Classicità Inebriante
Una raccolta straordinaria di capolavori dell'antichità in uno dei musei più prestigiosi del mondo.
Sono quasi tre secoli che Napoli attrae i viaggiatori con le vestigia dell'antichità, con il fascino del passato, della classicità, di dei ed eroi di una mitologia che contiene l'origine della nostra civiltà. Da quando, dal 1738 in avanti, la terra restituì la vita interrotta di Ercolano e Pompei, conservata, anche nei suoi particolari, sotto una coltre di lava. Allo splendore di queste due città riemerse, si aggiungeva il fascino delle opere antiche che appartenevano ai Farnese e che giunsero a Napoli quando salì sul trono Carlo di Borbone, figlio di Filippo V, re di Spagna, e di Elisabetta Farnese. Divennero patrimonio della città quando l’ultimo Borbone, Francesco II, costretto all’esilio, le lasciò in eredità ai Napoletani. E sono questi, ancora oggi, i due nuclei principali (certamente non i soli) del Museo Borbonico (oggi Museo Archeologico Nazionale), uno dei più importanti del mondo per quantità e qualità delle collezioni. I pezzi forti della collezione Farnese sono la gigantesca statua di Ercole e il colossale Toro. Il primo è opera dello scultore ateniese Glicone ed è una copia dell’Eracle in riposo di Lisippo. Colpisce l'aspetto un po' malinconico di questo possente eroe, quasi a disagio nel momento in cui il suo corpo immenso non è impegnato in uno sforzo. Il Toro raffigura invece il mito di Dirce, legata ad un toro selvaggio da Zeto e Annone che vendicarono così la loro madre. Ricavato da un unico blocco, questo movimentato e teatralissimo gruppo scultoreo fu ben presto battezzato "la montagna di marmo", ed è probabilmente la più grande opera in questo materiale tramandataci dall'antichità classica.
Ci volle un po' perché i capolavori scultorei della collezione Farnese arrivassero nella città partenopea da Roma. E così anche lo stupendo Toro giunse a Napoli nel 1788, via mare, scortato addirittura da una nave da guerra. Non fu il solo a cambiare residenza. Erano infatti patrimonio romano anche la spettacolare carrellata di ritratti di imperatori e di filosofi che oggi sorprende per l'intenso realismo, la bellezza adolescenziale e un po' femminea di Antinoo, l'ineffabilità di Iside, la sensualità della Afrodite Callipige, lo slancio atletico dei Tirannicidi, l'espressione della fatica dell'Atlante curvo sotto il peso del mondo.
Sono soprattutto la pittura, i mosaici, gli oggetti di vetro e di argento ritrovati a Ercolano e Pompei ad affascinare chi vuole immaginare la vita delle due città sepolte dalla lava. L'importanza degli affreschi è data soprattutto dal loro carattere di unicità: dal passato sono riemerse con generosità sculture, architetture, oggetti, ma assai raramente immagini dipinte.
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La battaglia tra Alessandro e Dario
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Allora, tra le sale del museo, possiamo immaginare la meraviglia che suscitarono al loro ritrovamento questi fondi rossi (che poi la città ha ripreso negli intonaci dei palazzi), queste architetture e i paesaggi dipinti con leggerezza, con inventiva o con realismo.
E poi le storie mitologiche, i ritratti (valga per tutti l'immagine pensierosa e intenta della cosiddetta Saffo), le nature morte, i giardini. E quella figurina deliziosa che cammina lentamente, ripresa di spalle: una Flora che ha fatto il giro del mondo, la cui sagoma è finita, fin dalla sua scoperta, su tazze, piatti, oggetti e oggi troneggia anche su quaderni, blocchetti, penne, accendini, segnalibri e quant'altro. È stupefacente vederla dal vero.
Tra i mosaici, il capolavoro è la Battaglia d'Isso tra Alessandro e Dario, proveniente dalla casa del Fauno a Pompei. Ma non si può non ricordare il mosaico con cratere e colomba, la cui ombra della testa del volatile sull'acqua è descritta nella Storia naturale di Plinio, o la sala della Villa delle colonne rivestite con elementi astratti e floreali di piccole tessere colorate. E gli oggetti, piatti, bicchieri, ciotole, vasi, specchi, fermagli per capelli, monete, gioielli, utensili vari restituiscono l'immagine dello scorrere giornaliero: figure che cucinano, si lavano, si imbellettano.
Non si può non ammirare il Vaso blu su cui è applicata una decorazione di pasta vitrea bianca, lo stesso accordo che si ritrova negli oggetti creati nella seconda metà del Settecento dal ceramista inglese Josiah Wedgwood che esprimeva così la sua "febbre di antichità", malattia diffusissima all'epoca tra gli appassionati d'arte.
E se tra le sculture recuperate in zona non si possono tralasciare quelle della Villa dei Papiri, non è possibile lasciare Napoli senza aver dato un'occhiata al Gabinetto segreto del museo dove l'immaginario erotico degli antichi mostra i suoi lati più fantasiosi.
Ma tra queste sale non si incontra solo la classicità greco-romana. Il Museo Nazionale possiede la seconda raccolta in Italia, dopo quella di Torino, di arte egizia: sfingi e mummie parlano la lingua di un passato antichissimo e ancora oggi carico di misteriosi significati.
Libero adattamento dell'articolo tratto da Ulisse, rivista di bordo dell’Alitalia |