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Campania

 

Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.4d Il Periodo Liberale (1896-1900)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

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La “napoletanità” come ideologia

273. E proprio così, toccando la duplice nota “sensibile ed universale” dell’amore e della natura, gli intellettuali organici della piccola borghesia napoletana inventarono la cosiddetta “napoletanità” come vera e propria “ideologia” del ceto medio borghese dopo l’unità d’Italia, attraverso la quale esso realizzò la sua “egemonia culturale” sulla plebe.

L’ideologia della “napoletanità”, da una parte, era un nostalgico e vacuo surrogato della perduta indipendenza politica, economica e culturale; dall’altra parte, era un formidabile collante inter-classista che “annebbiava” le menti e rendeva ancor più difficile una lucida presa di coscienza, da parte della plebe, della sua autonoma collocazione storico-sociale e quindi la rivendicazione, in forma organizzata, di migliori condizioni di vita.

274. Gli “intellettuali organici” della piccola borghesia napoletana, gli inventori inconsci dell’ideologia della “napoletanità”, furono scrittori che hanno il loro posto in qualsiasi storia della letteratura, come Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo e il commediografo Roberto Bracco.

Salvatore Di Giacomo con sua moglie Elisa Avigliano

La squadra dei parolieri: album di famiglia

275. Ma furono soprattutto parolieri come:

1)    il giornalista Peppino Turco, autore, come si è detto (vedi sopra, n°252), di Funiculì funiculà (1880); 

2)    il cautamente socialista, e studiosamente carducciano, Giovanni Capurro (1859-1920), autore della celeberrima ‘O sole mio (1898), con musica composta dal “posteggiatore” Eduardo Di Capua mentre si trovava in tournée a Odessa, in una grigissima Ucraina; ma anche di ‘E tre chiuove (1894); ‘O pizzaiuolo nuovo (1896); Quanno màmmeta nun ce sta (1904); Lilì Kangy (1905); Fili d’oro (1915); Tatònno ‘e Quagliarella (1919);

Gli autori di 'O sole mio (1898)

3)    il maestro elementare Pasquale Cinquegrana (1850-1939) che scrisse ‘E bersagliere (1889); la celebre Furturella (1894); l’originalissima ‘Ndringhetendrà (1895); le allegre ‘A cura ‘e mammà (1900) e Rosa Rusella (1903); e tantissime altre canzoni, alcune delle quali furono eseguite anche nella Festa dei Gigli di Barra (vedi oltre, n°343);

Pasquale Cinquegrana

4)    il pittore-decoratore (vedi sopra, n°266) Gian Battista De Curtis (1860–1926) che, oltre all’immortale Torna a Surriento [93], è anche autore di versi e musica di Duorme Carme’ (1892); dei versi di Ninuccia, la rosa di Toledo (1894), con musica di Vincenzo Valente; e di Lucia Lucì (1911), insieme al fratello musicista Ernesto De Curtis (1875-1937), il quale nel frattempo, come pianista del grande tenore Beniamino Gigli, portava la canzone napoletana in giro per il mondo, e scriveva la musica di canzoni come Voce ‘e notte (1904, Nicolardi) e Tu ca nun chiagne (1915, Bovio);

Gian Battista De Curtis

5)    il poverissimo e sventuratissimo ciabattino Vincenzo Russo (1876-1904)che imparò a scrivere frequentando la scuola serale per lavoratori e, prima di morire di tisi a soli 28 anni, consegnò alla musica di Eduardo Di Capua (lo stesso di ‘O sole mio) e alla immortalità nel tempo a venire, i versi di Maria Mari’ e ‘A serenata d’‘e rose (1899); Io te vurrìa vasa’ e Torna maggio (1900); Canzone bella e L’ùrdema canzone mia (1904);

Vincenzo Russo

6)    l’altro “sorrentino”, e viveur poi pentito, Aniello Califano (1870-1919)che ci ha lasciato canzoni come Girulà (1895); Madama Chichierchia (1903); Serenata a Surriento (1907); Ninì Tirabusciò (1911); la canzone dei soldati della Prima guerra mondiale ‘O surdàto nnammurato (1915); ed infine, sempre durante la Grande guerra, la canzone nostalgica della belle èpoque ormai al tramonto, Tiempe belle ‘e na vota (1916);

7)    il cameriere del “Caffè Turco”, poi “Caffè Tripoli”, in Piazza Plebiscito, Giuseppe Capaldo (1874-1919), il quale, scartato in un primo momento dalla ricca casa editrice tedesca “Poliphon”, si prese poi la soddisfazione di respingere la loro successiva offerta, e si aggregò ai giovani napoletani della casa editrice “La Canzonetta” con la quale pubblicò alcune delle sue briose canzoni rimaste celebri: Comme facètte màmmeta (1906); Ll’arte d’‘o sole (1908); ‘A tazza ‘e cafè (1918); ‘E llampadine (1919);

8)    il mitico Libero Bovio (1883-1942), figlio chiattòne ed alquanto indolente del deputato, professore universitario, patriota mazziniano di stretta osservanza ed illustre Massone Giovanni Bovio (1837-1903); con scarsa propensione sia al lavoro sia allo studio, alla morte del padre ottenne, per debita raccomandazione, un posto di scrivano al Museo Nazionale, dal quale poté dedicarsi alla sua vera vocazione di autore di canzoni; lasciata clamorosamente la casa editrice musicale tedesca “Poliphon” nel clima delle manifestazioni “interventiste” contro la Germania e contro l’Impero austro-ungarico che precedettero la Prima guerra mondiale, fu direttore de “La Canzonetta” fino al 1923, passò poi alla “Santa Lucia” fino al 1934, ed infine diede vita alla “Bottega dei quattro” insieme ai musicisti Nicola Valente, Ernesto Tagliaferri e Gaetano Lama; gli anni della sua vita sono scandìti da canzoni famose, che distillano la quintessenza della “napoletanità”: Surdàte (1909); ‘A serenata ‘e Pulecenella (1911); ‘A canzone ‘e Napule (1912); Tarantella luciana, Sona chitarra e Amor di pastorello (1913); Guapparìa (1914); Tu ca nun chiagne e Napule canta (1915); Reginella (1917); Cara piccina (1918); Napule e Maria (1921); Silenzio cantatore e Brìnneso (1922); Chiove e L’addio (1923); ‘O paese d’ ‘o sole (1925); Lacreme napulitane (1925); Signorinella (1931); Passione (1935); e tante altre …

9)    Eduardo Nicolardi (1878-1954), figlio del direttore amministrativo del giornale “Il Mattino” e, a sua volta, direttore amministrativo per circa 40 anni (1910-1950) dell’ospedale “Loreto Mare”; autore della celebre Voce ‘e notte (1904), dedicata alla sua futura moglie Anna Rossi e musicata da Ernesto De Curtis; ma anche di Sciuldèzza bella (1905), Mmiez’‘o grano (1909), ed infine di Tammurriata nera (1944), con musica di E.A. Mario, che gli fu ispirata proprio dalle nascite dei primi “criatùri niri”, figli di donne napoletane e di soldati dell’esercito americano di occupazione, che avvenivano nell’ospedale da lui diretto;

Edoardo Nicolardi

10)  il primo “cantautore”, anche in italiano, Armando Gill (pseudonimo di Michele Testa, 1878-1945) della cui copiosa produzione ricordiamo qui: Rispetti all’antica (1915); Come pioveva e ‘E quatto ‘e maggio (1918); Bella ca bella si’ (1919); ‘O zampugnaro ‘nnammurato (1924); E allora? (1927); …

11)  l’altro paroliere e musicista insieme, E.A. Mario (pseudonimo di Giovanni Gaeta, 1884-1961): autore dei versi di Comme se canta a Napule (1911); Funtana all’ombra e Maggio si’ tu (1912); Io, ‘na chitarra e ‘a luna (1913); La leggenda del Piave, la mitica canzone patriottica del giugno 1918; seguita dalla altrettanto mitica canzone degli emigranti Santa Lucia luntana (1919); le tre canzoni che fecero la fortuna della “chanteuse sensuale” Anna Fougez e cioè Ladra (1916), Vipera e Le rose rosse (1919), alle quali farà poi quasi da contrappunto la celebre Balocchi e profumi (1928); Canzone appassiunata e Mandulinata a Surriento (1922); ed autore della musica di Core furastiero (1928), con parole di Alfredo Melina; Dduie paravìse (1928), su parole di Ciro Parente; e della già citata Tammurriata nera (1944), sui versi di Eduardo Nicolardi, che era suo con-suocero.

L’opposto di Francesco Mastriani: Ernesto Mùrolo

276. E per ultimo il più “scervellato” di tutti, e cioè Ernesto Murolo (1876-1939) quello che potrebbe essere considerato, per superficialità intellettuale ed irresponsabilità morale, l’esatto opposto di Francesco Mastriani (vedi sopra, n°117 e segg.).

Per lui Napoli era veramente solo il panorama che vedeva dalla sua casa al Vomero ed i napoletani veramente persone che vivevano felici, senza alcun bisogno di lavorare, godendosi ’e belle figliòle, ‘o sole, ‘o mare, ‘e stelle, e ‘a luna quanno spònta.

Difatti, lui visse parassitariamente di rendita per tutta la vita, “senza fare nulla e tuttavia in continua agitazione” (cfr 2Ts 3, 10-12).

Ernesto Mùrolo

277. Ufficialmente, era figlio di Vincenzo Murolo e di Maria Palumbo, ma tutti sapevano (e mai come in questo caso: vox populi, vox Dei) che era figlio, in realtà, dell’ineffabile Edoardo Scarpetta (vedi sopra, nn°227-228) il quale, per liberarsi vantaggiosamente dal peso di questo ennesimo figlio occasionale ed indesiderato, l’aveva ceduto, a prezzo forse nemmeno eccessivo, al buon Don Vincenzo e alla moglie, che non potevano avere figli propri e che lo adottarono legittimandolo.

Il padre adottivo era un ricco commerciante ed Ernestino visse nella bambagia fin da piccolo, da “figlio di papà”, senza impegnarsi né a lavorare né a studiare, e alla morte di Vincenzo, dopo aver vinto la causa mossa contro di lui da altri parenti, si ritrovò nel 1908 (a 32 anni) unico erede di un vasto patrimonio.

278. Da quel momento, si dedicò con scrupolosa incoscienza a scialacquare i soldi che il defunto aveva accumulato con accorta parsimonia. Si diede una rispettabilità borghese sposando Lia Cavalli, figlia venticinquenne di un pittore livornese, dalla quale (?) ebbe 7 figli; ma questo ovviamente non gli impedì di “innamorarsi” di molte altre donne, frequentate con varia intensità e per periodi più o meno lunghi, sempre all’insegna, beato lui, di romantiche passeggiate ed abbondanti libagioni … 

279. Nel 1917 era in pieno svolgimento la Prima guerra mondiale, milioni di uomini di tutte le nazionalità stavano letteralmente crepando nelle trincee e lui, dal suo salotto del Vomero, si rivolgeva al “popolo” con una canzone intitolata appunto Popolo po’ il cui ritornello dice:

Napule, bella città,

ride, ce veve 'a coppa e campa assaje, ca ll'aria 'o ddà.

Stasera cu 'a figliola ca ce attòcca,

popolo, pò,

a musso a musso, azzìcco azzìcco, oje vocca,

tu che ne vuò?

Sia incoscienza sia semplice superficialità, fa il paio con il ritornello di un’altra canzone, del 1924, intitolata Qui fu Napoli, nella quale, fra il mare, la luna, le stelle, e i pescatori che preparano da mangiare a lui e alla bella figliola di turno, conclude:

E io canto: - Qui fu Napoli.

Nisciùno è meglio ‘e me.

Dimàne penzo e riébbete,

stasera so’ nu rre.

280. Diceva di non occuparsi di politica, ma nel 1925 fu comunque tra i firmatari (insieme, è pur vero, a Salvatore Di Giacomo, Luigi Pirandello, Gabriele D’Annunzio, Curzio Malaparte …) del “Manifesto degli intellettuali fascisti” scritto da Giovanni Gentile.

281. Quando, una decina di anni dopo, ormai vecchio, gli finirono i soldi, per sopravvivere si mise a scrivere “sceneggiate”: “sciolto da ogni velleità artistica e da ogni intendimento poetico, Murolo riscosse, con le sceneggiate da lui allestite, il consenso di un pubblico pronto a cadere nel trabocchetto di ogni più elementare macchina teatrale”[94].

Ebbe pure l’ultima fortuna di morire prima che iniziasse la seconda guerra mondiale. Sulla sua tomba, starebbe opportuno l’epitaffio: “Avrebbe potuto fare del bene a molti, ma pensò solo a se stesso”.

282. Rimane il fascino indiscutibile delle sue canzoni, per lo più musicate da Ernesto Tagliaferri: Pusilleco addirùso (1904); Tarantelluccia (1907); L’ammore che fa fa’(1911); Te si scurdàta ‘e Napule (1912); Popolo po’ (1917); Napule ca se ne va (1920); Mandulinata a Napule (1921); Qui fu Napoli (1924); Piscatore ‘e Pusilleco (1925); Tarantella internazionale (1926); Quann’ammore vo’ fila’ (1929); Nun me sceta’ (1930); ‘A canzone d’‘a felicità (1930); Adduòrmete cu’ me (1931); ‘O cunto ‘e Mariarosa(1932).

L’album di famiglia dei musicisti

283. Altrettanto se non più importanti, come “intellettuali organici della napoletanità”, furono i musicisti, a partire dai due illustri e coetanei capo-stipiti:

1)    l’abruzzese Francesco Paolo Tosti (1846-1916), che fu insegnante di musica della regina Margherita e poi alla Corte della regina Vittoria in Inghilterra, e compose fra l’altro i super-classici: A Marechiare (1886), su versi di Salvatore Di Giacomo e ‘A vucchèlla (1904), su versi di Gabriele D’Annunzio;

Gabriele D'Annunzio 'A vucchella

2)    Luigi Denza (1846-1922), già citato (vedi sopra, n°252) come autore della musica di Funiculì funiculà, allievo di Francesco Saverio Mercadante e poi maestro di canto al Conservatorio di S. Pietro a Maiella, che nel 1879 si trasferì a Londra dove insegnò alla Real Accademia di Musica, e tornava solo per le vacanze termali al suo paese natìo Castellammare di Stabia.

Il maestro Luigi Denza

E poi:

1)    il raffinato Mario Costa (1858-1933), per il quale impazzivano le più belle dame dell’aristocrazia napoletana, e fu il primo musicista di Salvatore Di Giacomo: Nannì (1882); le tre canzoni del 1885, per la ripresa di Piedigrotta dopo il colera del 1884, e cioè Carulì, Oilì oilà e Era de maggio; Luna nova (1887), che divenne la canzone preferita del Papa Leone XIII; ‘A ritirata, scritta sempre nel 1887 in occasione della “disfatta di Dògali”; Lariulà (1890); Catarì (1892); Serenata napulitana (1896);

2)    il languido e dannunziano Enrico De Leva (1867-1955), rimasto celebre per la musica di ‘E spìngule frangése firmata da Di Giacomo nel 1888. 

E poi ancora:

1)    il geniale musicista popolare autodidatta Salvatore Gambardella (1871-1913), vero “Mozart napoletano”: figlio di un portinaio, iniziò a lavorare da ragazzo come garzone nella bottega di ferramenta del musicista Vincenzo Di Chiara, che fu il primo ad intuire ed assecondare il suo innato talento musicale; nel 1893, senza saper scrivere le note, “inventò” la musica di ‘O marenariello; il successo di quella canzone attirò su di lui l’attenzione dell’editore Bideri, che gli “affiancò” il maestro Achille Longo, allora insegnante nel conservatorio di S. Pietro a Majella, con il compito di “trascrivere” in buona e dovuta forma le melodie che Gambardella improvvisava “ad orecchio”; nacquero così piccoli ma geniali brani di ogni genere musicale, composti per tutti i più importanti parolieri: ‘E trezze ‘e Caruline e Don Carluccio (Di Giacomo); Quanno tramonta ‘o sole (Ferdinando Russo); Quanno màmmeta nun ce sta e Lilì Kangy (Capurro); Comme facette màmmeta e L’arte d’o sole (Capaldo); Furturèlla (Cinquegrana), della cui musica lo stesso Giacomo Puccini disse: “La canzone ha una progressione musicale discendente degna del più grande musicista classico”; Pusilleco addirùso (Murolo); Serenata a Surriento e Ninì Tirabusciò (Califano) e tanti altri; Salvatore Gambardella morì a soli 42 anni, povero quasi com’era alla nascita: l’unico che ci si arricchì fu l’editore Bideri;

Il musicista autodidatta Salvatore Gambardella

2)    Eduardo Di Capua (1865–1917), il musicista di ‘O sole mio e delle grandi canzoni di Vincenzo Russo, che lui conobbe perché era un accanito quanto sfortunato giocatore al lotto e Vincenzino Russo aveva fama di “assistito”;

3)    Rodolfo Falvo (1873–1937), detto “mascagnino”, compagno di Bovio nella rottura “patriottica” con la “Poliphon” (vedi sopra, n°275) e poi a “La canzonetta”, autore di Uocchie c’arraggiunate (1904, versi di Alfredo Falcone Fieni); Guapparìa (1914, versi di Libero Bovio); Dicitencélle vuje (1930, versi di Enzo Fusco); ironia della sorte: sia l’avvocato Falcone Fieni (nel 19??) sia Enzo Fusco (nel 1951) morirono suicidi, lanciandosi da un balcone del Vecchio Policlinico di Napoli;

Il maestro Rodolfo Falvo 'mascagnino'

4)    il calabrese Vincenzo Valente (1855-1921), detto ‘o scuòrfano (vedi la foto!) per la sua bruttezza, ma autore di musiche belle come quella di Tiempe belle ‘e na vota;

Il maestro Vincenzo Valente 'o scuòrfano

5)    Vincenzo Di Chiara (1864–1937), al quale abbiamo già accennato come “scopritore” di Gambardella, e rimasto poi famoso soprattutto per il testo (in italiano) e la musica di La spagnola (1906);   

6)    Francesco Buongiovanni (1872-1940), il musicista di Totonno ‘e Quagliarella (1919, Capurro) e di Làcreme napulitane (1925, Bovio); ma soprattutto di Palomma ‘e notte (1907): i versi di questa canzone sono giustamente attribuiti a Salvatore Di Giacomo, anche se Don Salvatore tradusse e adattò, in napoletano e secondo il suo personale genio poetico, una pre-esistente poesia in dialetto veneto della scrittrice di origini armène Vittoria Aganoor Pompilj (1855-1910) intitolata appunto “La pavègia”;

Il musicista Francesco Buongiovanni

7)    Giuseppe De Gregorio (1866-1933), che tenne per molti anni una apprezzata scuola di canto, ed autore della musica di parecchi testi di Pasquale Cinquegrana, fra i quali Ntringhetendrà (1895) e Napule bello (1898);  

8)    Enrico Cannio (1875-1949), amico ed accompagnatore musicale di Raffaele Viviani come di Enrico Caruso, autore delle felicissime musiche di ‘A serenata ‘e Pulecenella (1911, Bovio) e Tarantella luciana (1913, Bovio); ‘O surdàto ‘nnammurato (1915, Califano); Rusella ‘e maggio (1939, versi di Arturo Trusiano);

Il musicista Enrico Cannio

9)    Giuseppe Capolongo (1877-1928), autore di Nuttata ‘e sentimento (1908), anche lui musicista autodidatta come Gambardella, di mestiere faceva l’impiegato in un Banco Lotto di Via Tribunali; insieme all’amico Francesco Feola fondò nel 1905 la importante Casa editrice musicale “La canzonetta”; e per “La canzonetta” lavorò anche Alessandro Cassese (1876-1916), nativo di Castellammare di Stabia e autore dei versi di Nuttata ‘e sentimento, che di mestiere faceva invece la guida turistica (conosceva bene la storia dell’arte e parlava correntemente il francese, l’inglese e il tedesco) e morì in combattimento durante la Prima guerra mondiale, lasciando (ahi, loro!) la moglie e sei figlioli.

 

Il musicista Giuseppe Capolongo

 

Il poeta Alessandro Cassese

10)  il foggiano Evèmero Nardella (1878-1950): Suspirànno (Murolo) e Mmiez’‘o grano (Nicolardi), entrambe del 1909; Surdàte (1910, Bovio) e Chiove (1923, Bovio);

11)  Emanuele Nutile (1862-1932): Mamma mia che vo’ sape’ (1909, Ferdinando Russo); Amor di pastorello (1913, Bovio); Anema e core (1933, Pacifico Vento);

Il maestro Emanuele Nutile

12)  Ed infine la triade: Nicola Valente (1881-1946), figlio di Vincenzo ‘o scuòrfano; Ernesto Tagliaferri (1889-1937) figlio invece di un barbiere del Borgo S. Antonio Abate e diplomato in violino al Conservatorio di S. Pietro a Majella; Gaetano Lama (1886-1950), musicista elegante per “periodiche”; tutti e tre, insieme a Libero Bovio, fondarono negli anni Trenta la “Bottega dei quattro”, che ebbe però vita alquanto breve e poco fortunata.

La città “messa a mollo”

284. Parolieri e musicisti, ogni anno, in particolare in occasione della Festa di Piedigrotta, riversarono nelle strade, piazze e larghi, vicoli e vicoletti, fòndaci, suppòrtici, spiagge e marine, veri e propri torrenti di versi e di note, che i pianini dei vicoli, le “posteggie” dei ristoranti, i concertini del varietà, le sciantòse del Salone Margherita e le signorine da marito nelle festicciole periodiche dei salotti borghesi, ripetevano senza mai stancarsi.

Tutta la città, e quindi soprattutto la ingente mole della plebe urbana, venne letteralmente “messa a mollo” in un infuso sentimental-piccolo borghese di voci silenziose e silenzi parlanti, occhi dolci e manélle delicate, cuori ingrati e làcreme napulitàne, guappi innamorati ed emigranti lontani dal mare e dalla luna di Posillipo e di Marechiaro: un infuso dolcissimo, dal quale traboccavano le parole “cuore” e “amore” (la rima “più antica e più difficile del mondo”, secondo Umberto Saba), la parola “mamma”, la parola “casa”, la parola “rosa”, allegria e malinconia …

285. Come resistere a questa Sirena ammaliatrice? L’immagine che la piccola borghesia napoletana voleva avere di sé e della sua città, per quanto ben lontana dal vero, venne efficacemente trasmessa alla plebe, agli emigranti e ai forestieri.

Tanto efficacemente che, ancora nel 1947 (!), si poteva dipingere questo assai poco realistico “Acquarello napoletano” (musica di Lino Benedetto e parole di Enzo Bonagura, che non a caso era stato segretario del Partito fascista a S. Giuseppe Vesuviano negli anni Venti e Trenta):

Ué, ué … Madonna Notte ci convita!

Venite, mùsici e poeti!

Da questa tavola imbandita,

brinderemo all’incantesimo lunar!

Settimana di sette feste:

questa è Napoli, punto e basta!

La fascia di seta profumata sulle piaghe ulcerate

286. Ma fin dall’inizio questa immagine “acquerellata” non era che un tenue e leggerissimo velo che copriva le antiche piaghe irrisolte della pre-esistente miseria che andava adesso aggravandosi nel nuovo sistema liberale borghese.

Questa immagine, come aveva già scritto Francesco Mastriani (vedi sopra, n°189), non era che “una fascia d’oro o di seta” impregnata delle “essenze più prelibate e odorose” e “gittata sulla cangrèna” delle annose piaghe: la mancanza di un lavoro dignitoso e di una casa decente, di cure mediche non troppo costose, di acqua pulita e di un vero sistema fognario, di una istruzione adeguata e di un minimo di servizi pubblici efficienti; mentre la città rimaneva in balìa di capitali del nord o forestieri, di banchieri intrallazzatori e di un ceto dirigente locale incapace e/o corrotto. 

287. Nel 1884 c’era stato il colera ed il successivo “Risanamento” si era risolto in una grande operazione speculativa che ben pochi vantaggi aveva apportato al popolo minuto [95].

Di lì a poco, nel 1901, l’inchiesta Sarédo “scoperchierà” ufficialmente quella pentola dalla quale traboccava il dolcissimo infuso di cuore-amore, e la pentola mostrerà tutto il suo vero e ripugnante contenuto: ma servirà?

Comm’a ‘nu suonno de marenàre,

tu duorme, Napule, viata a te!

Duorme ma, ’nzuonno, làcreme amàre

tu chiagne, Nàpule: scétate, scé!

Puozze ‘na vota resuscità!

Scétate, scé, Napule, Na’! [96]

La festa dei gigli a Barra nell’Ottocento: le origini (1822-23)

288. E’ merito di Romano Marino l’aver recuperato e pubblicato i pochi documenti sulla festa dei gigli di Barra nell’Ottocento giunti fino a noi [97].

289. Delibera di Giunta Municipale n°68 del 1°luglio 1822: “… non si autorizza la processione di un castelletto di legno, detto giglio, in occasione della festività della Patrona di questo Comune lungo la strada principale … poiché si è nell’attesa, dopo comunicazione scritta inviata alla Règia Intendenza, di autorizzazione per ordine pubblico …”

Delibera di Giunta Municipale n°56 del 30 giugno 1823: “… il Sindaco … avùtone l’autorizzazione e predisposto adeguato servizio d’ordine con Guardia nazionale, municipale e campestre … autorizza che sia trasportata per la strada Parrocchia una macchina lignea, detta giglio, similare a Nola …”

290. Come sappiamo, il 9 luglio 1822, essendo papa Pio VII (1800-1823), arcivescovo di Napoli il card. Luigi Ruffo Scilla (1802-1832) e parroco don Gaetano Ascione (1806-1825), venne emessa la apposita Bolla pontificia con la quale S. Anna veniva proclamata ufficialmente quale “patrona” di tutto il Comune della Barra [98]

Da quell’anno, poté dunque effettuarsi ufficialmente, il 26 luglio, anche la processione di S. Anna “lungo la strada principale”, che allora però non si chiamava ancora Corso Sirena, ma portava nomi diversi nei suoi diversi tratti ovvero, nell’ordine, a scendere da Monteleone: Strada detta Sciùlia, Strade di Sopra e di Sotto (le Torri), Strada Parrocchia, Strada S. Antonio, e poi Crocella, Serino e S. Anna [99].

291. In quella solenne circostanza, un gruppo di Barresi, la maggior parte facchini che lavoravano al porto e alla dogàna (cosiddetti “sangiovannàri”), ebbe l’idea di trasportare “una macchina lignea, detta giglio, similare a Nola” per “la strada Parrocchia” ovvero di aggregarsi con il giglio alla processione della Santa nel tratto fra la Parrocchia e la chiesa di S. Antonio.

Nel 1822, però, come abbiamo visto, “si è nell’attesa, dopo comunicazione scritta inviata alla Règia Intendenza, di autorizzazione per ordine pubblico” e pertanto quel primo ed unico giglio barrese rimase fermo laddove era stato costruito, presumibilmente in Largo Parrocchia, di fronte all’ingresso di Palazzo Magliano.

292. Solo nel successivo anno 1823, “avùtone l’autorizzazione”, il giglio si poté accodare alla processione di S. Anna, nel previsto tratto fra la chiesa di S. Anna e quella di S. Antonio … e passando davanti alla “Casa comunale” di Barra che, per tutto il periodo borbonico successivo al Decennio francese (1815-1860), era il palazzetto, poco distante dalla Parrocchia e designato attualmente Corso Sirena n°290, sul cui portone si vede ancor oggi lo stemma municipale della Sirena bi-cauda con il motto UNIVERSITAS [100].

Si ricordi anche che, a quel tempo, non c’era ancora la Piazza e l’ex-convento francescano aveva solo due piani ed era adibito a carcere [101].

Come era fatto il giglio del 1822-23

293. Ma come era fatto questo “castelletto di legno”, questa “macchina lignea, detto giglio, similare a Nola” che, rimasto fermo nel 1822, poté poi seguire per un breve tratto la processione della Santa Patrona di Barra nel 1823?

Nella prima metà dell’Ottocento, la forma del giglio, a Barra come a Nola, era all’incirca quella di una torre quadrata a quattro facce, più bassa dei gigli attuali, ma fatta comunque di più piani sovrapposti, e che veniva semplicemente “portata in processione” a spalla, al suono (senza canzoni) di una “strepitosa marcetta”, come testimonia Karl August Mayer (1808-1894) nel suo diario di viaggio pubblicato nel 1840:

“Mi sia permesso di dire una parola su una festa, San Paolino, che si celebra a Nola, a quattro ore da Napoli, il 22 giugno.

Questa festa è caratteristica in quanto che in essa sono portati in processione per le strade, a passo accelerato, da uomini che camminano nascosti sotto tappeti, palchi di cinque piani, di venti piedi di altezza, riccamente dipinti e dorati, e ornati di fiori e bandiere.

Nel piano più basso, si vede una banda di musicisti che, tra il giubilo generale e lo scoppio di mortaretti e colpi di cannone, lanciano la loro strepitosa marcia.

I piani superiori sono fregiati di angeli e di santi, che sono in parte pupazzi di legno, in parte graziosi bambini, riccamente addobbati” [102].

I gigli nella seconda metà dell’Ottocento

294. Sarà solo nella seconda metà dell’Ottocento che i gigli assumeranno la forma slanciata che vediamo tuttora e cresceranno gradualmente in altezza fino agli attuali 25 metri, come attesta un altro illustre viaggiatore, Ferdinand Gregorovius (1821-1891), che venne in Italia la prima volta nel 1852 e vi soggiornò poi, per lunghi periodi, prima e dopo l’unificazione politica della penisola nel 1860:

“Mi si era parlato, a Napoli, della festa di San Paolino a Nola e mi si era anche assicurato che meritava di essere veduta.

Ero appena entrato a Nola che mi colpì la vista una strana cosa, della quale non avevo ombra d’idea e che mi fece dubitare di trovarmi piuttosto nelle Indie, od al Giappone, che in Italia, nella Campania.

Vidi una specie di torre, alta, sottile, tutta ornata di carta rossa, di dorature, di fregi d’argento, portata sulle spalle da uomini. Era divisa in cinque ordini, a piani, a colonne, decorata di frontespizi, di archi, di cornici, di nicchie, di figure e coperta ai due lati di numerose bandiere ...

Giunta poi ogni torre davanti alla cattedrale, incominciava uno strano spettacolo, imperocché ognuna di quelle moli grandiose si dava a ballare a suon di musica.

Precedeva i portatori un uomo con un bastone, il quale batteva il tempo, e le torri seguivano quello. Il colosso oscillava e sembrava ad ogni istante che volesse perdere l'equilibrio e cadere; tutte le figure si muovevano, le bandiere sventolavano; era un colpo d'occhio fantastico”[103].

I sangiovannàri

295. Riguardo invece ai cosiddetti “sangiovannàri” (vedi sopra, n°291) ed al loro rapporto con la festa dei gigli, il già citato Karl August Mayer scrive: 

“San Giovanni il battezzatore, la cui festa è notoriamente celebrata il 24 giugno, è il patrono dei facchini napoletani, che abitano per lo più nel vicino villaggio di San Giovanni (chiamato così dal nome del Santo) che è sulla strada per Portici”.

296. Ma, soprattutto, abbiamo il celebre de Bourcard (prima edizione del secondo volume: anno 1858) il quale dettagliatamente dòcet:

“Lazzarone— nome generico dell'infimo ordine del nostro popolo.

Facchino — lazzarone che ha deposto in gran parte la rozzezza originaria, utilissimo anzi necessario alla società, industrioso, intelligente, onesto, sempre occupato, attivo, solerte, e d'ordinario, come vedremo, assai onorato e stimato.

I facchini, addetti esclusivamente ai trasporti, ciò fanno in diversi modi. Alcuni lèvano i pesi interamente sul capo. Altri, ponendosi una specie di berretto lungo di lana bigia che ricade attortigliato sul collo, e detto perciò sacco, caricano del peso il collo medesimo: e questo chiamano, con propria frase, auzàre ‘ncuollo (alzare in collo).

Altri, infine, trasportano i pesi affidandoli ad una spranga, che appoggiano sopra una sola spalla, e questi ultimi sono quasi tutti di San Giovanni a Teduccio, grazioso ed industre villaggio ne’ dintorni di Napoli, detti perciò comunemente i sangiovannàri”.

I sangiovannàri

I sangiovannàri e la festa dei gigli a Nola

297. “Al nominare i sangiovannàri, molti dei nostri lettori saran corsi per avventura col pensiero alla bella festa popolare così detta de’ gigli, che da costoro rècansi in ispalla nel giorno 22 giugno, in cui la città di Nola celebra la festa del suo vescovo e protettore S. Paolino …

298. Queste piramidi o gigli, avanzando di tempo in tempo, sono arrivati oggidì (1858) ad una tanto considerevole mole e smisurata altezza che soprastano i tetti de’ più alti edifizi della città.

Ciascun lato di essi gigli è adorno di fiori, nastri, bende, festoni, statuette di carta pesta e simiglianti cose.

La macchina è divisa in più ordini, nel primo dei quali è collocata l’orchestra, ed accompagnati dal suono di questa, i facchini (che sono appunto i sangiovannàri) ballano a tempo di musica con quello smisurato peso sulle spalle.

Gli altri ordini sono occupati da popolani, ne’ loro abiti da festa e le donne si rivestono de’ migliori ornamenti che posseggono.

Questi gigli sono costruiti a cura delle diverse corporazioni di arti e mestieri, che ricordano le antiche fratrìe. I principali sono quelli de’ sartori, de’ calzolai, de’ fabbricatori e degli ortolani.

Ciascun giglio è sostenuto da 16 facchini, ma il più grandioso è quello degli ortolani, trasportato da 36 di essi.

Spari di mortaretti, campane a disteso, fuochi d’artifizio, luminarie e quant’altro possa esservi di più clamoroso in una festa popolare, rendono pomposa e magnifica la processione de’ gigli, i quali, accompagnati da numeroso clero, vengono portati innanzi al Vescovado dove ricevono la benedizione del Santissimo”.

I diversi tipi di facchini

299. “Per tornare ora al nostro proposito, i facchini, come dianzi dicemmo, sono industriosi ed intelligenti ma formano le principali loro doti l’onestà e l’onoratezza. Déggiono queste, anzi, dirsi condizioni assolutamente inerenti all'esercizio di un mestiere che ridùcesi, in sostanza, ad un contratto di buona fede.

Hànnovi diverse specie di facchini.

300. Alcuni sono destinati a Règie Amministrazioni come al Banco, al Monte de’ pegni, alla Zecca etc. e la fiducia che in costoro ripone lo stesso Governo, come di leggieri è a credere, è piena ed illimitata, sì che eglino hanno ingresso libero in qualsivoglia di coteste officine e senza riserba di sorta.

Eguale, anzi maggiore, è la fiducia che ispirano quelli addetti alla Gran Dogana, e di cui or ora c’intratterremo più distesamente.

301. Altri stanno al servizio delle strade ferrate, per comodo de’ viaggiatori affin di trasportare i loro effetti, come baùli, casse, sacche da viaggio, etc.

302. Altri trasportano in ispalla le bare, distribuiti alle quattro aste dello strato mortuario, e sono propriamente i becchini. Costoro appartengono per Io più al quartiere Mercato.

303. Hànnovi quelli impiegati pel trasporto del carbone fossile su i bastimenti a vapore, règi o mercantili, e questi sono d’ordinario al servigio di partitari o appaltatori.

304. Hànnovi quelli esclusivamente addetti al trasporto di strumenti musicali, come pianoforti, arpe e simili, e costoro formano una specialità, per la cura, l’attenzione e l’espertezza che si richiéggono nel maneggio degli strumenti medesimi. Essi risiedono principalmente alla salita Magnocavallo.

305. I seggettiéri vanno anche nel numero dei facchini, e sono quelli destinati al trasporto delle seggètte o bùssole, le quali son poggiate a due aste di legno che eglino règgono con ambe le mani, e raccomandate inoltre ad una grossa coreggia che pende loro dal collo. Le donne di teatro principalmente fanno uso di tal mezzo quando si trasferiscono al loro officio, sia pe’ concerti sia per le rappresentazioni. Queste seggette accolgono il mondo femminile di cantanti e di corifee di primo secondo e terz’ordine, assolute e non assolute, di alto o basso cartello, senza distinzione di sorta, dall’ugola preziosa della Malibran all’ultima corista, da’ piedi alati della Essler alla più oscura tra le corifee.

I seggettieri

306. Eravi una volta un’altra specie, non saprei dire se di facchini o di lazzaroni, così detti passa-lave, che a piedi scalzi e co’ calzoni rimboccati fino al ginocchio, toglievano sulle spalle i passeggieri ne’ giorni molto piovosi e li traghettavano da un lato all’altro delle grosse lave. Vero è che, tal fiata, o non essendo abbastanza forti da reggere il soprastante fardello, o per disquilibrio della persona, o per altra causa, procacciavano un bagno freddo alle loro innocenti vittime, d’altra parte troppo inaspettato ed intempestivo, ciò che ha dato origine a molte grottesche caricature che véggonsi anche oggidì ne’ disegni de’ costumi napolitani. Nondimeno è giustizia avvertire come ciò avvenisse molto di rado. Di presente (1858), non véggonsi più di cotesti passa-lave essendone quasi che affatto cessato il bisogno.

307. Hànnovi finalmente facchini i quali non esercitano propriamente alcuna specialità di mestiere, ma stanno lì a disposizione di qualunque voglia avvalersi della loro opera. E questo è il facchino come ordinariamente vien delineato ne’ quadri de’ nostri costumi. Sdraiato nella sua sporta (grossa cesta) nella quale mangia beve e dorme, tra i nembi di fumo che partono dalla pipa, indivisibile sua compagna, egli si dà pochissimo pensiero del domani, bastandogli quanto provveder possa ai bisogni della giornata. Nulla ingordo, quando ha di che accender la pipa, di che comprare i suoi deliziosi maccheroni e di che provvedersi d’un sorso di vino, si reputa il più felice di questa terra. Chiamato dall'avventore, lo segue e lucra così la sua giornata.

308. I facchini napolitani sono dotati, in generale, d’una forza non comune; ciò che possiamo di leggieri argomentare dagli smodati pesi che talvolta uno solo di essi sostiene sul capo e trasporta con ammirabile disinvoltura”.

I facchini ‘o quatto ‘e Maggio

309. “L’aver poi eglino una grandissima attività e perizia è cosa che può osservarsi di continuo, in ispecie nella tumultuosa e tradizionale giornata del quattro maggio. Ivi campeggia, ivi regna, ivi domina il facchino.

Ed eccoli affaccendarsi, correre giù e su, scendere e salir per le altrui scale, pieni di polvere, trafelàti, affannosi, grondànti sudore a goccioloni. E taluni trasportano Ie masserizie sul capo; tali altri sulla schiena; tali altri le caricano su carretti, in guisa tale architettandole che non pure vi sia pericolo di perdita e caduta di oggetti, ma anche vi si ammiri l'arte e la ragionata disposizione; e tali ancora si sobbarcano eglino stessi a’ loro carretti a modo di giumenti.

Questi facchini si compongono in parànze, ciascuna delle quali ha il suo capo-parànza da cui dipendono, e che è responsabile direttamente verso i suoi clienti della roba la quale gli viene affidata.

O quatto 'e maggio

310. Né altro aggiugneremo sul quattro Maggio, avendone già tenuto proposito nel primo volume di quest’opera, e passeremo a qualche maggiore specialità sul facchino di San Giovanni a Teduccio, ovvero sangiovannàro, onde sopra toccammo”.

Il sangiovannàro come cipresso fra i viburni

311. “Il sangiovannàro può dirsi veramente il facchino-tipo, perocché primeggia sugli altri, secondo la frase del Mantovano (Virgilio):

Quantum lenta sòlent inter viburna cupressi

Quanto i cipressi si innalzano fra i viburni

Se l’onestà e l’onoratezza (ripetiamo) è la condizione indispensabile del facchino in generale, lo è poi in un modo eminente del sangiovannàro.

Non solo i privati, ma ancora il governo, affida a costoro tesori preziosissimi, e quelli e questo sono troppo sicuri della illibatezza de’ depositari, come alla lor volta i facchini vàlutano compiutamente l’importanza di conservarla.

In altri mestieri è forse possibile riparare ad una frode, ad una infedeltà, ma qual risorsa rimarrebbe al sangiovannàro che avesse, anche una sola volta e per poco, maculàto il suo onore? Niuno più al certo se ne avvarrebbe, nè resterèbbegli che campar la vita accattando.

Quei versi del Boileau :

L’honneur est comme une ile escarpée et sans bords:

on n’y peut plus rentrer dès qu’on est dehors.

L’onore è come un’isola scoscesa e senza spiagge:

non vi si può più rientrare quando si è usciti.

sono per avventura più che mai applicabili a questa specie di facchini”.

I sangiovannàri facchini di dogana: parànze e caporali

312. “Sangiovannàri sono i facchini della dogana, e di quest’ordine troppo importante sarà utile intrattenerci un poco più diffusamente.

A far ciò con la maggiore esattezza possibile, trasceglieremo, riportandole per summa càpita, dalla Esposizione della Legge del 19 giugno 1826 sulle dogane, pubblicata per le stampe a cura di Raffaele Mastriani (vedi sopra, n°134), quelle notizie che alla bisogna ci paiono meglio confacenti, rinviando alla citata opera i bramosi di più minuti e diffusi ragguagli.

313. Il numero de’ facchini addetti al servizio della Gran Dogana è stabilito a 360. Di costoro debbono i commercianti esclusivamente avvalersi, per l'interno della Gran Dogana, negli scaricamenti e caricamenti in porto, nel trasporto delle macchine di peso alla dogana, e nelle estrazioni dalla medesima (Art. 1).

314. L'operazione dell'alzare una balla o merce dal lido di mare e portarla al magazzino chiàmasi collàta. Questi facchini sono distribuiti in parànze o compagnie, e ciascuna paranza o compagnia dipende da un capo e due sottocapi (Art. 2 e 3).

La paranza si compone di 8 a 12 facchini ed i capi, che con voce propria diconsi caporali o capi-paranza, vengono nominati dai negozianti. Non è però a dire quanta e quale fiducia questi ultimi debbano riporre ne’ loro capi-paranza come depositari di fortissimi capitali e spesso dell’intera loro sostanza.

L’è questa una ragione per la quale li prediligono, gli amano, sono larghi verso loro di premi e retribuzioni, allorquando se ne rendono degni; sì che non pochi capi-paranza si sono arricchiti, grazie alla benevolenza de’ negozianti cui servirono, e taluni, divenuti proprietari, godono nella terra nativa pacificamente gli onorati frutti de’ loro sudori ed il guiderdòne a giusto titolo dovuto alla loro onestà”.

Marìtemo è facchino de Duàna

315. “Laonde non è a maravigliare se il nome del sangiovannàro sia molto stimato, e se la donna del popolo (secondo quanto scrive il nostro vecchio ed erudito Bidera nella sua “Passeggiata per Napoli”) vada giustamente altiéra di associare i suoi giorni a quelli di lui e di esclamare con nobile orgoglio: - Marìtemo è facchino de Duana (= Mio marito è facchino della Dogana).

316. I negozianti non possono dirigersi che ai capi delle compagnie, ed in assenza a’ sottocapi, i quali rimangono responsabili della esattezza de’ loro dipendenti (Art. 4), al quale oggetto debbono prestare una cauzione non minore di ducati mille (Art. 8).

I facchini addetti al servizio della Dogana vengono contraddistinti da una medaglia che portano sospesa al petto, la quale pe’ capi e sottocapi è di ottone, e pe’ facchini di rame, secondo apposito modello (Art. 6).

Alla legge doganale va annessa una tariffa che determina i prezzi da pagarsi ai facchini, i quali (come dicemmo) esclusivamente, e non altri, esser debbono impiegati al servizio delle dogane, e laddove si denegassero a prestarlo al prezzo nelle tariffe fissato, vengono congedati e cancellati dai ruoli (Art. 10, 11 e 12).

Della morte o dimissione d’un facchino, il capo o sottocapo è obbligato dar parte a’ suoi superiori fra lo spazio di otto giorni, restituendone la patente e la medaglia, sotto pena, in caso d’inadempienza, di essere cancellato da’ ruoli (Art. 13).

317. Prova della smisurata, e direi quasi favolosa, forza onde sono dotati i sangiovannàri è la processione de’ gigli, per noi sopra descritta, ma ancor meglio e co’ propri occhi può assicurarsene chiunque voglia trasferirsi un momento alla Gran Dogana ed osservare gli enormi pesi che trasportano quotidianamente, e sempre sovra una sola spalla; ed io sono stato assicurato, da persone del luogo molto degne di fede, siccome un solo di cotesti facchini giunga talvolta a sollevare (avvegnaché a poca distanza) non meno di quattro cantàia (il cantàio o cantàro corrisponde a circa 90 Kg).

318. Il numero de’ facchini napolitani, secondo il risultamento statistico compreso nella Guida, non molti anni addietro compilata per gli scienziati, col titolo “Napoli e luoghi celebri delle sue vicinanze”, si fa montare alla cifra di 4198. Ciò dimostra come questa indùstre ed utilissima classe sia abbastanza considerevole …”

Nel 1824, i gigli diventano due

319. Così stando dunque le cose, non fa meraviglia che un gruppo di Barresi, “sangiovannàri” di mestiere, abbia potuto pensare di fare anche a Barra, e per S. Anna, quello che da tempo si faceva a Nola per S. Paolino. 

L’idea ebbe subito un certo successo, tanto è vero che …

320. Lettera del Sindaco alla Règia Intendenza del 20 giugno 1824: “… costruzione, come già in altro luogo di Barra, di una macchina di legno, obelisco o similare, detta giglio, da costruirsi nello slargo della strada di Sopra …”

Delibera di Giunta Municipale n°47 del 28 giugno 1824: “… approvazione di costi per ducati 58 per la riparazione di un tratto della strada Parrocchia, per l’imminenza della processione della Patrona e per il transito di due castelletti di legno denominati gigli …”

Delibera di Giunta Municipale del 20 luglio 1824: “… nel tratto della strada Parrocchia e strada di Sotto … lo stesso dalla strada di Sopra alla tenuta dei Principi Spinelli … togliere quattro fanali nell’eseguire processione della Santa Patrona con al seguito castelletti di legno denominati gigli. La Giunta delibera affidare l’incarico all’inserviente comunale Benito Ascione a cui verranno rilasciate grana 86 …”

321. Già nel 1824, dunque, i gigli diventano due, perché un secondo giglio viene costruito “nello slargo della strada di Sopra” e si aggrega alla processione di S. Anna per il tratto “dalla strada di Sopra alla tenuta dei Principi Spinelli”.

Lo “slargo” era quello posto fra la Villa Pignatelli di Monteleone ed il Convento dei Padri Domenicani; e il “tratto” era quello che andava dallo “slargo” suddetto fino al Palazzo Spinelli.

Il giubileo del 1825: un terzo giglio?

322. Sappiamo che nel 1825 “avemmo il giubileo dell’anno santo”, che vide Barra al centro di tutta la zona ad oriente di Napoli: infatti … “le chiese che si dovettero visitare (per ottenere le indulgenze) furono: la parrocchia di S. Giorgio, la parrocchia della Barra, S. Domenico e S. Antonio parimenti della Barra...”[104].

In quell’anno 1825 si ebbe quindi a Barra un notevole afflusso di persone provenienti dai Comuni vicini e questo certo non mancò di avere positive conseguenze anche sulla piccola economia locale, aumentando la disponibilità dei Barresi a spendere per le loro feste.

323. Si può perciò ipotizzare che già nel 1825 i gigli, sia pure solo occasionalmente, divennero tre, aggiungendosi ai due pre-esistenti un giglio costruito abbàscio Serìno.

In questo modo, tutta la strada principale del paese risultava suddivisa in tre parti, in ognuna delle quali vi era un giglio che accompagnava la processione di S. Anna e poi ritornava al suo ‘mpuosto

Di questo terzo giglio non si hanno però documentazioni certe, ed ancora nel 1829 i gigli sembrano essere soltanto due, perché due sono i capi-paranza convocati dalle autorità (vedi oltre, n°326).

Probabilmente, quindi, i gigli divennero stabilmente tre solo a partire da quell’anno 1840, di cui diremo fra breve. 

L’opposizione dei parroci di S. Anna

324. Fin dall’inizio, l’intervento di queste “macchine lignee, dette gigli, similari a Nola” nella processione della Santa patrona non riuscì gradito ai Parroci di S. Anna dell’epoca e cioè prima Don Gaetano Ascione (1806-1825), poi Don Alessandro Russo (1825-1837) e, dopo la morte di quest’ultimo nell’epidemia di colera, Don Giuseppe Minichino (1838-1848).

325. Come mai questa opposizione? Varie ragioni possono ipotizzarsi.

I parroci, come è comprensibile, temevano forse che la “strepitosa marcetta” del giglio potesse disturbare il clima di raccoglimento e di preghiera opportuno per la processione.

Ad essa, peraltro, già partecipavano le storiche confraternite post-tridentine Barresi [105], ben organizzate e disciplinate, le quali probabilmente, dal canto loro, non vedevano alcuna necessità di importare tradizioni religiose “straniere” come quella di S. Paolino da Nola.

A Barra, inoltre, non sembra essere mai esistita, come invece a Nola, una organizzazione su base corporativa, nemmeno nelle confraternite [106] e quindi verosimilmente alcuni, soprattutto all’inizio, videro il giglio solo come un sistema attraverso il quale i facchini-sangiovannàri intendevano auto-esaltarsi, mettendo in evidenza, anche a scopo “pubblicitario”, le “qualità” della categoria (vedi sopra, n°295 e segg.).

Né può trascurarsi il fatto che la raccolta di soldi fra la gente del paese per costruire i gigli veniva, di fatto, a trovarsi in concorrenza con la questua e le offerte per la processione di S. Anna … e le altre che allora si facevano in Barra (almeno altre 5 processioni, secondo gli Atti di Santa Visita del 1837).

Per una popolazione di circa 6000 abitanti [107], pur volendoli considerare tutti relativamente benestanti, pii e generosi, era comunque un po’ troppo …

326. Sembra quindi che i parroci si siano rivolti alla Curia e, tramite questa, alle superiori autorità civili, “per far cessare il seguire con castelletti di legno di più metri la processione della Patrona del Comune, Sant’Anna”. 

Non sappiamo con precisione come siano andate le cose. Sta di fatto, però, che il 10 ottobre 1829, il Sindaco di Barra scrive una lettera al Règio Intendente (= l’equivalente del Prefetto nel periodo borbonico), per informarlo di aver ufficialmente “richiamato” i capi-parànza:

“Signore, rispondo alla sua del 4 andante. Sono stati chiamati, alla mia presenza e quella del Delegato della Guardia Nazionale, i Capi-parànza Russo Cristofaro e Raffaele Perna, in data 8 ottobre, per far cessare, come voluto dalle Superiori Autorità, il seguire con castelletti di legno di più metri la processione della Patrona del Comune Sant’Anna. Resto in attesa di sue disposizioni dopo quanto il Delegato le dirà a voce. Con ossequi”.

La transizione: 1830-1840

327. Anche in questo frangente, data l’assenza di documenti, non sappiamo che cosa sia esattamente accaduto alla festa barrese, subito dopo quel divieto delle “Superiori Autorità” ed in tutto il successivo decennio 1830-1840.

328. Nel 1836-37 vi fu la micidiale epidemia di colera della quale abbiamo diffusamente parlato [108] dopo la quale si ebbe però una rapida ripresa demografica ed economica, introducendosi fra l’altro in Barra, su larga scala, l’arte della seta [109] ed è di quel periodo anche la prima fioritura industriale in tutta la zona costiera ad oriente di Napoli [110].

329. Nel 1839, secondo le parole del Settembrini (vedi sopra, n°246), vi furono in Napoli tre cose belle: la ferrovia, l’illuminazione a gas e Te voglio bene assaje.

Tutte e tre queste cose, ciascuna a suo modo, riguardarono ovviamente anche Barra, tanto più che nel 1840 venne anche fondato l’opificio di Pietrarsa, che era la più grande industria metalmeccanica della penisola, con più lavoratori che in qualsiasi altro simile stabilimento nell’Italia pre-unitaria.

Non meraviglia perciò che, in questo contesto di relativo benessere e di maggiore serenità, la festa barrese abbia potuto avere un nuovo, e più solido, inizio.

Il cruciale 1840: i gigli “di S. Antonio”, a settembre

330. Di certo, negli “Avvenimenti del Convento dei Frati minori” dell’anno 1840, troviamo scritto: “… è anche la prima volta che è effettuata la processione della statua di Sant’Antonio di Padova nel mese di settembre, oltre quella di giugno, per le vie di Barra, per benedire i Gigli di Sant’Antonio … previa autorizzazione (richiesta) all’Archidiocesi di Napoli …”

331. Sembra quindi che i “giglianti” barresi, respinti da S. Anna nel 1830, siano stati accolti da S. Antonio di Padova nel 1840 …

I Frati del convento barrese, previa autorizzazione della Curia Arcivescovile di Napoli, e presumibilmente a fronte di una modesta elemosina per l’occasione, organizzarono addirittura una nuova processione con la statua del Santo, oltre quella che già normalmente si svolgeva il 13 giugno, con lo scopo preciso di “benedire” i gigli, da allora definiti “gigli di S. Antonio”.

332. Sempre a partire da allora, la festa si svolse nell’ultima domenica di settembre.

Varie ragioni si possono addurre per questo cambio di data: da una parte, visti i precedenti, bisognava ovviamente abbandonare la data del 26 luglio (S. Anna); d’altra parte, la maggior parte della popolazione, da maggio a settembre, era impegnata nella lavorazione della seta (vedi sopra, n°328) e risultava naturale porre la festa a conclusione del periodo di lavoro più intenso; infine, ma non per ultimo, siccome la struttura lignea ed il rivestimento in cartapesta del giglio provenivano da Nola, “fare la festa in settembre era molto più agevole per i costruttori nolani … finita la festa a Nola (il 22 giugno) essi dovevano infatti smontare i loro gigli ed iniziare il trasporto per l’allestimento a Barra: per il solo trasporto dei materiali, che avveniva con carri trainati da buoi, occorrevano circa 15 giorni, e quasi una settimana per la costruzione …” [111].

Cenni riassuntivi sulla festa nel periodo borbonico

333. Con il 1840, siamo dunque di fronte ad un “nuovo inizio” della festa barrese, che manterrà poi la sua forma standard per tutto il restante periodo borbonico 1840-1860:

-      tre gigli (Abbàscio Serìno, Mmiez’a’parrocchia, ‘Ncopp’a’Barra), uno per ogni tratto della strada, principale ed unica, dell’abitato;

-      costruiti con materiali, e gran parte di mano d’opera, nolani;

-      che vanno man mano slanciando ed innalzando la loro forma;

-      e con una banda musicale, collocata sulla prima “cassa” del giglio, ad accompagnare, senza canzoni né cantanti, la semplice marcia dei portatori.

334. Di specificamente barrese, troviamo il fatto che ogni giglio ha due “caporali” [112], uno davanti e l’altro indietro, che coordinano i movimenti della paranza, soprattutto nei due momenti cruciali dell’aìza! e del posa! nei quali il giglio viene, lentamente, alzato e posato da/a terra.  

Dalla biografia di Don Raffaele Verolino, scritta dal Parroco Guida, veniamo inoltre a sapere che nel 1842 venne fondata a Barra la Banda musicale del Comune, e questo, ovviamente, aumentò la quantità e la qualità dei “suonatori” barresi.

335. Fin dall’inizio, si possono quindi evidenziare alcune caratteristiche specifiche che distinguono/identificano la festa di Barra nel contesto delle feste sorelle, come scrive Francesco Manganelli, opportunamente citato da Romano Marino [113]

“A Baiano, il maio (giglio) è naturalmente cresciuto, cioè il solo albero; a Nola, è manufatto cioè costruito; a Barra, è importato.

A Baiano, è nudo; a Nola, è adornato ed occultato; a Barra, è funzionale vale a dire animato dai portatori.

A Baiano, è uno per tutti, cioè uno solo per tutta la cittadinanza; a Nola, è uno per ciascuna delle 8 corporazioni; a Barra, uno per ogni comitato.

Intorno al maio, a Baiano abbiamo quindi coesione; a Nola, coesione nella processione; a Barra, rivalità.

A Baiano, vi è il maio ritto e fermo; a Nola, è in processione; a Barra, c’è la ballata dei gigli.

A Baiano, è dedicato a S. Stefano; a Nola, a S. Paolino; a Barra, il giglio è la festa”.

I gigli a Barra dopo l’unità d’Italia (1860-1900): da tre a cinque

336. Dal punto di vista puramente istituzionale, il Comune liberale e sabàudo continuò sostanzialmente a fare ciò che già faceva il Comune borbonico e cioè pagare gli straordinari: alle guardie municipali e campestri, per il mantenimento dell’ordine pubblico; ed agli “accenditori”, per togliere e poi rimettere i fanali che potevano ostacolare il percorso dei gigli.

Tuttavia, dopo il 1860, si rilevano nella festa alcune modificazioni più o meno significative. 

337. La prima, riguarda il numero dei gigli, che da tre tende ad aumentare a quattro ed a cinque.

Un quarto giglio sembra sostanzialmente stabilizzarsi già a partire dal 1863, ed è quello della commissione Mmiez’a’‘rucella, di cui si ricorda, come uno dei caporali, un tal Pasquale Borriello ‘o baccalaiuòlo, il che quanto meno evidenzia che ormai la festa si era sganciata dall’originario legame con la sola categoria dei facchini, per divenire più largamente popolare.

I gigli divennero occasionalmente 5 in alcuni anni, ma restarono sostanzialmente 4 fino al 1885, quando si aggiunse stabilmente, come quinto giglio, quello costruito For’‘o vico (di S. Lucia, attuale Via Gian Battista Vela) ovvero sul Corso Sirena più o meno all’altezza dell’attuale Traversa Spinelli, che allora però non c’era [114].

I gigli a Barra dopo l’unità d’Italia (1860-1900): il Corso … e il percorso

338. Come abbiamo già altrove scritto [115], nel 1875 venne attribuito il nome unico di “Corso Sirena” alla strada principale, che prima di allora si era chiamata in modo diverso nei suoi diversi tratti, dopo aver provveduto alla sua nuova sistemazione con il tipico “basolato” in pietra vesuviana ed al totale rifacimento del fondo stradale da Monteleone a Piazza Serino, “profondandosi anche per la costruzione del blocco di fogna stradale”.

Questo evento urbanistico del 1875 segnò necessariamente anche la festa, almeno nel senso di facilitarne e stabilizzarne il percorso, che fino a quel momento era stato anch’esso a tratti variabili: adesso, ogni giglio, ovunque fosse stato costruito, doveva obbligatoriamente percorrere tutto il Corso, prima di ritornare al suo posto iniziale, ponendo mente a lasciar passare, negli slarghi del Corso stesso, il giglio che proveniva in senso inverso.

Ogni “commissione”, accompagnata dalla banda musicale, percorreva inoltre tutto il Corso per “annunciare” che, nel settembre successivo, avrebbe “fatto il giglio”; ed il sabato della festa, allo stesso modo, ogni commissione andava lungo il Corso a salutare ed augurare buona festa alle altre.

I gigli a Barra dopo l’unità d’Italia (1860-1900): canzoni e cantanti

339. Un’altra modifica significativa: non c’è più solo la banda musicale che suona marcette (vedi sopra, n°293) ma cominciano ad esserci canzoni e cantanti.   

Se l’anno del bing-bang (vedi sopra, n°256) della canzone d’autore napoletana è il 1880, quello della canzone d’autore barrese è solo di poco posteriore.

Risalgono infatti al 1882 le prime canzoni di cui si abbia notizia:

-      ‘A festa (versi di Gennaro Punzo; musica di Eduardo Petrone) presentata dalla commissione “Parrocchia”;

-      ‘O giglio chiù bello (versi di Salvatore Busiello; musica di Gaetano Testa) presentata dalla commissione “Abbàscio Serìno”.

340. Riportiamo di seguito il testo integrale di ‘A festa:

Stace tutta ‘ncannaccàta stammatìna,

me pare na pupàta ‘e seta fine,

te si vestùta allicchètto e saccio lo perché:

sapive ca j’ venevo a piglia’ a tte,

pecché ogge te porto nzieme a me,

scennìmmo miezz’’a gente j’ e tte.

M’aggio miso lu cappiello, saje pecché:

stu juorno tutt’’e dduje hamma cumpare’.

 

Nannì, vien’ cu’ mico,

te porto a verè ‘a festa for’’o vico,

sta festa st’anno m’hadda cunzula’.

‘A vera festa d’’e giglie è chesta ccà!

Vedìmmo sti bellìzze po’ paese,

pittàte cu’ e culùre cchiù sbrennènte.

‘E cummissiòne n’hanno baràto a spese.

Stamme a senti’ Nannì … meh, bieneténne.

 

‘Uarda quant’allerìa e c’armunìa:

no giglio saglie e n’ato scenne ‘a llà.

Azzìccate vicino mmiez’ a’ folla,

accuòstate cchiù  a me ‘nto votta votta;

e si me daje nu vaso mpont’’o musso

so j’ ca po’ me faccio russo russo.

Ma sti gigli t’hanno frasturnàta

e nun me faje manco na ‘uardata.

 

Nannì, Nannì, si ‘a meglia figliòla

e ‘o core mio è sperzo pe st’ammore.

Nannì, saje che te dico: si tu vuo’ bene a me,

l’anno che vène faccio nu giglio pe tte!

Me strigne ‘a mano, si felice oj ne’!

D’’e giglie so patùto e saje pecché:

‘a meglia ‘a meglia fémmena

tenco vicino a mme!

Napoletani e Barresi

341. Del successivo anno 1883 è una “copiella” recante la canzone “Vien’alla parrocchia” (versi di L. Veneruso; musica di P. Borriello), presentata appunto dalla commissione “Parrocchia”, il cui responsabile in quell’anno risulta essere Geremia Gargiulo detto ‘o vuttàro (evidentemente, un costruttore/venditori di botti).

342. A partire dunque dagli anni Ottanta, si intrecciano, nella festa, canzoni e cantanti napoletani e canzoni e cantanti barresi, fino a che, nel nuovo secolo, questi ultimi diverranno nettamente prevalenti.

Il nuovo secolo

343. Gli autori napoletani sono fra i più illustri, come i parolieri Pasquale Cinquegrana e Aniello Califano (vedi sopra, n°275) ed i musicisti Salvatore Gambardella e Vincenzo Valente (vedi sopra, n°283):

Del 1895, è I’ voglio bene a tte! (versi di Pasquale Cinquegrana; musica di Salvatore Gambardella), presentata dalla commissione “Rione aristocratico” (‘Ncopp’ a’ Barra).

Del 1898, ‘A tarantella d’’e pacchianiélle (versi di Aniello Califano; musica di Gaetano Taranto), presentata dalla commissione “Abbàscio S. Anna”.

Del 1899, Seh! Seh! (versi di Pasquale Cinquegrana; musica di Vincenzo Valente), presentata dalla commissione “Abbàscio Serìno”.

344. Ma si apriva ormai, non solo per la festa, il nuovo secolo, il XX, il secolo “del progresso, della scienza e della tecnica” … e di due guerre mondiali.


Note

[93] Vedi n°41 in “Il periodo liberale dal 1887 al 1896”.

[94] Paliotti, op. cit.

[95] Vedi nn°164-169 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[96] Luna nova (1887): versi di Salvatore Di Giacomo, musica di Mario Costa.

[97] Romano Marino – “Tradizionale festa dei gigli di Barra”, Vol. I (1800-1954) e Vol. II (1955-2000), Tip. La Laurenziana, Barra, 2004.

[98] Vedi n°353 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[99] Vedi n°197 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[100] Vedi n°189 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”. 

[101] Vedi nn°190-192 ibidem.

[102] Karl August Mayer – “Vita popolare a Napoli nell’età romantica”, 1840.

[103] Ferdinand Gregorovius - “Pellegrinaggi in Italia”, 5 Volumi, pubblicati dal 1856 al 1877).

[104] Vedi nn°356-358 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[105] Vedi nn°117 e segg. e nn°194-198 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1500”; nn°130 e segg. in “il periodo del Viceregno spagnolo nel 1600”.

[106] Vedi n°131 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1500”.

[107] Vedi n°429 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[108] Vedi n°360 e segg. ibidem.

[109] Vedi n°401 e segg. ibidem.

[110] Vedi n°414 e segg. ibidem.

[111] Marino, op.cit. 

[112] Marino, op. cit.

[113] Marino, op. cit.

[114] Vedi n°54 in “Il periodo liberale dal 1887 al 1896”.

[115] Vedi nn°195-197 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, ottobre 2017

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