Il precipuo, forse l'unico argomento, onde si è preteso giustificare in qualche modo quel tremendo scompiglio, in che la povera Italia è stata gettata e si sta dolorosamente dibattendo, è, come tutti sanno, il diritto imprescrittibile che si attribuisce ai popoli di disporre delle proprie sorti politiche come meglio loro talenta. Oh! Che? Se gli italiani vogliono, tutti uniti in fraterna amistà, sommettersi come un uomo solo allo scettro costituzionale del Re galantuomo, chi potrà loro contenderlo? Innanzi a cotesto diritto non vi è legittimità, antichità, giustizia di Signoria che possa tenere; e Duchi, Arciduchi, Re e se fia uopo anche Pontefici debbono discendere dai loro troni, come tosto la sovrana maestà del popolo abbia dichiarato, con suffragio unanime ed universale, di non ve li volere più tollerare.
Certo questo suonava il famigerato dispaccio del Russel, nel passato Ottobre, col quale quel Ministro in un atto diplomatico facea sentire all'Europa sbalordita un linguaggio appena tollerabile nelle logge massoniche o nelle vendite dei carbonari: bene inteso che egli medesimo manderebbe alla forca o alla galea qualunque Maltese o Corfiotto si attentasse applicare alla propria patria la teorica da lui, con tanta disinvoltura, applicata alla nostra Italia. Questo suona altresì il principio del Non Intervento con tanta lode di moderazione messo innanzi dal Governo francese, per impedire che altri da lui s'intrometta delle cose italiane e per altro che per ispalleggiare il suo alleato; ed ammesso pure che da quel principio non sia disdetto dare un attestato di simpatia a Francesco II, colla presenza del suo navilio innanzi a Gaeta per alquante settimane, quella non può protrarsi indefinitamente, perché non sembri ostacolo alla volontà popolare, come ha lasciato intendere il Moniteur nella nota, che pubblicò sul richiamo di quel navilio.
Lo stesso ha significato novellamente il Principe di Carignano nel Bando solenne, onde ha inaugurata la sua Luogotenenza di Napoli: in quello il suffragio universale ed unanime del Regno, nel volere a suo Re Vittorio Emmanuele, ha trovato luogo precipuo, e dovea di necessità trovarlovi; in quanto, anche un capo degli usurpatori, non vi può essere titolo a giustificare comunque l'usurpazione, fuori di quel suffragio. Talmente che e chi ha cagionato direttamente il tremendo scompiglio italiano e chi più o meno copertamente vi ha cooperato, non ha, non può avere apparente puntello diverso da quello.
Ora noi, e crediamo sia questo il sentimento di quanti sono onesti e cattolici, ci rassegniamo di gran cuore ad essere oppressi, spogliati, assassinati, ogni qual volta la Provvidenza lo permette pel nostro meglio. Tant'è! Ci acconciamo ad essere sommessi a servitù ed anche divorati, (...); ma ad essere gabbati non ci possiamo, non ci vogliamo acconciare in eterno, in quanto la verità è per noi il sommo tesoro, quello che da nessuna potenza creata ci può essere tolto. Cristo fu ben crocifisso, ma non lasciò di essere neppure un istante la Sapienza del Padre; ed i suoi discepoli, esposti a tutto il più reo governo che di loro possa fare il mondo, solo dall'errore non potranno essere giammai offesi, finché si attengono fedelmente agl'insegnamenti di Lui.
E guardate nuova, singolarissima, non mai più vista maniera di suffragio unanime, il quale si esprime al di fuori colle lotte furiose, colle schioppettate, coi ferimenti, colle uccisioni; e dai quei che vogliono coglierne il frutto é trattato con mezzi niente meno gentili, colla giunta di sacrilegii orribili, di ferocie gratuite, di bruciamenti e di sacchieggi d'intere terre e villaggi! Signori sì! Questo é appunto lo stranissimo modo, onde il suffragio unanime si sta esplicando nella Sicilia, nel Regno di Napoli ed in una parte notevole degli Stati della Chiesa!
Per quanto il Governo sardo stia adoperando ogni arte per coprire l'incendio sterminato, onde quelle infelici province divampano, o almeno per attenuare i sinistri bagliori che ne riverberano ancor di lontano, il fatto è indubitato, ed è di una estensione e di una intensità che fa raccapricciare al solo pensarvi. Noi avevamo divisato di delinearne qui uno schizzo, ricordando almeno le Province, i Distretti, i Circondarii ed i Comuni, ai quali quella fiamma si è appresa, notandone almeno i fatti precipui di ciascuno.
Ma messici all'opera, abbiamo dovuto rinunziarvi, per ischivare l'inconveniente di empire tutto l'articolo di nomenclature geografiche e topologiche, non consolate da alcuna varietà di eventi; i quali da per tutto sono gli stessi o poco tra loro differenti, per la maggiore o minore violenza del risalto e della rispondente compressione che si contende di opprimerlo. Basti dire che nelle sole province pontificie di Ascoli e di Rieti, nei tre Abruzzi e nella Terra di Lavoro abbiamo noverato meglio di cinquanta Comuni, nei quali ferve disperata e sanguinosa la lotta; ché delle Puglie e dei due Principati coll'attigua Basilicata i giornali ci dicono solo, così in genere, che anche ivi è ingaggiata la pugna, senza che se ne sappiano i particolari di luogo, d'intensità e di ampiezza.
Ma quanto alle Calabrie, province rubeste, armigere e tenacissime, oltre a quelle voci vaghe di terribili commovimenti, le quali, a dispetto degl'interessati, pure trapelano di fuori, un giornale piemontese, forse per mera distrazione, lasciò sfuggirsi una cosetta più significante assai, che esso forse non si credeva. Ci disse cioè che un intero reggimento piemontese, mandato per mare nelle Calabrie, appena sbarcato dové dar volta e, che assai più è, dar volta decimato. Piccole cosette, come dicemmo; ma tuttavolta nella loro Piccolezza opportunissime a farci concepire un'idea della meravigliosa unanimità di quel suffragio, onde il Governo sardo impera in quelle contrade e della stupenda contentezza, ond'esse si reputano beatissime di quell'impero!
Ma se questa è unanimità e contentezza, noi addirittura dovremo rinunciare al vocabolario, dovremo chiamare bianco il nero e nero il bianco; e un cristiano, che abbia un manrovescio od una coltellata dal suo emolo, dovrà dire d'averne avuto un bacio od una carezza. Non vi è dunque contentezza, ma vi è fremito; non unanimità, ma terribile dissidio che getta la desolazione e la morte in paesi che, alquanti mesi or sono, riposavano nel senso della pace. Ma se è così, a che si riduce un dominio, il quale è stato usurpato al solo titolo di quella unanimità pretesa? Quali parole saranno sufficienti ad esecrare la scellerata libidine d'ingrandimento e di comando, per la quale uomini sconosciuti e stranieri, senza coscienza e senza pudore, fanno a fidanza colla quiete, colle sustanze, col sangue e colle vite di milioni d'umane creature, che essi si sommisero coll'astuzia e stanno comprimendo colla violenza e straziando colla ferocia bestiale del selvaggio?
Né fu senza ragione quell'aggiunto di stranieri, onde noi qualificammo i nuovi padroni della Italia meridionale. Anzi esso ci schiuderà il campo ad una considerazione che nella presente materia ci pare capitale. Perciocché notate: se negli Stati della Chiesa e nel Regno fossero i cittadini partiti in fazioni presso che uguali; ed altri parteggiassero pei Sovrani legittimi, altri per l'intruso, vi sarebbe certo tutt'altro che suffragio unanime; ma tuttavia il dissenso rivelerebbe almeno che gli ambiziosi di fuori hanno da dentro una parte notevole di popolo che parteggia per essi, per modo da opporre una non isprezzabile resistenza agli avversi. Ma la cosa va tutto altrimenti. Ivi dall'una parte sta l'universale delle popolazioni, o diciamo piuttosto, la parte maschia e più animosa di quelle, la quale avversa fieramente il nuovo giogo, a cui la prepotenza di uomini che non conosce, e per motivi che essa conosce anche meno, la vorrebbero sommettere, e non sa acconciarsi all'idea di vedere spodestato il proprio Sovrano, del quale non senti altro che bene ed alla cui pontificale dignità per sentimento religioso, od alla cui dinastia per lunga abitudine è grandemente affezionato.
Dall'altra parte sta il Governo sardo, straniero all'Ascolano, agli Abruzzi ed alle Calabrie quasi altrettanto che l'Austria alla Lombardia ed alla Venezia. il quale, al solo titolo dell'invito fattosene fare da una mezza dozzina di avvocati napoletani o di mercanti di campagna romani, si tiene investito del diritto di dominio sopra nove milioni di sudditi, e lo va ad imporre, dove non riesce colla seduzione dell'oro, colle minacce e colle violenze del ferro.
Ed è sì vasta, sì risoluta e sì ostinata quella ritrosia, o piuttosto quella opposizione, che per comprimerla, non bastando al Governo invasore il più ed il meglio delle sue regolari milizie che ha trasportate colà, vi ha dovuto aggiungere quanto di forze più o meno disciplinate gli è riuscito a raggranellare nelle province annesse; talmente che, a fruire le delizie dell'unanime suffragio, onde sono armonizzate con lui le province del Regno e l'Ascolano, appena bastano le forze che si possono trarre da più che altrettanto di paese italiano. Ed è così potente quella resistenza, che, quantunque le soldatesche sarde siano, per la più parte, bene agguerrite, e tutte abbiano organamento militare, e condottieri capaci, e fornimento di artiglieria e di cavalli; pure molto spesso hanno dovuto cedere, e qualche volta anche fuggire, innanzi alla gente del contado con alquanti militi rivenuti, sfiniti e scorati dallo sbandamento, e per giunta male armati, ed organati e forniti che Iddio vel dica.
Appunto in questi giorni un tre o quattrocento di questi, asserragliatisi in un paesello dell'Ernico, hanno tenuta testa a due battaglioni piemontesi con sei cannoni, ed hanno osato d'inseguirli nella piuttosto fuga che ritirata, a che questi fur costretti dopo sette ore di combattimento, e nella quale lasciarono sul campo meglio di dugento tra morti e feriti e, a quel che dicono, anche un cannone. Ora diciamo noi: se in paese, dove certo non tutti sono eroi e dove la vita militare non è nelle comuni abitudini, pure si trovano a centinaia ed a migliaia gli animosi, cui basta l'animo di gettarsi ad ogni sbaraglio per opporsi ad un potere intruso e per mantenere il legittimo; voi potete essere più che certo che si novereranno a milioni quelli, i quali hanno gli stessi sensi, ma non hanno lo stesso coraggio, se pure è vero che il salvare la propria vita è voto infinitamente più comune che non lo esporla ad evidente rischio per una causa che si reputi giusta.
Questi più misurati si contenteranno, finché almeno esempii di efferata barbarie non li avranno sgomentati, di festeggiare, incoraggiare, provvedere ' i liberatori; e vi fu luogo, dove le popolazioni ne accolsero i capi col baldacchino, mentre si rifiutavano di dar sepoltura agli avversario uccisi, perché li tenevano per iscomunicati. Ma se traete il computo di quelli che sostengono le così dette reazioni con quelli tanto più che le approvano e ne desiderano il buon riuscimento, voi ne troverete essere così sterminato il numero. che vi verrà al pensiero spontanea questa conseguenza: che se cioè'vi ha in quelle contrade unanimità di suffragio, essa sta appunto nel voto di essere lasciati vivere in pace nella propria patria, sotto il reggimento del Principe che loro ha dato la Provvidenza, senza che lo storpiare più che il parlare la stessa lingua, o l'essere collocati sullo stesso stivale possa conferire ad alcuno il diritto di usurpare la Signoria.
Non ignoriamo che, ad attenuare la irrepugnabile forza di questo argomento, vi è chi parla della prodigiosa operosità dei manutengoli borbonici ad organare le reazioni; dei centri che ne sono stabiliti in Roma ed in Gaeta; dell'oro che si fa correre, dei favori e dei premii che si promettono. Ma siamo da capo! Che cotesti politici faziosi si credano che la gente onesta, perché in questi giorni d'iniquità prevalente si vede oppressa, abbia perduto con altri beni men preziosi, anche il preziosissimo del senso comune! Ed a chi vengono essi a novellare siffatte fiabe?
Un Francesco Il che nella pienezza del suo potere, a capo di un Regno fioritissimo, coll'erario colmo, con oltre a centomila combattenti, col navilio più forte e meglio fornito che avesse l'Italia, pure in appena otto mesi, per le cagioni che tutti sanno, è stato condotto ai termini, in che al presente si trova; signori sì! Francesco Il tra questi termini, cioè a dire spogliato di più, senza un soldato tutto, abbandonato da tanti e tradito da tanti, fuori di Gaeta e di Messina, senza un ducato, e potremmo aggiungere, quanto al fatto, poco meno che senza corona; troverà a bizzeffe gli uomini di portentosa operosità e di fedeltà insigne, i quali gli riconquistino il Regno col procurare reazioni! Egli che non ne trovò uno cui bastasse la testa od il cuore per mantenerglielo, quando era sì agevole! Anzi se vi è ragione, per cui non ci è da augurare gran cosa, per la ristorazione dell'antica Monarchia, da quei commovimenti, essa nasce appunto dall'essere questi disgregati tra loro, sforniti di direzione e d'impulso, mancanti di unità d'indirizzo e soprattutto di capo fedele, risoluto ed esperto. Ma questa circostanza, la quale scema grandemente la loro efficacia e forse potrebbe al tutto annullarla nel campo degli effetti esteriori, raddoppia loro quella efficacia stessa nel campo delle illazioni che noi intendiamo raccoglierne.
Perciocchè se, ad onta di quelle loro condizioni di debolezza, le reazioni pur danno tanto da fare al Governo sardo, assai poco scrupoloso nel raccogliere forze e molto meno nell'adoperarle; dunque si consideri quanto vasto e poderoso debba essere per sé medesimo quel commovimento; e però quanto universale quel suffragio, in cui esso mette radice. Dall'altra parte quel medesimo mancare di unità e d'indirizzo vi rivela la loro piena ed assoluta spontaneità, in quanto, non vi essendo chi le abbia istigate, non vi è neppure chi le governi; e però poderosissime nei loro conati parziali sono deboli quanto all'intendimento comune, a rispetto del quale molto probabilmente resteranno inefficaci. Inefficaci nondimeno riguardo a quello che le reazioni intendono di fare, non già riguardo a quello che intendiamo noi di conchiuderne.
Quanto a questo, esse sono, come dicemmo, efficacissime, siccome quelle che convincono l'unanimità del suffragio, se alcuna ve ne ha in quelle contrade, stare appunto pel rovescio di ciò che la fazione prevalente le attribuisce. Il quale discorso s'ingagliardisce potentemente, quando si ponderi con quale violenza e ferocità di mezzi il Governo sardo si sta adoperando di soffocare nel terrore e nel sangue l'espressione del solo suffragio che potrebbe dirsi veramente unanime nel Regno ed in quelle province dello Stato della Chiesa, nelle quali esso sta osando di manifestarsi. Non è neppure a tentare il paragone di questi eccessi con ciò che i Governi legittimi fecero alcuna volta, per difendere sé ed i popoli dalle rivolte: di questo paragone diremo forse più innanzi qualche parola. Ma qui vi è bene altro! E se qualche dabbene ammiratore del progresso moderno si sarà immaginato che la mitezza del nostro incivilimento rende impossibili le atroci barbarie che ci empirono di raccapriccio, quando le leggemmo in qualche storia dei tempi andati, esso si può andare a riporre coi suoi sogni umanitarii!
Ciò che sta accadendo nell'Ascolano, nelle Due Sicilie e segnatamente negli Abruzzi e nella Campania (ché delle Calabrie non si sa nulla) appena trova qualche riscontro nelle irruzioni dei Saraceni, nelle fiere lotte, per cui divenne lamentevolmente famosa la Vandea, salvo a dare gli ultimi passi per emulare le tremende agonie sociali del terrorismo francese. Lasciamo stare le miriadi di pubblici ufficiali cassi d'uffizio con un tratto di penna e gettati sul lastrico colle loro famiglie. Lasciamo stare la così detta emigrazione, la quale con mite parola vi esprime tutte le amarezze, tutti i disagi, tutte le angustie dell'esilio, imposto a migliaia e migliaia di cittadini, costretti ad andare raminghi pel mondo, senza neppure la sentenza che li sbandisca, in quanto furono obbligati a spatriare, perché il Governo o intimò loro o fece intendere, che non potea difenderne le persone.
Lasciamo stare le migliaia e migliaia che, per le sole denunzie o pei soli sospetti di parteggiare per la reazione (ed in somiglianti scompigli i sospetti e le denunzie sono mercato d'ogni giorno e di ogni ora), furono gettati come malfattori e languiscono nelle pubbliche carceri; le quali rigurgitano in modo spaventoso, fino a noverarsi le due o tre centinaia di carcerati in quelle, nelle quali in tempi ordinaria appena se ne trovavano due o tre decine. Ma deh! Chi non si sente stringere il cuore e rizzare in capo i capegli, ad udire le immani atrocità perpetrate dalle milizie sarde nei paesi che avevano osato opporsi comunque alla loro invasione? Il Giornale di Roma ci narrò d'interi villaggi da esse distrutti col fuoco, notandone alcuno, nel quale di cencinquanta case che numerava non ne restarono in piedi che sole tre! Ci parlò di tale altro, nel quale furono uccisi quanti ebbero la sventura di trovarvici, senza che o la riverenza per la religione, o l'impotenza e la solitudine della malattia, o la debolezza dell'età e del sesso bastassero a fare schermo ad alcuno; e sacerdoti e vecchi ed infermi e donne e fanciulli furono trucidati tutti spietatamente. Né sono guari diverse le relazioni venute dagli Abruzzi, dove s'infierisce allo stesso modo, se non anche peggio, perché più ampia e più ostinata è la resistenza ivi trovata.
Quei casi atroci, avverandosi nell'interno di province montuose e poco frequentate, solo in piccola parte possono essere conosciuti; e dall'altro canto coloro che soffrono non hanno mezzi di pubblicità, i quali sono tutti e solo alla disposizione di coloro che fanno soffrire. Ed in queste condizioni pensate se sia agevole saper tutto od anche molto! Ma se il poco che ne trapela piglisi ad argomento del resto che si nasconde, ci è da inorridire all'aspetto desolante di quelle infelici province, insanguinate da eccidii poco dissomiglianti dai soriani dello scorso anno, per la sola colpa di non si voler piegare ad una Signoria invisa ed imposta loro al solo titolo dell'unanime loro suffragio di volerla. Nella sola provincia di Aquila furono fucilati in pochi giorni 147 disgraziati; in un Comune del Distretto di Avezzano fucilati oltre a 40 contadini in fascio, essendosi ivi pure infierito contro donne e fanciulli, ed imparammo dal Constitutionnel che altri cinquanta ne furono pur fucilati nella Provincia stessa; ed il grave giornale parigino lo conta con meravigliosa disinvoltura, come se si trattasse di avere ucciso cinquanta passere o fringuelli.
Né si creda che questi macelli siano opera arbitraria delle soldatesche, non capaci o non use a temperarsi nella ebbrezza della vittoria, o nel cieco furore della vendetta. Quand'anche fosse così, ci sarebbe a pigliare una molto trista idea della disciplina militare delle vere milizie sarde, le quali nondimeno furono sempre in voce di disciplinate; e forse se ne dovrebbe cercare la spiegazione nell'elemento rivoluzionario introdotto anche in quelle, e più ancora nella marmaglia vituperosa che quel Governo ha dovuto rammassare dalla spazzatura delle città, per ingrossare in caccia e in furia il suo esercito. Ma veramente la cosa va in altro modo; e quelle bestiali ferocie pesano tutte sul capo dei duci anche supremi; i quali, per ciò che hanno fatto, dallo sciagurato momento che invasero gli Stati della Chiesa fino al dì d'oggi, diedero pruove di esserne ben capaci. Ma senza ciò, private corrispondenze recarono come, sorpreso un Dispaccio del Maggiore Ferrero, comandante dei Piemontesi in Avezzano, al comandante di Tagliacozzo, vi si lesse l'ordine espresso di non usare misericordia ad alcuno, e di uccidere quanti se ne avessero alle mani: questo essere il comando espresso del Cialdini da Gaeta.
Si dirà forse l'incendio esser tale che con meno sangue non si giungerebbe a spegnerlo; a mali estremi volersi occorrere con rimedii estremi, e gli esempii spaventosi essere indispensabili per contenere in rispetto intere popolazioni, che si levano con audacia sfrenata alla resistenza. Ora noi non vogliamo cercare quale giustizia turchesca sia quella che, coll'infierire per immeritati supplicii contro gl'innocenti, si contende d'incutere terrore nella moltitudine, la quale non saprebbe da quale colpa debba ritrarsi, quando vede che neppure l'innocenza basta ad assicurarla. Sia pur buona questa scusa a mostrare che si ha un perché nel così ferocemente incrudelire. Ma questo medesimo perché è nuova confermazione di ciò che stiamo mostrando noi. Perciocchè se tanto scellerata barbarie si reputa necessaria ad infrenare quella ripugnanza, senza badare all'infamia che sicuramente le verrà dietro; deh! quanto vasta, quanto unanime, quanto fieramente indomita dovrà essere quella ripugnanza stessa, la quale non si spera potere conquidere con mezzi meno bestialmente feroci di quelli! Ecco dunque in quale maniera nel Regno delle Due Sicilie, ed in qualche provincia degli Stati pontificii a quello confine, stanno le popolazioni esprimendo il loro unanime suffragio di essere sottratte dal reggimento dei legittimi loro Sovrani, per fruire l'insigne sventura di essere annesse al Governo sardo, sotto lo scettro costituzionale del Re galantuomo.
Unanimità di suffragio che obbliga quel Governo a conquistare palmo a palmo quelle province colla forza delle armi, col profondervi largamente vite e danari, e col dispiegare una tale ferocia, che nei tempi moderni potrebbe dirsi senza esempio, se alcuna cosa di somigliante non si fosse veduta da qualche anno nella penisola indostanica; dove non dimeno gl'lnglesi non hanno ancora detto che gl'lndiani siano unanimi nel volerne portare il giogo, e molto meno che quella unanimità debba essere il titolo legittimo di loro imporlo. Quest'atroce ironia era serbata all'Italia; ed a gettargliela in viso doveano ben essere quei faziosi nostrani e stranieri che, per farla nazione, la ebbero in pochi mesi sconvolta da capo a fondo, sommergendone la parte forse più fiorita, e certamente la più tranquilla, in un mare di lagrime e di sangue.
E qui potremmo far punto, parendoci che, colle cose innanzi ragionate, siasi mostrato colla più cospicua evidenza, nel Regno e nella parte meridionale degli Stati della Chiesa esservi tutt'altro che suffragio unanime nel volersi sommettere alla dominazione piemontese, se pur non vi sembri che i disperati sforzi, onde quelle popolazioni si argomentano di non sommettersi a quella o di sottrarsene, siano indizii di volerla e di spasimarne. E così (e non ci stancheremo del ripeterlo) o non vi ha colà unanimità di suffragio, o vi ha solo nel rifiutare un dominio, il quale nondimeno, anche in sentenza dei suoi fautori, non può puntellarsi di altro titolo che dell'unanime suffragio del volerlo. Il quale argomento, se si consideri bene, non è convertitile, come dicono i dialettici; cioè dall'essere le reazioni indizio evidente che si abomina l'annessione, non si può inferire che l'annessione si voglia nelle province in cui le reazioni non hanno avuto luogo. Perciocchè a queste non basta una ritrosia qualunque; ma vuol essere ritrosia estrema, universale, risolutissima per gettarsi nelle tempestose agitazioni e nei tremendi rischi di una levata d'armi contro un potere intruso, che, disponendo delle forze di mezza Italia, nello adoperarle si mostra, non che avventato e rigoroso, ma feroce.
Anzi questo neppure può bastare, ed oltre alla ritrosia estrema, universale, risoluta, si richiede altresì che i popoli siano, per indole alquanto fiera e per abitudine armigera, disposti ad ingaggiare una lotta così disuguale. Quando una di queste due condizioni non si avveri ed o la ritrosia non sia estrema, quale crediamo essere il caso delle Romagne, travagliate dalle sette più di qualunque altra contrada italiana, ovvero si tratti di popolazioni d'indole mitissima, paziente ed insulta delle armi, quali sono quelle della Toscana, dell'Umbria e della Marca superiore, può benissimo avvenire che non sianvi reazioni, senza che questo possa pigliarsi ad indizio di consentimento e molto meno di contentezza. Laddove per tutto, ove quelle erompono vaste, violente, indomabili si ha positivo argomento di ripugnanza unanime, se pur non vi sembri che le unanimi schioppettate contro le milizie sarde si debbano pigliare ad argomento dell'unanime suffragio per l'annessione sarda.
E chi è che vorrà scambiare le palle di piombo, che si scagliano in fronte ai liberatori, colle palle di cartapesta o di corno che si gettano nell'urna degli squittini? Questo intendevamo dimostrare nel presente articolo; e fattolo, come ci pare, con qualche evidenza, potremmo, secondo che sopra fu detto, far punto qui. Nondimeno ci par pregio dell'opera soggiungere una considerazione gravissima, la quale, se dobbiam dirlo, è stata la cagione precipua che ci ha mosso a trattare questo soggetto. Vero è che più di una volta quella considerazione stessa ci è venuta sotto la penna; ma venutavi, diciamo così, per isbieco, appena ne abbiamo potuto fare un cenno fugace. E pure parendoci che in quella si acchiuda tutto il secreto dei moderni scompigli italiani, non ci vogliamo fare sfuggire l'occasione di metterla nella possibile luce in questo luogo, dove cade tanto naturalmente, che forse il lettore l'avrà già indovinata da se medesimo. Ecco dunque il nostro discorso. Se ci rifacciamo col pensiero alle condizioni in che versava l'Italia un tre o quattro anni or sono, tutti ricorderemo come allora si viveva per tutto in sufficiente tranquillo di pace, un sottosopra come si vive in tutti i paesi di questo mondo.
Non neghiamo che, a quando a quando, in questo o quel luogo, si osservassero dei segni di malcontento, i quali apparivano più manifesti e risentiti nelle città, soprattutto maggiori. Ma quelli, quando non erano gl'innocui ed eterni brontolamenti intorno alla maniera dell'Amministrazione, la quale tutti e ciascuno vorrebbero (cosa impossibile) conforme al proprio rispettivo cervello, erano conati più o meno soppiatti a nuovi ordinamenti politici dalla parte di pochi assai, poniamo che talora cospicui per pretesa dottrina, per fortuna o per nascimento: questi conati si sarebbero potuti ottimamente chiamare reazioni contro la legittima autorità. Ma di esse, appunto perché erano opera di pochissimi, i Governi non avrebbero avuto ad impensierirsi gran fatto, se ad usufruttuare quei conati, per intendimento di usurpazione, non si fosse intromesso il Governo sardo, il quale coll'oro profuso, colla stampa clandestina, coll'opera di suoi manutengoli e cagnotti, investiti, dovunque se ne porgesse il destro, della rappresentanza e della inviolabilità diplomatica, apparecchiava di lunga mano l'opera compiuta appresso: lo spodestare cioè sei legittimi Principi italiani, per sostituirsi esso in loro vece.
Ora essendo evidente che quei conati alla rivolta, i quali solitari appena sariano stati pericolosi, dalle istigazioni e dai conforti stranieri acquistavano baldanza e forza smisurate, fino a costituire una grave, presentissima minaccia per gli altri Sovrani della Penisola. Di qui questi, pel diritto della propria difesa, pel debito della propria conservazione, o diciamo piuttosto per la difesa e per la conservazione dei popoli commessi dalla Provvidenza al loro governo, ed eziandio pel gravissimo debito di giustizia che loro incombeva di punire il delitto della cospirazione, della sedizione, della fellonia, erano strettamente tenuti a reprimere quei conati o quelle reazioni che vogliamo chiamarle, dalle quali i miseri popoli poteano essere precipitati nelle inestimabili calamità, in cui pur troppo, per effetto di quelle, li vediamo precipitati. Il quale dovere si faceva più grave pel rispetto morale e religioso, da cui in questo caso non si poteva a verun patto la quistione politica scompagnare.
Perciocchè, essendo cosa notoria la fazione piemontese avere in odio la Chiesa cattolica ed il Papato, era manifesto che la prevalenza di quella avrebbe portato seco la persecuzione, lo spogliamento, lo sperpero della Chiesa stessa, colla giunta di quel massimo dei danni temporali che le possano incogliere, quale sarebbe lo stremare i Pontefici romani di quel Principato civile, che la Provvidenza, pel bene della Chiesa universale, ha loro conferito. 1 fatti che stiamo vedendo convincono anche i più restii, che quelle apprensioni non erano gratuite, e mostrano altresì come innanzi a quelle i Principi italiani non avrebbero potuto, senza un grave tradimento a danno dei propri sudditi, preferire la repressione di reazioni e di conati, che erano prenunzii di tanti sacrilegii, di tanti delitti e di tante sventure. Ora come furono quelli repressi da quei Principi e segnatamente nel Regno delle Due Sicilie e negli Stati della Chiesa? Nessuno è che non lo ricordi! Per tutto, e massime in questi ultimi, una longanimità, una pazienza che avrebbe dell'incredibile, se non si sapesse che per lo più a tutelare un diritto si reca tanto minore sollecitudine, quanto si ha più saldo convincimento della sua legittimità. Il fatto è che, lasciando pure molta libertà alla fazione, nei casi estremi che i faziosi o si tradissero da loro medesimi, o rompessero in aperta sedizione, si procedeva comunemente per la via ordinaria dei tribunali a condannarne alquanti all'esilio o alla prigionia; ed erano quasi sempre uomini di piccola levatura o famosi solo per la parte presa nei passati commovimenti politici.
Né il numero n'era grande; ché nell'Italia superiore non li avreste contati a dozzine, nelle Due Sicilie non arrivavano a mille, negli Stati pontificii appena sommavano ad un paio di centinaia; e quei medesimi numeri si assottigliavano di giorno in giorno per le grazie sovrane, ad ottenere le quali talora bastava il domandarle, dando sufficiente guarentigia di ravvedimento. Nel resto non una confisca di beni, non una esecuzione capitale, per ragione solamente politica, quantunque ve ne avesse qualcuna per delitti enormi commessi per ispirito di parte; e nessuno potrà pretendere che in tempi e paesi ordinati sia lecito rapire, uccidere, assassinare, tanto solo che facciasi per intendimento fazioso. Ma per delitti solamente politici non una confisca, non una esecuzione capitale.
Se ciò non han dimenticato i lettori, molto meno avran potuto dimenticare il terribile scalpore che si menava in Italia e fuori dello smisurato rigore che i nostri Governi adoperavano per tenere in freno i popoli dispettosi, frementi, sospinti all'ultima disperazione dalla tirannide che gli opprimeva; e soprattutto si facevano lamentazioni e tragedie delle crudeltà napolitane, ed un poco ancora delle romane, quantunque a rispetto di queste si avesse la discrezione di attribuirle al Governo non al Sovrano, quasi che in Roma quello possa non essere informato dai voleri e dallo spirito di questo. Ad ogni modo le querele sopra quegli strani rigori erano incessanti, caldissime: si numeravano le vittime, si notomizzavano le loro sofferenze, se ne raccoglieano con religiosa simpatia le lagrime ed i sospiri; nobili Inglesi visitavano le carceri per narrare al mondo le pene dei condannati politici; e la stessa diplomazia, che fu sempre in voce di non aver viscere o di averle di pomice, s'impietosì sopra quei martorii dispietati; e pigliandoli ad indizio di mal governo ne fece sentire l'eco lamentevole nel Congresso di Parigi del 1856 colla famosa nota del Cavour: eco che risuonò alto nel Parlamento britannico ed il Palmerston si fe' ripeterlo e rincalzare dal signor Elliot da Napoli.
Era naturalissimo che tali inframmettenze di Potentati anche grandi avessero l'effetto che la fazione ne crescesse in incredibile baldanza, i Governi italiani se ne sgagliardissero sempre più, dovendo stare perpetuamente sulle difese non tanto contro le sette, quanto contro i protettori prepotenti delle sette, i quali, incaponitisi a voler vedere eccesso nelle repressioni e pigliandole ad argomento di universale scontentezza, gridavano contro gli abusi, proponevano e per poco non imponevano riforme, nate fatte per rinvigorire i conati delle sette stesse; e queste, circondate da tali ufficiosi compianti ed ufficiali protezioni, si credettero potere osare ogni cosa.
E tuttavolta neppur questo saria bastato a procurarne il trionfo, se non fosse venuto un potente alleato che, gettando la sua spada in mezzo all'immaginato conflitto tra popoli e Governi, determinò la vittoria a profitto delle fazioni, che si arrogavano di essere il vero popolo. In somma la repressione dei conati alla rivolta si volle a tutti i patti prendere ad indizio di mala signoria; ed a questa non si trovò più efficace rimedio che aiutare a mandar giù gli antichi Sovrani, per metterne in loro luogo un altro che si prendesse il tutto. Or bene! Il Governo di questo nuovo Sovrano sta trovando nelle reazioni una resistenza di ben altra portata, che non fu la trovata dai primi; e per comprimere la reazione è sospinto, è forse obbligato a tali atti di rigore selvaggio che, quanto alla intensità ed alla estensione, rimpetto ad essi ciò che faceasi qualche anno addietro è un giuoco, è un nulla. E nondimeno chi se ne cura? Chi v'impiega una parola? Chi vi spende un ufficio? Il sol che si sappia è che se altri volesse pur far qualche cosa per istendere una mano soccorrevole agli oppressi, vi è un braccio di ferro che lo trattiene a nome del Non Intervento.
Nel resto che un pugno di piagnoni stipendiati si querelassero di Pio IX e di Francesco II, si dovè prendere ad indizio che i popoli non volessero più sapere dell'uno e dell'altro; ma che i popoli si dibattano disperatamente per sottrarsi al dominio del Governo sardo, non eccita un dubbio, quanto che piccolissimo, intorno all'unanime loro suffragio di volere essere conquista sarda. Che qualche centinaio di convinti cospiratori contro i Poteri costituiti fossero cacciati in carcere od in esilio, era scandalo da metterne sossopra il mondo; ma che migliaia e migliaia tra Vescovi, Religiosi, Ecclesiastici, nobili e cittadini di ogni ordine siano spogliati, sbandeggiati o imprigionati pel solo sospetto di avversare Poteri intrusi, è cosa la più semplice, la più naturale, da non ispendervi pure una parola di biasimo. Che fosse mandato al patibolo qualche reo convinto di alta fellonia e di offesa maestà sociale, noi non sappiamo; si è detto nondimeno, e forse si è finto con somma commozione della pietà filantropica di Assemblee legislative e di governanti; ma che siano fucilati a dozzine ed a centinaia, senza processo e senza giudizio, tanti disgraziati, rei solamente di aver gridato: Viva Pio IX, Viva Francesco II od abbasso il Piemonte, è vera quisquilia da non farsene verun caso.
Che nel ripigliare Perugia di mano più d'invasori stranieri che d'interni ribelli, si procedesse dalle truppe pontificie colla risolutezza di chi rivendica il suo, fu tale eccesso, che i giornali c'infradiciarono gli orecchi per un paio di mesi, a lamentarne qualche vita spenta o qualche finestra fracassata; ma che le truppe sarde brucino terre intere ed interi villaggi, mettendo a fil di spada quanto vi trovano di umane creature, pel solo delitto di avere rialzato lo stemma abbattuto del Pontefice o gli abbattuti gigli borbonici, coteste sono bazzecole da non farne nessun capitale, né impediranno per nulla che si seguiti a dire inviso il Governo di Pio IX e del Borbone, accettissima per suffragio unanime la dominazione sarda. Sono cose che appena si crederebbero possibili, se non le avessimo sotto gli occhi! E pure hanno la loro spiegazione naturalissima dal solo fatto dell'essere il potere sovrano divenuto eredità di quei medesimi cospiratori, i cui supposti strazii si compiangevano dai potenti confratelli stranieri, i quali, nella loro condizione di vecchi settarii miravano appunto ad ottenere che tutta la nazione diventasse preda indifesa delle sette. Ottenuto questo, essi fanno davvero coll'immenso novero degli onesti e dei cattolici a cento tanti più di quello che finsero essersi fatto conesso loro, quando si arrabattavano per acquistar balìa di prepotere.
Né essi, ora che si veggono o certo si credono sicuri del loro trionfo, si disfingono di avere giuocata quella commedia delle crudeltà usate con loro, la quale dovea condurli a poter compiere la tragedia che essi stanno oggi crudelmente rappresentando ad oppressione ed a sterminio delle reazioni, dei reazionaria, dei clericali, dei retrivi, di tutti in somma che non pensano come essi: quelli, essendo pure il massimo numero e quasi l'universale, debbono essere schiacciati dalla fazione trionfante, che è alla fin delle fini lo scopo ultimo delle rivoluzioni. Si vegga con quanto cinismo uno di cotesti declamatori pagati contro le tirannidi assolutiste volge in canzone una celebre vittima di quelle, la quale egli ci fa assapere essere stata più un mito che una realtà, aggiungendo i suoi stupori che il mito, anche passatone il bisogno, pretenda gli onori della cosa reale.
Ecco dunque le precise parole, onde un cotal Petruccelli di Napoli scrisse di Carlo Poerio, secondo le riferì l'Unione di Milano del 22 Gennaio 1861, e da quella le trascrisse l'Armonia, aggiungendovi giudiziosi commenti. "Poerio è un'invenzione convenzionale della stampa anglofrancese. Quando noi agitavamo l'Europa, e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai creduli leggitori dell'Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, cui quell'orco di Ferdinando divorava cruda ad ogni pasto. Inventammo allora Poerio. Poerio era un uomo d'ingegno, un galantuomo, un barone; portava un nome illustre, era stato ministro di Ferdinando e complice suo in talune gherminelle del 1848! Poerio era stato deputato ed era fratello di Alessandro .... ; ci sembrò dunque l'uomo opportuno per farne l'antitesi di Ferdinando - ed il miracolo fu fatto. "La stampa inglese e francese stuzzicò l'appetito di quel distinto filantropo ed uomo di Stato, W. Gladstone, il quale, recandosi in Napoli, volle vedere da presso questa specie di nuova maschera di ferro. Lo vide. Si mosse a pietà. E Gladstone fece come noi, magnificò la vittima onde rendere più odioso l'oppressore; esagerò il supplizio, onde commuovere a maggior ira la pubblica opinione. E Poerio - il Poerio che oggi si mescola ad ogni minestra - fu creato da cima a fondo." "Il Poerio reale ha preso sul serio il Poerio fabbricato da noi, in dodici anni, in articoli a quindici centesimi la linea. Lo hanno preso sul serio coloro che lessero di lui, senza conoscerlo da presso. L'ha preso sul serio quella parte della stampa che si era fatta complice nostra, credendoci sulla parola. Ma capperi! Che l'abbia preso sul serio anche il Cavour!"
Avete udito? Chi più gridava allora confessa oggi che gridava per burla, e che per burlare faceasi pagare quindici centesimi la linea. Ma ciò non tolse che in forza di quella ferocia da burla si tenessero da alcuni Potenti per intollerabili Governi antichi, a cui sostenere sariano bastate le scudisciate; come le realissime ferocie odierne non tolgono che dagli stessi Potenti si tenga per accettissimo un Governo nuovo, a cui impiantare appena bastano gli eserciti e le artiglierie. Ma così è dimostrato che una finta tirannide sopra dei pochi è stato il mezzo più efficace da arrivare ad esercitare una verissima tirannide sopra dei molti; e non è da fare le meraviglie che quei pochi, afferrato il potere, lo adoprino senza misericordia per reprimere le reazioni, le quali sono una maniera convenientissima, nell'universale pervertimento delle idee, da esprimere l'unanimità del suffragio.
Tratto da La Civiltà Cattolica
- Serie IV, vol. IX - 8 Febbraio 1861 |