie e
l’esaltazione della Santa Madre Chiesa,
la chiesa ossia
cappella ovvero oratorio pubblico denominato di
S. Maria delle Grazie, del Casale
della Barra, nella diocesi di Napoli (non
però regolare),
alla quale chiesa,
e alle sue cappelle ed altari, sia tutti sia
singoli, (si siano recati) con distinte
visite o anche con una sola singola visita.
Inoltre, agli
stessi fedeli … veramente pentiti e confessati e
corroborati dalla sacra comunione che, nelle
altre festività della stessa B.M. Vergine
Immacolata, abbiano visitato come sopra la
stessa chiesa e come sopra abbiano pregato,
condoniamo, nella forma consueta della chiesa,
sette anni ed altrettante quarantene da tutte le
debite penitenze ad essi imposte.
Le presenti sono
valevoli solo per sette anni.
Vogliamo anche che
se altri fedeli cristiani, in qualunque altro
giorno dell’anno, visiteranno la detta chiesa
ovvero cappella o altare in essa sito, sia
concessa qualche altra indulgenza, duratura
perpetuamente o ad un tempo fissato, o per
impetrazione … ammissione ovvero pubblicazione …
Se qualcuno riceve
(qualcosa per tali indulgenze) anche
minima o spontaneamente donata, le presenti
siano nulle.
Dato in Roma,
presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del
Pescatore, il giorno 3 dicembre 1718.
328. Questo
documento, essendo datato 1718, fu emesso dal
papa Clemente XI (1700-1721), nel periodo in cui
sulla cattedra napoletana sedeva il card.
Francesco Pignatelli (1703-1734), e parroco di
Barra era don Donato Fragnolo (agosto 1710-marzo
1731).
Esso fa esplicito
riferimento alla “chiesa ossia cappella ovvero
oratorio pubblico di S. Maria delle Grazie nel
Casale della Barra”, avendo cura di specificare
(non tamen regulariam) che non si
riferisce all’altra chiesa di S. Maria delle
Grazie, quella cioè annessa al convento
francescano del Corso Sirena: si riferisce
quindi proprio alla nostra chiesetta dell’Oliva.
Viene concessa
“indulgenza plenaria”, cioè remissione di
tutte le pene da scontarsi per i
peccati commessi, a coloro che, pentìti
confessàti e comunicàti, visiteranno la
chiesetta, ed ivi pregheranno per la pace nel
mondo e per il bene della Chiesa, nella domenica
“successiva alla festa della Visitazione della
Beata Vergine Maria”.
Occorre qui notare
che tale festa era allora celebrata il giorno 2
luglio, mentre attualmente il calendario
liturgico fissa la memoria della visita di Maria
alla sua parente Elisabetta (vedi Vangelo di
Luca: Lc 1, 39-56) all’ultimo giorno del
mese di maggio, a conclusione cioè del mese
tradizionalmente dedicato alla Madonna.
Viene inoltre
concessa “indulgenza parziale”, di sette anni e
sette quarantène, a coloro che abbiano
effettuata la suddetta visita in occasione di
altri giorni di festività dedicati alla Madonna.
Si lascia poi la possibilità che, in futuro,
possano essere concesse anche altre indulgenze,
purché sempre a titolo gratuito.
La conferma da parte del papa Benedetto XIV
(1740-1758)
329. Il documento
del 1718, infatti, come si vede, era valevole
“solo per 7 anni” e quindi, di per sé, veniva a
scadenza nel 1725; successivamente, però, esso
venne confermato “in perpetuo” dal papa
Benedetto XIV (1740-1758).
330. Della qual
cosa, rimane memoria in una iscrizione su marmo,
un tempo infissa su una parete della chiesa, che
dice:
INDVLGENTIA PLENARIA
IN DIE B.V. GRATIARVM IN
RELIQVIS VERO EIVSDEM FESTI
VITATIBVS SEPTEM ANNI AC
TOTIDEM QVADRAGENAE
ET A SVMMO PONTIFICE BENEDICT(O)
XIV SVO RESCRIPTO PERPETVO FVI(T)
CONFIRMATA
traduzione:
INDULGENZA PLENARIA
NEL GIORNO DELLA BEATA VERGINE DELLE GRAZIE
E, NELLE RESTANTI SUE FESTE,
SETTE ANNI CON ALTRETTANTE QUARANTENE.
E DAL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XIV,
CON SUO RESCRITTO, IN PERPETUO FU CONFERMATA.
La strana concessione a Giuseppe Maria Andreassi
(1729)
331. Nel frattempo, però, in
questo rapporto lineare fra una chiesetta
costruita direttamente da una piccola comunità
contadina sotto l’ègida francescana ed il
riconoscimento pontificio, si inserisce
all’improvviso un fatto che appare strano.
332. Come apprendiamo sempre
dagli Atti di Santa Visita del Card. Giuseppe
Spinelli: “Il consigliere Giuseppe Maria
Andreassi, avendo fabbricato una Chiesa
sotto il titolo di S. Maria delle Grazie, nel
Casale della Barra, diocesi di Napoli, supplica
umilmente la Santità Vostra degnarsi concedergli
il privilegio perpetuo per tutti i lunedì
dell’anno, senza espressione di numero di Messe
ed in suffragio delle anime dei defunti della
sua famiglia”.
Per cui: “Ex audientia SS.mi
die 16 martii 1729 SS.mus Dominus Noster
Benedictus PP. XIII concessit privilegium
perpetuum altari B. Mariae Gratiarum in Ecclesia
sub eodem titulo Casalis Barrae Neapolitanae
diocesis pro qualibet feria secunda absque
espressione numeri missarum et pro defunctis
tantum familiae Consiliari Iosephi Mariae
Andreassi eiusdem Ecclesiae Patroni”.
Traduzione: “Nell’udienza del
giorno 16 marzo 1729, il Santissimo Signore
Nostro, papa Benedetto XIII, concesse privilegio
perpetuo all’altare della Beata Maria delle
Grazie, nella Chiesa sotto lo stesso titolo, del
Casale della Barra nella diocesi di Napoli, per
tutti i lunedì, senza espressione di numero di
Messe, e solo per i defunti della famiglia
del consigliere Giuseppe Maria Andreassi,
patrono della stessa Chiesa”.
Abbiamo quindi un’altra
concessione, questa volta del papa Benedetto
XIII (1724-1730), fatta nel 1729 alla famiglia
Andreassi, un esponente della quale, il
“consigliere” Giuseppe Maria Andreassi, si
qualifica come colui che ha “fabbricato” la
chiesa e ne vanta perciò il patronato, secondo
l’antico diritto feudale.
333. Però, negli Atti di Santa Visita (1818) del
Card. Luigi Ruffo-Scilla (1802-1832), il
patronato della chiesetta “dell’Oliva” si dice
“usurpato” dalla famiglia Andreassi: “Vi si
celebra una Messa nei giorni festivi per la
limosina di ducati 8 l’anno, che contribuisce il
presunto patrono; il resto si fa colla
limosina dei fedeli”.
334. Evidentemente, quale che sia stato il
ruolo, forse modesto, del consigliere Giuseppe
Maria Andreassi nella “fabbricazione” della
chiesa, i suoi eredi, nel corso del Settecento,
non mostrarono comunque alcun particolare
interessamento per la chiesetta dell’Oliva,
limitandosi a versare, piuttosto controvoglia,
“la limosina di ducati 8” ogni anno, senza
avere, per il resto, nessun rapporto diretto con
il territorio e con la sua gente, la quale
continuò a gestire da sé la chiesetta così come
poveramente poteva.
335. La trascuratezza degli Andreassi continuò
fino al punto che, negli Atti di Santa Visita
(1838) del successivo Card. Giuseppe
Caracciolo-Giudice (1833-1844), non si parla più
di alcun “peso di Messe” inerente alla chiesa,
ed anzi si fa menzione “di un tal eremita, a
nome Giovanni Carbone, cui era affidata la cura
di questa cappella, il quale fu detto essere
dedito al vino, al giuoco e sospetto d’armi”.
Vedremo a suo luogo come, verso la metà
dell’Ottocento, l’ambigua situazione del
“presunto patronato” della famiglia Andreassi
verrà definitivamente chiarita.
Il frammento di affresco
336. Intanto, del periodo
Settecentesco della nostra chiesetta, rimane
anche un’altra importante memoria, e cioè il
frammento di affresco che attualmente si vede
sulla parete a destra dell’altare. In questo
frammento, si distinguono due figure di donna ed
una figura maschile.
Non si riesce, dal frammento, a
comprendere che cosa rappresentasse l’affresco
nel suo complesso. E’ bello pensare che potrebbe
trattarsi della parabola evangelica “delle 10
vergini” (vedi Mt 25, 1-13), con lo Sposo che
accoglie le 5 vergini “prudenti” (= che hanno
l’olio nella làmpada) e respinge, invece, le
5 vergini “stolte” (= che non hanno
l’olio nella làmpada). In effetti, questa
immagine sarebbe coerente con l’intitolazione
della chiesa alla Madonna dell’Oliva; non
è però possibile, al momento, avere certezza di
questa ipotesi.
Villa S. Anna
all’Abbeveratoio
337. Nella mappa del duca di
Noja (1775), all’incrocio dell’Abbeveraturo,
si distingue un caseggiato che potrebbe essere
identificato con la villa di Dionisio Lazzari di
cui parla il Cozzolino (vedi nn°201-204 di “La
Barra nel Seicento”).
Lo stesso Cozzolino, scrivendo
nel 1889, testimonia di quegli abitanti di Barra
che “da bravi pionieri, con i villaggetti dello
Scassone, di S. Spirito (oggi
S. Antonio) all’Abbeveratoio, dell’Oliva,
ed altri gruppi di case, avevano saputo avanzare
i loro confini nel padulanum, da essi
puossi dire aspremente conquistato fino al
pascone di S. Martino compreso …”
338. Negli ultimi anni del
Settecento, in un angolo di Piazza Abbeveratoio,
che ancor oggi presidia maestosa, sorse la villa
S. Anna, quasi contemporanea alla villa Letizia
(vedi sopra, nn°318-325).
Cenni descrittivi della villa
339. La villa presenta alcuni
segni ancora visibili della primitiva
struttura tardo-settecentesca, quali ad
esempio la gabbia-scale, ma nel complesso mostra
attualmente l’aspetto conferitole dalla ampia
ristrutturazione avvenuta nel corso
dell’Ottocento.
340. La pianta è ad U. La
facciata è a tre piani, scanditi nei canonici
tre ordini; il centro presenta un lieve aggetto
del corpo di fabbrica, con un alto portale ad
arco ed una finta torretta con archetto aperto
sul cielo. I bracci laterali racchiudono due
cortili, che si aprivano un tempo sul giardino e
sul fondo rustico di pertinenza, oggi
completamente cancellati da edilizia più o meno
abusiva.
341. Al centro del primo cortile, fino a non molti anni fa,
si vedeva una spaziosa gabbia che custodiva
canterini e variopinti uccelli di varie specie.
342. La villa è stata restaurata, dopo circa due secoli
dalla sua fondazione, sul finire del Novecento.
Gli sviluppi delle 3 confraternite laicali nel
Settecento
343. Tutte e tre le
confraternite laicali già esistenti in Barra
(quella semi-ufficiale “di S. Antonio” dei
francescani; quella parrocchiale “della SS.
Annunziata”; e quella “del SS. Rosario” dei
domenicani) ricevettero nuovo impulso e fervore
dalla missione redentorista del 1741 e
dall’introduzione nel Casale della “vita devòta”
e ciò si manifestò anche esteriormente, nella
ripresa dell’edilizia religiosa e dell’arte
(pittura, scultura, musica) a scopo
“devozionale”.
344. Proprio intorno alla metà del Settecento, in seguito al
Concordato del 1741, il primo ministro borbonico
Bernardo Tanucci espropriò, tra gli altri (vedi
sopra, n°229), il cinquecentesco convento dei
francescani in Barra, lasciando ai frati solo la
chiesetta e le stanze attigue.
Il convento espropriato venne
utilizzato, allora, come carcere mandamentale,
mentre i frati ed i laici della confraternita
“di S. Antonio” fecero prontamente restaurare la
facciata della chiesa, nell’elegante stile
rococò che è giunto sostanzialmente fino a
noi.
345. A sua volta, la
confraternita parrocchiale “della SS.
Annunziata”, che aveva allora circa 170 iscritti
su una popolazione barrese di circa 4.000
persone, ed era posta sotto la cura del parroco
Don Salvatore Roselli (lo stesso che diede gli
ultimi sacramenti a Francesco Solimena nel
1747), realizzò un progetto ancora più
articolato.
Nel 1743, si ebbe infatti il
completo trasferimento della confraternita dai
locali parrocchiali, dove in precedenza aveva
sede, alla antica chiesetta di S. Atanasio, che
fu per l’occasione restaurata con una nuova
facciata, di gusto del tutto analogo a quello
della chiesa “di S. Antonio” ed anch’essa giunta
fino a noi nella forma settecentesca.
346. Nei primi decenni del
Settecento venne anche ultimata la chiesa dei
domenicani, con la elegante facciata attribuita
dal Venditti proprio a Francesco Solimena, che
era appunto un iscritto alla confraternita “del
SS. Rosario” dei domenicani di Barra
.
I tre allievi di
Francesco Solimena in Barra
347. In tutte e tre queste
chiese, ultimate o restaurate in questo periodo,
operarono i tre allievi di Francesco Solimena
che furono attivi in Barra intorno alla metà del
Settecento: Orazio Solimena, Paolo de Majo e
Gian Battista Vela.
Questa triade di artisti fu
tanto debitrice a Francesco Solimena, sul piano
della ispirazione artistica, quanto a S. Alfonso
Maria de’ Liguori, sul piano dell’ ispirazione
religiosa e della spiritualità.
Proprio nella sintesi
dell’insegnamento di questi due maestri può
forse essere indicata la caratteristica che
collega tra di loro le opere di questi tre
artisti, certo non eccelsi ma estremamente
significativi del clima culturale non solo di
Barra in quell’epoca.
Solimena e S. Alfonso
348. Del resto, anche il
rapporto tra Francesco Solimena e S. Alfonso non
è trascurabile.
E’ noto, dal De Dominici, che
il padre di S. Alfonso, il nobile ufficiale Don
Giuseppe de’ Liguori, si dilettava di pittura e
miniatura, e volle per maestro proprio il
Solimena:
“Don Giuseppe di Liguoro,
cavaliere napolitano, si applicò ancor egli con
gran genio al disegno, e volle per maestro
Francesco Solimena, con la di cui direzione fece
qualche cosa, copiando l’opere sue; ma,
lasciando poi di colorire ad olio, si volse a
dipingere in miniatura, ed in tal modo ha fatto
moltissime cose con sua lode, da poiché
virtuosamente applicando il tempo, è venuto a
guadagnarsi nome di virtuoso, ed a far sì che il
suo nome resti meritevolmente eternato ...
Egli, acciocché non venghi
disturbato dalle cure domestiche, suole per lo
più ritirarsi a Marianella, casale vicino
Napoli, ove, benché fatto vecchio, tuttavia
dipinge le sue miniature, delle quali suole far
dono ai suoi più cari amici e ad altre persone
di merito”[96].
349. Lo stesso Alfonso risentì
certamente di questa influenza e fu a sua volta
autore di alcuni dipinti che, se non nella
storia della grande pittura, meritano certamente
di entrare in quella della iconografia religiosa
popolare.
Alfonso, nel 1719, a 23 anni,
quando era ancora un giovane avvocato, dipinse
infatti, su tela, una celebre immagine di Cristo
crocifisso ed una, altrettanto celebre, della
Madonna
[97]: entrambe, riprodotte
successivamente a stampa e su rame in
innumerevoli copie, furono diffusissime in tutte
le case del tempo, soprattutto in quelle del
popolo, che ne aveva la più religiosa
venerazione.
Alfonso stesso si serviva di
queste immagini, sia per la sua preghiera
personale, sia per la predicazione al popolo dal
pùlpito, così che esse formano, in un certo
senso, quasi parte integrante della sua
spiritualità
[98], e come tali furono sentite e
recepìte dai suoi innumerevoli discepoli e
seguaci.
350. Il crocifisso lìgneo, di
ignoto autore, che si vede attualmente (a
destra, entrando) nella parrocchia “Ave Gratia
Plena” di Barra, appartiene chiaramente a questo
filone, e somiglia molto a quello dipinto da S.
Alfonso.
Orazio Solimena (primo)
351. Orazio Solimena era nipote
di Francesco Solimena, essendo figlio del
fratello di lui, di nome Tommaso.
Dal matrimonio di Tommaso Solimena con la “onestissima
donzella” a nome Angela, nacquero infatti vari
figli, il primo dei quali, di nome Orazio, venne
purtroppo prematuramente a morte, con gran
dolore dello zio Francesco, che gli era
particolarmente affezionato (vedi nn°100-101 in
“Il periodo Austriaco”)
352. A questo dolore, il Solimena cercò conforto nella
amicizia che lo legava a Donna Aurora
Sanseverino (1667-1726), sorella minore di
Giuseppe Leopoldo, IX principe di Bisignano
[99].
“Alla perfine, dàtosi pace,
ebbe a consolarsi con la nascita di altro nepote,
a cui lo stesso nome di Orazio ha voluto imporre
...” (vedi nn°90-95 in “Il periodo austriaco”).
Orazio Solimena (secondo)
353. Fu dunque questo secondo
Orazio il nipote prediletto e, per così dire,
l’erede artistico designato, come si può vedere
dal sonetto “Addio ai pennelli”, quasi un
testamento spirituale, che Francesco Solimena
compose negli ultimi anni della sua lunga vita:
Cari pennelli, ohimé, vi
lascio, addio,
dei miei sudàti onor compagni
eletti;
per voi, co’ spirti miei
congiunti e stretti,
timor non ebbi di nemico oblio.
Or che vecchiezza rea sul corpo
mio
tutti ha distinti i suoi
maligni effetti,
noia mi date e non qual pria
diletti,
perché qual pria non son, né
son quell’io.
Quell’io non son, che nell’età nascente
coraggioso mi spinsi ad alte
imprese,
che alla fama dier l’ali ancor
nascente.
Restàte, dunque, e sìavi onor
cortese,
nelle mani a colui che senno e
mente
ebbe dal cielo, e dal mio
sangue scese.
In realtà, Orazio Solimena si rivelò artisticamente ben
inferiore al suo grande zio, limitandosi ad
imitarne lo stile e, molte volte, anche i
soggetti.
Opere di Orazio Solimena in Barra
354. Ad Orazio Solimena si
debbono, in Barra, sia la tela sopra l’altar
maggiore della parrocchia “Ave Gratia Plena”,
sia quella sopra l’altar maggiore della chiesa
dei Domenicani.
355. La prima raffigura appunto
l’Annunciazione di Maria e fu da lui
dipinta nel 1749, ispirandosi alla tela di
analogo soggetto dipinta da suo zio Francesco
per la chiesa di S. Maria di Donnalbina in
Napoli, negli ultimi anni del Seicento.
356. La seconda raffigura La
battaglia di Muret (combattuta nel 1213),
vale a dire un episodio della guerra nella quale
gli eretici càtari, guidati dal conte
Raimondo VI di Tolosa e dal re d’Aragona, furono
sconfitti dai crociati cattolici, inviati
da papa Innocenzo III e guidati dal conte Simone
di Montfort e da Arnaldo Almarico, abate di
Citeaux.
Quella battaglia fu anche un
momento importante della vita di S. Domenico
(raffigurato infatti nel dipinto) il quale,
assistendo a tanto massacro, si confermò nella
convinzione di dover contrastare il diffondersi
dell’eresia non con le armi bensì con la
predicazione e la testimonianza di vita
esemplare da parte dei cattolici e, proprio a
tal fine, fondò il suo nuovo Ordine religioso.
357. Ad Orazio Solimena si deve
anche la tela raffigurante la Madonna del
Rosario con S.Domenico, S.Rosa da Lima ed
altri Santi domenicani, sempre nella chiesa
dei Domenicani, sopra un altare laterale datato
1750.
Paolo de Majo (1703-1784)
358. Proprio di fronte alla
tela di Orazio Solimena raffigurante la
Madonna del Rosario si può vedere, nella
chiesa dei Domenicani in Barra, un’altra grande
tela, che rappresenta La circoncisione di
Gesù: è datata 1772 ed è opera di Paolo de
Majo, anch’egli della scuola di Francesco
Solimena.
359. “Paolo de Majo
(Marcianise, 15 gennaio 1703 - Napoli, 20 aprile
1784) detto nella scuola Paolo Marcianisi,
perchè egli è nativo di quella Terra, è stato un
de’ scolari che con assiduità hanno assistito
alla scuola, e benché non sia giunto al valore
de’ più eccellenti, ad ogni modo si porta bene,
e non gli mancano continuamente delle faccende,
vedendosi molte opere esposte al pubblico ...
Tralasciando altre sue pitture
che sono andate in Francia ed in Ispagna
(secondo si dice) ed in altri paesi forestieri,
faremo menzione delle due gran sopra-porte che,
per non aver stanza capace nella propria casa
(perciocché erano circa 40 palmi ogni una),
dipinse in S. Agostino Maggiore, ed ove vi fu
concorso di varie persone per vederle, essendovi
andato ancora il nostro cardinale arcivescovo
Spinelli per osservare queste opere, e quasi
tutta la nobiltà.
Uno di questi quadri
rappresentava la Probatica piscina,
l’altro la Disputa di Nostro Signore al
Tempio fra li Dottori, e furono mandati in
non so quale chiesa della sua patria, cioè nella
Terra di Marcianise
[100] ...
Vive Paolo operando in Napoli per varie
commissioni, godendosi il comodo che l’ha
procacciato la nobil arte della pittura”
[101].
360. Paolo de Majo
[102] fu amico personale, discepolo e
corrispondente di S. Alfonso Maria de’ Liguori,
del quale ripetette più volte, nelle sue tele,
il protòtipo dell’immagine della Vergine con gli
occhi rivolti verso il basso e le mani sul petto
[103].
361. La sua tela raffigurante
La circoncisione di Gesù si trova proprio
nel punto in cui si trovava la cappella funebre
di Francesco Solimena, menzionata nell’atto di
morte di quest’ultimo (1747) ma, per qualche
ragione che ignoriamo, non più esistente nel
1770, tanto che al suo posto poté essere messo
un nuovo altare laterale (datato 1770)
sormontato appunto dalla tela del de Majo
(datata 1772).
La tela reca l’iscrizione:
PAULUS DE MAJO
P.
EXPECIALI DEVOTIONE
FRATRIS PHILIPPI DE FELICE
FILIJ HUYUS CONVENTUS
A. D. 1772
Questa iscrizione testimonia
come Paolo de Majo sia stato spinto a realizzare
la sua opera in Barra dalla amicizia e legame
spirituale con il frate domenicano Filippo De
Felice, che risiedeva nel convento barrese.
Gian Battista Vela (1707-1800)
362. Paolo de Majo frequentò la scuola di Solimena in Barra
e ci veniva poi occasionalmente per incontrare
il suo amico domenicano fra’ Filippo De Felice;
Orazio Solimena viveva, con ogni probabilità,
nella grande villa di Barra, lungo la Via detta
dei pini di Solimena, a lui lasciata in
eredità dallo zio; ma il discepolo di Francesco
Solimena più tipicamente barrese fu senz’altro
Gian Battista Vela.
363. Nell’Archivio parrocchiale troviamo che, addì 5
novembre 1800, “Il Sigr.d.Giov.Battista Vela,
marito di d.Chiara Santelia, avendo ricevuti i
SS.Sacramenti per mano di d.Gennaro de Filippo,
è passato all’altra vita d’anni 93, abitando
alle Case del marchese Solimena e si è
seppellito nella Chiesa dei Padri … (non si
legge bene)”
Nato nel 1707 e morto nel 1800, sempre in Barra, e da
famiglia barrese, la sua vita copre dunque
l’intero arco del secolo.
Fin da ragazzo dovette manifestare le sue innate attitudini
al disegno e alla pittura, tanto che, pur non
essendo né nobile né ricco e non potendo quindi
permettersi di pagare, poté lo stesso
frequentare la scuola del grande maestro, che
aveva intuito le sue grandi capacità e lo aveva
preso a benvolere.
Ben poco si sa della lunga vita
del Vela, che dovette essere peraltro assai
riservata e tutta dèdita al lavoro nella sua
bottega di artista, con pochi spostamenti
dalla natìa Barra.
364. Alla morte del suo maestro
Francesco Solimena, nel 1747, egli molto
probabilmente ereditò da lui una bella casa, fra
le tante che il Solimena possedeva in Barra,
nella quale poi visse sempre
,
sita altrettanto probabilmente proprio lungo
quella strada che in seguito gli fu dedicata ed
ancor oggi porta il suo nome: Via Gian Battista
Vela.
365. Il Vela operò su
commissione della arciconfraternita della SS.
Annunziata, per la quale dipinse una bella tela,
raffigurante la Madonna con angeli,
datata 1774 o 1775 (l’ultima cifra non si legge
bene) e forse (l’attribuzione non è sicura, ma
probabile) anche la tela, più piccola, posta
sull’altare maggiore della arciconfraternita e
raffigurante l’Annunciazione.
366. Anche la confraternita
francescana di S. Antonio si rivolse al Vela per
completare la decorazione della propria chiesa,
nella quale tuttora si conserva, anche se oggi
non esposta al pubblico, una sua Madonna con
Santi.
La statua di S. Anna in Barra: Giuseppe Picano
(1716-1800)
367. Il visitatore che si rechi
attualmente nella grande chiesa della “SS.
Annunziata” in Napoli
,
“superato il vestibolo ... accede alla navata
dove, in due scarabattoli, sono S. Anna con
la Vergine e S. Giuseppe: due
sculture lignee policrome, attribuite a Giuseppe
Picano e datate al 1790”.
368. La statua in legno di
S. Anna con la Vergine di Barra è la copia
esatta di quella che lì si vede. Evidentemente,
il Picano realizzò entrambe, più o meno nello
stesso periodo: l’ una per la chiesa di Napoli e
l’altra per quella di Barra la quale, non
dimentichiamolo, porta anch’essa lo stesso
titolo “Ave gratia plena” ed è legata a quella
napoletana da un rapporto antichissimo risalente
al medioevo
.
369. Si ricorda qui che, nel
1757, la chiesa dell’Annunziata in Napoli fu
quasi completamente distrutta da un grande
incendio che risparmiò solo la sacrestia, la
cappella della famiglia Carafa di Morcone ed il
tesoro.
Questi tre ambienti furono poi
inglobati nella nuova costruzione, realizzata
nel periodo 1760-1782 da Luigi e Carlo
Vanvitelli, che realizzarono altresì l’attuale
succorpo.
370. Terminata la
ricostruzione, si dovette evidentemente porre
mano all’abbellimento della chiesa e Giuseppe
Picano (1716-1800), nato a S. Elia
Fiumerapido (piccolo paese non lontano da
Montecassino e da Aquino, in provincia di
Frosinone), scultore, stuccatore e “presepiaio”
allora molto noto e stimato nella città e nella
stessa corte, vi partecipò attivamente con varie
opere
.
371. La realizzazione della
statua di S. Anna rientra in questo programma
decorativo, che ne spiega anche la particolare
“posa”.
Si ricordi che la chiesa era
annessa alla cosiddetta “Santa casa” dell’
Annunziata, dove venivano ospitati ed educati
gli “esposti”, ovvero i bambini abbandonati; una
volta cresciuti, i bambini lasciavano ovviamente
la “Santa casa” per avviarsi nel mondo; il
Picano aveva perciò scolpito due statue, da
collocare nella chiesa in modo che fossero ben
visibili a chi usciva, raffiguranti l’una
S. Anna in atto di proteggere e quasi di
immettere nel mondo una ragazzetta (la Vergine)
e l’altra S.Giuseppe
nello stesso atteggiamento nei confronti di un
ragazzetto (Gesù).
Le due statue dovevano cioè
rappresentare una sorta di viàtico, di
benedicente augurio, nei confronti di quei
ragazzi e ragazze che lasciavano la “Santa casa”
nella quale avevano trascorso la loro infanzia e
si inoltravano fra i pericoli del “mondo”.
372. Quale che fosse la sua
origine, la statua di S. Anna con la Vergine
a Barra piacque moltissimo, fu accolta con
grande entusiasmo e prese il posto di quel
quadro, raffigurante la Santa nell’intero suo
contesto familiare, di cui si è detto a suo
luogo
ed intorno al quale si era saldamente radicata,
nel Seicento, la devozione alla “madre della
gran Madre”.
373. Da quel momento,
evidentemente, fu anche possibile portare la
statua in “processione”, anche se, per poterlo
fare con tutti i crismi della ufficialità, si
dovette attendere ancora qualche decennio, fino
cioè al 1822, quando S. Anna venne proclamata,
con apposita Bolla pontificia, patrona di tutto
il Comune della Barra.
La “barca” di S. Anna in Barra
374. L’uso di portare la statua
di S.Anna in processione dentro una barca
si deve anch’esso, molto probabilmente,
all’influenza di S. Alfonso Maria de’ Liguori.
Basti guardare la stampa, da
lui stesso disegnata per il suo libro “Il
trionfo della Chiesa” (pubblicato nel 1772,
mentre era vescovo di S. Agata de’ Goti), che
raffigura appunto la Chiesa come una galèra
in piena tempesta, scossa da onde tumultuose
.
375. E’ ben noto, infatti, che
uno dei simboli più classici per raffigurare la
Chiesa è “la barca di S. Pietro”; questa
simbologia si basa su alcuni passi dei Vangeli
(Mc 4, 35-41; 6, 45-52; Mt 8, 23-27; 14, 22-33;
Lc 8, 22-25; Gv 6, 16-21) e sulla
interpretazione dàtane dai Padri della Chiesa.
Valga per tutti S. Agostino:
“Durante questo tempo, la barca che trasporta i
discepoli, cioè la Chiesa, naviga e le tempeste
delle prove l’assalgono e la scuotono. Il vento
contrario si scaglia contro la Chiesa, cerca di
impedirle di giungere al riposo. Ma è più forte
Colui che intercede per noi. Nella tumultuosa
navigazione in cui peniamo, Egli ci dona
fiducia, viene a noi, ci conforta, temendo che,
scossi nella barca, ci lasciamo abbattere e ci
buttiamo disperati in mare. Fate attenzione,
infatti: anche se la barca è scossa, tuttavia è
sempre una barca; essa sola trasporta i
discepoli ed accoglie il Cristo. Essa è sempre
in grave pericolo sul mare, ma al di fuori di
essa si perisce subito. Rimani ben saldo nella
barca e prega Dio ... Colui che ordina ai
naviganti di venire in porto, abbandonerà forse
la sua Chiesa, non la condurrà Egli stesso al
porto del riposo?” (Sermone 75, 2-4; Enarratio
in Ps. 107, 12).
376. Poichè, in tutta l’Italia
meridionale, non vi era, si può dire, alcun
parroco che non avesse, nella propria
biblioteca, i libri di S. Alfonso, è del tutto
verosimile che qualcuno dei parroci di Barra tra
fine Settecento ed inizio Ottocento
,
guardando quella bella stampa, abbia pensato di
far trasportare in processione la statua di S.
Anna dentro la barca che simboleggia la
Chiesa in cammino nella storia, la Chiesa “che
prosegue il suo pellegrinaggio fra le
persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio,
annunziando la passione e la morte del Signore
fino a che Egli venga”, per crucem ad lucem
.
L’idea incontrò comunque il
vivo favore del popolo, e da allora le famiglie
di Barra fecero a gara per avere l’onore di
portare ‘a varca ‘e S. Anna, anche
come forma di voto per grazie chieste o
già ricevute, e di penitenza per i peccati
commessi.
La lapide per i presbìteri indigeni e
alienigeni (1796)
377. Degli ultimi anni del
Settecento è anche la lapide che si vede
attualmente nell’angolo a destra dell’altare
laterale oggi dedicato, nella chiesa
parrocchiale, alla Beata Suor Maria della
Passione. La lapide reca l’iscrizione:
QUISQUIS ES
INDICENA
ALIENICENA
HYPOGEUM
HUMANDIS
PRESBYTERIS
BENE DE HAC
AEDICULA MERITISQ. VOTA
EMENDICATA
STIPE
VENERATOR
ANNO D.NI
1796
378. Le parole non sono tutte
chiaramente leggibili ma in ogni modo il senso è
chiaro: si tratta della lastra sepolcrale al di
sotto della quale dovevano essere deposti i
preti sia di Barra sia forestieri (indigeni
e alienigeni) che, con le elemosine da
loro ricevute per le Messe, eventualmente
celebrate proprio su quell’altare, avevano
abbellito quella cappella laterale ed avevano
predisposto in essa la loro sepoltura.
Il cardinale Capéce-Zurlo (1782-1800) alle
paludi
379. E piace concludere questo
capitolo con la serena immagine del cardinale
arcivescovo di Napoli Giuseppe Maria
Capéce-Zurlo, descritto dal Palomba
[113] in un momento del ministero che
egli svolgeva, con la parola e con gli aiuti
materiali, nei Casali ad oriente del Sebéto,
prima dei turbinosi eventi del 1799:
”Era un bel vedere, nelle prime
ore pomeridiane, (il cardinale) uscire e
portarsi nelle paludi e negli altri territori,
sedere all’aria scoverta, chiamare i figliuoli e
le figliuole insegnando loro la dottrina
cristiana e spezzando il pane della divina
Parola secondo la loro capacità; ed acciocché si
portassero volentieri ad ascoltare il proprio
Pastore, distribuiva ad essi del danaro. Si
prestava per le case degli infermi ad
amministrare il sacramento della Cresima,
quantunque la sua età era avanzata, poiché egli
venne a reggere questa chiesa avendo anni 72”.
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Note
Vedi n°145 e seguenti, in “Il periodo
Angioino”.