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Il Teatro di San Carlo in Napoli

a cura di Alfonso Grasso

 

Lo stemma del Regno delle Due Sicilie - quando non è in restauro - sovrasta il maestoso arcoscenico, col quale si fonde.

Al centro dello stemma v'è la Casa Borbone - tre gigli d'argento in campo azzurro - ed intorno i 21 simboli araldici delle Case imparentate con quella regnante a Napoli. Compongono quel che appare come il simbolo affascinante della storicità di un teatro oggi restituito, con attenti lavori di restauro, allo splendore di un tempo.

Il San Carlo è, infatti, il più antico teatro operante in Europa: costruito nel 1737 (41 anni prima della Scala, 51 prima della Fenice) non ha mai interrotto le sue stagioni altro che per due anni (1874-1875) a causa di mancati finanziamenti. Né l'incendio del 1816, né la seconda guerra mondiale riuscirono ad interromperne l'attività: nel primo caso il Teatro fu ricostruito in sei mesi da re Ferdinando, nel secondo una serie di concerti per le Forze Armate sostituì nei momenti più drammatici del conflitto, la normale attività di spettacolo. Divide altresì con il Teatro alla Scala il primato della più antica Scuola di ballo italiana, fondata contemporaneamente a Milano e a Napoli nel 1812, mentre dal 1816 data la sua Scuola di scenografia.

Fu eretto per volontà di Carlo di Borbone che, deciso a dare alla sua Capitale un teatro che sostituisse il vetusto San Bartolomeo, di proprietà della Casa degli Incurabili, assegnò a questa istituzione benefica una rendita di 2.500 ducati, pari all'utile che essa ne traeva dalla gestione, ordinandone l'abbattimento e il recupero del legname. Nello stesso tempo, dette mandato alle Fabbriche Reali di progettare il nuovo teatro in luogo più centrale: il 4 marzo 1737 fu firmato il contratto con l'architetto Giovanni Antonio Medrano e l'appaltatore Angelo Carasale. La spesa fu calcolata in 75.000 ducati (circa 1,5 milioni di euro di oggi), la consegna fissata per la fine dello stesso anno.

L'impegno fu mantenuto con straordinaria precisione: il 4 novembre 1737, giorno onomastico del Sovrano, il San Carlo fu inaugurato con l'opera Achille in Sciro del Metastasio, con musica di Domenico Sarro, che diresse l'orchestra, con due balli per intermezzo, creati dal Grossatesta. La parte di Achille fu sostenuta, come usanza dell'epoca, da una donna, Vittoria Tesi, detta la Moretta, con accanto Anna Peruzzi, detta la Parrucchierina, prima donna soprano e il tenore Angelo Amorevoli. Il Teatro s'impose immediatamente all'ammirazione dei Napoletani e degli stranieri, per i quali divenne in breve tempo un'attrattiva giudicata senza eguali. Per la grandiosità, la magnificenza dell'architettura, le decorazioni in oro, gli addobbi sontuosi in azzurro (era il colore ufficiale della Casa Borbonica Due Sicilie e perciò i velluti di questa tinta furono sostituiti, dopo l'unità d'Italia, con il rosso ed allo stemma del sottarco fu sovrapposto quello sabaudo); ma anche per l'interesse musicale degli spettacoli.

Il teatro di San Carlo nel '700

La Scuola napoletana aveva infatti, in quegli anni incontrastata gloria europea non soltanto nel campo dell'opera buffa (che nel San Carlo non veniva rappresentata) ma in quello dell'opera seria, con Leo, Porpora, Traetta, Piccinni, Vinci, Anfossi, Durante, Iommelli, Cimarosa, Paisiello, Zingarelli. Napoli divenne, in conseguenza, la capitale della musica europea. Così che anche i compositori stranieri considerarono il San Carlo come un traguardo della loro carriera: Hasse, poi stabilitosi a Napoli, Haydn, Johann Christian Bach, Gluck. Allo stesso modo, i più celebrati cantanti ambirono esibirsi sul palcoscenico del Teatro di Napoli e molti consolidarono su di esso la loro fama, da Lucrezia Anguiari, detta la Bastardella, e a Caterina Gabrielli, detta la Cochetta, ai celeberrimi castrati Caffarelli (Gaetano Majorano), Farinelli (Carlo Broschi), Gizziello (Gioacchino Conti) tutti e tre provenienti dai Conservatori di Napoli, sino a Gian Battista Velluti, l'ultimo evirato cantore.

Questo primo ciclo di vita del San Carlo, che era stato intanto rinnovato nell'aspetto esterno dall'architetto Antonio Niccolini, si chiude con il doloroso episodio dell'incendio divampato la notte del 12 febbraio 1816, che lo distrusse completamente. Fu un evento che gettò il lutto in tutta la città e che i giornali di tutta Europa raccontarono con emozione. Così come una meraviglia ed ammirazione dettero notizia, dieci mesi dopo, alla fine dello stesso anno, che esso era già risorto. Fu re Ferdinando I di Borbone a volere, sei giorni dopo l'incendio, che il San Carlo venisse senza indugi ricostruito. L'incarico fu affidato al Niccolini, con l'impegno di rifarlo tale e quale com'era prima dell'incendio. Venne rispettata la pianta del Medrano: la sala lunga m. 28,60 e larga 22,50, 184 palchi disposti in sei ordini più quello reale. Venne però sensibilmente migliorata l'acustica (ancora oggi unanimemente considerata perfetta) e fu ampliato il palcoscenico (m. 33,10 x 34,40). Camillo Guerra e Gennaro Maldarelli rinnovarono le decorazioni fra cui il bassorilievo e l'orologio nel sottarco del proscenio. Giuseppe Cammarano dipinse il soffitto tuttora esistente (Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del mondo) ed il sipario, poi sostituito nel 1854 con altro Giuseppe Mancinello ("Il Parnaso", ancora in uso).

Medaglia in bronzo del 1817 per la ricostruzione del Teatro di San Carlo dopo l'incendio (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire

A parte la creazione del "golfo mistico", suggerita da Verdi nel 1872, l'impianto dell'illuminazione elettrica con conseguente abolizione del lampadario centrale (1890) e la costruzione del nuovo foyer con annesso corpo laterale adibito a camerini degli artisti (1937) nessun mutamento sostanziale ha subito il Teatro. Ed oggi la sala appare così come la vide Stendhal la sera della sua seconda inaugurazione, il 12 gennaio 1817:

" ... Non c'è nulla in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. Gli occhi sono abbagliati, l'anima rapita ...".

Si rappresentava quella sera Il sogno di Partenope, di Giovanni Simone Mayr, scritta per l'occasione, seguita da un ballo creato da Salvatore Viganò, uno dei maggiori esponenti della Scuola coreografica napoletana che, cresciuta a cavallo del secolo, dominò la scena europea anche con Giuseppe Salomoni (che diresse il Teatro Petrovskij di Mosca), Gaetano Gioia, Salvatore Taglioni, Carlo Blasis (che con la moglie Annunziata Ramazzini già prima ballerina del San Carlo, insegnerà poi al Bolshoi) e con le due più famose ballerine, che insieme all'austriaca Fanny Elssler, crearono la leggenda romantica del balletto: Maria Taglioni e Fanny Cerrito, della quale si conservano ancora oggi le scarpette in una teca di cristallo al Museo dell'Opera di Parigi. Nella prima metà dell'Ottocento le glorie del San Carlo sono legate al nome di quello che fu considerato il principe degli impresari, Domenico Barbaja.

Malgrado la Scuola napoletana, con Zingarelli, Pacini, Mercadante, si tenesse sostanzialmente al passo con i nuovi tempi, Barbaja intuì come per il San Carlo fosse giunto il momento di guardare al di là dei confini impostigli dalla sua tradizione e scritturò come compositore e direttore artistico dei Regi Teatri di Musica Gioacchino Rossini. Questi vi rimase per otto anni, dal 1815 al 1822, scrivendo Elisabetta Regina d'Inghilterra, La Gazzetta, Otello (che fu dato al Teatro Fondo, mentre il San Carlo era in costruzione, passando poi nel teatro maggiore come seconda opera della stagione inaugurale, con Manuel Garcia protagonista), Armida, Mosè, Riccardo e Zoraide, Ermione, La donna del lago, Maometto II (poi divenuto l'assedio di Corinto), Zelmira. Fra i "cantanti di stagione" degli anni di Barbaja si ricordano, oltre a Manuel Garcia, sua figlia Maria Malibran, Giuditta Pasta, Isabella Colbran, Giovan Battista Rubini, Domenico Donzelli e i due grandi rivali francesi Adolphe Nourrit e Gilbert Duprez, l'inventore del "do di petto".

E fu dopo una beneficiata al San Carlo che, preso da una crisi di sconforto per essere stato il suo successo inferiore a quello del più giovane conterraneo, Nourrit si suicidò appena rientrato in albergo, l'8 marzo 1839. Fuggito per amore da Napoli Rossini al termine di una rappresentazione di Zelmira insieme alla Colbran, che era stata sino a quel momento l'amante del Barbaja, al suo posto l'impresario scritturò un altro astro nascente nel mondo del melodramma, Gaetano Donizetti. Anch'egli direttore artistico dei Regi Teatri, Donizetti rimase al San Carlo dal 1822 al 1838 componendo per il teatro sedici opere, tra cui Maria Stuarda, Roberto Devereux, Poliuto e l'immortale Lucia di Lammermoor, scritta per il soprano Tacchinardi-Persiani e per il tenore Duprez. Qualche anno prima, nel 1826, Barbaja aveva dato fiducia anche ad un altro musicista, uno studente siciliano del Conservatorio San Pietro a Majella, rappresentandogli la sua prima opera, Bianca e Gerlando. Si chiamava Vincenzo Bellini.

Anche Giuseppe Verdi fece assai presto il suo ingresso al San Carlo. Nel 1841 si rappresentò il suo Oberto conte di San Bonifacio e nel 1845 scrisse la prima opera per il Teatro, Alzira. La seconda fu Luisa Miller nel 1849, la terza Gustavo III nel 1858 e poi presentata a Roma col titolo mutato in Un ballo in maschera. Malgrado l'ostilità di un certo ambiente musicale, che faceva quadrato intorno a Saverio Mercadante, considerato come una specie di faro della tradizione napoletana, Verdi fu il dominatore della scena sancarliana nella seconda metà dell'Ottocento. A parte il favore incondizionato ed entusiasta del pubblico, Verdi aveva a Napoli alcuni fra i migliori amici, il pittore Domenico Morelli, il poeta Nicola Sole, il caricaturista Delfico, il musicologo Cesare De Sanctis, e vi tornò sempre volentieri per curare personalmente la messa in scena delle sue opere. Ebbe in progetto, anzi, caldeggiato anche dalla moglie Giuseppina, di comprarvi, una casa, per trascorrervi stabilmente l'inverno. Poi a Napoli fu preferita Genova, perché più vicina ai suoi poderi di Sant'Agata. Nel 1872, convinto dall'impresario Antonio Musella, assunse la direzione artistica dell'intera stagione ripresentando il Don Carlos, al cui spartito apportò appositamente alcune modifiche, e per la prima volta Aida, con un successo memorabile. In quella occasione scrisse per le prime parti dell'Orchestra del San Carlo il Quartetto d'archi l'unica sua composizione cameristica, la cui partitura autografa fu poi donata al Conservatorio di San Pietro a Majella.

Con il finire dell'Ottocento e della sua grande stagione del melodramma romantico, il San Carlo rimase tra i protagonisti dei nuovi orientamenti musicali italiani ed europei. Giacomo Puccini e la Giovane Scuola, da Mascagni ai quattro napoletani (di nascita o di studi) Leoncavallo, Giordano, Cilea ed Alfano, trovarono il San Carlo pronto ad accogliere le loro opere, mentre l'azione meritoria di un grande musicista e direttore d'orchestra, Giuseppe Martucci, valsa ad introdurre la musica wagneriana nelle consuetudini del Teatro. Merito del San Carlo, nei primi anni del Novecento, fu anche quello di contribuire in maniera determinante alla preminenza della figura del direttore d'orchestra nello spettacolo lirico; Leopoldo Mugnone, napoletano, grande rivale (ma amico carissimo) di Arturo Toscanini, diresse da solo numerose stupende stagioni, così come Eduardo Vitale, Ettore Panizza (che doveva poi tanto contribuire all'affermazione del Metropolitan di New York), Eduardo Mascheroni, il quale nel 1908, accompagnò personalmente sul podio Richard Strauss, cedendogli la bacchetta per dirigere la prima italiana della sua Salomè. E poi Cleofonte Campanini, Vittorio Gui, Gino Marinuzzi e Pietro Mascagni, direttore stabile dal 1915 al 1922.

È dal 1915 che un'altra grande figura di impresario si segnala, quella di Augusto Laganà, che guidò il Teatro sino alla costituzione in Ente Autonomo (1927) introducendo dal 1920 la consuetudine, durata poi dieci anni, di inaugurare la stagione con un'opera wagneriana; sensibile altresì ai nuovi fermenti dell'opera italiana, come dimostrano le prime assolute della Francesca da Rimini di Zandonai (15 gennaio 1921) e di Fedra di Ildebrando Pizzetti (16 Aprile 1924), entrambe su testi di Gabriele d'Annunzio. Anche in questi anni, i maggiori cantanti si esibirono stabilmente al San Carlo, da Fernando de Lucia, che vi cantò per vent'anni di seguito, a Roberto Stagno e Gemma Bellincioni, a Gilda Dalla Rizza, Riccardo Stracciari, Fjodor Scialiapin, Aurelio Pertile, Gabriella Besanzoni, Nazareno De Angelis. Lunghissima consuetudine ebbero Tito Schipa (debutto nel 1913, ultima recita nel 1944) Beniamino Gigli (debutto nel 1915, ultima recita nel 1953) Toti dal Monte (debutto 1919, ultima recita nel 1944). Sostanzialmente risparmiato, pur se danneggiato in alcune strutture dagli eventi bellici, il San Carlo venne requisito dalle autorità militari inglesi nell'ottobre del 1943. Gli spettacoli ripresero il 26 dicembre di quell'anno, destinati alle truppe alleate. I civili potevano accedervi, ma soltanto in galleria e in loggione.

L'occupazione durò sino al 1946. Ripristinato l'Ente Autonomo nel '48 con la geniale soprintendenza di Pasquale Di Costanzo, coadiuvato dal direttore artistico Francesco Siciliani (poi Guido Pannain), il San Carlo riprese rapidamente la sua posizione di preminenza fra le istituzioni musicali europee. Presenti sul suo podio direttori di grande prestigio, come Gui, Serafin, Santini, Gavazzeni fra gli italiani e Böhm, Fricsay, Scherchen, Cluytens, Knappertsbush, Mitropoulos, spazio adeguato venne dato alla produzione contemporanea più significativa. Memorabile, la prima del Wozzeck di Alban berg, diretto da Böhm, il 26 dicembre 1949 e le esecuzioni in prima italiana di Arianna e Barbablù di Dukas, Dall'oggi al domani di Schönberg, Carmina Burana e La luna di Orff, Il protagonista di Weill, etc. Accanto alle puntuali riprese del grande repertorio melodrammatico, particolare attenzione il San Carlo ha dedicato alla riproposta di capolavori dimenticati dell'Ottocento, restituendo alla vita musicale opere come Giovanna d'Arco di Verdi, L'assedio di Corinto di Rossini, Nerone di Boito e, grazie anche alla collaborazione del maestro Rubino Profeta, di numerose opere donizzettiane, quali Roberto Devereux, Caterina Cornaro, etc.

Nel 2008 è terminata la prima parte del nuovo restauro, che ha gelosamente salvaguardato l'architettura originaria: il San Carlo è divenuto accessibile ai diversamente abili. Entro il 2012, grazie a 50 milioni di Euro stanziati dal governatore Bassolino della Regione Campania, sarà dotato di sale sotterranee di registrazione, di nuove scale e di un nuovo foyer sottostante lo splendido preesistente. Tutto il teatro, patrimonio dell'umanità, sarà restituito con rinnovato splendore all'ammirazione del mondo.

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