"Una tinta mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all'ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l'Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell'impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano "repubblicana", ma che i siciliani, con l'ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del "sette e mezzo", ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il "sette e mezzo" è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell'Isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l'altro, "dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica", dove quel "quasi" è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d'Italia".
(Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Edizioni Rizzoli - La Scala)
Così molto coloritamente Camilleri descrive l’inizio del “Sette e mezzo”. La rivolta davvero fu iniziata da squadre di contadini, circa 3 o 4000 uomini, provenienti dalle campagne circostanti Palermo. Erano guidate in buona parte da quegli stessi capisquadra che avevano partecipato all’impresa garibaldina del 1860. Una volta entrati in città, nella notte tra il 15 ed il 16 settembre 1866, rapidamente riuscirono a sollevare l’intera popolazione. La ribellione fu imponente, fonti governative parlano di 35-40 mila uomini in armi, e certamente se all’inizio essa fu indubbiamente una manifestazione esplosiva di malcontento e di protesta popolare la sua rapida diffusione la massiccia partecipazione furono certamente opera di una concertazione, da tempo preparata, di alcune forze politiche. Il mescolarsi della spontaneità popolare con la rivolta organizzata fu favorito dalla situazione economica disastrosa, come detto in precedenza, e dallo scoppio della terza guerra d’indipendenza che stava mostrando la debolezza dello stato savoiardo in seguito alle sconfitte di Custoza e di Lissa. La capacità di controllo della classe liberale che aveva appoggiato Vittorio Emanuele era ormai deteriorata, e non solo in Sicilia. Nella rivolta di Palermo insorsero contemporaneamente e di concerto sia l’opposizione di estrema destra, nobili e clero, che quella di estrema sinistra. I nobili della destra estrema ed il clero avevano come obiettivo la restaurazione borbonica e clericale, la sinistra estrema aveva come obiettivo la costituzione di uno stato repubblicano sul modello mazziniano. Tuttavia Mazzini, tanto per cambiare, se ne dissociò e addirittura la criticò. Essendo a conoscenza delle intenzioni dei repubblicani di Palermo, qualche mese prima (a conferma della lunga preparazione della rivolta) aveva scritto “un moto repubblicano, che conduce a far pericolare l’unità nazionale, sarebbe colpevole; un moto che restasse senza certezza che il resto d’Italia possa seguirlo, sarebbe un errore; un moto che restasse isolato, cadrebbe poco dopo nell’autonomismo, nello smembramento, nelle concessioni a governi e reggitori stranieri…” (Mazzini a Bagnasco in “Il precursore” Palermo 31 luglio 1865) e forse a pensarci bene non aveva torto.
La caratteristica peculiare della rivolta del 1866 fu in ogni caso la contemporanea partecipazione della destra estrema e della sinistra. Indicativo è il fatto che la giunta rivoluzionaria aveva un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa, ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede. Come sarebbe stato possibile conciliare queste due linee politiche non c’è dato sapere, vista la feroce repressione ed il fallimento della rivolta.
Per sette giorni e mezzo Palermo restò in mano ai rivoltosi (da qui il nome “sette e mezzo”). E solo in seguito all’impiego di 40.000 soldati e soprattutto dei bombardamenti all’americana ordinati dal generale Cadorna, i sabaudi ebbero ragione dei rivoltosi. Si contarono miglia di morti e migliaia di prigionieri, ma non cifre ufficiali, forse il nuovo stato unitario se ne vergognava.
Ma perché Palermo, una delle città più importanti d’Italia, una delle città che avevano anche favorito i sabaudi, consentendo lo sbarco di Garibaldi e favorendone l’avanzata, dopo solo 5 anni di governo si ribellò? Ed è questo un evento da considerare come regionale ed isolato o espressione di un malessere più diffuso? Certamente un peso notevole l’ebbe la nascita di un mercato nazionale e l’estensione su tutto lo stato unificato delle rigide leggi di Torino. A Palermo esplose quel fenomeno che già si era verificato in altre città europee, quel fenomeno che Hobsbawn ha chiamato “mob” dovuto alla difficoltà di passare ad una economia di tipo feudale, campagnola, assistita al capitalismo[1]. Quello di Palermo fu il primo “mob” dell’Italia unita.
Non solo questo però possiamo leggere in questa rivolta. Non meno importante è la sua valenza politica. Possiamo infatti affermare che ha avuto un ruolo nella formazione della classe politica italiana, in particolare nella storia della sinistra italiana.
Il sette e mezzo, o meglio la parte di sinistra del sette e mezzo nasce dalla crisi del partito d’azione, dopo le sconfitte garibaldine in Aspromonte. L’evento portò il mazziniano Crispi, ad optare per la monarchia “la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe” e questo strappo verso la destra fece nascere una sinistra intransigente ed estremista che guidata da persone come Friscia, Corrao, Bonafede, continuarono a lottare per l’ideale repubblicano, questa gente si staccò ben presto da Garibaldi e Mazzini e cercò, con poca fortuna, di agire da sola.
Bakunin, che fu critico verso questi personaggi, non può tuttavia fare a meno di considerare il Mezzogiorno come luogo d’elezione per una rivolta del proletariato, perché terra ricca di emarginati, poveri ed oppressi. Non c’era alternativa: o briganti (e quindi mob) o rivoluzionari (estremisti sia della destra legittimista che di sinistra).
L’insurrezione fu un fatto estremamente grave, sintomo di una situazione malsana, e non solo in Sicilia. Fu ordinata, su proposta di Mordini, la prima inchiesta parlamentare della storia d’Italia. Si accertò che la situazione era critica e che l’unità nazionale, da poco raggiunta era in pericolo. Malgrado ciò non si tentarono miglioramenti, si soffocò, si andò avanti e si costruì uno stato sul fango. Ancora oggi “non” ne raccogliamo i frutti …
Note
[1] Hobsbawm aveva definito il modello del mob: una mobilitazione che caratterizza le grandi città preindustriali, in particolare quelle dell’Europa meridionale, metropoli fin dai tempi remoti, sedi di corte e quindi di un “popolino” , i “lazzari” napoletani ad esempio, da essa dipendente sia in termini di beni sia di identificazione. Il popolino e non il proletariato è il protagonista del mob cittadino, secondo Hobsbawam. |