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Don Raffaele Guida discepolo del Verolino
92. “Nel terminare questo piccolo sèrto di funebre
elogio, mi rimane a dare una mia cordiale testimonianza
pel mio Verolino, cotanto da me amato e stimato.
Ascoltatemi...
Se, fin dall’anno 1850, allorché io contavo non più che
sette anni di mia fanciullesca età, un angelo m’avesse
fatto vedere un quadro ove era dipinto tutta la vita del
sacerdote Verolino fino al giorno della sua sepoltura; e
m’avesse pure allora fatto vedere, delineato su quel
quadro, un fanciullo di sette anni, che doveva il
Verolino a questo fanciullo instillare nel suo cuore
tali dolci sentimenti che doveva in lui risvegliare il
desiderio per la carriera ecclesiastica; che il Verolino
doveva la sera nella Seròtina Cappella istruirlo
nella dottrina cristiana, guidarlo negli anni della sua
giovinezza e, fatto sacerdote, doveva essere il
coadiutore per la sua chiesa, pel suo ritiro, per le
opere da lui fondate; anzi, questo fanciullo un giorno
doveva poi riceverne l’ultima sua confessione,
comunicarlo, estremarlo, assisterlo, colle proprie mani
dopo la morte vestirlo delle sacerdotali vesti e
fin’anche benedire la sua salma sulla tomba del sepolcro
… Io al certo curioso avrei detto all’angelo:- Angelo
del Signore, dimmi, di grazia, chi sarà questo fanciullo
che sì da vicino starà ai fianchi del Verolino e fin
dopo la tomba lo benedirà?
E l’angelo mi avesse risposto:- Sei tu stesso, che un
giorno ne tesserai il sèrto di fiori del funebre elogio.
93. Ebbene, o Signori, io vel confesso, che se ciò
realmente mi fosse avvenuto all’età di sette anni, non
avrei avuto ritegno di dire:- Angelo del Signore, forse
tu mi lusinga, tu mi deludi, come ciò è possibile?
Questo sarà un sogno?
Ma l’angelo del Signore, sorridendomi, additando colla
sua mano il Cielo, mi disse:- Tutto si avvererà, perché
così è segnato nel Cielo. E mi sparve dagli occhi”
[40].
Don Raffaele Guida
successore del Verolino
94. “Chiamato al laborioso ufficio della carica di
Superiore del Ritiro delle religiose orfane
terziarie francescane dal nostro Eminentissimo Cardinale
Sanfelice nel febbraio 1890, dopo la morte avvenuta del
zelante fondatore Reverendo Don Raffaele Verolino, morto
in Barra il 22 gennaio dello stesso anno … con tutto
piacere del mio animo mi subarcai al laborioso ufficio,
onde procurare quel maggiore possibile vantaggio alle
povere orfane dell’Immacolato Cuore di Maria SS. e di S.
Francesco … desiderando a tutt’uomo portare a maggiore
perfezione l’opera caritativa del Verolino, che fondata
avea.
E perché al passar degli anni non abbia a perdersi la
memoria dei primi fatti di questa religiosa famiglia,
cercai anche compendiare in un piccolo quadro un
Cenno storico …
95. Circa due anni prima della sua morte avendomi fatto
dichiarare, da Monsignor Vicario di Napoli,
vice-superiore del Ritiro, dove fui anche confessore per
molti anni, dopo la sua morte il Cardinale Sanfelice mi
nominava Superiore ed Amministratore del Ritiro,
essendone Egli (il cardinale) l’erede
testamentario.
96. Intrapresa nel nome del Signore la direzione del
Ritiro, mi avvidi che molte cose dovevano perfezionarsi,
sia nella parte materiale, sia nell’ordinamento generale
del Ritiro, poiché il Verolino, attesa la grave
infermità, fu impedito al perfezionamento di queste
cose.
Soddisfatti i debiti a carico del Ritiro, riordinate ed
abbellite le camerate, e fatto quanto occorresse per
l’interno ed esterno della fabbrica, posi l’impegno a
stabilire un ordinato Regolamento per la Comunità.
97. Ora, i pochi articoli di Regolamento dettati dal
Verolino erano insufficienti ad ottenere il
perfezionamento della Comunità religiosa, avendo l’opera
presa un andamento molto differente dalla sua origine.
Quindi, credetti di formare un completo Regolamento in
cui fosse sanzionato tutto il nuovo andamento da me
stabilito, e non venisse a mutarsi per l’avvenire con
pregiudizio dell’opera ... Tale Regola la mettiamo sotto
gli auspici dell’Immacolata Vergine Maria, che è la
Madre speciale delle povere fanciulle Orfane”[41].
98. “In calce della Regola”, il Guida conservò, fra
l’altro, la lettera autografa con la quale il Verolino,
“tutto confidente nella Divina Provvidenza, nel novembre
1867 avvanzò supplica al cardinale Sisto Riario-Sforza”
per essere autorizzato alla fondazione del Ritiro, e che
costituisce uno dei pochi scritti di pugno del Verolino
giunti fino a noi.
Altre opere di Don
Raffaele Guida
99. Si segnala inoltre che lo stesso Don Raffaele Guida
compose e fece stampare, nel 1895, una “Guida
spirituale” per coloro che frequentavano la chiesa del
Ritiro, contenente “tutte le pie pratiche religiose da
farsi in ciascun giorno dell’anno, coll’aggiunta delle
meditazioni ed evangeli domenicali”.
Nella compilazione di questa “Guida spirituale”, egli si
avvalse largamente anche degli
opuscoli e libri di meditazione e di devozione, allora
molto diffusi in Italia e all’estero, scritti dalla
concittadina Barrese Suor Maria Luisa di Gesù
(1799-1875), al secolo Maria Carmela Ascione,
fondatrice delle Suore dette “della Stella mattutina”[42].
100. Don Raffaele Guida scrisse anche un opuscoletto
sulla storia di Barra ed in particolare della chiesa di
S. Anna.
E’ assai probabile, infine, che egli sia anche l’autore,
volutamente per umiltà rimasto anonimo, dei versi dell’Inno
a S. Anna del 1896, la cui musica è invece
sicuramente del maestro Raffaele Pàparo.
La cappella “Guida” nel
cimitero di Barra
101. Nella cappella della
famiglia Guida nel cimitero di Barra, purtroppo
attualmente in stato di deplorevole abbandono come tutte
le altre cappelle storiche del cimitero, si trovano,
l’una di fronte all’altra, le nicchie sepolcrali di Don
Raffaele Guida e di sua sorella Annamaria (1848-1907),
recanti le seguenti iscrizioni:
I. M. I. A.
RAFFAELE GUIDA
DOTT.re IN S.T. SUP.re PARROCO
NELLA VIGNA DEL SIGNORE OPERAIO INFATICABILE
COL CATECHISMO COLLA PREDICAZIONE COLLE SACRE FUNZIONI
DI TUTTI ISPECIE DEI PARGOLI
FU PADRE PASTORE SPRONO CONTINUO
QUAL SOLDATO SUL CAMPO DI BATTAGLIA
COLSE LA PALMA NELL’ 8 GIUGNO 1900
DOPO 56 ANNI DI VITA
D. O. M.
QUI ASPETTA LA CORONA DELLE VERGINI
LA SORELLA DEL PARROCO GUIDA
ANNAMARIA
MORTA A 59 ANNI NEL DI’ 5 FEBBRAIO 1907
COME UN SOL CUORE EBBERO ENTRAMBI IN VITA
COSI’ UN MEDESIMO ALTARE LI PROTEGGE IN MORTE
OVE IL SANTO SACRIFICIO PERENNEMENTE INVOCATO
L’ACCOMPAGNI NEL GAUDIO DEI SANTI
Le classi sociali a
Napoli dopo la conquista sabàuda (1860-1900)
102. In questa sezione del
nostro lavoro dedicata agli anni finali del secolo XIX,
sembra opportuno dare uno sguardo d’insieme alla
situazione sociale e culturale che la città di Napoli
consegnò al successivo secolo XX, anche per i riflessi
che questa situazione ebbe sulla storia di Barra.
103. Dopo la conquista sabàuda,
nella ex-capitale del Regno borbonico, l’antica
aristocrazia, che aveva avuto il suo momento di
massimo fulgore nell’aureo Settecento, iniziava ormai a
percorrere l’ultimo tratto della sua parabola
discendente, nostalgicamente borbonica o
opportunisticamente liberale.
104. Le principali classi
sociali cittadine erano adesso: il ceto medio
borghese (= piccola borghesia) e la sempr’ingente
mole della plebe urbana.
Il ceto medio borghese
105. La caratteristica
strutturale del ceto medio napoletano, o piccola
borghesia che dir si voglia, era quella di essere una
borghesia prevalentemente non-industriale,
composta cioè la più parte da professionisti,
commercianti, impiegati, pubblici funzionari civili e
militari, “padroni di case”, etc.
L’industria pre-esistente, che
si era formata sull’onda della prima rivoluzione
industriale nel Regno borbonico, fu quasi completamente
smantellata nel nuovo regime liberale “italiano” per
consentire lo sviluppo dell’industria nel Nord
[43] e bisognerà aspettare il periodo
giolittiano (1900-1915) e la Legge speciale per Napoli
del 1904 per poter osservare una, pur precaria,
rinascita dell’attività industriale.
106. Il ceto medio borghese
napoletano era perciò quello che abbiamo visto:
-
sorgere
nel periodo del Viceregno spagnolo[44]
e austriaco[45];
-
esprimere
il suo primo vero “uomo politico” nella figura del
vecchio prete-giurista Giulio Genoino, che tentò, a modo
suo, di “cavalcare” la massa plebea al tempo della
sollevazione di Masaniello
[46], senza peraltro riuscirci;
-
vivere
la sua, non sempre gloriosa, epopea rivoluzionaria
[47] nelle quattro tappe del 1799, del
1820-21, del 1848 e del 1860;
-
e pervenire, infine, alla condizione di borghesia
coloniale subalterna che abbiamo descritto a suo luogo
[48].
Un’icona
piccolo-borghese: Anastasia Finizio
107. Il lettore che volesse,
per così dire, “vedere direttamente” come viveva e quale
era la mentalità di questo ceto medio borghese
napoletano, potrebbe leggere, ad esempio, il racconto
intitolato “Interno familiare” nel celebre libro di
Anna Maria Ortese (1914-1998) “Il mare non bagna
Napoli”.
Il libro della Ortese è, in
effetti, del 1953, ma quell’interno familiare
della piccola borghesia napoletana è rimasto sempre lo
stesso, almeno per tutto il periodo liberale cioè
dall’unità d’Italia (1860) alla Prima guerra mondiale
(1915), ed anche oltre.
108. “Anastasia Finizio, la
figlia maggiore di Angelina Finizio e del fu Ernesto,
ch’era stato uno dei primi parrucchieri di Chiaia …
aveva un negozio di maglieria là dove suo padre aveva
pettinato le più esigenti testine di Napoli e, con
quello, portava avanti la casa: madre, zia, una sorella,
due fratelli uno dei quali stava per ammogliarsi, e
salvo il piacere di vestirsi come una donna di grande
città, non conosceva e non desiderava altro”.
|
Don Giulio Genoino (1567 - 1648) |
109. O forse sì, qualcosa
desiderava: “Alla soglia dei 40 anni” … aveva una vita
tutta “entrate ed uscite”, tutta “responsabilità,
contabilità e lavoro” per consentirsi un discreto
benessere … ma “un cuore delicato come le corde di un
violino, che a sfiorarlo suonava” … e per tutta la vita
aveva “tenuto il pensiero” (ma solo il pensiero)
per Antonio Laurano, un bel giovane “coi capelli castani
e la pelle scura, e denti fitti e bianchissimi” e
sognava “tre stanze e una terrazza, con vista su S.
Martino … qui vicino, così vengo a trovare mammà ...
stendere i panni e cantare … e servirlo, servirlo
sempre, come una vera donna serve un uomo … Sì,
nient’altro”.
La plebe urbana
110. Mancando l’industria,
mancava ovviamente anche una classe operaia, ed una
lotta, o magari una collaborazione, fra le classi, in
forma cosciente ed organizzata.
Vi era invece, continuamente
debordante, la sterminata moltitudine della plebe
urbana, la cui caratteristica strutturale era
quella di non avere una fonte di reddito più o meno
definita e costante.
Dall’inizio del Cinquecento
alla fine dell’Ottocento, “un’analisi sommaria porta a
valutare a più della metà del totale la parte
della popolazione napoletana che non aveva alcuna
stabilità economica”[49].
“In questa città, dove tanta
gente non ha niente … il popolo è ben più popolo che
altrove” (Montesquieu).
In ogni città europea, vi erano
poveri e diseredati; ed in quelle più grandi, come
Parigi o Londra, ve n’era una massa ingente; ma la plebe
di Napoli era un unicum.
Sue origini
111. Anch’essa, come il ceto
medio borghese, era sorta come classe nel periodo del
Viceregno spagnolo, già agli inizi del Cinquecento
[50]:
“Con la progressiva
disgregazione delle strutture feudali nelle provincie,
processioni di mendicanti ed eserciti di cafòni
premono alle porte della città … per entrare in questa
tana sterminata … dove si viveva comunque male, ma
almeno liberi dalle angherìe feudali e dove, per paura
delle sommosse, le autorità cercavano almeno di non far
mancare il pane per la nuda sopravvivenza.
Un popolo di straccioni invade
le strade, occupa le piazze coi suoi volti tèrrei, le
facce spesso butterate e ripugnanti, si accampa sui
sagrati e rumoreggia alle porte dei conventi agitando
stravaganti batterie di scodelle, ciotole e gamelle in
cui raccogliere, e subito ingozzare, i beveroni
dispensati dai frati alla campana di mezzogiorno e alle
prime ore della notte …”[51].
Sua vita ordinaria
112. In
seguito, normalmente “stipata” a “se puzza’ ‘e famme”
dentro la fitta griglia dei vicoli, dei suppòrtici e dei
fòndaci, il suo
modo di vita “ordinario” era contraddistinto da:
-
l’essere abbandonati a se stessi da qualsiasi autorità
civile;
-
il sopravvivere alla giornata, grazie ad espedienti, a
volte conformi, ma spesso non conformi, alle
regole morali e legali vigenti.
Sua vita extra-ordinaria
113. Le eruzioni del Vesuvio,
le carestie e le pestilenze erano invece le circostanze
“extra-ordinarie” che segnavano la sua storia, la quale
dunque è complessivamente ben descritta dal celebre
trittico: ’a famme, ‘a peste e ‘a carestìa.
Circostanza “extra-ordinaria” era anche l’intervento
della plebe sulla scena politica, che avveniva peraltro
quasi unicamente in occasione delle “sommosse per fame”,
come quella
[52] che condusse alla morte dell’Eletto Staràce nel
1585, ancorché la vicenda della sollevazione di
Masaniello
[53] dimostri che essa era tuttavia capace,
all’occasione, di mobilitarsi anche in una forma
relativamente più cosciente ed organizzata.
Plebe e piccola borghesia
114. Certamente, però, la massa plebea si era sempre
schierata in senso anti-borghese, in modo netto e
chiaro, in ognuna delle quattro tappe dell’epopea
rivoluzionaria liberale
[54] e, nei suoi confronti, il nuovo ceto dominante
nutriva quindi un sentimento complesso e
contraddittorio, fatto di disprezzo, commiserazione e
paura insieme.
115. Dipingere una icona di questa plebe urbana dalle
mille facce non è così semplice come per la piccola
borghesia (vedi sopra, nn°107-109). La maschera di
Pulcinella ne è stata, per secoli, la rappresentazione
più efficace. Matilde Serao ci provò ne “Il ventre di
Napoli”
[55] e Salvatore Di Giacomo in “Fùnnaco verde”,
ma la loro descrizione, per quanto commossamente
partécipe, è pur sempre “dall’esterno”: è una icona
della plebe, dipinta da piccolo-borghesi sentimentali e
“maternalistici”, in definitiva superficiale.
116. A scrivere invece “dall’interno” l’epopea di questa
classe è stato unicamente, o quasi, il grande
Francesco Mastriani (1819-1891), che ne potrebbe
essere considerato, gramscianamente, il vero
“intellettuale organico” per quel periodo storico.
“S’intendevano l’un l’altro: egli aveva visitato
l’ultimo tugurio e il popolo si riconosceva in lui”
(Giovanni Bovio).
“Ebbe come lettori tutta Napoli, all’infuori della gente
letterata” (Benedetto Croce).
|
Targa sulla facciata del Teatro S. Ferdinando |
Francesco Mastriani (1819-1891)
117. Non a caso, “alla sua morte, le Associazioni
Operaie Indipendenti di Napoli accompagnarono in massa
il feretro dello scrittore, dopo aver affisso un
manifesto per le vie della città in cui si leggeva:
Noi renderemo, solo questo è in nostro potere, ossequio
postumo a chi, come noi, soffrì dolori inenarrabili,
comuni ad una gente che aspetta la redenzione sua nel
mondo; a chi non nascose, della plebe, le virtù onorate.
118. Ed in città girava, non si sa da chi composto, una
sorta di necrologio in rima:
Ei punse i ricchi e i nobili
che adorano un sol Dio: il Dio dell’oro.
E che, sprezzando il popolo,
calpèstan dignità, fede, decòro.
Piangi, diletta Napoli:
il gran Maestro tuo, ahi, non è più!
Chi ti farà più frèmere,
chi ti sarà di sprone alla virtù?”[56]
|
Francesco Mastriani (1819-1891) |
119. Il manifesto degli operai ed il necrologio in rima
costituiscono, molto probabilmente, la migliore e più
sintetica descrizione del pensiero, dell’opera, e della
persona stessa di Francesco Mastriani.
Il pensiero di Mastriani
120. Egli non era “socialista”, come qualcuno scrisse
dopo la sua morte
né avrebbe potuto esserlo, e la definizione di “trilogia
socialista” data alle sue opere principali (“I Vermi”,
“Le ombre” e “I misteri di Napoli”) certamente non
è appropriata; e questo perché:
-
il partito socialista italiano nacque nel 1892 e quindi
dopo la sua morte; né, d’altronde, risultano nei
suoi romanzi riferimenti al pensiero anarchico,
che pure, in quegli anni, andava diffondendosi a Napoli,
con la presenza dello stesso Bakunin
[58];
-
la sua concezione del mondo non era quella marxista
o comunque di matrice hegeliana, ma l’equilibrato
e sapiente umanesimo cristiano che aveva appreso, fin da
ragazzo, sui libri del filosofo Pasquale Galluppi (vedi
oltre, nn°135 e segg.);
-
la sua vera vocazione non era quella di politico, e
nemmeno di scrittore fine a se stesso, bensì quella di
Maestro, nel senso più nobile del termine: fratello, in
questo, di quei maestri e maestre delle scuole
elementari pubbliche che si andavano allora istituendo
su più larga scala[59].
121. Non nutriva, nei confronti della plebe urbana, quel
misto di paura, disprezzo e commiserazione che era
tipico della piccola borghesia (vedi sopra, n°114); e ne
condivise anzi, anche materialmente, le sofferenze e la
precarietà economica: “come noi, soffrì dolori
inenarrabili, comuni ad una gente che aspetta la
redenzione sua nel mondo”.
“Il professore”, come tutti lo chiamavano, appariva alla
gente del popolo “come il suo filosofo, educatore,
consigliere e vìndice” (Benedetto Croce).
122. Il suo saggio umanesimo, cristiano e “galluppiano”,
gli insegnava che nessun essere umano può mai essere,
riduttivamente e semplicisticamente, “identificato” con
la sua miseria e la sua ignoranza, anche se nessuno più
di lui si rendeva conto della necessità di elevare
culturalmente e moralmente il gran “corpaccio” della
plebe urbana, affinché potesse sedersi, al pari degli
altri, a quella mensa dei beni terrestri che Dio, Padre
di tutti, per tutti ha apparecchiato.
L’opera di Mastriani
123. “Il povero onesto, la innocente figlia del popolo e
il giovin signore” sono egualmente esposti agli
“agguati che lor tendono incessantemente quelli che
speculano su l’ozio, su la miseria e su
l’ignoranza”.
Còmpito del “letterato” è quello di “farli frèmere per
spronarli alla virtù”: non soltanto additare la zizzania
(= i vizi) ma aiutare il grano (= le virtù) a crescere:
questa è “opera santa, quali si vogliano i mezzi che a
ciò s’impieghino” ...
124. Perciò egli, prima ancora di scrivere romanzi, si
pose a scrivere opere teatrali, di più immediata
fruizione per un pubblico prevalentemente di analfabeti;
ed anche molti dei suoi romanzi furono poi, da lui
stesso, adattati per la rappresentazione teatrale.
Per il resto, nel vicolo bastava comprare una sola copia
del giornale e poi pregare qualcuno più “acculturato” di
leggere la “puntata” del romanzo d’appendice di
Mastriani al folto pubblico di uomini, donne, giovani,
vecchi e bambini prontamente riunitosi.
Molte vicende tratte dai suoi romanzi venivano
addirittura narrate dai “cantastorie”, con cartelloni
illustrati ed immancabile colonna sonora di musica e
canto.
125. Di lui, si contano in tutto 105 titoli di romanzi,
una trentina dei quali da considerarsi inediti nel senso
che, lui vivente, vennero pubblicati solo in
appendice al giornale “Roma” e non in volume da alcun
editore.
Bisogna considerare inoltre le opere teatrali, del
genere comico e di quello drammatico, ed i numerosi
articoli di giornale di vario tipo.
126. Per introdursi allo studio dell’opera di Francesco
Mastriani, della quale è in atto una sistematica ed
incontestabile rivalutazione, dopo la diminutio a lungo
operata dalla critica[60],
consigliamo allo studioso lettore di attingere ai lavori
più recenti:
Ø
Cristiana Anna Addesso, Emilio e Rosario Mastriani -
“Che somma sventura è nascere a Napoli!”,
bio-bibliografia di Francesco Mastriani, con i
“Cenni sulla vita e sugli scritti” (1891) tracciati da
suo figlio Filippo, Ed. Aracne, 2012.
Ø
Anna Gertrude Pessina – “Francesco Mastriani: un
escluso”, Ed. Pironti, Napoli, 2013.
Ø
Il bel sito curato attualmente in rete dai suoi
discendenti diretti, i due cugini Emilio e Rosario
Mastriani:
www.francescomastriani.it i quali stanno anche
curando, presso l’Editore Guida, la pubblicazione in
volume dei romanzi di Mastriani finora pubblicati solo
in appendice al “Roma”.
A tàvule, se cumbatte cu ‘a morte
127.
Mastriani aveva scelto per sé e per la sua famiglia il
motto biblico, tratto dal libro dei Salmi: “Allontànati
dal male e fa’ il bene; cerca la pace e persèguila” (Sal
34, 15).
A questo
motto, possiamo dire che cercò sempre di rimanere
fedele, nella sua vita e nelle sue opere letterarie, mai
cedendo alla disonestà e all’adulazione del potere di
turno, nonostante il continuo tormento di dover
provvedere alla sua famiglia in mezzo ad una
“invincibile miseria”, secondo il detto napoletano: A
tàvule, se cumbatte cu ‘a morte.
128. E
subito dopo la sua morte, Matilde Serao scrisse: “Questo
povero vecchio che si è spento oscuramente, carico di
anni e di dolori, affranto da un duro e incessante
lavoro che gli lesinava il pane, tormentato da una
invincibile miseria, non soccorso dalla fredda
speculazione giornalistica che lo ha tanto sfruttato,
soccorso dalla segreta pietà di poche anime buone,
questo martire della penna era, veramente, fra i più
forti e più efficaci nostri romanzieri.
L'opera sua, formata da cento e più romanzi, appare
grezza, disuguale, talvolta ingenua nella scarsezza
delle risorse artistiche; e negli ultimi romanzi suoi è
la fretta, lo stento, l'intima straziante pena di chi
deve guadagnare, ogni giorno, quelle tre o quattro lire
che gli davano: ma da tutta quanta l'opera sua,
considerata insieme, emana una così fervida potenza
d’invenzione che ha rari riscontri”[61].
Francesco Mastriani e
Micco Spadàro
129. Che quella di Mastriani non sia grande letteratura,
è possibile; che non si possa comunque classificare
nelle abituali “caselle” della critica letteraria, è
certo.
Il suo non è riduttivamente “romanzo d’appendice”,
“basso (?) romanticismo” e nemmeno “realismo”,
“naturalismo”, “verismo” o altri ismi come
“meridionalismo” o i già citati “socialismo” o
“anarchismo”.
130. Francesco Mastriani non è alcuna di queste cose ed
è tutte queste cose insieme. Egli è, semplicemente,
scrittore napoletano sui gèneris. E sui
gèneris nel senso che può essere considerato
l’equivalente letterario, per l’Ottocento, di ciò che
sono, per il Seicento, le grandi tele di
Micco Spadàro (Domenico Gargiulo, 1609-1675).
|
Micco Spadàro - Piazza Mercatello (attuale Piazza
Dante) durante la peste del 1656 |
131. Le tele di Micco riescono a descrivere, fino al
particolare individuale, la vita della imponente massa
della plebe urbana, còlta specialmente in quelle che
abbiamo chiamato le “circostanze extra-ordinarie” della
sua storia, in particolare l’eruzione del Vesuvio del
1631, la sollevazione di Masaniello del 1647, la peste
del 1656 ...
Mastriani invece compone, con “tutta quanta l'opera sua,
considerata insieme”, il vasto affresco della vita di
questa stessa classe sociale, vista però nelle
“circostanze ordinarie” della sua storia (vedi sopra, nn°112-113).
132. Questo
è anche il motivo per cui, ben più che per altri
scrittori, la sua opera letteraria non può in alcun modo
essere separata dalla sua stessa vita e da quella della
classe sociale (la plebe urbana) di cui condivise le
sofferenze quotidiane ma anche “le virtù onorate” e le
speranze di “redenzione nel mondo”.
La vita di Mastriani
133. Nacque
il 23 novembre 1819, terzo dei 7 figli di Filippo e di
Teresa Cava (Giuseppe, Ferdinando, Francesco,
Giovanni, Raffaele, Marianna e Rachele) ma in famiglia
c’erano anche Vincenzo e Gennaro, nati da una precedente
unione di Teresa Cava con un Raffaele Giardullo.
Il cugino Raffaele
Mastriani
134. Un suo
cugino (= figlio di Ferdinando, fratello di suo padre),
a nome Raffaele Mastriani, fu uomo di vasta
cultura, assai stimato nel Regno borbonico. Scrisse,
infatti, un grande “Dizionario
geografico-storico-civile del Regno delle Due Sicilie”,
e addirittura tradusse in napoletano l’intera
“Divina Commedia” di Dante, con il titolo “Dante
sbrugliàto, schiarùto, arredùtto in prosa con la lengua
napolitana e le chiacchiere di tutti li cummentature …
pe’ fa’ scénnere la cunuscenza de stu bellissimo libro a
lu popolo vascio”.
Questo
cugino lo aiutò in varie circostanze, anche ospitandolo
in casa sua, e divenne altresì suo suocero, in quanto il
Nostro sposò nel 1845 Concetta Mastriani, figlia appunto
di suo cugino Raffaele.
A scuola (1825-1834)
135. Nel
1825, a sei anni di età, venne posto alla Scuola di Don
Raffaele Farina, dove ebbe compagno di studi, fra gli
altri, il futuro giurista, patriota italiano e poi
deputato e ministro della Sinistra liberale, Pasquale
Stanislao Mancini (1817-1888).
Sortì dalla
scuola di Don Farina nel 1832, a tredici anni, passando
prima all’Istituto Vinelli e poi a quello di Raffaele De
Antonellis: quando ne uscì, nel 1834, il De Antonellis
si dichiarò “dolente della perdita del primo filosofo
del mio Istituto” … ed aveva solo 15 anni!
136. Due
considerazioni possono qui farsi: la prima, che nell’oscurantista
Regno borbonico si cominciava a studiare filosofia già
in età che oggi giudicheremmo precoce; la seconda, che è
opportuno approfondire adeguatamente i rapporti fra il
pensiero di Mastriani, quale si manifesterà nei suoi
romanzi e nella sua stessa vita, e l’opera filosofica di
Pasquale Galluppi.
137. In quel
tempo, infatti, a Napoli, dire “filosofia” significava
ipso facto riferirsi, direttamente o
indirettamente, al barone di Cirella e patrizio di
Tropèa, che nel 1831, dal giovane Re Ferdinando II, era
stato nominato “per chiara fama” a quella cattedra di
Logica e Metafisica dell’Università di Napoli che era
stata di Antonio Genovesi.
Per quella
cattedra, il Ministro dell’Istruzione, che era in quel
tempo
il marchese di Pietracatella, Giuseppe Ceva Grimaldi,
ritenne inutile e comunque impossibile organizzare un
concorso, perché …
"Chi c'è a Napoli che può esaminare il barone Galluppi?"
|
Il filosofo Pasquale Galluppi |
Pasquale Galluppi (1770 – 1846)
138. Ma chi
era dunque Pasquale Galluppi? Lui stesso scrive di sé:
“Io nacqui
nella città di Tropèa, provincia di Calabria Ultra II,
il 2 aprile dell’anno 1770. I miei genitori furono il
Barone don Vincenzo e donna Lucrezia Galluppi, tutti e
due della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche
famiglie patrizie della città di
Tropèa.
139. Dopo
lo studio della lingua latina secondo il metodo di quel
tempo in Tropèa, nell’età di anni tredici andai ad
apprendere gli elementi della filosofia e della
matematica alla scuola di Don Giuseppe Antonio Ruffa,
che in quel tempo insegnava queste scienze in
Tropèa.
Quell’amabile
Maestro mi pose in mano la Logica italiana dell’abate
Genovesi e gli elementi di Geometria di Euclide; egli
seppe imprimere nell’animo mio la più forte passione per
le filosofiche e matematiche discipline, in modo che,
vedendo io ancor oggi i due libri, dai quali cominciò il
mio corso di studii, provo una certa commozione…”[62].
Galluppi a Napoli (1788 -
1794)
140. “All'età di diciotto anni (1788), (Galluppi)
fu mandato in Napoli perché studiasse giurisprudenza.
Ma nella città partenopea perduravano i motivi che, come
già era successo al Gravina e al Vico, creavano negli
spiriti più sensibili un certo disdegno per questa
disciplina, per la cattiva reputazione in cui l'aveva
fatta cadere la categoria degli avvocati, preoccupati
più del successo e del guadagno che del trionfo della
giustizia.
Galluppi, deludendo le attese paterne, non si sentì di
abbracciare la pur lucrosa professione dei “paglietta”,
come con voce popolare spregiativa … venivano chiamati
nella città partenopea gli avvocati.
141. A Napoli rimase sei anni. All'Università ascoltò le
lezioni di storia e di teologia di Francesco Conforti
(1743-1799), il quale esercitò sul giovane un
influsso in senso liberale (e giansenista).
Studiò la Bibbia, la storia antica, la storia della
Chiesa e i Padri dei primi secoli, attaccandosi,
come egli si esprime nell'Autobiografia, specialmente
a S. Agostino”[63].
Galluppi: il matrimonio e
14 figli
142. “Nel 1794, l'autorità paterna lo distolse dai suoi
studi preferiti, ed egli dovette fare ritorno a Tropèa,
invitato a pensare al matrimonio e al reggimento
domestico.
Il 6 dicembre dello stesso anno si unì in matrimonio con
la baronessa Barbara d'Aquino, donna d’illibati costumi,
lodata per cortesia di modi e per la nobiltà del casato
…”
[64].
143. “Sono
ammogliato sin dall’anno 1794 con donna Barbara D’Aquino
… Con essa procreai quattordici figlioli, otto maschi e
sei femmine. Io sebbene nato a Tropèa e che non l'avessi
giammai veduta, fui destinato ad unirmi a lei col sacro
vincolo del matrimonio. Si effettuò il sacro vincolo
nuziale senza averci veduti … noi ci vedemmo quando già
eravamo con indissolubil nodo uniti. Nel vederci, ci
amammo e il nostro amore fu costante”[65].
Galluppi: la “Memoria apologetica” (1795)
144. L’influenza giansenista del Conforti (vedi
sopra, n°141) è visibile nella vicenda della
controversia con alcuni esponenti del clero tropeano. Il
Galluppi, in una dissertazione letta nella Règia
Accademia degli Affaticati, aveva sostenuto una tesi
teologica particolarmente rigorista e cioè che,
nei pagani, anche le supposte virtù sono invece dei
peccati, in quanto essi mancano della “vera carità” che
è l’amore verso l’unico Dio consapevolmente conosciuto
ed accettato.
Per il che, il Nostro venne accusato di eresia ed egli,
in sua difesa, scrisse una “Memoria apologetica”
indirizzata il 26 aprile 1795 al vescovo di Anemuria e
abate di S. Lucia del Mela, Mons. Carlo Santacolomba.
Dopo solo pochi giorni, il 4 maggio 1795, il
Santacolomba rispose riconoscendo l’infondatezza delle
accuse a lui rivolte.
Galluppi nel 1799 e nel
1820
145. L’influenza liberale del Conforti si
manifestò invece in occasione delle drammatiche vicende
della Repubblica napoletana del 1799, della quale il
Conforti stesso fu uno dei dirigenti più in vista.
In quelle circostanze, in Tropèa, il Galluppi accettò di
“fare traduzioni” dal francese, per conto delle autorità
repubblicane, di fogli di propaganda e di direttive
governative.
Rimase poi per alcuni mesi prigioniero a Pizzo Calabro,
essendo stato compreso tra gli ostaggi richiesti dal
cardinale Ruffo che, a capo dell’armata sanfedista,
risaliva dalla Calabria per liberare Napoli.
146. Successivamente, nel periodo del Decennio francese
(1805-15), venne chiamato da Giuseppe Bonaparte a
ricoprire la carica di “controllore delle contribuzioni
dirette”, che conservò poi per 17 anni: anche, perciò,
sotto il restaurato governo borbonico.
147. Nel
1820-21, si schierò pubblicamente a favore della
Costituzione e protestò con fermezza, in seguito, contro
l'intervento repressivo degli Austriaci.
Galluppi a Tropèa
(1820-1830)
148. “Si restrinse quindi entro ai brevi confini della
nativa Tropèa, donde non si allontanò mai fino al 1830,
attendendo solo agli affari domestici ed alla
composizione delle sue opere filosofiche … in fama di
uomo integerrimo ed alieno per natura da ogni briga …
amato e tenuto in somma venerazione dalla universalità
de’ suoi compaesani”[66].
|
Case e busto di Pasquale Galluppi a Tropèa |
149. Tropèa, del resto, anche se di “brevi confini”, era
tutt’altro che un leopardiano “borgo selvaggio”.
“La sua condizione di città demaniale, libera da
dominio feudale, costituisce uno dei principali elementi
della sua identità storica.
Galluppi deve anche alla particolare ubicazione della
sua città natale, assurta a snodo marittimo di
notevole importanza, la possibilità di tenersi
aggiornato circa le pubblicazioni a carattere filosofico
del resto d’Italia e d’Europa. I marinai di Parghelia,
infatti, dietro suo incarico, gli recavano le novità
presenti sul mercato librario di Napoli e di Marsiglia.
Il suo appuntamento col pensiero europeo fu anche
favorito dalle ben fornite biblioteche esistenti presso
le numerose Comunità religiose e alcune famiglie di
Tropèa”[67].
150. Vi erano infatti membri del clero e patrizi locali
molto eruditi, e nel 1759 Antonio Jerocades (Parghelia,
1738; Tropèa, 1803) aveva aperto nella vicina
Parghelia “una fiorente scuola, cui portò il lume delle
più belle letterarie e scientifiche cognizioni,
insegnando, oltre il latino e l'italiano, anche il
francese, il greco e l'ebreo, ed il più metodico corso
di filosofia e di matematica”[68].
Galluppi e la cattedra di
filosofia (Settembrini)
151. Luigi Settembrini, nelle sue “Ricordanze” riporta
il modo in cui il Galluppi, nel 1831, ottenne la
cattedra di filosofia all’Università di Napoli:
“Udii dallo stesso Galluppi raccontare il modo ond’egli
fu nominato professore.
Il barone Pasquale Galluppi di Tropèa, cittadella di
Calabria, sosteneva la sua onesta povertà ed undici
figliuoli con un ufficio di controllore nelle dogane. Le
cure della famiglia e le noie dell'uffizio non lo
toglievano da’ suoi studi filosofici, nei quali egli era
sì assorto e si profondava tanto da non udire il
diavoletto che gli facevano intorno un vespaio di
fanciulli.
Scrisse un Saggio critico su le conoscenze umane
che, stampato in Messina, fu conosciuto poco in Italia,
e levò alto il nome del Galluppi in Francia e in
Germania.
152. Essendo vacante la cattedra di filosofia
nell'università, gli amici lo consigliarono e la sua
coscienza lo persuase a chiederla. Venne in Napoli, andò
dal ministro dell'interno, gli presentò il libro, e
chiese la cattedra.
Il ministro, che non lo conosceva, rispose: — Bene: vi
cimenterete all'esame.
Ed egli: — E cu c'è a Napoli che po' esaminari
Pasquale Galluppi?
II ministro si strinse nelle spalle, e l’accomiatò con
un “vedremo”. La sera raccontò nel crocchio degli amici
come un vecchietto calabrese e mezzo matto era andato a
chiedergli la cattedra, e tutto ringalluzzito gli aveva
detto non ci essere in Napoli chi potesse esaminarlo.
Ci fu qualcuno che dimandò: — Fosse egli il Galluppi? —
Non ricordo il nome: leggetelo nel libro che mi ha dato.
— È desso, è il Galluppi, il primo filosofo vivente
d'Italia —.
Sua Eccellenza cadde dalle nuvole: s'informò da altri,
udì lo stesso, e lo pregarono desse quest’ornamento
all'Università di Napoli. E così il Galluppi, ricercato
bene se egli avesse qualche vecchio peccato politico e
trovato netto, fu senz’altro nominato professore
quand’egli non se l’aspettava né ci pensava più.
153. Con che festa noi giovani, e con quanta calca tutte
le colte persone, si andò a udire la sua prolusione, e
poi le lezioni che egli, appollaiato su la cattedra,
dettava con l'accento tagliente del suo dialetto!
Ci sono sempre i maldicenti, i quali dicevano che egli
era mezzo barbaro nel parlare; ma in quel parlare era
una forza di verità nuove; ma l’ingegno era grande, e il
cuore quanto l’ingegno. Che buon vecchio! E quanto amava
i giovani!”
Galluppi e la cattedra di
filosofia (Tulelli)
154. Un altro discepolo del Galluppi, Paolo Emilio
Tulelli, racconta anch’egli quel fatto, anche se in modo
leggermente diverso:
“Nel 1831 … recàtosi per interessi di famiglia in
Napoli, ebbe conferita la Cattedra di filosofia
nell’Università.
Ciò si deve attribuire alle alquanto migliorate
condizioni politiche del nostro paese in sui primordi
del Regno del secondo Ferdinando, ed alla efficace
azione di Domenico Cassini, uno dei più illustri
giureconsulti del foro napolitano ed avvocato del
Galluppi.
Infatti il Cassini, scudo, amico e familiare del
ministro marchese di Pietracatella, ebbe modo di
renderlo persuaso del merito incontestabile del filosofo
calabrese e disporre l’animo del ministro in favore del
suo illustre cliente.
155. A questo proposito, non stimo cosa inutile di
raccontare un aneddoto singolare intervenuto nel primo
incontrarsi del Galluppi col ministro Pietracatella.
Questi, desideroso di conoscere personalmente il
Galluppi, indusse l’avvocato Cassini a presentarglielo.
Il Galluppi, ignaro delle segrete pratiche del suo
avvocato, si lasciò condurre in casa del ministro per
fargli semplice visita di cortesia.
Durante la lunga e familiare conversazione, il
Pietracatella introdusse il discorso intorno a cose di
pubblica istruzione ed al bisogno che si avea di
provvedere di professore, mediante pubblico concorso, la
vacante cattedra di filosofia nell’Università. Al qual
proposito, il ministro disse al Galluppi:- Ebbene,
Signor Barone, non potrebbe ella essere ancor uno dei
concorrenti a quella Cattedra?
E quegli prontamente rispose:- E chi sarebbe, in Napoli,
l’esaminatore di Pasquale Galluppi? Signor ministro,
l’autore del Saggio sulla Critica dell’umana
conoscenza è stato giudicato dall’intiera Europa!”[69].
Le opere di Galluppi
156. In effetti, nel 1831, il Galluppi aveva già
scritto: “Sull’analisi e la sintesi” (1807); “Saggio
filosofico sulla critica della conoscenza” (1819);
“Elementi di filosofia" (1820-1826); "Lettere
filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente
ai princìpi delle conoscenze umane, da Cartesio sino a
Kant" (1827).
A questi scritti seguiranno poi quelli da cattedratico e
cioè le “Lezioni di logica e metafisica” e "La filosofia
della volontà".
157.
“Apparentemente assente dalla vita culturale e politica
del Regno di Napoli e dell’Europa, Galluppi si pone
invece nel bel mezzo degli eventi filosofici del suo
tempo e ne interpreta le istanze profonde, e riesce a
trasferire nell’Italia meridionale la complessità e
raffinatezza della filosofia
europea, in
tutta la sua portata storica e in tutta la sua
articolazione ideale.
Così, stranamente, questo provinciale di Tropèa
si trova a svolgere il ruolo più avanzato nella
cultura italiana dei primi decenni dell’Ottocento,
entra in relazione con i più grandi intellettuali
d’Europa e ricostruisce il filo conduttore della
filosofia moderna … cercando il senso autentico della
storia, dei valori interiori e della realtà.
E questo
fatto basterebbe a decretare i meriti filosofici di uno
studioso sensibilissimo ad afferrare le punte più
avanzate della filosofia moderna e saperle elaborare
in proprio, con ampia capacità di selezione e
discernimento critico”[70].
158. “Il merito maggiore di Galluppi risiede nell'avere,
con gli Elementi di filosofia ma soprattutto con
le Lettere filosofiche, introdotto nel nostro
paese lo studio e la conoscenza della nuova filosofia
europea, soprattutto quella kantiana.
Le Lettere filosofiche furono definite, a ragion
veduta, il primo saggio in Italia di una storia della
filosofia moderna, mentre gli Elementi di filosofia
ebbero una larghissima diffusione nelle scuole” (Diego
Fusàro).
159. Lui
stesso fu autore di un piccolo libro intitolato
“Introduzione allo studio della filosofia per uso dei
fanciulli”, che conferma quanto abbiamo detto sopra …
Pasquale Galluppi AI
GIOVANETTI AMANTI DEL VERO SAPERE
160. “Da un secolo in qua lo stato della filosofia è
quasi interamente cambiato: quindi agli antichi
elementi debbono sostituirsi i nuovi. Eccellenti
libri spargono incessantemente la luce nel mondo
filosofico; ma ciò non ostante non abbiamo ancora buoni
elementi.
Per formar questi, fa d'uopo seguire con uno spirito di
analisi tutta la storia della filosofia; fermarsi
specialmente all'epoca dell'attuale rivoluzione
filosofica; esaminare profondamente le cause che l’hanno
fatta nascere; leggere in conseguenza, e far
l’analisi, di tutti i libri classici delle diverse
scuole filosofiche, che da Cartesio sino a questo giorno
si sono stabilite nell'Europa culta: solamente un tale
studio può porre il pensatore in istato di scrivere
buoni elementi.
Posso assicurarvi di aver fatto diligentemente questo
cotanto laborioso studio, e ciò credo che mi dia il
diritto di dare al Pubblico gli Elementi della
Filosofia.
Essi conterranno pertanto … (segue l’esposizione
sommaria del contenuto).
161. Questa mia terza edizione è notabilmente
migliorata: alla logica pura ho aggiunto un capitolo
d’introduzione allo studio della filosofia: più, a
ciascuna parte del corso ho aggiunto un riassunto a
dialogo: e siccome nel corso dell'opera ho seguito il
metodo analitico, così nel riassunto seguirò il metodo
sintetico.
In tal modo spero, che sarete bene instruiti. Vivete
felici”.
162. Molto probabilmente, sono proprio queste parole
della “Dedica” agli Elementi di filosofia,
pubblicati proprio alcuni anni prima (1820-26), che il
Mastriani incontrò alla scuola del De Antonellis nel
1833-34 (vedi sopra, n°135).
Altri studi di Mastriani
(1834-1835)
163. Il quale Francesco Mastriani, nel 1834, dopo gli
elementi di filosofia, cominciò a studiare il diritto
romano con l’avvocato Antonio Fedele, avendo intenzione
di abbracciare la professione legale, mentre nel
frattempo approfondiva lo studio della lingua francese
col maestro Lopez.
Nel 1835 “divorò”
tutta la biblioteca del Lopez: circa 400 volumi di
letteratura europea, inclusi Shakespeare, Rousseau,
Chateaubriand, le tragedie di Alfieri ed ovviamente la
Divina Commedia di Dante, in italiano oltre che in
napoletano (vedi sopra, n°134).
164. Ma il
libro di tutta la sua vita fu sempre la Bibbia,
che egli certamente leggeva nell’unica versione allora
disponibile cioè la versione latina di S. Girolamo (la
cosiddetta Vulgàta) e di cui aveva una conoscenza
a quel tempo inusuale anche fra i credenti colti.
Mastriani: prima del
matrimonio (1836-1844)
165.
Nell’anno 1836, il padre lo volle impiegato presso la
Società Industriale Partenopea, allora diretta dal
Principe di Satriano Carlo Filangieri.
La notte del
28 novembre di quello stesso anno, morì improvvisamente,
all’età di 60 anni, sua madre Teresa Cava, e lui, l’8
dicembre, fece stampare la sua prima opera scritta, una
poesia intitolata “Un sospiro alla memoria di lei”.
166. Nel 1837 cominciò anche a
studiare Medicina, ma non portò mai a termine gli studi,
preferendo invece dedicare il suo tempo libero
dall’impiego a scrivere per i giornali e per il teatro:
attività ben presto incoraggiata anche dal padre, e che
divenne poi sempre più prevalente dopo la morte di
questi, avvenuta il 21 aprile del 1842.
Iniziò con articoletti di vario
genere su piccoli giornali come
Gli animosi e
La Lanterna magica
e continuò poi con giornali letterari come
La Galleria del Secolo,
Il Sibilo,
L’interprete,
Il Salvator Rosa.
167. Nel 1838,
cominciò anche a dare lezioni
private di francese e di inglese, attività che svolse, a
fasi alterne, per tutto il resto della sua vita, insieme
a quella di guida turistica per gli stranieri che
venivano a conoscere le bellezze della città.
168. In quegli anni, insieme
all’amico Francesco Rubino, scrisse anche i drammi “Vito
Bergamaschi” (1840) e “Biancolelli” (1841) che furono
rappresentati con successo al Teatro Fiorentini.
Mastriani: il matrimonio
(1844)
169. Del 4
agosto 1844 è la “promessa di matrimonio” con Concetta
Mastriani, figlia di suo cugino Raffaele (vedi sopra,
n°134), che sposerà nell’ottobre dello stesso anno.
Subito dopo
il matrimonio, lasciò definitivamente l’impiego presso
la Società Industriale Partenopea: avrebbe certo voluto
dedicarsi interamente alla sua vocazione letteraria ma,
all’epoca, solo i benestanti e sedentari potevano
permettersi di essere anche solo scrittori.
In realtà,
il Nostro mantenne se stesso e la famiglia eseguendo
traduzioni dal francese e dall’inglese nonché con
l’insegnamento privato di queste lingue; in seguito,
aumentando la famigliola, si procurò anche un modesto
impiego alla dogana.
E la gente
del popolo, riconoscendolo mentre correva tra l’ufficio
della dogana, la tipografia in cui si stampavano i suoi
libri, ed i palazzi nei quali abitavano i suoi giovani
allievi, lo indicava come “l’autore dei romanzi di
Francesco Mastriani”.
I figli – Filippo
Mastriani
170. Dal
matrimonio nacquero 4 figli: Sofia (nel 1846); Filippo
(1848); Edmondo (1851); e Adolfo (1853).
Di questi,
però, ben tre pre-morirono al padre: Adolfo morì nel
1857 (a 4 anni di età); Edmondo nel 1875 (a 24 anni); e
Sofia nel 1878 (a 32 anni).
Unico figlio superstite fu dunque Filippo, che pochi
mesi dopo la morte del padre scrisse i “Cenni sulla vita
e sulle opere di Francesco Mastriani”, documento
ovviamente fondamentale per la ricostruzione storica
della figura del romanziere.
171. Anche Filippo Mastriani si dedicò alla narrativa:
risulta autore di 12 romanzi, fra i quali “Un camorrista
di 15 anni” e “Amori e delitti dei briganti Cipriano e
Giona La Gala”.
Realizzò inoltre traduzioni dal tedesco e dall’inglese,
tra cui anche “Uno studio in rosso” (1887) che è il
primo romanzo scritto da Arthur Conan Doyle
(1859-1930) avente come protagonista il
quind’innanzi celebre investigatore Sherlock Holmes.
Mastriani:
‘o pesòne
e gli sfratti
172. La vita
familiare di Francesco Mastriani è contrassegnata dai
continui “sfratti” che subiva da parte dei vari “padroni
di casa”.
In perenne
difficoltà a pagare l’affitto, come molti altri
napoletani (non a caso, in napoletano, ‘o pesòne
significa sia “pigione, costo dell’affitto” sia “grosso
peso”), era costretto a continui “quatto ‘e maggio” (gli
sfratti di solito venivano eseguiti il 4 maggio).
173. La
prima abitazione fu alla Via Concezione a Montecalvario,
n°52.
Dopo la
morte del padre (1842) si traferì alla Salita
Infrascata, n°271.
Dopo il
matrimonio (1845), fittò un “casinetto” allo Scudillo,
dove nacque la prima figlia Sofia.
Nel 1848, è
alla Via Teatro Nuovo, n°54 e poi in un altro
“casinetto” al Vico Lieto a Capodimonte.
Nel 1849, in
Salita Tarsia, n°18.
Nel 1854, a
S. Teresa degli Spagnoli.
Nel 1861,
Via S. Mandato, n°78.
Nel 1864,
Largo Petroni alla Salute, n°7.
Nel 1865,
Vico Nocelle.
Nel 1866,
Strada Tarsia nel Fondo Avellino.
Nel 1869,
alle “Case operaie” nell’Emiciclo di Capodimonte.
Nel 1881,
alla Strada Fonseca, n°80.
Nel 1883,
nel Palazzo D’Agostino alla Sanità, n°97.
Nel 188?,
alla Salita Scudillo, n°4 e poi alla Via Capodimonte.
Nel 1889, in
Penninata S. Gennaro dei Poveri, n°29 e poi in un
“quartino” al Moiariello a Capodimonte.
Nel 1890,
ritorno a S. Gennaro dei Poveri il 4 maggio, poi ad
agosto in Largo Amoretti, ed infine in ottobre di nuovo
a S. Gennaro dei Poveri, dove morì il 5 gennaio del
1891.
174. Il
periodo di residenza più lungo è perciò quello alle
“Case operaie”, dove visse per circa 12 anni e dove
morirono i figli Edmondo e Sofia.
L’attento
lettore, volendo, potrà contare ben 20 trasferimenti e,
se avrà la pazienza di andarli a “visualizzare” su una
cartina stradale di Napoli, vedrà come Mastriani abbia
potuto conoscere “per immersione diretta” quella Napoli
popolare che descrive nei suoi libri.
|
Lapide in Penninata S. Gennaro dei Poveri (potevano
almeno tagliare lo spigolo!) |
Mastriani: l’esperienza a
“Il Tempo” ed il 1848
175. “Il
Tempo” era un giornale di tendenza moderatamente
liberaleggiante, fondato da Carlo Troya e Saverio
Baldacchini, due intellettuali napoletani già coinvolti
nelle vicende del 1820-21.
Il primo
numero uscì il 21 febbraio 1848, a ridosso delle
turbolente vicissitudini di quell’anno, nel quale lo
stesso Carlo Troya fu, per un breve periodo (dal 3
aprile al 15 maggio), a capo del primo governo
costituzionale.
Ma, con la
fine dell’esperienza parlamentare napoletana, a partire
dal 2 giugno 1848 il giornale cambiò proprietario e
linea politica, che divenne marcatamente conservatrice
ed anti-liberale.
176. Fin dall’inizio, il
Mastriani
fu impiegato presso la direzione del quotidiano, con lo
stipendio mensile di ducati 30, adibito specialmente
alle traduzioni dal francese e dall’inglese.
Non sembra, però, che fosse particolarmente legato alle
opinioni politiche espresse dal giornale, né risulta una
sua partecipazione agli eventi del 1848.
Del resto, perché mai avrebbe
dovuto partecipare?
Quella “rivoluzione” non era
certo fatta dal popolo, ma da intellettuali borghesi,
che si proponevano obiettivi del tipo:
-
l’istituzione di un “parlamento”, per il quale avrebbero
avuto diritto di voto solo quelli che superavano un
certo livello di reddito, quando la maggior parte
della popolazione napoletana a mala pena riusciva a
sopravvivere;
-
la conquista della “libertà di stampa”, quando la
maggior parte della popolazione napoletana era
completamente analfabeta;
-
la conquista della “libertà di pensiero e di parola”,
quando la maggior parte della popolazione napoletana,
per forza di cose, doveva “pensare” prima di tutto a
cosa avrebbero mangiato i propri figli in quello stesso
giorno …
177. Lui, dunque, per quanto lo
riguardava, nel famoso 1848 pubblicò il suo primo
romanzo, intitolato “Sotto altro cielo” e Il Tempo
(la nuova gestione?) gli aumentò lo stipendio a ducati
35.
Due anni dopo, nell’aprile del 1850, il nuovo direttore
de Il Tempo, soddisfatto dell’opera che prestava,
gli aumentò lo stipendio a ducati 40 e addirittura,
nell’ottobre del medesimo anno, la stessa direzione
del giornale venne affidata al Mastriani, con un
compenso mensile di 45 ducati.
Purtroppo però, dopo solo tre mesi (ottobre-dicembre
1850), la pubblicazione del giornale cessò
completamente. Aumentarono quindi le sue difficoltà
economiche, mentre pure aumentava la sua famigliola.
L’esperienza nei giornali
“istituzionali” borbonici ed il colera del 1854
178. La
chiusura de Il Tempo lo spinse ad accettare la
nomina, probabilmente favorita anche dal prestigio di
cui godeva il cugino-suocero Raffaele (vedi sopra,
n°134), al posto di “compilatore” del
Giornale del Regno delle due Sicilie, che
pubblicava gli Atti ufficiali del Governo, nonché del
giornale ministeriale
L’ordine.
Solo dopo 3 mesi, nel marzo del 1851, ricevette una
prima gratificazione di 30 ducati, e continuò
a lavorare con occasionali gratificazioni economiche
fino al 1854, allor quando, come molti, venne colpito
dal colera e, come pochi, riuscì a sopravvivere alla
malattia.
Così, il 7
febbraio 1855 poté ricevere dalla cassa del Ministero il
suo primo vero stipendio, di ducati 12, relativo al
precedente mese di gennaio, elevato in seguito a ducati
15 mensili, per opera soprattutto del nuovo “Direttore
della Real Segreteria e Ministero di Stato della Polizia
generale” Orazio Mazza, che volle conferire più
dignitose condizioni economiche e normative ai
dipendenti ministeriali.
179.
Continuando sempre a far parte della redazione del
Giornale delle due Sicilie, dal primo
ottobre 1858 fu incaricato dal Ministero della Polizia
Generale della “revisione” di vari fogli letterari (=
svolse il ruolo istituzionale di censòre).
E così, nel
mese di luglio del 1859, dal Ministro degli Interni e
Polizia Generale, Liborio Romano, gli venne aumentato lo
stipendio a ducati 25.
Mastriani: i 13 romanzi
anteriori al 1860
180. Nel
1848, come detto, esce il suo primo romanzo, che è “Sotto
altro cielo”, cui fanno seguito, fino al 1860, altri 12
romanzi, fra i quali: “La cieca di Sorrento” (1851); “Il
mio cadavere” (1851), con un prosieguo in “Federico
Lennois” (1852); “La comare di Borgo Loreto” (1854);
“Angiolina o la corìfea” (1857); e “La poltrona del
diavolo” (1859).
Da segnalare, fra questi 13 ante-1860, anche la presenza
di tre romanzi del genere comico-umoristico.
continua
[40] Dal
discorso di “funebre elogio” pronunciato dal
Guida nel corso della celebrazione religiosa che
si tenne, nella chiesa delle Suore del Verolino
in Via Cicarelli a Barra, “nel giorno settimo
dalla morte” di questi, avvenuta il 22 gennaio
1890.
[41] Dal
“Cenno storico del Ritiro” ovvero “notizie
fondamentali circa l’origine del Ritiro
dell’Immacolato Cuore di Maria per le ragazze
orfane, fondato dal Verolino il 9 maggio 1868”,
scritto da Don Raffaele Guida come introduzione
alla “Regola del Ritiro” da lui composta nel
1893 e firmata dalle Religiose e dalle Novizie
il 31 dicembre di quell’anno.
[42] Vedi
nn°468 e segg. in “Il periodo borbonico dal 1790
al 1860”, in particolare i nn°477-478.
[43] Vedi
nn°29-34 in “Il periodo liberale dal 1860 al
1876”.
[44] Vedi
nn°23-24 in “Il periodo del Viceregno spagnolo
nel 1500”.
[45] Vedi
nn°10-14 in “Il periodo del Viceregno
austriaco”.
[46] Vedi
nn°52-54; 64; 67-69 in “Il periodo del Viceregno
spagnolo nel 1600”.
[47] Vedi
nn°1-6 e 253-263 in “Il periodo borbonico dal
1790 al 1860”.
[48] Vedi
nn°22-26 in “Il periodo liberale dal 1860 al
1876”.
[49]
Giuseppe Galasso - “Intervista sulla storia di
Napoli”, Ed. Laterza, Bari, 1978.
[50] Vedi
n°9 e nn°13-17 in “Il periodo del Viceregno
spagnolo nel 1500”.
[51]
Atanasio Mozzillo – “La Sirena inquietante”, Ed.
Cooperativa Ci.Esse.Ti, 1983.
[52] Vedi
nn°79-85 in “Il periodo del Viceregno spagnolo
nel 1500”.
[53] Vedi
nn°47-73 in “Il periodo del Viceregno spagnolo
nel 1600”.
[54] Vedi
nn°5-8; 37-43; 307-308 in “Il periodo borbonico
dal 1790 al 1860”.
[55] Vedi
nn°152 e segg. In “Il periodo liberale dal 1876
al 1887”.
[56]
Domenico Rea – “Le illuminazioni di Mastriani”
(1963) in “Opere”, Ed. Mondadori, 2005.
[57]
Gustave Hérelle – “Un romanziere socialista a
Napoli” in “Revue de Paris” 1894.
[58] Vedi
nn°122 e segg. in “Il periodo liberale dal 1860
al 1876”.
[59] Vedi
n°56 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.
[60] Si
veda la breve ma efficace rassegna fatta da Rea
nel suo Saggio sopra citato.
[61]
Matilde Serao in “Corriere di Napoli”, 7 gennaio
1891.
[62]
Pasquale Galluppi, Autobiografia in Introduzione
alle “Lettere filosofiche”, Ed. Signorelli,
Milano 1967.
[63]
Giuseppe Lo Cane – Biografia di Pasquale
Galluppi in “Tropea Magazine”.
[65]
Galluppi, Autobiografia, op. cit.
[69]
Paolo Emilio Tulelli – “Intorno alla dottrina ed
alla vita politica del Barone Pasquale
Galluppi”, Accademia di scienze morali e
politiche di Napoli, Stamperia della Règia
Università, Napoli, 1865.
[70]
Salvatore Ragonesi – “Pasquale Galluppi nella
storia della filosofia europea”, in
“Infosannio”, 20 marzo 2013.